Lo statuto penale del professionista nelle procedure concorsuali

di Silvia Scamurra

I molteplici interventi riformatori delle procedure concorsuali, susseguitisi a ritmo incalzante tra il 2005 e il 2010 (e non ancora terminati), tra cui si possono citare senza alcuna pretesa di esaustività il D. L.vo n. 5/2006, il D. L.vo n. 169/2007, la Legge n. 122/2010, il D.L. n. 83/2012 [1], hanno a lungo tralasciato – nonostante i caveat  della dottrina – di considerare le ricadute derivanti dall’introduzione o modifica di istituti del R.D. n. 267/1942 sull’immutato arsenale penalistico della legge fallimentare (sia con riguardo alle tradizionali fattispecie delittuose di cui agli artt. 216 ss. L. Fall., che sanzionano tutte quelle condotte – ascrivibili all’imprenditore latu sensu inteso – che abbiano determinato quell’ingiustificato disavanzo che costituisce l’evento dei delitti di bancarotta; sia con riguardo allo Statuto Penale delle figure professionali che si inseriscono a vario titolo e nei diversi momenti topici delle procedure concorsuali), imponendo all’interprete di testare la tenuta delle originarie disposizioni incriminatrici e così innescando un fervente dibattito dottrinario e giurisprudenziale sul quale si sono innestati numerosi interventi chiarificatori da parte della Corte Suprema di Cassazione.

A tale ultimo riguardo si può osservare come i riverberi maggiormente controversi sul versantepenal-fallimentare siano attualmente ravvisabili con riferimento ad istituti (di nuova introduzione o comunque incisivamente modificati) concernenti lo “stato di crisi” dell’impresa – piano attestato(art. 67, comma 3º, lett.d, L. Fall.), accordo di ristrutturazione dei debiti  (art. 182-bis L. Fall.) e concordato preventivo (artt. 160 ss. L. Fall.) – procedure improntate, nel complesso, alla valorizzazione dell’autonomia privata ed accomunate dall’abbandono della finalità concorsuale tipica di liquidazione e riparto dell’attivo tra i creditori, mirando piuttosto a superare – attraverso razionali misure di risanamento – il c.d. “stato di crisi” (situazione che, peraltro, il legislatore ha omesso di definire[2]). Come vedremo approfonditamente nel prosieguo, il fulcro dei tre istituti appena menzionati è costituito dalla relazione di un professionista, “qualificato” e “indipendente” (ma pur sempre selezionato e retribuito dall’imprenditore che intenda intraprendere un percorso risanatorio), sulla “veridicità dei dati aziendali” e sulla “fattibilità del piano o dell’accordo finalizzato al superamento della crisi”[3]. L’attestazione del professionista, nella procedura ex art. 67 comma 3 lett. d L. Fall., integra la condizione necessaria e sufficiente per beneficiare degli incentivi previsti dalla legge (in termini di disciplina della revocatoria fallimentare e, dopo l’introduzione dell’art. 217-bis  L. Fall., anche in sede penale) mentre nelle ipotesi di accordo di ristrutturazione dei debiti e concordato preventivo è stata mantenuta una successiva fase giurisdizionale (finalizzata alla verifica dei presupposti per l’ammissibilità e, conseguentemente, per l’omologazione del piano/accordo). Il nodo nevralgico della più recente riflessione dottrinaria e giurisprudenziale in materia si individua per l’appunto nella questione della valenza attribuibile – in termini di ratio ed ampiezza dell’accertamento esperibile – al sindacato giudiziale sugli accordi privati di risanamento aziendale, proprio alla luce delle profonde modifiche in termini latu sensuprivatistiche intervenute sull’impianto della legislazione fallimentare, al punto che – come vedremo – da un lato è venuta consolidandosi un’esegesi del dato normativo che, al fine di non travisare le indicate finalità di riforma, ha circoscritto l’ambito del giudizio del Tribunale Fallimentare ad un “controllo di legalità sostanziale” sulla procedura e di “fattibilità giuridica” dei piani/accordi di risanamento (con esclusione – quindi – di qualsiasi controllo di merito sulla relativa convenienza economica [4]) e, dall’altro lato, per quanto attiene la prospettiva più squisitamente penalistica, il legislatore è intervenuto a colmare il “vuoto normativo” da più parti segnalato con riguardo alle necessarie garanzie di “professionalità” ed “indipendenza” del professionista al quale è affidata l’attività  di attestazione – che costituisce il “fulcro” delle procedure finalizzate al superamento della crisi d’impresa – prevedendo specifici requisiti di professionalità e cause di incompatibilità con il predetto ufficio (cfr. art. 67 comma 3 lett. d F. Fall., come modificato dall’art. 1 D.L. n. 83/2012) nonché introducendo una fattispecie delittuosa ad hoc “Falso in attestazioni e relazioni” (art. 236 bis L. Fall.) posta a presidio della correttezza del relativo operato [5].

Riservandocisi di tornare tra breve su tali argomenti, per sviscerarli alla luce dei principi sanciti dalla nota sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 1521/2013 – che ha offerto senz’altro un importante contributo anche ai fini di una corretta esegesi ed applicazione della nuova fattispecie delittuosa di cui all’art 236 bis L. Fall. – si ritiene doveroso osservare ulteriormente, in termini generali, come – al di là di episodici interventi normativi, come quelli poc’anzi richiamati, che appaiono adottati sull’onda di contingenti emergenze applicative piuttosto che in attuazione di meditati interventi di riforma – lo Statuto Penale del professionista nell’ambito delle procedure concorsuali sia rimasto sostanzialmente invariato sin dalla sua introduzione (avvenuta con RD n. 267/1942) e – per quanto concerne specificamente i profili di responsabilità del Curatore Fallimentare – si risolve tutt’oggi nelle previsioni di cui agli artt. 228 – 231 L. Fall., risultate peraltro di scarsissima applicazione pratica (verosimilmente perché si tratta di norme che si innestano – non sempre in modo chiaro ed agevole – nel già complesso ed articolato sistema codicistico di repressione penale degli illeciti commessi dai pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, implicando conseguentemente problemi esegetici di non facile soluzione).
 

IL DELITTO DI INTERESSE PRIVATO IN ATTI DEL FALLIMENTO (art. 228)

In linea di principio e come più volte ribadito anche dal Giudice delle Leggi – chiamato a pronunciarsi ripetutamente [6], in particolare, sulla legittimità costituzionale del delitto di “interesse privato del Curatore in atti della procedura fallimentare” (art. 228 L. Fall.)con riferimento agli artt. 3 Cost. (principio di “uguaglianza”) e 25 Cost. (principi di “tassatività” e “determinatezza” delle fattispecie incriminatrici) – la previsione di norme incriminatrici speciali a presidio della correttezza dell’operato del Curatore Fallimentare (e delle figure equiparate al medesimo nell’ambito delle procedure concorsuali cd. “minori”: “commissario giudiziale” nel concordato preventivoex art. 236 comma 2 L. Fall.; “commissario liquidatore” nella liquidazione coatta amministrativa exartt. 194 ss. e 237 L. Fall.; “commissario straordinario” nella procedura di amministrazione delle grandi imprese in crisiexlege n. 75/1979 e succ. mod.) si giustifica agevolmente alla luce della specificità della materia interessata, delle peculiari connotazioni che caratterizzano le modalità di esercizio del munus publicum di cui è investito il Curatore  Fallimentare (la cui attività è caratterizzata da una significativa “fluidità operativa” che si traduce in atti di difficile classificazione, sovente di natura ibrida “amministrativo-negoziale”, comunque irriducibili a schemi predeterminati) e della centralità del ruolo progressivamente assunto da tale organo nell’ambito della procedura fallimentare, al quale è oggi demandata “l’amministrazione del patrimonio fallimentare sotto la vigilanza del Giudice Delegato e del Comitato dei Creditori” (cfr.art. 31 L.Fall., nella versione introdotta dall’art. 27 D.L.vo n. 5/2006), dalla cui direzione è stato progressivamente affrancato (nel sistema normativo attualmente vigente, infatti, al Giudice Delegato si demanda il diverso ruolo di controllo di “legalità formale e sostanziale” sull’operato del Curatore mentre al Comitato dei Creditori compete il controllo di “merito”, inteso come convenienza economica delle scelte operate).

Ciò nondimeno, la qualità di “pubblico ufficiale”  che la Legge Fallimentare attribuisce espressamente al Curatore nell’esercizio delle sue funzioni (art. 30) [7], consente senz’altro di ritenere applicabili al medesimo anche le disposizioni codicistiche che disciplinano i “delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione”, così imponendosi all’interprete la risoluzione di delicati problemi esegetici e di coordinamento normativo.

Non v’è dubbio che le questioni interpretative più rilevanti e tutt’oggi prive di soluzioni unanimemente condivise si siano poste con riferimento al delitto di cui all’art. 228 L. Fall.che punisce con reclusione da due a sei anni e con multa non inferiore a 206 euro il Curatore che “prenda interesse privato in qualsiasi atto del Fallimento, direttamente o per interposta persona o con atti simulati”.La norma prevede altresì una clausola di sussidiarietà che ne esclude l’applicabilità qualora nel fatto siano ravvisabili i delitti di cui agli artt. 315, 317, 318, 319, 321, 322 e 323 c.p. È di tutta evidenza, alla luce della semplice formulazione normativa, che la fattispecie criminosa in esame è stata elaborata sulla falsa riga dell’ormai abrogato delitto di “interesse privato in atti dell’ufficio” (originariamente previsto dall’art. 324 c.p.) e che il legislatore – ripetutamente intervenuto a modificare il cd. “statuto penale del pubblico dipendente” (essenzialmente nell’ottica di garantirne maggiore rispondenza ai principi costituzionali di “determinatezza” e “tipicità” della fattispecie incriminatrici, così scongiurando peraltro applicazioni giurisprudenziali aberranti che avevano finito con l’introdurre e legittimare un surrettizio controllo giurisdizionale sul merito delle scelte ammnistrative) – ha trascurato di rimeditare il rapporto tra la rinnovata disciplina codicistica e le fattispecie previste dalla Legge Fallimentare.

