di Alessandra Bellia[1]
Già in tempi non sospetti quando alle persone dicevo che avevo la possibilità di lavorare da casa vedevo comparire un sorriso beffardo sui loro visi, come per dire: va beh, lavori da casa quindi vuol dire che non fai nulla. Come se il lavorare da casa fosse un gioco. Come se lavorare da casa comportasse la possibilità di dedicarsi a cose che, per chi lavorava con orari di ufficio, non era possibile permettersi. E forse, guardando ad oggi con gli occhi del passato, era vero o quantomeno non così infondato.
Poi è arrivato il coronavirus.
Oggi siamo tutti costretti ad un isolamento forzato.
Siamo tutti, almeno i più fortunati, chiusi nelle nostre case. Una clausura che se da un lato ci consente di recuperare agli svariati sensi di colpa con cui noi donne lavoratrici dobbiamo fare i conti quotidianamente, dall’altro ci impone nuove regole e nuove forme di organizzazione.
Eh già!!
Perché lo stare a casa oggi non è più un lusso, ma un dovere sociale che al contempo ci obera di oneri e onori.
L’onore di sentirsi di nuovo madre al cento per cento, con quella agognata presenza costante nella vita dei nostri figli che tante volte abbiamo sentito essere una parte mancante del nostro essere donne e madri, e a cui tante volte abbiamo aspirato e da cui tante volte sentivamo l’esigenza di scappare.
L’onere di sentire sulle nostre spalle il peso di incombenti che fino ad ora avevamo demandato ad altri soggetti, istituzionali e non, come se nulla fosse, nascondendo sotto il tappeto i nostri sensi di colpa e celandoci dietro un velo di senso del dovere, a volte reale a volte frutto di mera demagogia.
Oggi tutto è cambiato.
Oggi siamo fondamentalmente soli ad affrontare tutto.
I nostri doveri sono aumentati, i nostri compiti centuplicati. Dobbiamo svolgere ruoli tra loro confliggenti: siamo madri, magistrati, insegnanti, donne delle pulizie, baby-sitter, e ciò in un tempo in cui delegare è diventato un lusso anche per coloro per cui prima questo lusso era normalità. Ci arrabattiamo tra incombenze da cui il nostro “status” ci aveva elevato, sublimato.
Ci ritroviamo a dividerci tra lavori che un tempo non ci sognavamo minimamente di affrontare, ma che ci sentivamo pienamente legittimati a delegare.
E allora la mattina comincia presto, cercando di recuperare sul lavoro il tempo dedicato ad altro che, seppure necessario, a volte sentiamo come perduto. E la notte finisce sempre più tardi nel tentativo disperato di non restare indietro.
Ci ritroviamo a combattere, quotidianamente, con schede di lavoro per i bambini, problemi di matematica, di analisi logica, geografia, storia, capricci, letti da rifare, biancheria da lavare, lavoro da sbrigare, riunioni quotidiane, decreti da leggere, sentenze da scrivere, problemi da risolvere, norme da interpretare e con la consapevolezza costante di non fare abbastanza.
Con la consapevolezza che per il nostro lavoro di tempo ne resta ben poco, e quel poco deve essere valorizzato al massimo, che le nostre responsabilità sono sempre le stesse, che le persone si aspettano da noi la stessa concentrazione, la stessa determinazione, la stessa preparazione ed efficienza.
Ma alla fine la storia è sempre la stessa, la coperta è sempre quella e dove la tiri tiri, sempre un piedino di fuori resta.
Quel piedino che non ti fa dormire la notte.
A volte è il senso di colpa quando lasci i tuoi figli troppo tempo davanti alla tv o al tablet mentre cerchi di svolgere il tuo RUOLO: depositare sentenze, sciogliere ordinanze o, ancora, riunioni sulle svariate piattaforme con i colleghi per capire come interpretare i vari decreti che si susseguono impietosamente di giorno in giorno, senza lasciare il tempo di riflettere, di capire.
A volte è quel senso di colpa che ti rende nervosa mentre cerchi, improbabilmente (certo non è il tuo ruolo, non sei preparata) di spiegare concetti ai tuoi figli, per te semplici e per loro nuovi e da elaborare, mentre vorresti essere in mezzo ai tuoi fascicoli per fare quello che il senso del dovere ti impone di fare.
Ti senti ad un bivio, in un equilibrio precario, perfettamente consapevole di non potere mollare.
Non adesso.
Ogni giorno è sempre uguale. Costruisci intorno a te una routine per cui combatti con tutte le tue energie, per darti equilibrio, per dare equilibrio.
E alla fine della giornata ti sembra sempre di non avere fatto mai abbastanza, di avere tralasciato qualcosa di importante: che poi alla fine ti domandi “ma cosa è davvero importante?”.
Ai tempi del coronavirus questa, forse, è la domanda che ci poniamo tutti.
E forse la risposta a questa domanda consiste nel compito più difficile: dare un senso di normalità ai nostri figli e alla comunità. Un senso di continuità tra passato e futuro in un tempo di incertezza.
Quella normalità che adesso ci sembra così lontana, così strana, così difficile da raggiungere.
Ma siamo donne, e attraverso i secoli quello che abbiamo capito è che se abbiamo la forza di dare la vita allo stesso tempo possiamo prendercene cura, abbracciando il mondo con le nostre grandi braccia e con il nostro immenso cuore.
Ed è con questa consapevolezza atavica, interiore e, a volte, inconscia, che affrontiamo e affronteremo tutto questo, sapendo che se sbagliamo non succede nulla e che andremo avanti con la stessa pervicacia e la stessa testardaggine che ci ha portato ad essere sempre più presenti nel ruolo della magistratura; segno questo che nulla ci spaventa e nulla ci fermerà. Neanche tu coronavirus!
[1] Alessandra Bellia è giudice delegato ai fallimenti del tribunale di Catania, ha due figli alle scuole elementari, un marito libero professionista, un cane, 600 fallimenti da gestire e un ruolo di sezione specializzata imprese.