L’etica del magistrato nella protezione internazionale

Articolo di SILVIA VITRO’

Le principali regole deontologiche prescritte dal Codice Etico dei magistrati italiani (principio di indipendenza, principio di imparzialità, dovere di aggiornamento professionale) vanno declinate, nel caso di svolgimento della funzione di giudice dell’immigrazione, in modo più attento alla specificità della materia, nella quale l’impegno del giudice deve assolvere anche determinati obblighi di cooperazione istruttoria e di autonoma acquisizione di informazioni, al fine di adeguare la gestione di queste vicende al principio europeo di effettività.

I compiti del giudice dell’immigrazione consistono, principalmente:

-nell’applicare le leggi sull’immigrazione, non mancando di interpretarle alla luce dei principi costituzionali,

-e nel giudicare l’attendibilità dei racconti degli immigrati, ascoltando le loro parole e cooperando nella ricerca di informazioni.

1) Le leggi sull’immigrazione

Sin dalla fine degli anni ’90 si sono succedute varie leggi sull’immigrazione, a volte più restrittive, a volte corrette negli aspetti più incostituzionali dai governi che via via si sono susseguiti.

Il T.U. sull’immigrazione, d.lgs. 286/1998, è stato corretto, fra l’altro, laddove disponeva l’automatica espulsione dell’immigrato irregolare, senza che fossero presi in considerazione vari elementi, tra cui i vincoli familiari.

Fino agli anni 2007/2008 la gestione del fenomeno dell’immigrazione riguardava principalmente l’espulsione di coloro che, non rientrando nelle quote, stabilite annualmente dal Governo, degli aspiranti lavoratori, né potendo beneficiare del ricongiungimento con familiari cittadini italiani o legittimamente residenti in Italia o delle periodiche leggi di regolarizzazione del lavoro irregolare, restavano immigrati irregolarmente soggiornanti sullo Stato italiano.

Negli anni 2007/2008 sono state varate le leggi italiane sulla protezione internazionale (in esecuzione delle Direttive Comunitarie), prevedente la concessione dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria o della protezione umanitaria a coloro che avessero dimostrato di fuggire da persecuzioni politiche, razziali, religiose, ecc., o da Stati in preda  guerre civili, o di essere bisognosi di protezione per gravi motivi umanitari.

Immediatamente tutti gli immigrati sono divenuti richiedenti asilo.

E’ conseguentemente esponenzialmente aumentato il numero dei cittadini extracomunitari che facevano ingresso in Italia.

In esecuzione delle Direttive Comunitarie sono state emanate precise regole sull’accoglienza (e in alcune regioni l’applicazione di queste regole ha funzionato bene attraverso cooperative che hanno provveduto alla sistemazione dei cittadini aventi in corso la domanda per la protezione internazionale, gestendo anche la loro educazione scolastica e professionale).

Di fronte ai numeri crescenti dell’immigrazione, la normativa italiana è passata attraverso restrizioni procedurali (come l’abolizione del grado di appello nella procedura di riconoscimento della protezione internazionale), restrizioni all’ingresso dei cittadini extracomunitari in Italia e modifiche a livello europeo circa la competenza degli Stati europei sulle domande di asilo (le varie Convenzioni Dublino).

E’ evidente come, dal punto di vista politico e legislativo, sia estremamente difficile, a livello nazionale e a livello europeo, gestire un fenomeno epocale come quello dell’emigrazione di migliaia di cittadini principalmente africani, mediorientali, pakistani, bengalesi.

La soluzione relativa alla gestione di questo fenomeno, però, non è compito del giudice dell’immigrazione.

Compito del giudice è quello di applicare le leggi, cercando nel miglior modo di garantire l’effettività della tutela dei diritti dei richiedenti asilo (come meglio viene spiegato nel paragrafo successivo) sia attraverso l’applicazione della legge, sia attraverso l’interpretazione della stessa alla luce dei principi costituzionali (di uguaglianza, di tutela dei vincoli familiari, di tutela della salute, ecc.) sia, nei casi di impossibilità di una tale interpretazione, attraverso la promozione di questioni di costituzionalità davanti alla Corte Costituzionale.

Non può il giudice dell’immigrazione disapplicare discrezionalmente le norme (sia pure con intenti umanitari), laddove le ritenga incostituzionali, senza applicare i canoni interpretativi tradizionali o sottoporre le stesse al vaglio della Corte Costituzionale.