Proprio per tali ragioni ci si è interrogati a lungo sulla perdurante vigenza del delitto di cui all’art. 228 L. Fall. all’indomani della riforma della sezione codicistica dedicata ai “delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione”   (operata in primis con la legge n. 86/1990 e quindi con la legge n. 234/1997) che, per quanto d’interesse in questa sede, aveva abrogato l’omologa fattispecie di“interesse privato in atti dell’ufficio” (art. 324 c.p.) e ridisegnato integralmente la fattispecie delittuosa di “abuso d’ufficio” (trasformandola in un reato di evento a dolo intenzionale ed ancorandone il disvalore ad una connotazione di illiceità speciale della condotta del pubblico ufficiale).

La soluzione affermativa è risultata senz’altro preferibile, soprattutto alla luce dei contenuti di alcune importanti pronunce della Corte Costituzionale [8] che – nel riconoscere alla fattispecie delittuosa di cui all’art. 228 L. Fall. piena legittimità con riferimento a principi di uguaglianza, tassatività e sufficiente determinatezza delle norme incriminatrici – hanno altresì rilevato una sostanziale “disomogeneità” della fattispecie delittuosa in esame(sia sotto il profilo dell’oggettività giuridica sia sotto il profilo sanzionatorio) rispetto a quella codicistica, conseguentemente riconoscendo un’autonoma dignità alla relativa previsione normativa nel più generale sistema sanzionatorio penale quale irrinunciabile baluardo contro tutte quelle condotte del Curatore Fallimentare – che il legislatore, peraltro, ha ritenuto di sanzionare con maggior rigore – che attentino al “regolare svolgimento della procedura concorsuale ed all’integrità della funzione rivestita dal medesimo Curatore” (traducendosi in forme di “ingerenza profittatrice in atti della procedura”, sovente dissimulate da atti formalmente legittimi).

Non può sottacersi, d’altro canto, che l’abrogazione dell’art. 324 c.p. non si è affatto tradotta in una radicale abolitio criminis, essendosene sostanzialmente mantenuto il disvalore penale attraverso ilre-stayling  della fattispecie di “abuso d’ufficio” (nella cui previsione è inizialmente confluito tout court, per poi ridefinirsi entro i rinnovati confini della fattispecie incriminatrice attualmente in vigore).

I principi interpretativi sin qui illustrati, come si diceva, hanno ricevuto l’avallo della Corte Costituzionale, secondo cui:

“Non è fondata, con riferimento all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 228 R.D. 16 marzo 1942 n. 267 (disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa). L’art. 228 della L. Fall., recante il titolo “interesse privato del curatore negli atti del fallimento”, nel mentre ricollega al curatore stesso i reati imputabili in generale ai pubblici ufficiali, facendo a taluni di essi implicito richiamo con la clausola di sussidiarietà espressa nella formula “salvo che al fatto non siano applicabili gli art. 315, 317, 318, 321, 322 e 323 c.p.”,configura in modo autonomo, sia pure simile nel contenuto all’abrogato art. 324 c.p., la fattispecie dell’interesse privato riferita al curatore fallimentare, comminando, fra l’altro, una pena detentiva maggiore, nel minimo e nel massimo, rispetto a quella dell’analogo reato già previsto dall’abrogato art. 324 c.p. per il pubblico ufficiale. L’incriminazione in modo autonomo del suddetto reato se commesso dal curatore fallimentare, pur recante il medesimo titolo di quello ora abrogato nel codice penale, evidenzia l’intento del legislatore di attribuire una specialità e un connotato di maggiore gravità – espresso nel trattamento sanzionatorio – al reato di interesse privato riferito al curatore, rispetto alla previsione incriminatrice del c.p. già prevista per il pubblico ufficiale; figura, quest’ultima, cui anche sotto altri profili, il curatore è assimilato. In presenza di situazioni normative fra loro non omogenee, stante l’autonomia e la specialità dell’art. 228 del R.D. n. 267 del 1942 rispetto all’abrogato art. 324 c.p. invocato come “tertium comparationis”, non trova fondamento la tesi di una ingiustificata disparità di trattamento  che si sarebbe venuta a determinare, per effetto delle modifiche apportate dalla legge n. 86 del 1990, fra il curatore fallimentare ed il pubblico ufficiale rispetto alla situazione precedente: da un lato, già in origine le fattispecie incriminatrici dell’interesse privato erano, nei due casi, rispettivamente autonome e diversificate nel segno della maggiore severità per la prima; dall’altro, non si è determinata una indiscriminata “abolitio criminis” delle condotte del pubblico ufficiale già qualificabili come fatti di interesse privato in atti d’ufficio, bensì si è verificata la riconduzione di quelle condotte a nuove fattispecie del codice penale (art. 323 e 326)– secondo un fenomeno di successione di incriminazioni enucleato, in termini consolidati, dalla giurisprudenza e già sottolineato da questa Corte (ord. n. 6 del 1992) –per cui perde rilievo l’asserzione, da cui muove il giudice “a quo”, della impunità di cui godrebbero i pubblici ufficiali per le richiamate condotte, sebbene assimilabili a quelle del curatore”.(così Corte Cost. n. 414/1994).

Sgombrato il campo dalla questione della perdurante vigenza della disposizione di cui all’art. 228 L. Fall., si osserva ulteriormente come l’intervento del Giudice delle Leggi sia stato altresì sollecitato nel seno di una più ampia riflessione sulla struttura di tale fattispecie incriminatrice e sulla sinteticità descrittiva della condotta tipica (“il Curatore che prende un interesse privato in qualsiasi atto del Fallimento”…), senz’altro tale da risultare astrattamente inconciliabile con i principi costituzionali di “tassatività” e “determinatezza” che devono presiedere all’esercizio della potestà legislativa in materia penale (art. 25 Cost.) al fine di tutelare il bene primario della libertà personale attraverso la garanzia dell’effettività del controllo giurisdizionale sulla sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle sanzioni penali. Il positivo vaglio di legittimità della norma in esame, anche sotto tale profilo, è stato compiuto attraverso una lettura costituzionalmente orientata del relativo precetto così circoscrivendone la sfera di operatività nei termini che si vengono a precisare:

“Non è fondata, nei sensi di cui in motivazione, con riferimento agli art. 3 e 25 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli art. 228 R.D. 16 marzo 1942 n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) e del D.L. 30 gennaio 1979 n. 26 (Provvedimenti urgenti per l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi), conv. nella Legge 3 aprile 1979 n. 95, le quali – assoggettando a sanzione penale il curatore fallimentare e gli altri soggetti ricompresi nell’ambito di applicazione dell’art. 228 L. Fall. (così come il commissario governativo nell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi) con riferimento alla fattispecie astratta di “interesse privato”, ormai priva di rilevanza penale per tutti gli altri pubblici ufficiali – sarebbero lesive sia del principio di eguaglianza sia del principio di determinatezza della fattispecie penale, in quanto- con riferimento all’art. 3 Cost. -la “ratio” della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 228 L. Fall. (individuata nella stessa relazione al R.D. n. 267 del 1942 “nel bisogno di prevenire il pericolo che attraverso le maglie della legge il curatore trovi la via di scampo ad azioni delittuose”) vale ad escludere che la specialità della disciplina penale applicabile al curatore fallimentare (ed ai soggetti ad esso equiparati) si traduca nella violazione del principio di eguaglianza e- con riferimento all’art. 25 Cost. -l’art. 228 L. Fall. deve essere interpretato, conformemente al principio costituzionale di determinatezza della fattispecie penale, nel senso che la presa di interesse privato del curatore fallimentare (e degli altri soggetti ad esso equiparati) è sanzionata penalmente soltanto in quanto sia contrastante con gli interessi tutelati dalla procedura concorsuale, restando estranee all’area della rilevanza penale tutte quelle ipotesi in cui si realizzi una mera coincidenza tra i vantaggi privati e gli interessi dell’ufficio o in cui comunque l’interesse privato del pubblico ufficiale non risulti, in concreto, rivolto a perseguire un vantaggio personale che si ponga in contrasto con le finalità delle procedure concorsuali o dell’amministrazione straordinaria”  (così Corte Cost. n. 69/1999).

Alla luce dei principi sanciti dalla giurisprudenza costituzionale appare quanto mai attuale – ai fini di una corretta “decodificazione” della disposizione normativa in esame – una massima della Corte di Cassazione molto risalente (Cass. 7 dicembre 1979), ma non per questo di minor pregio ermeneutico secondo cui:

“Il reato di interesse privato del curatore negli atti del fallimento, previsto dall’art. 228 L. Fall. si configura ogni qual volta il Curatore esplichi una concreta attività (prendere interesse è, infatti, diverso dall’avere interesse)  volta a realizzare attraverso l’ufficio un interesse non ricollegabile in via esclusiva alla finalità propria dell’amministratore fallimentare. Non è pertanto sufficiente l’astratta coincidenza dell’interesse privato con quello pubblico della procedura concorsuale o la sola incompatibilità delle funzioni esercitate ma è necessaria una effettiva ingerenza profittatrice e cioè un concreto comportamento del curatore, posto in essere con la consapevolezza di associare un interesse privato ad un atto del fallimento, indipendentemente dalla legittimità o meno dell’atto e dal danno o vantaggio derivabile all’amministrazione fallimentare.  (Nella specie la società della quale il curatore era amministratore unico e socio, si era offerta come assuntrice e garante del concordato fallimentare di cui lo stesso curatore era esecutore, ottenendo la cessione di tutti i diritti e azioni del fallimento).

In definitiva, il delitto è ravvisabile in tutti i casi in cui il Curatore Fallimentare strumentalizzi consapevolmente la funzione pubblica di cui è investito al fine di realizzare un interesse proprio o di terzi, compiendo un’attività significativa dell’esercizio di tale funzione astrattamente incompatibile con gli interessi della procedura, essendo irrilevante – su tali presupposti – che l’atto sia legittimo o che abbia effettivamente prodotto un danno alla massa dei creditori. A mero titolo esemplificativo il delitto in esame è stato ravvisato nei casi di seguito indicati:

Cassazione penale   sez. V  12 ottobre 2004   n. 46802

La fattispecie prevista dall’art. 228 r.d. 16 marzo 1942 n. 267, risponde all’esigenza di prevenire e punire il comportamento del curatore fallimentare che, nello svolgimento del suo complesso compito fiduciario, ponga in essere atti che privilegino interessi privati propri o di terzi, in contrasto con le finalità della procedura concorsuale. In particolare, viola la norma indicata il curatore che, in contrasto con l’interesse tutelato dalla legge consistente nel recupero della massa attiva nella maggior misura possibile, concede ad un terzo l’uso gratuito di parte dei beni del fallimento, rinunciando alla loro redditività.

Cassazione penale   sez. V  12 ottobre 2004   n. 46802  

Ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 228 l. fall., che sanziona la condotta del curatore il quale – avvantaggiando consapevolmente se stesso o un terzo – privilegia interessi privati contrastanti con la finalità della procedura, è sufficiente che si determini tale situazione di conflitto, indipendentemente dal fatto che si verifichino anche effetti in concreto pregiudizievoli per i creditori. (In applicazione del principio la Corte, sulla base dell’accertamento compiuto nella sentenza di merito circa alcuni privilegi concessi dal curatore ad uno dei creditori, ha respinto il ricorso di quest’ultimo fondato sulla circostanza che il tribunale fallimentare aveva escluso sue particolari responsabilità verso la massa dei creditori).

Cassazione penale   sez. V  21 settembre 2000   n. 4043 

La “presa d’interesse privato” da parte del curatore negli atti del fallimento, prevista come reato dall’art. 228 della l. fall. e configurabile anche con riguardo agli atti di gestione imprenditoriale compiuti nell’ambito della procedura concorsuale, non deve essere necessariamente finalizzata al perseguimento esclusivo di un interesse privato confliggente con quello della procedura stessa, essendo, al contrario, sufficiente che essa comporti, in relazione al detto ultimo interesse, un risultato di minore consistenza (in senso qualitativo o quantitativo) rispetto a quello che si sarebbe ottenuto in mancanza dell’ingerenza profittatrice).

Cassazione penale   sez. V  22 febbraio 1994

L’art. 228 legge fall. che prevede l’interesse privato del curatore negli atti del fallimento, conferisce rilevanza all’interesse preso in qualsiasi atto della procedura fallimentare, sicché il reato può configurarsi anche in relazione allo svolgimento di un’asta. Questa infatti attiene alla vendita di beni mobili ed immobili, che, pur non essendo direttamente collegata con le funzioni del curatore, costituisce comunque il momento strumentale alla liquidazione dell’attivo fallimentare, funzione specificamente demandata al curatore dall’art. 104 legge fall.

Cassazione penale   sez. V  23 settembre 1993

Integra il reato di interesse privato del curatore negli atti del fallimento, ai sensi degli art. 236 comma 2 n. 3 e 228 l.fall., la condotta del commissario giudiziale che, nel redigere le relazioni per il giudice delegato, previste nel corso della procedura del concordato preventivo, ometta di rappresentare l’esistenza di accordi segreti intercorrenti tra l’imprenditore insolvente ed un assuntore occulto del concordato, consentendo a questi di sottrarsi al controllo degli organi pubblici e dei creditori. (Fattispecie nella quale è stata respinta la tesi difensiva, secondo cui si sarebbe trattato di un fatto puramente omissivo, inquadrabile nella fattispecie ipotizzata dall’art. 328 c.p.).

Cassazione penale   sez. V  23 settembre 1993

Possono concorrere nel reato di interesse privato del commissario, in qualità di istigatori, i debitori, i consulenti e l’assuntore occulto del concordato che trattano una “cessio bonorum” in frode ai creditori.

Cassazione penale   sez. V  01 febbraio 1984  

Il reato di interesse privato del curatore negli atti del fallimento si configura tutte le volte che il curatore esplichi una concreta attività volta a realizzare, attraverso l’ufficio della curatela fallimentare, un interesse non ricollegabile alla finalità propria ed esclusiva della gestione fallimentare. (Nella specie il curatore patrocinò, in un giudizio di sfratto dai locali di proprietà del fallito, gli interessi del conduttore, al quale fece vendere, in pendenza del giudizio esprimendo, nella qualità, parere favorevole, i locali medesimi).

Tribunale Ancona    24 gennaio 2006   n. 1381

Integra il reato di cui all’art. 228 l. fall. (interesse privato del curatore negli atti del fallimento) la condotta del commissario giudiziale che, in contrasto con l’interesse tutelato dalla legge, consistente nel recupero della massa attiva nella maggior misura possibile, venda un bene del fallimento ricevendo un corrispettivo sul ricavato, sottraendo, per mero tornaconto personale, risorse da destinare al soddisfacimento dei creditori.

Tribunale Bologna    19 dicembre 1983

Poiché la permanenza degli organi fallimentari nella fase di esecuzione del concordato fallimentare è diretta alla tutela del credito chirografario e, in via mediata, della massa attiva del fallimento, commette il reato di cui all’art. 228 l. fall. il curatore che, durante l’esecuzione del concordato, ometta atti del suo ufficio, ovvero compia azioni in qualche modo connesse con atti dell’ufficio, o con gli effetti ancora in svolgimento di un atto dell’ufficio, al fine di conseguire un interesse privato – non necessariamente personale – di qualsiasi natura

Tribunale Milano    24 novembre 1978

Mentre l’art. 324 c.p. punisce la presa di interesse personale del pubblico ufficiale in un atto del suo ufficio presso la pubblica amministrazione, l’art. 228 l. fall., invece, prevede come reato la presa di interesse personale del curatore “in un qualsiasi atto del fallimento”, cioè in un atto comunque afferente alla procedura fallimentare, direttamente posto in essere dal curatore o dal tribunale, dal giudice delegato o dal comitato dei creditori, in via autonoma o su richiesta del curatore medesimo o per interposta persona. La domanda di insinuazione tardiva, presentata da un creditore è “atto del fallimento” sia nella prima fase amministrativa (nella quale il curatore dichiara di opporsi o non all’ammissione del credito), sia a maggior ragione nell’eventuale fase (successiva) contenziosa (nella quale il curatore tutela gli interessi del fallito e dell’intero ceto creditorio).

Ricostruita nei termini appena indicati la condotta delittuosa sul piano oggettivo, non v’è dubbio che per l’attribuibilità del fatto all’agente – in termini di colpevolezza – si richieda il “dolo”, inteso come consapevolezza e volontà di “profittare” dell’ufficio rivestito per realizzare un interesse proprio o di terzi in conflitto con quello della procedura (si pensi al caso del Commissario Giudiziale, nell’ambito di una procedura di concordato preventivo, che sia anche amministratore della società assuntrice; ovvero al Curatore che si renda cessionario – per interposta persona – di beni dell’attivo fallimentare). In tema di elemento soggettivo del reato si segnala la seguente pronuncia del Tribunale di Milano per la sinteticità e chiarezza dei principi espressi nella relativa motivazione:

Tribunale Milano    24 novembre 1978

L’elemento psicologico richiesto per la sussistenza del reato previsto dall’art. 228 l. fall. deve consistere oltre che nella previsione e volontarietà di realizzare l’interesse privato, anche nella coscienza dell’antidoverosità della propria condotta, ossia nella consapevolezza che con la propria condotta il curatore lede gli interessi tutelati da quella norma (e cioè l’interesse processuale al corretto svolgimento della procedura fallimentare e quelli a tutela dell’integrità e dignità del curatore e del prestigio dell’amministrazione della giustizia). 

Merita un cenno – conclusivamente – la questione del rapporto antinomico esistente tra la clausola di riserva contenuta nella disposizione normativa in esame, strutturata come fattispecie sussidiaria rispetto a taluni delitti comuni dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione (specificamente individuati mediante rinvio, ritenuto di carattere “non recettizio”, alle previsioni di cui agli artt. 315, 317, 318, 319, 321, 322 c.p.), e quella contenuta nell’art. 323 c.p., ugualmente configurata come fattispecie di carattere residuale che si applica “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, potendosi rilevare – senza alcuna tema di smentita – l’irresolubilità di tale antinomia in quanto, qualora nella condotta del Curatore del Fallimento (o di altra figura equiparabile al medesimo) siano ravvisabili gli estremi dell’abuso di ufficio – a mente dell’art. 228 L. Fall. dovrebbe trovare applicazione l’art. 323 c.p. che, tuttavia, è norma sussidiaria che retrocede in caso di concorso apparente con altra disposizione che tipizzi un più grave delitto (nel caso di specie, l’art. 228 L. Fall. prevede la pena della reclusione da due a sei anni, mentre l’art. 323 c.p., nella versione da ultimo introdotta con legge n. 190/2012, prevede la pena della reclusione da uno a quattro anni).

Autorevole dottrina [9] evidenzia come tale impasse possa essere superata facendo applicazione del più generale principio ermeneutico secondo cui lex specialis derogat generalis e, quindi, circoscrivendo l’operatività della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 323 c.p. (avente sicuramente un carattere di specialità rispetto all’ampia previsione incriminatrice di cui all’art. 228 L. Fall.) ai soli rapporti tra norme codicistiche. Risolto mediante tale interpretazione  il contrasto tra le due clausole di riserva, il quadro dei rapporti tra il delitto di “abuso d’ufficio” e quello di “interesse privato in atti del fallimento” può dirsi sufficientemente delineato, nel senso che alla previsione della legge fallimentare si farà ricorso ogni qualvolta il comportamento dell’organo fallimentare realizzi in fatto una lesione degli interessi tutelati dalla procedura concorsuale esercitando un potere a lui riconosciuto in ossequio alla diverse prescrizioni formali previste dalla legge, ma per finalità divergenti da quelle indicate dalla medesima normativa, mentre la sussistenza del delitto di “abuso d’ufficio” potrà invocarsi in tutti i casi in cui il Curatore Fallimentare incorra nella violazione di una specifica norma di legge o di regolamento.

Tali considerazioni, tuttavia, portano a rilevare, ancora una volta, l’irragionevolezza dell’attuale assetto normativo essendo di tutta evidenza che il delitto di “abuso d’ufficio” esprime un disvalore penale più grave di quello represso con la legge fallimentare (implicando altresì una violazione di legge e, quindi, connotandosi di antigiuridicità speciale) e, ciò nonostante, è tutt’oggi punito meno gravemente.