Perché il giudice è soggetto solo alla legge (sia pure con l’obbligo di utilizzare i metodi interpretativi e i rimedi costituzionali previsti dall’ordinamento), senza che lo svolgimento del suo lavoro possa essere influenzato dal suo modo soggettivo e discrezionale di valutare le situazioni o dalle impostazioni politiche che dividono il Paese.

Come esempi di soluzioni interpretative delle leggi sull’immigrazione, alla luce dei principi costituzionali, facendo riferimento alle esperienze acquisite in 16 anni di attività di giudice dell’immigrazione (dal 2003 al 2019), indico:

-il superamento del mero automatismo nel valutare la condizione di espellibilità dell’immigrato irregolare;

-i limiti alla possibilità di trattenimento presso i Cie dei cittadini comunitari;

-il riconoscimento della protezione umanitaria per integrazione economica e sociale del cittadino extracomunitario nel nostro Paese (ai sensi dei principi individuati dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 4455/2018);

-la non retroattività della modifica del regime del permesso umanitario ad opera del decreto legge n. 113/2018.

2)La valutazione della credibilità del richiedente asilo

La citata esperienza nel settore dell’immigrazione mi ha portato a constatare l’esistenza di una percentuale molto alta di dinieghi della protezione internazionale basata sulla non credibilità dei richiedenti asilo.

E’ necessario stabilire un corpus di criteri che possa orientare il processo decisionale in relazione alla valutazione della credibilità del racconto dell’immigrato, anche per evitare troppe soluzioni differenti di casi simili.

Anche se è inevitabile un margine di discrezionalità nelle procedure di determinazione della protezione internazionale, la valutazione della credibilità della domanda di asilo, ancorata dalla legge a parametri comunque alquanto generici, deve essere il più possibile sottratta ad una eccessiva soggettività del decisore ed essere supportata dall’esame, obiettivo e scevro da fraintendimenti (dettati da pietismo o, al contrario, da sentimenti di intolleranza e razzismo), della testimonianza orale dell’immigrato e dalla acquisizione di tutta la documentazione possibile.

Insomma, nel diritto d’asilo, ai decisori vengono richiesti sforzi e soprattutto competenze differenti da quelle utilizzabili in casi che riguardano soggetti nazionali, dovendo essi sforzarsi di comprendere la narrazione esposta dall’immigrato, collaborare nell’acquisizione di informazioni dalle Coi (country of origin informations) circa la situazione dei paesi di origine, senza la possibilità di rivolgersi alle autorità si tali paesi (potendo le stesse essere coinvolte nelle persecuzioni asseritamente subite dal richiedente asilo).

Nell’espletare questi compiti si sostanziano i doveri deontologici del giudice dell’immigrazione, tenuto a valutare la credibilità della domanda di asilo in modo equo ed imparziale, attraverso un aggiornamento costante riguardo alle condizioni di provenienza del medesimo e tramite, altresì, un continuo confronto e dibattito scientifico e interdisciplinare con gli altri cultori del diritto dell’immigrazione.

Più specificamente, l’insieme dei fatti presenti e passati allegati dal richiedente vanno valutati in relazione alla loro coerenza interna (verificando se appaiono discrepanti rispetto ad altre prove fornite dal richiedente) ed esterna (se in linea con le informazioni sul Paese o con il parere di un esperto).

Inoltre, circa la coerenza interna, il decisore deve tenere in considerazione la totalità dei fatti presentati evitando di basare il giudizio su singoli eventi; mentre nel caso della coerenza esterna vanno attentamente valutate le informazioni aggiornate sul Paese ed eventuali altre prove documentali da acquisire autonomamente.

Particolarmente delicata è la valutazione dell’«attendibilità generale» o personale del richiedente (Direttiva 2004/83/EC, art. 4, par. 5, lett. e)). Il giudizio di credibilità però è uno strumento probatorio, non di valutazione della meritevolezza della persona, e deve vertere sulle singole circostanze di fatto allegate che possono esser ritenute dimostrate in tutto o in parte.

Difficile è anche l’applicazione del criterio della plausibilità.

Mentre altri criteri riguardano la precisione dei dettagli e la valutazione della coerenza del racconto, il criterio della plausibilità è quello più frequentemente basato su credenze soggettive, stereotipi o intuizioni personali dei decisori.