Con riguardo alle ulteriori fattispecie di reato richiamate dall’art. 228 L. Fall., invece, non si pongono particolari problemi interpretativi, presentando queste ultime connotazioni strutturali maggiormente qualificanti e come tali idonee a consentire una più agevole distinzione. In particolare:

– Risponderà di “concussione” (art. 317 c.p.) il Curatore del fallimento che – abusando della sua qualità o, comunque, dei suoi poteri costringa taluno a dare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità (si pensi al caso del Curatore che faccia leva sul suo ruolo per farsi consegnare una somma di denaro – quale corrispettivo per l’alienazione di un cespite – superiore a quella dovuta ed effettivamente fatturata dalla procedura);

– il richiamo all’art. 315 c.p. (abrogato) deve intendersi fatto al vigente delitto di “peculato” e potrà ravvisarsi in tutti i casi in cui il Curatore del Fallimento si appropri di risorse di cui sia venuto in possesso in ragione del suo Ufficio (si pensi al caso in cui il Curatore faccia accreditare somme derivate dalla liquidazione di taluni cespiti ovvero riscosse da debitori della società fallita su un c/c proprio in luogo che su quello acceso nell’interesse della procedura).

– risponde di “corruzione” (art. 318 e 319 c.p.) ovvero di “istigazione alla corruzione” (art. 322 comma 3 c.p.) il Curatore che indebitamente riceva (o accetti la promessa) ovvero solleciti la dazione (o promessa) di una somma di denaro o altra utilità per compiere un atto dell’ufficio ovvero per omettere o ritardare o commettere un atto contrario ai doveri del suo Ufficio;

– difetta di pertinenza, infine, il richiamo fatto all’art. 322 c.p. (che prevede il trattamento sanzionatorio nei confronti del privato corruttore).

Un’ultima riflessione va riservata alla questione della ravvisabilità del delitto in esame nel caso in cui l’atto compiuto sia “vincolato”  (cioè adottato in ossequio a specifiche previsioni normative) ovvero“autorizzato” dal Giudice Delegato  e, ciò nondimeno, valga a realizzare un interesse del Curatore incompatibile con quello della procedura che patrocina. L’interpretazione più convincente a tale ultimo riguardo è senz’altro quella che – partendo dalla considerazione che è sanzionata penalmente la condotta del pubblico ufficiale che, omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un proprio congiunto, procuri a sé o a terzi un ingiusto vantaggio patrimoniale (art. 323 c.p.) – impone di ritenere sussistente la responsabilità del Curatore anche nei casi in esame, risultando comunque prioritario l’interesse al regolare svolgimento della procedura concorsuale ed all’integrità della condotta degli organi che ha patrocinano.

IL DELITTO DI ACCETTAZIONE DI RETRIBUZIONE NON DOVUTA

L’art. 229 L. Fall. punisce con reclusione da tre mesi a due anni e con multa da 103 a 516 euro il Curatore del fallimento che riceve o pattuisca un retribuzione in denaro o in altra forma in aggiunta a quella liquidata in suo favore dal Tribunale o dal Giudice Delegato.

Premesso che alla norma incriminatrice appena citata fa da pendant la disposizione di cui all’art. 39 comma 3 L. Fall., che statuisce espressamente il divieto per il Curatore di pretendere – anche a titolo di rimborso spese – somme ulteriori rispetto a quelle liquidate a suo favore dal Tribunale Fallimentare (prevedendo altresì la nullità di qualsiasi pagamento fatto in violazione del predetto divieto), si osserva come sia opinione pressoché unanime – in dottrina e giurisprudenza – quella secondo la quale il delitto in esame sia diretto a tutelare il “buon andamento della procedura concorsuale e l’integrità dell’ufficio del Curatore” prevenendo il rischio di distorsioni imputabili alla “venalità” di quest’ultimo, il quale deve esimersi dal pattuire/ricevere retribuzioni per l’attività svolta ulteriori rispetto a quelle liquidate in suo favore dal Tribunale anche nell’estrema eventualità che non abbia ottenuto il riconoscimento di alcun emolumento.

Sul piano esegetico si riscontra una sostanziale uniformità di vedute con riguardo al profilo deltempus commissi delicti, nel senso di riconoscere rilevanza a pattuizioni/pagamenti intervenuti anteriormente al decreto con il quale il Tribunale liquida i compensi al Curatore (che interviene successivamente all’approvazione del rendiconto di gestione e quindi a seguito della chiusura del fallimento) – osservandosi concordemente al riguardo che interpretazioni alternative, se pur maggiormente aderenti al dettato normativo, comporterebbero una sostanziale vanificazione della ratio legis impedendo l’applicazione della norma in esame a tutte le condotte anteriormente commesse.

Non presenta particolari criticità nemmeno la questione del rapporto tra la fattispecie in esame e quella del delitto di corruzione (propria o impropria) di cui evidentemente condivide la ratio e dal quale si differenzia – sul piano oggettivo – in quanto per ravvisarsi “corruzione” è necessario istituire un collegamento tra la “remunerazione” corrisposta ed un atto dell’ufficio  (doveroso o anti-doveroso) laddove la legge fallimentare, coerentemente all’impostazione di maggior rigore che la caratterizza rispetto all’impianto sanzionatorio previsto dal codice penale per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, attribuisce un disvalore alla pattuizione/elargizione di compensi al Curatore in ragione della funzione svolta ed a prescindere dal compimento di atti specifici. Si tratta quindi di un delitto di “pericolo presunto” attraverso il quale si anticipa la soglia di punibilità in un’ottica di preservazione dal rischio di corruzione del Curatore. L’ampiezza della latitudine applicativa della norma in esame si giustifica agevolmente ove si considerino le peculiari modalità esplicative del munus publicum di cui è investito il Curatore fallimentare – che si esprime in una variegata tipologia di atti/provvedimenti/comportamenti tale per cui l’atteggiamento di favore nei confronti del terzo dal quale proviene la remunerazione non dovuta potrebbe non esaurirsi in un singolo atto ma concretarsi nell’assunzione di una serie di determinazioni da parte del Curatore destinate a confluire nel “favore” richiesto.

Quanto al concetto di “retribuzione”, pur prendendosi atto dell’esistenza di opinioni difformi, si ritiene di condividere quella che interpreta estensivamente tale nozione fino a ricomprendervi qualsiasi utilità suscettibile di apprezzamento economico, ivi compresi i favori di natura sessuale e fatta eccezione – secondo l’opinione sinora prevalente – dei cd. munuscula (regalie d’uso, di modico valore).A tale ultimo riguardo si segnala peraltro come la legge n. 190/2012 abbia riformato – tra l’altro – il delitto di “corruzione impropria” rubricando la nuova norma come “corruzione per l’esercizio della funzione” ed assoggettando a pena il pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceva per sé o per un terzo denaro o altra utilità o ne accetti la promessa. È di tutta evidenza il rigore a cui risulta ispirata tale fattispecie, chiaramente diretta a reprimere il “qualunque forma di mercimonio della funzione” fino al punto di censurare la pattuizione/ricezione di un compenso a prescindere dal compimento di un atto e per il solo fatto di esercitare una certa funzione pubblica. Si è così inteso anticipare la soglia della punibilità realizzando una sostanziale equiparazione tra tale nuova fattispecie e quella già prevista dalla legge fallimentare  (punita, tuttavia, molto meno severamente) al punto da far ritenere che la tesi dell’illiceità dei cd. munuscula si ponga in contrasto con l’effettiva volontà del legislatore.

Ci si è a lungo interrogati in dottrina e giurisprudenza, infine, sui limiti entro i quali possa affermarsi la liceità della retribuzione pattuita/elargita a fronte di prestazioni professionali rese nell’ambito di un rapporto instauratosi al di fuori della procedura fallimentare, ma in favore di un soggetto portatore di interessi nella medesima. Autorevole dottrina [10] osserva condivisibilmente che la soluzione varia a seconda delle circostanze del caso concreto e che – se in linea di principio dovrà riconoscersi piena liceità alle remunerazioni ricevute dal curatore nell’ambito di un rapporto professionale privato, ancorché instauratosi con un soggetto che nutra interessi nella procedura concorsuale patrocinata dal medesimo e purché l’incarico sia estraneo alle competenze del pubblico ufficio rivestito – ciò nondimeno non può escludersi che, nel caso concreto, l’incarico professionale abbia assunto una valenza meramente fittizia e che la remunerazione ricevuta dal Curatore in tale ambito (apparentemente distinto da quello della procedura concorsuale) dissimuli un corrispettivo per la funzione svolta (natura di cui potrà essere indice, ad esempio, l’entità sproporzionata dell’onorario corrisposto in sede privata).

Un discorso diverso va fatto, invece, con riguardo ai corrispettivi eventualmente elargiti al Curatore a fronte dei “pareri professionali” espressi su richiesta delle parti ed inerenti la procedura gestita dal medesimo. In tal caso, infatti, pacifica la competenza del Curatore a fornire agli interessati (fallito, creditori, ecc..) informazioni, pareri, ragguagli sulle sorti e le evoluzioni della procedura, è altresì indiscussa la necessaria “gratuità” di tale forma di esercizio dell’ufficio, che non può ricevere altra remunerazione che quella liquidata dal Tribunale Fallimentare, incorrendosi altrimenti nella violazione dell’art. 229 L. Fall.

Alla luce della struttura della “condotta tipica”, va osservato ulteriormente come il delitto si consumi sulla base della mera “pattuizione” (costituendo la corresponsione della retribuzione una modalità alternativa, non necessaria, ai fini dell’integrazione della condotta delittuosa). Quanto al tentativo, si ritiene comunemente che esso sia ravvisabile soltanto nel caso di trattative non andate a buon fine, mentre restano nell’area dell’irrilevanza penale le condotte istigatorie (da chiunque provengano).

IL DELITTO DI OMESSA CONSEGNA O DEPOSITO DI COSE DEL FALLIMENTO (art. 230 L. Fall.)

Il delitto di “Omessa consegna o deposito di cose del fallimento” punisce con reclusione fino a due anni e con multa fino a 1032 euro il Curatore che non ottemperi all’ordine del Giudice di consegnare o depositare somme o altre cose del fallimento. Qualora il fatto sia commesso per colpa, si applica la reclusione fino a sei mesi e la multa fino a 309 euro.

Anche la disposizione normativa in esame – suscettibile di comparazione con il più grave delitto di “peculato” (art. 314 c.p.) – risponde ad una ratio di salvaguardia del regolare svolgimento delle procedura concorsuale e garanzia dell’integrità della condotta del Curatore, rimuovendo in radice il rischio di distorsioni imputabili a condotte latu sensu predatorie da parte del pubblico ufficiale attraverso una sensibile anticipazione della soglia di punibilità, estesa alla mera trasgressione – anche di natura colposa – a specifici ordini giudiziali di consegna/deposito di “somme” o “altre cose” del fallimento.

Si tratta quindi di un mero “illecito di disobbedienza”, che presuppone un ordine giudiziale di consegna/deposito e si concreta (secondo lo schema tipico del “delitto omissivo proprio”) nell’inottemperanza da parte del Curatore alle disposizioni ricevute.

Rispetto al concorrente delitto di “peculato”, che si ravvisa in tutti i casi in cui il pubblico ufficiale attui una condotta appropriativa sui beni di cui ha disponibilità (materiale e/o giuridica) in ragione del proprio ufficio realizzando quell’ interversio possessionis che esprime il disvalore della condotta, la fattispecie tipizzata dall’art. 230 L. Fall. sussiste a prescindere dalla circostanza che laresvenga attratta al patrimonio del pubblico ufficiale, implicando più semplicemente una condotta anti-doverosa rispetto ad un ordine giudiziale. È di tutta evidenza che nell’ipotesi in cui tale comportamento trasmodi nell’appropriazione dovrà ravvisarsi la più grave ipotesi del peculato.

Per quanto concerne l’oggetto materiale del reato in esame, la giurisprudenza è costante nell’affermare che nel concetto di “cose del fallimento” debbano ricomprendersi non soltanto i beni inventariati dal Curatore dal Fallimentare (come tali caduti nella massa attiva ed affidati alla sua custodia), ma anche quelli sopravvenuti nel corso della procedura (si pensi alle somme riscosse a seguito del vittorioso esercizio di azioni recuperatorie/restitutorie) o che risultavano nella disponibilità del fallito al momento della dichiarazione d’insolvenza (come tali oggetto di rivendicazione da parte di terzi, ma pur sempre nella disponibilità della procedura) nonché la documentazione contabile/fiscale/negoziale/bancaria messa a disposizione dal fallito.

Si esclude invece che nel concetto di “cose del fallimento” possa includersi anche la Relazione redatta dal Curatore ai sensi dell’art. 33 L. Fall., trattandosi all’evidenza di un atto che questi redige per legge ed attraverso il quale si esplica la sua funzione, ma non appartenente al fallimento.

Da rilevare infine come l’inottemperanza all’ordine giudiziale non sia comunemente ravvisato nei casi in cui la consegna o deposito avvengano, ma con forme diverse da quelle richieste.

I DELITTI DI CUI AGLI ARTT. 228 – 231 L. FALL. E LE PROCEDURE CONCORSUALI MINORI

Per effetto dell’esplicita previsione di cui agli artt. 236 comma 2 e 237 L. Fall. nonché dell’art. 96 legge 270/99 i delitti di cui agli artt. 229 – 231 L. Fall. si applicano anche nei confronti del Commissario Giudiziale che vigila sull’esecuzione del “concordato preventivo” nonché al Commissario Liquidatore nell’ambito della procedura di “liquidazione coatta amministrativa” ed al Commissario Straordinario nell’ambito della procedura di amministrazione delle grandi imprese in crisi.

GLI ALTRI DELITTI DEL CURATORE FALLIMENTARE

Come già precisato in altra sede [11] il Curatore Fallimentare, nell’esercizio delle sue funzioni, è un pubblico ufficiale e in quanto tale è tenuto all’osservanza di tutti i precetti penali che – più in generale – governano l’attività dei soggetti investiti di un munus publicum.

Si è già ampiamente delineato nelle pagine che precedono il sistema dei rapporti tra la legge fallimentare e la sezione codicistica dedicata ai delitti dei pubblici ufficiali contro l’amministrazione della giustizia, riservando a questa sede la trattazione dei delitti di “omessa denuncia” (art. 361 c.p.) e “rifiuto/omissione di atti d’ufficio” (art. 328 c.p.).

Per quanto concerne la prima fattispecie va osservato che il Curatore Fallimentare è un pubblico ufficiale, ma non è investito di poteri di polizia giudiziaria con la conseguenza che potrà ravvisarsi nei suoi confronti unicamente l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 361 comma 1 c.p. (vale a dire l’omessa o tardiva denuncia di delitti perseguibili d’ufficio di cui il Curatore abbia avuto notizia nell’esercizio o a causa delle sue funzioni) senza che alcun rimprovero possa muoversi al medesimo nel caso in cui non abbia denunciato un reato altrimenti appreso.

Dovrà trattarsi peraltro di reati inerenti la procedura patrocinata dal medesimo Curatore e, secondo l’opinione prevalente in dottrina, la relativa responsabilità dovrà escludersi qualora la denuncia sia stata veicolata nella relazione depositata al Giudice Delegato (che dovrà comunque disporne la trasmissione al Pubblico Ministero) e non trasmessa direttamente in Procura. Tale interpretazione è in linea di massima condivisibile, ove si consideri che – a rigore – l’obbligo di denuncia insorge per i soli fatti di reato di cui il Curatore abbia avuto contezza successivamente all’assunzione della sua funzione e non per quelli pregressi e che solo in relazione a fatti ascrivibili alla prima categoria, a ben vedere, può porsi un problema di “urgenza” di intervento e conseguentemente ragionarsi in termini di responsabilità del Curatore per il ritardo.

Per quanto concerne il delitto di “rifiuto/omissione di atti d’ufficio”, il dibattito dottrinario e giurisprudenziale si è incentrato soprattutto sulla rilevanza penale – alla luce della citata disposizione normativa – dell’omesso tempestivo deposito della Relazione ex art 33 L. Fall. Per quanto concerne la previsione di cui all’art. 328 c.p. (che tipizza il delitto di “omissione di atti d’ufficio”) i principi interpretativi consolidatisi nella giurisprudenza di legittimità consentono di escludere che l’eventuale inadempienza del Curatore rilevi alla luce di tale disposizione, trattandosi di delitto posto a presidio dell’interesse dei privati interlocutori della Pubblica Amministrazione, come tale non applicabile ai rapporti tra diverse amministrazioni ovvero ai rapporti organi interni della medesima amministrazione.

Per quanto concerne l’ipotesi delittuosa di cui al primo comma dell’art. 328 c.p. (“rifiuto di atti d’ufficio”), la sussistenza del fatto è condizionata, per espressa previsione normativa, all’improcrastinabilità – per ragioni di giustizia, ordine pubblico, sicurezza, igiene e sanità – dell’atto dell’ufficio rifiutato, con la conseguenza che – pur in presenza di autorevoli opinioni contrarie, sembra potersi escludere che la Relazione del Curatore Fallimentare presenti simile valenza, quantomeno ragionando in termini generali.

LA RESPONSABILITA’ PENALE TRIBUTARIA DEL CURATORE

Nei casi in cui la procedura concorsuale evolva all’insegna della prosecuzione dell’esercizio d’impresa – alla quale sottende evidentemente una finalità di risanamento della crisi aziendale – non v’è dubbio che il Curatore Fallimentare sia onerato dell’osservanza di tutte le disposizioni, anche di natura penale, che caratterizzano l’esercizio dell’attività d’impresa (si pensi all’applicazione della normativa anti-infortunistica, a quella in materia di igiene e salubrità degli ambienti lavorativi, agli adempimenti contributivi, alla normativa in materia ambientale e sui rifiuti, agli adempimenti di natura fiscale).

Non v’è dubbio, tuttavia, che il dibattito dottrinario e giurisprudenziale si sia focalizzato in particolare sui profili di responsabilità del Curatore in materia fiscale. Si ritiene che l’approccio interpretativo più corretto al riguardo sia quello di tipo sistematico, che affronti le questioni della configurabilità, dei presupposti e dei limiti di estensione di un’eventuale responsabilità amministrativa e penale del Curatore Fallimentare per violazioni della normativa fiscale in primisalla luce del principio di “tassatività”, che presiede all’applicazione delle sanzioni tributarie  tout court (sia in sede penale che ammnistrativa) ed alla luce del quale è senz’altro possibile escludere – con riferimento al periodo antecedente all’assunzione della funzione – che il Curatore Fallimentare possa essere chiamato a rispondere di violazioni tributarie imputabili al fallito.Da un lato, infatti, va esclusa la riferibilità al medesimo del presupposto dell’obbligazione tributaria(con la conseguenza che non potrà essere qualificato come “soggetto passivo” d’imposta) e, dall’altro lato, non rientrando nel novero dei soggetti solidalmente obbligati con l’imprenditore per gli adempimenti fiscali non è qualificabile quale “responsabile d’imposta”.

Ne deriva che il Curatore del Fallimento potrà essere chiamato a rispondere unicamente di quegli adempimenti dei quali risulterà specificamente onerato in base alla normativa vigente, mentre non potrà rispondere di violazioni/omissioni/ritardi pregressi imputabili all’imprenditore (anche in termini di obblighi di presentazione e fedeltà delle dichiarazioni trasmesse all’amministrazione finanziaria).

Tanto ciò premesso, va ulteriormente osservato che gli obblighi fiscali che gravano sul Curatore (sanzionati amministrativamente ai sensi del D. L.vo n. 472/97) si atteggiano in modo del tutto peculiare. Considerata l’ottica delle presente trattazione, peraltro, essenzialmente circoscritta agli aspetti di rilevanza penale di eventuali violazioni delle norme tributarie, ci si soffermerà sulla disciplina presupposta di quelle sole imposte in relazione alle quali è configurabile una responsabilità di carattere penale, vale a dire le imposte dirette e sul valore aggiunto.