È condiviso nel diritto d’asilo il riconoscimento delle insidie giocate dalla memoria nella produzione del racconto di persecuzione.

Versioni differenti della storia rese da uno stesso richiedente possono dipendere da molti fattori (il lungo lasso di tempo intercorso tra diverse interviste, il sostegno psicologico ricevuto, la presenza di traumi, la sfiducia nell’interprete) che non implicano necessariamente la falsità del racconto.

Varie ricerche contribuiscono a mostrare quanti siano i fattori che ingenerano sospetto quando si valuta l’attendibilità personale a partire dalla sola testimonianza orale.

Durante l’intervista, davanti all’autorità, l’intervistato tende a sovrapporre l’intervistatore con l’istituzione che rappresenta, necessariamente interpretandone le intenzioni e plasmando le proprie risposte di conseguenza, con confusione tra vita vissuta, vita come percepita e vita raccontata.

Fattori di natura storica, relazionale, sociale e culturale possono alterare il racconto.

La differenza poi dei canoni culturali tra intervistatori e richiedenti asilo può facilmente condurre a valutare come inattendibile un racconto (per esempio per ravvisata assenza di emozioni durante l’intervista da parte dell’intervistato).

Senz’altro necessaria è l’audizione diretta del richiedente asilo da parte del giudice, non potendosi lo stesso basarsi solo sul verbale dell’audizione, dal momento che la linguistica antropologica ha mostrato che nessuna trascrizione, per quanto completa, può riportare ogni parola proferita nello scambio comunicativo. Soprattutto nei casi in cui un solo decisore deve contemporaneamente porre le domande, ascoltare e trascrivere le risposte, questi opererà una selezione spesso inconsapevole di quanto ascolta finendo per trascrivere ciò che ha meglio compreso, che sente più vicino alle proprie convinzioni, o che meglio conosce.

La difficoltà di comprendere sottili questioni culturali, di genere, di comportamento e linguistiche si assomma alle personali idee di «verità», o di cosa sia «normale» e dunque plausibile per i decisori.

Poiché il problema della lontananza dei mondi culturali tra richiedenti e decisori/avvocati è ciò che crea maggiori incomprensioni e rende non plausibile un racconto, va prestata particolare attenzione – attraverso la raccolta di informazioni specifiche o pareri esperti − proprio a quegli elementi che suonano maggiormente estranei, meno familiari.

È il caso, per esempio, della stregoneria, dove con maggiore evidenza si trovano decisioni negative fondate sulle opinioni soggettive del decisore, nonostante che la stregoneria faccia parte della vita quotidiana di milioni di persone in Africa, Nepal, India, Indonesia, Papua Nuova Guinea e America centrale, ed è ricordata in almeno 3 Linee guida dell’Unhcr.

In definitiva, come osserva l’Unhcr (alto commissariato onu per i rifugiati), la valutazione della credibilità del richiedente asilo non può basarsi sull’approccio soggettivo, gli assunti, le impressioni o l’intuizione del decisore.

Pertanto, il compito deontologico del giudice dell’immigrazione è quello di accettare un diverso approccio procedurale a questa materia rispetto alle altre materie giuridiche e di sforzarsi di applicare il principio europeo di effettività nella valutazione (seria e nello stesso tempo avulsa da eccessivo soggettivismo) della credibilità del richiedente asilo.

Bibliografia

H. Cabot, Rendere un rifugiato riconoscibile: performance, narrazione e intestualizzazione in una Ong Ateniese. Lares LXXVII (1), pp. 113-134, 2011.

R. Grillo, Anthropologists Engaged with the Law (and Lawyers), Antropologia Pubblica,2(2), pp. 3-24, 2016.

B. Sorgoni, Storie dati e prove. Il ruolo della credibilità nelle narrazioni di richiesta di asilo, ParoleChiave, 46, pp. 115-33, 2011; Storie vere. L’inevitabile ambiguità all’esame del giudice dell’asilo, 3/6/2019.

M. Veglio, Vite a rendere, in Fondazione Migrantes (a cura di) Il diritto d’asilo. Report 2017, Todi: Tau editrice, pp. 109-43, 2017a.

M. Veglio, Uomini tradotti. Prove di dialogo con i richiedenti asilo, Diritto, Immigrazione e cittadinanza, fasc. 2, 2017b.