Per quanto concerne le imposte dirette, l’art. 125 DPR 917/86  esclude espressamente la qualità di autonomo “soggetto d’imposta” del Curatore e, quindi, un’eventuale responsabilità del medesimo per il pagamento delle imposte sui redditi eventualmente realizzati anteriormente alla dichiarazione di fallimento. La citata disposizione regola inoltre gli adempimenti fiscali del Curatore, sintetizzabili nel modo seguente:

  • redigere un bilancio con riferimento al periodo intercorrente tra l’inizio dell’ultimo esercizio e la dichiarazione di fallimento (va osservato incidentalmente che si tratta di un bilancio funzionale alle sole esigenze di determinazione della base imponibile a fini IRPEF-IRES, da redigersi pertanto secondo criteri di “allineamento” dei valori economico-finanziari a quelli fiscali);
  • presentare la dichiarazione fiscale pertinente a tale periodo d’imposta entro il termine di quattro mesi dall’assunzione dell’incarico (si osserva sin d’ora al riguardo che l’opinione assolutamente prevalente in dottrina e giurisprudenza è quella secondo la quale la responsabilità del Curatore non sussiste nel caso di omessa presentazione della dichiarazione fiscale qualora l’anno di esercizio risulti già concluso alla data di apertura del fallimento e tuttavia non sia ancora spirato il termine per la relativa presentazione; né si ravvisa la relativa responsabilità per “dichiarazione infedele” qualora si dimostri che i dati fittizi esposti siano una mera conseguenza dell’erronea/artificiosa rilevazione nella contabilità aziendale dei fatti di gestione  relativi al precedente esercizio);
  • presentare una seconda dichiarazione fiscale entro quattro mesi dalla chiusura del fallimento, a prescindere dalla durata della procedura, determinando il reddito d’impresa come differenza tra l’eventuale residuo attivo ed il patrimonio netto dell’impresa al momento della dichiarazione di fallimento (il valore del patrimonio netto andrà determinato sulla base del bilancio predisposto all’inizio del primo periodo, con la doverosa precisazione che – in caso di valore negativo – lo considererà nullo);
  • qualora il fallimento riguardi un’impresa individuale ovvero una società di persone, inoltre, il Curatore dovrà trasmettere copia di tale seconda dichiarazione anche all’imprenditore ovvero agli amministratori/soci illimitatamente responsabili affinché includano pro-quota l’utile/perdita registrata al momento della chiusura del fallimento nel proprio reddito individuale (ai fini delle rispettive dichiarazioni fiscali quali persone fisiche);
  • Ai sensi dell’art. 18 DPR 42/1988 il Curatore del fallimento è infine responsabile del pagamento dell’IRES, con la conseguenza che dovrà richiedere al Giudice Delegato l’autorizzazione ad accantonare le somme necessarie a tal fine.

Per quanto concerne l’IVA, gli adempimenti fiscali del Curatore sono regolati dall’art. 74bisDPR 633/72 e possono riassumersi nei termini che seguono:

Per quanto concerne il periodo antecedente all’apertura del fallimento:

  • Emettere le fatture relative a tutte le prestazioni/forniture effettuate fino a tale data dall’imprenditore;
  • Registrare le medesime operazioni attive/passive sugli appositi registri fiscali;
  • Presentare la dichiarazione a fini IVA nei termini previsti dalla legge.

Per quanto concerne il periodo successivo all’apertura del fallimento:

  • Comunicare all’amministrazione finanziaria la sopravvenuta variazione del soggetto d’imposta;
  • Emettere fatture con riferimento a tutte le operazioni attive effettuate (sia a fini liquidatori sia nell’ambito dell’esercizio d’impresa, ove ne sia stata autorizzata la prosecuzione) nel termine di 30 giorni;
  • Registrare tutte le operazioni di cessione/acquisto di beni e/o fornitura/fruizione di servizi negli appositi registri;
  • Effettuare le liquidazioni periodiche e, conseguentemente, assolvere ai pertinenti obblighi dichiarativi;
  • Presentare la dichiarazione fiscale al termine di ciascun anno di esercizio (anche qualora il volume di affari risulti negativo);

In relazione ai descritti adempimenti si rileva una sostanziale uniformità interpretativa, sia nel senso di escludere che il Curatore sia tenuto ad assolvere all’obbligo dichiarativo periodico qualora nel singolo periodo non sia tenuto ad eseguire alcuna liquidazione, sia nel senso che – qualora l’imprenditore sia tornato in bonis (ad esempio nel caso di omologazione del concordato fallimentare) ovvero non si sia mai spogliato dei beni (essendo stato ammesso ad un concordato preventivo) –  gli adempimenti fiscali tornano/restano a carico del debitore.

Tanto ciò doverosamente premesso sul piano della presupposta normativa fiscale, si può passare ad affrontare la questione delle responsabilità di carattere penale ravvisabili nei confronti del Curatore Fallimentare. Tradizionalmente dottrina e giurisprudenza tendono ad escludere tale forma di responsabilità sull’assunto che – come detto – il Curatore non è “soggetto d’imposta” né “responsabile d’imposta” ed esercita un munus publicum con funzione ausiliaria del Giudice Delegato nell’amministrazione delle procedure concorsuali finalizzate alla liquidazione del patrimonio aziendale senza sostituirsi né agire in rappresentanza dell’imprenditore fallito, dovendosi quindi escludere l’imputabilità al medesimo di qualunque forma di responsabilità per fatto altrui (salvi i casi di concorso nel reato commesso dal fallito).

L’argine in tal modo eretto a tutela della posizione del curatore Fallimentare si giustificava agevolmente nel vigore della precedente disciplina penal-tributaria, improntata ad una logica preventiva che anticipava la soglia di punibilità fino a trovare espressione in fattispecie contravvenzionali che spesso si risolvevano in mere violazioni di prescrizioni formali (prive di una  reale offensività) e nelle quali tuttavia – proprio per tale natura – avrebbe potuto facilmente incorrere anche il Curatore del Fallimento.

Tali problematiche si sono significativamente ridimensionate all’indomani dell’entrata in vigore del D. L.vo n. 74/2000 che ha riformato la materia dei reati tributari circoscrivendo con decisione l’ambito di rilevanza penale delle condotte dei contribuenti – in sede di presentazione delle dichiarazione fiscali – a quelle sole condotte fraudolente (uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti; falsificazione delle scritture contabili ed uso di escamotage idonei ad impedirne la rilevazione; esposizione di elementi passivi fittizi) qualificate dal “dolo specifico” dell’agente (finalità di evasione)attraverso le quali si realizzano un indebito risparmio d’imposta o altri profitti illeciti. Oltre al descritto restyling strutturale delle singole fattispecie delittuose, ora concepite come “reati di danno”, la rilevanza penale delle medesime condotte è stata ulteriormente circoscritta con l’introduzione di “soglie di valore” (ancorate sia all’entità dell’imposta evasa sia all’incidenza proporzionale degli elementi attivi sottratti all’imposizione su quelli indicati in dichiarazione). A fronte di un simile ristringimento di campo e, soprattutto, grazie all’introduzione dell’elemento soggettivo del “dolo specifico” risulta obiettivamente difficile immaginare casi concreti di responsabilità penale del Curatore Fallimentare, quantomeno con riferimento ai delitti di cui agli artt. 2-3-4-5 D. L.vo 74/2000  (salvo che si dimostri che abbia agito nell’interesse dell’imprenditore e per favorirne/occultarne l’evasione d’imposta riferita a precedenti esercizi, ipotesi nelle quali potrebbe ravvisarsi il concorso nel reato ex art. 110 c.p.).

Tale finalità potrà ravvisarsi anche con riferimento alle ulteriori condotte delittuose di “emissione di fatture false” (art. 8) ed “occultamento distruzione di scritture contabili” (art 10), nelle quali è espressamente prevista la finalità agevolatoria di terzi.

Non sarà mai contestabile al Curatore del fallimento, invece, il delitto di cui all’art. 11 (“fraudolenta sottrazione al pagamento delle imposte”) in quanto il Curatore non è responsabile d’imposta del fallito e nessuna procedura di esecuzione forzata può aver luogo in pendenza di quella concorsuale nei confronti del fallito medesimo.

Per quanto concerne infine le fattispecie delittuose di cui agli artt. 10bise 10terD. L.vo 74/2000 (“omesso versamento di ritenute certificate” ed “omesso versamento IVA”), va precisato in primische per effetto della legge n. 223/2006 al Curatore Fallimentare è riconosciuta la qualità di sostituto d’imposta, con la conseguenza che – almeno da un punto di vista oggettivo – sarà senz’altro ravvisabile nei suoi confronti, qualora sia stata autorizzata la prosecuzione dell’esercizio d’impresa (sia pur ai limitati fini liquidatori), la fattispecie di cui all’art. 10 bis.Deve tuttavia ritenersi che – nei limiti in cui abbia richiesto ed ottenuto l’autorizzazione ai dovuti accantonamenti – non potrà farsi carico al medesimo anche dell’eventuale ritardo dipendente dalla procedura.

Idem con riferimento all’omesso versamento dell’IVA di cui risponderà ai sensi dell’art. 10 ter.

LA RESPONSABILITA’ DEL PROFESSIONISTA ATTESTATORE (art. 236bisL.Fall.)

L’articolo 33, comma 1, lettera l), del D.L. 22 giugno 2012, n. 83 ha inserito nella legge fallimentare una nuova previsione incriminatrice (art. 236bis) ,di cui – ad oggi – non si sono rinvenute applicazioni pratiche, rubricata “Falso in attestazioni o relazioni”,  che punisce con reclusione da due a cinque anni e con multa da 50.000 a 100.000 euro, “Il professionista che nelle relazioni o attestazioni di cui agli articoli 67 terzo comma, lettera d), 161 terzo comma, 182bis, 182quinquies e 186bis, espone informazioni false ovvero omette di riferire informazioni rilevanti. Se il fatto è commesso al fine di conseguire un ingiusto profitto per sé o per altri, la pena è aumentata. Se dal fatto consegue un danno per i creditori la pena è aumentata fino alla metà”.

Riprendendo le fila del discorso accennato nella parte introduttiva del presente intervento, si ritiene doveroso affrontare in questa sede la tematica della responsabilità del cd. “professionista attestatore” in considerazione del ruolo cruciale che le più recenti riforme del Diritto Fallimentare (D. L.vo n. 5/2006; D. L.vo n. 169/2007; D.L. n. 83/2012) hanno attribuito a tale figura professionale in primis nel quadro dell’operatività di istituti (di nuovo conio ovvero profondamente trasformati) di “risoluzione negoziata” dello stato di crisi dell’impresa (interpretata dal legislatore come uno dei possibili “esiti fisiologici” dell’attività imprenditoriale, non necessariamente indicativo della definitiva compromissione delle ragioni creditorie e, pertanto, suscettibile di superamento attraverso idonei piani di risanamento che favoriscano, per quanto possibile, la conservazione dei valori aziendali, altrimenti destinati ad un inevitabile quanto inutile depauperamento), il cui regime – improntato alla semplificazione delle forme ed alla riduzione dei tempi procedurali – si è coerentemente tradotto nell’opzione per moduli operativi (mutuati da altri ordinamenti)idonei a snellire le procedure esistenti, rafforzando il ruolo propositivo e decisionale delle parti e ridimensionando quello del giudice entro i più ristretti confini di un controllo di legalità “formale e sostanziale” sulle iniziative private. Il riferimento deve intendersi fatto, naturalmente, al “concordato preventivo, anche con prosecuzione dell’attività d’impresa” (artt. 160 ss. e 186bisL. Fall.), agli “accordi di ristrutturazione dei debiti” (art. 182bisL. Fall.), al “piano di riequilibrio e risanamento dell’esposizione debitoria” previsto dall’art 67 comma 3 lett. d) L. Fall.

In estrema sintesi si può affermare che – nel delicato sistema di pesi e contrappesi introdotti dal legislatore per scongiurare il rischio che le iniziative assunte dall’imprenditore ai sensi delle indicate disposizioni normative si risolvano in manovre puramente dilatorie, del tutto inidonee a realizzare non soltanto l’invocato obiettivo di superamento della crisi aziendale ma anche di garantire idonea soddisfazione alle ragioni dei creditori (soggetti peraltro ad incisive limitazioni dei propri diritti per l’intera durata della procedura concordataria, ai sensi dell’art. 168 L. Fall.) – la previsione normativa che affida alla relazione di un esperto (nominato bensì dal debitore, ma nell’ambito di categorie professionali predeterminate e nel rispetto di requisiti formali e sostanziali che valgono a garantirne l’indipendenza) l’attestazione di “veridicità dei dati contabili esposti dal debitore” e di “fattibilità del piano” appare senz’altro il nodo nevralgico dell’intero regime delle procedure in esame, essendo innegabile che attraverso tali istituti si sia inteso estromettere il Giudice da ogni tipo di valutazione di merito (prodromica ad interventi propulsivi/correttivi) sulla convenienza economica dei piani di risanamento proposti (cd. “fattibilità economica”), riservata alle sole parti private, con la conseguenza che l’unica reale garanzia degli interessi di cui è portatore il ceto creditorio (chiamato ad aderire a tali iniziative, in vista della successiva omologazione dell’accordo da parte del Tribunale Fallimentare) è rappresentata dalla correttezza della base conoscitiva offerta dal debitore, garantita per l’appunto alla relazione certificativa di un professionista.

Si coglie agevolmente, su tali basi, l’opportunità dell’intervento interpolatorio dell’art. 67 comma 3 lett. d) L. Fall. operato con D.L. n. 83/2012 al fine di declinare i requisiti di “professionalità” ed “indipendenza” dell’attestatore, esigendosi che si tratti di professionista appartenente alle categorie di cui all’art. 28 lett. a) e b) L. Fall.  (avvocati, dottori commercialisti, ragionieri e ragionieri commercialisti, studi professionali associati ed STP), iscritto all’albo dei revisori dei conti ed indipendente (per tale intendendosi il professionista che non è legato all’impresa e a coloro che hanno interesse all’operazione di risanamento da rapporti di natura personale o professionale tali da comprometterne l’indipendenza di giudizio; in ogni caso, deve essere in possesso dei requisiti previsti dall’articolo 2399 del codice civile e non deve, neanche per il tramite di soggetti con i quali è unito in associazione professionale, avere prestato negli ultimi cinque anni attività di lavoro subordinato o autonomo in favore del debitore ovvero partecipato agli organi di amministrazione o di controllo”).

È opinione pressoché unanime in dottrina e giurisprudenza quella secondo la quale la carenza di tali requisiti soggettivi comporti l’automatica inammissibilità del piano concordatario (a prescindere dal merito) e la responsabilità del professionista che abbia omesso di dichiarare l’esistenza di una causa di ineleggibilità/incompatibilità.

Alla luce dell’indicata ratio di garanzia di un “consenso informato” da parte dei destinatari dei piani di ristrutturazione del debito e risanamento dell’impresa in crisi affidata alla previsione normativa di una relazione stilata da un professionista indipendente che asseveri la “veridicità dei dati aziendali”esposti dal debitore e valuti in termini positivi la “fattibilità del piano”  proposto[12], risulterà agevole cogliere la portata dei principi ermeneutici sanciti da una recente sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (n. 1521/2013) in tema di limiti al sindacato giudiziale sulla proposta di concordato preventivo e, conseguentemente, sulla relazione del professionista.

La possibilità del vaglio giudiziale sulla proposta di concordato è espressamente prevista in tutte le fasi della procedura (ammissione, revoca, omologazione), richiedendosi al giudice di verificare in primis la sussistenza dei presupposti per l’ammissibilità della procedura (ai sensi degli artt. 160 e 161 L. Fall.); successivamente l’insussistenza di condotte fraudolente che giustifichino la revoca dell’ammissione (art. 173 L. Fall.); infine la regolarità della procedura e l’esito della votazione ai fini dell’omologazione (art. 180 L. Fall.). Il ricordato intervento del Supremo Collegio a Sezioni Unite è valso proprio a tracciare le linee interpretative lungo le quali la prassi dei tribunali e delle corti di merito sarà chiamata a muoversi nell’affrontare l’indicata problematica dei limiti al sindacato giurisdizionale sulle proposte di concordato preventivo. In estrema sintesi la Corte di Cassazione, dopo essersi soffermata a lungo sulla ratio dei più recenti interventi di riforma del regime delle procedure concorsuali (ravvisando, da un lato, una decisa volontà di snellimento e semplificazione delle procedure, anche ai fini di un progressivo recupero di efficienza e conseguentemente di una più efficace tutela delle ragioni creditorie; dall’altro lato, il favor legis per istituti finalizzati al risanamento delle imprese e, quindi, alla conservazione dei valori aziendali in luogo della definitiva liquidazione), prendendo atto – conseguentemente – della progressiva retrocessione dei momenti “pubblicisti”, nell’ambito delle procedure concorsuali in esame, rispetto a quelli “negoziali”, perviene alla conclusione che al Giudice compete esclusivamente un controllo di legalità “formale e sostanziale” sulla proposta presentata dal debitore, che implica altresì la verifica sulla cd. “fattibilità giuridica” del piano su cui tale proposta si fonda  (restando esclusa, invece, qualsiasi possibilità di pronunciarsi sul merito di tale piano, inteso come convenienza economica e, quindi, sulla relativa “fattibilità economica”  la cui valutazione è rimessa ai creditori, ai quali è garantita la completezza e correttezza informativa, sia in termini di veridicità dei dati esposti che di concreta realizzabilità del piano attraverso la relazione del professionista attestatore). In altri termini, il Giudice Delegato dovrà e potrà verificare in primis la completezza della documentazione presentata dal ricorrente  (secondo le previsioni di cui all’art. 161 L. Fall.), nonché la “fattibilità giuridica” del piano  (potendo rigettare proposte che si fondino su piani che prevedano modalità attuative e tempi di esecuzione ictu oculi irrealizzabili ovvero inconciliabili con la ratio di regolazione/superamento della crisi aziendale che giustifica la proposta o che contrastino con previsioni di legge inderogabile – si pensi ad un concordato preventivo con cessione dei beni ai creditori nel quale sia prevista la cessione di beni altrui); inoltre, dovendo sincerarsi che la base informativa offerta ai destinatari della proposta sia esaustiva e corretta, potrà e dovrà verificare la correttezza delle argomentazioni svolte e delle motivazioni addotte dal professionista a sostegno del formulato giudizio di fattibilità del piano, come pure la coerenza complessiva delle conclusioni finali prospettate  (si pensi ad esempio ad un giudizio di fattibilità ancorato ad un complesso di dati, la cui sommatoria deponesse viceversa in favore di conclusioni di segno opposto).

Nella misura in cui la relazione del professionista soddisfi tali canoni e sempre che non emergano – quale che siano le conclusioni rassegnate dal medesimo in termini di fattibilità del piano (fatta salva la relativa responsabilità penale) – circostanze di immediato apprezzamento tali da far ritenere il piano ab origine  inidoneo a realizzare la proposta nei tempi e modi prospettati, deve ritenersi che al Giudice sia preclusa qualunque valutazione sulla “praticabilità” della proposta (intesa come convenienza economica per coloro che intendano aderirvi e di assunzione di un rischio “ponderato” sulla misura di effettivo soddisfacimento dei propri interessi che potrà derivarne).

Alla luce dei principi sin qui illustrati ci si può porre il problema dei limiti entro i quali il professionista potrà essere chiamato a rispondere penalmente del proprio operato alla luce della previsione di cui all’art. 236 bis L. Fall. Come detto, la norma attribuisce disvalore penale alla condotta del professionista che “esponga informazioni false” ovvero “ometta informazioni rilevanti” nelle relazioni o attestazioni di cui agli art. 67 comma 3 lett. d), 161, 182 bis ,182 quinquies,186 bisL. fall.

Per quanto concerne la “condotta tipica”, deve ritenersi che la formulazione normativa sia sufficientemente chiara da orientare con serenità l’interprete verso quei contenuti della relazione del professionista ai quali possa riconoscersi la valenza di “dichiarazioni di scienza” e, quindi, ai contenuti informativi, descrittivi, ricognitivi, espositivi di dati acquisiti/accertati autonomamente o rilevati attraverso l’analisi della contabilità aziendale ed i riscontri eseguiti (anche attraverso la documentazione fiscale/negoziale/bancaria di supporto) ai fini del giudizio espresso sia in termini “veridicità dei dati contabili” sia in termini di “fattibilità del piano”. In altri termini deve ritenersi che una responsabilità del professionista potrà profilarsi in tutti i casi in cui si sarà accertato che la base informativa dedotta nella relazione alla quale vanno ancorati i giudizi espressi (con riguardo all’attendibilità dei dati esposti dal debitore ed alla fattibilità del piano) sia stata in qualche modo artefatta mediante allegazione di dati non veritieri (si pensi al lavoro ricostruttivo delle risultanze contabili che il professionista compie, nell’ambito del quale ben potrebbe esporre dati inerenti la consistenza del patrimonio aziendale o delle risorse finanziarie difformi da quelli effettivi; si pensi ancora ai dati forniti in ordine agli esiti delle verifiche fatte per valutare la realizzabilità di crediti esposti; all’attestazione circa la consistenza del capitale, di cui abbia attestato la perdurante sussistenza sebbene risulti totalmente eroso dalle perdite ecc…)

Con riguardo ai contenuti valutativi, invece, deve ritenersi che un’interpretazione del concetto di “informazioni” tale da ricomprendere anche tali aspetti (sulla scorta della considerazione che per “informazione” può intendersi anche la valutazione conclusiva del professionista sia con riguardo alla “veridicità dei dati contabili” sia con riguardo alla “fattibilità del piano”) appare sconfinare nell’interpretazione analogica in malam partem.Qualora non si condividesse questo assunto, ad ogni modo, è chiaro che di “falsità” dei pareri tecnici espressi si potrà parlare – da un lato – nei casi in cui le conclusioni espresse dal consulente risultino del tutto  inconciliabili con gli esiti di una revisione condotta in applicazione dei principi di contabilità generale definiti in sede internazionale (e sempre che i risultati esposti non si giustifichino sulla base dell’applicazione di criteri di rilevazione contabile dei fatti di gestione alternativi e legittimi) e – dall’altro lato – qualora il giudizio di fattibilità del piano (per sua natura caratterizzato da un margine di opinabilità e fallibilità dovuto al carattere obiettivamente aleatorio della materia economica) risulti fondato su un percorso argomentativo illogico o non coerente con le premesse, al punto da risultare intrinsecamente inficiata la bontà delle conclusioni a prescindere dall’incidenza i fattori esterni.

PROFILI DI RESPONSABILITA’ DEL CONSULENTE D’IMPRESA

Considerata la categoria professionale di appartenenza dei presenti e la riconducibilità all’esercizio tipico della professione dello svolgimento di attività di consulenza economico/fiscale/commerciale a favore delle imprese nonché di tenuta ed aggiornamento della contabilità aziendale, appare doveroso concludere il presente intervento con qualche breve osservazione sui limiti alla configurabilità di una responsabilità penale del professionista per i delitti di bancarotta.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione è costante nell’affermare il seguente  principio“Concorre, in qualità di “extraneus” nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale il consulente contabile che, consapevole dei propositi distrattivi dell’amministratore di diritto della società dichiarata fallita, fornisca consigli o suggerimenti sui mezzi giuridici idonei a sottrarre i beni ai creditori e lo assista nella conclusione dei relativi negozi ovvero svolga attività dirette a garantirgli l’impunità o a rafforzarne, con il proprio ausilio e con le proprie assicurazioni, l’intento criminoso. (Nella specie l’imputata, in qualità di ragioniere e fiduciario dell’amministratore di diritto aveva consapevolmente proposto, coltivato e insistito per porre in essere atti depauperatori del patrimonio sociale a danno dei creditori)  [13].

                                                                              Silvia Scamurra

                                             Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Teramo


[1] Il D.L. 22 giugno 2012 n. 83, recante « Misure urgenti per la crescita del Paese », è intervenuto nuovamente sulla L. Fall. In particolare, l’art. 33, rubricato « Revisione della legge fallimentare per favorire la continuità aziendale », ha interpolato svariate norme ed aggiunto nuove disposizioni al RD n. 267/1942 con la finalità – esplicitata nella Relazione Illustrativa del provvedimento (consultabile sul sito internet www.governo.it) – di « migliorare l’efficienza dei procedimenti di composizione delle crisi d’impresa disciplinati dalla legge fallimentare, superando le criticità emerse in sede applicativa e promuovendo l’emersione anticipata della difficoltà di adempimento dell’imprenditore ». Per quanto concerne, più in generale, l’iter legislativo di riforma del diritto fallimentare tra il 2005 e il 2010 (ed i connessi risvolti penalistici) si veda la dettagliata ricostruzione di Amarelli, “I delitti di bancarotta alla luce del nuovo art. 217bis L. Fall.: qualcosa è cambiato?”, in Giust. Pen., 2011, II, 547 ss.

[2] In argomento cfr. Mucciarelli (nt. 5), 825 ss. Sul rapporto sostanzialmente “concentrico” tra il c.d. stato di crisi e la situazione definita, ex art. 5 l. fall., « stato di insolvenza » (sotto-insieme interamente ricompreso nella prima nozione, di portata dunque più ampia) v. Alessandri (nt. 2), 117.

[3]L’art. 33, comma 1 lett. a) n. 1 DL n. 83/2012 ha sostituito la lettera d) del terzo comma dell’art. 67  RD n. 267/1942. La nuova disposizione – sovrapponibile a quella previgente per quanto concerne il contenuto del piano e il beneficio della non revocabilità – mira da un lato a rafforzare i requisiti di indipendenza del professionista attestatore (attraverso il rinvio all’art. 2399 c.c. in tema di ineleggibilità e decadenza dei sindaci e stabilendo che non debbano sussistere conflitti di interesse derivanti da rapporti di natura personale o professionale con il debitore) e, dall’altro, ridisegna l’oggetto dell’attestazione, uniformandone i contenuti alle previsioni di cui all’art. 161 L. Fall. mediante la sostituzione del termine « ragionevolezza » con la locuzione (maggiormente pregnante sul piano oggettivo) « fattibilità del piano » e – soprattutto – prescrivendo che il professionista medesimo « deve attestare la veridicità dei dati aziendali ».

[4] Cass. Sezioni Unite 20 novembre 2012, n. 1521; Cass. 25 ottobre 2010, n. 21860, in Fallimento, 2011, 167 ss., con nota adesiva di Fabiani, Per la chiarezza delle idee su proposta, piano e domanda di concordato preventivo e riflessi sulla fattibilità;Idem “Diritto fallimentare. Un profilo organico” Bologna, 2011, 619 s.; Fauceglia, “Ancora sui poteri del Tribunale nell’omologazione degli accordi di ristrutturazione”, nota a App. Roma, 1º giugno 2010, in Giur. it., 2010, 2345 ss.; da ultimo Lo Cascio (nt. 10), 10. Nella giurisprudenza di legittimità v., altresì, Cass. 14 febbraio 2011, n. 3586, in Fallimento, 2011, 805 ss., con nota di Bottai, Il processo di disintermediazione giudiziaria continua; Cass. 23 giugno 2011, n. 13817, in Fallimento, 2011, 933 ss., con nota di Ambrosini, Il sindacato in itinere sulla fattibilità del piano concordatario nel dialogo tra dottrina e giurisprudenza; Cass., 16 settembre 2011, n. 18987, in Fallimento, 2012, 36 ss., con nota di Patti, La fattibilità del piano nel concordato preventivo tra attestazione dell’esperto e sindacato del tribunale.

[5] L’ipotesi base – contenuta nel primo comma della normade qua – punisce con la reclusione da due a cinque anni (avendo quindi una cornice edittale assimilabile a quella del delitto di « Interesse privato del curatore negli atti del fallimento » ex art. 228 l. fall., per il quale è comminata la pena detentiva compresa tra due e sei anni) e con la multa da cinquantamila a centomila eurol’esposizione di informazioni false ovvero l’omissione di informazioni rilevanti da parte del professionista. La disposizione incriminatrice di nuovo conio prevede poi, quali circostanze aggravanti speciali, il fine di profitto (secondo comma) e l’evento di danno in pregiudizio dei creditori (terzo comma). La Relazione illustrativa chiarisce che la fattispecie di reato in discorso ha la finalità di « saldare i meccanismi di tutela e bilanciare adeguatamente il ruolo centrale riconosciuto al professionista attestatore nell’intero intervento normativo ».

[6] Vediinfra,nota 8.

[7] Non può sottacersi la sostanziale inutilità di tale previsione normativa, non potendosi revocare in dubbio che la funzione esercitata dal Curatore Fallimentare sia una “pubblica funzione”, ai sensi e per gli effetti di cui  all’art. 357 c.p., trattandosi di funzione istituita e regolata da norme di diritto pubblico che disciplinano la procedura – di natura giurisdizionale – di liquidazione del patrimonio di imprese che versino in stato di insolvenza.

[8] Corte Cost. 3 maggio 2000 n. 129;Corte Cost. 18 marzo 1999  n. 69; Corte Cost. 7 dicembre 1994  n. 414.

[9] Cfr. Santoriello, “I reati del Curatore fallimentare”, pag. 171 ss.

[10] Cfr. Santoriello, “I reati del Curatore fallimentare”, pag. 210 ss.

[11] Vedi nota n. 7

[12] relazione che deve essere presentata unitamente al ricorso, al piano ed all’ulteriore documentazione prevista dall’art. 161 L. Fall.:

a)relazione aggiornata sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa;

b)stato analitico ed estimativo delle attività ed elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione;

c)elenco dei titolari dei diritti reali o personali su beni di proprietà o in possesso del debitore;

d)valore dei beni e i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente responsabili

[13] Così Cass. n. 49472/13; Cass. n. 39387/2012; Cass. n. 10742/2008; Cass. n. 569/2004

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