Medici ed infermieri al tempo del coronavirus: fra “eroismo” e responsabilità, colpa medica e Covid-19

di Roberto Tanisi in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la Costituzione

SOMMARIO:  – 1. La c.d. “medicina difensiva”. – 2. Le novità Legislative: il Decreto Balduzzi e la Legge Gelli-Bianco: 2.1 Il Decreto Balduzzi; 2.2 Critiche al Decreto Balduzzi; 2.3 La Legge Gelli-Bianco e il nuovo reato di cui all’art. 590-sexies c.p.; 2.4 La Giurisprudenza sull’art. 590-sexies c.p.; 2.5 Critiche alla Sentenza S.U. Mariotti. – 3. Colpa medica e medicina difensiva al cospetto dell’epidemia da Covid-19.

In un interessante articolo apparso giorni fa sul Corriere della Sera – “Il senso mutato delle parole”[1] – Antonio Polito, dopo aver premesso che “le grandi tragedie della storia lasciano sempre dietro di sé neologismi, metafore, cambiamenti di significato delle parole”, a proposito della parola “medico” evidenziava come in questo caso non fosse “cambiato il senso della parola, ma il suo apprezzamento sociale” e ciò in quanto “fino a un giorno prima del Covid-19 i medici venivano abitualmente aggrediti e picchiati nei pronto soccorsi, e perseguitati da cause per risarcimento danni, in una società ormai convinta che la morte non può essere altro che il frutto di un errore umano”, mentre oggi, invece, vengono definiti “eroi”, “angeli in prima linea” e con altre simili espressioni. Vero. In televisione e sui giornali è tutto un fiorire di riconoscimenti ed apprezzamenti verso il personale medico e paramedico, assolutamente giustificati ed ampiamente condivisi, tanto più se si considera l’elevato tributo di vittime che queste categorie hanno pagato – e, probabilmente, continueranno ancora a pagare – all’emergenza coronavirus.

Non tutti, però, sembrano pensarla allo stesso modo. Sullo stesso numero del Corriere, in altra pagina, Luigi  Ferrarella (uno dei più apprezzati cronisti di “giudiziaria”) evidenziava come in Lombardia vi fossero avvocati che, dal proprio sito o dai social media, arringavano (e, credo, lo facciano ancora) “le famiglie dei morti a chiedere le cartelle cliniche, perché poi la prova da responsabilità contrattuale risarcitoria competerà all’azienda sanitaria”, mentre altri legali, via Facebook, chiedevano ai parenti delle vittime di “far pervenire prove di casi specifici di morte per mancata assistenza o altri disservizi”. Sull’altro fronte, non mancavano poi legali che, fingendo sdegno ed esecrazione, vantavano di aver deciso, insieme al loro studio, “di assistere gratuitamente medici ed infermieri che dovessero subire azioni da sciacallaggio giudiziario”.

Tutto ciò ha spinto i Presidenti degli Ordini forensi della Lombardia ad annunciare provvedimenti disciplinari nei confronti dei propri iscritti, stigmatizzando “lo squallido tentativo di recuperare clientela e cercare visibilità, gettando così discredito sull’Avvocatura”. Un intervento, direi, doveroso per porre fine a queste gravissime forme di sciacallaggio forense.

1 – La c.d. “medicina difensiva”.

Quanto riferito da Ferrarella sul Corriere rimanda ad una pratica, diffusa da tempo, negli Stati Uniti d’America.

Qui, a far tempo almeno dalla fine degli anni ’80, esiste la prassi per cui gli studi legali si propongono ai parenti di ricoverati gravi, già dentro gli ospedali, per sollecitare azioni legali, soprattutto civili, per l’ipotesi di eventuale mal practice sanitaria.

Probabilmente il sistema sanitario americano – in cui, diversamente da noi, non esiste una copertura sanitaria universale e l’assistenza è garantita, a chi può permetterselo, da Compagnie di assicurazioni (solitamente restie a risarcire) – stimola, da un lato, una certa “aggressività” giudiziaria dei pazienti e dei loro congiunti, dall’altro favorisce il ricorso dei medici a quella che viene comunemente definita “medicina difensiva”.

Essa, in estrema sintesi, si connota, in positivo, in quelle pratiche che il medico, per cautelarsi preventivamente, adotta facendo ricorso ad un surplus di trattamenti diagnostici e terapeutici molto spesso non necessari, e, in negativo, nel determinare il medico a trascurare determinati pazienti o ad omettere di eseguire interventi ad alto rischio, così da annullare in radice la possibilità che si verifichino sul paziente esiti negativi a lui imputabili, finendo però, in tal modo, con l’impedire al paziente di ricevere il trattamento necessario.

Secondo alcune indagini statistiche svolte negli USA, a determinare la pratica della “medicina difensiva” sarebbe certamente il timore dei medici di essere tratti a giudizio, ma, soprattutto, l’impatto psicologico che ne deriverebbe loro proprio dalla sottoposizione a giudizio, civile o penale che sia. Il che spiega, probabilmente, perché anche in Stati, come il Texas o la Georgia – in cui i medici di Pronto Soccorso sono protetti dalla legge dello Stato, che assume su di sé il danno da malasanità – ugualmente si registra un surplus di interventi diagnostici, quasi pari a quello degli altri Stati.

Il fenomeno della medicina difensiva, nato dunque negli USA, si è ben presto sviluppato in tutto il mondo e ha preso piede anche da noi.

Un’indagine statistica, eseguita in Italia nel 2011, fotografa lo stato d’animo dei medici italiani poco prima dell’entrata in vigore del Decreto Balduzzi (e, in un certo senso, ne spiega la ragione). Secondo questa rilevazione (risalente al 2011, ma valida anche per gli anni successivi), più del 78% teme di essere più a rischio di denuncia penale rispetto al passato e circa il 70% pensa di avere il 30 % di probabilità di esserlo; complessivamente il 65% si ritiene sotto pressione nella pratica clinica quotidiana, pur se l’85% dei medici dichiara di attenersi a linee-guida, protocolli, buone pratiche.

Altri fattori incidenti sulla medicina difensiva – emersi da tale indagine –  sono, poi, oltre al rischio di contenzioso civile e penale, la compromissione della propria carriera ed il clamore mediatico.

Inoltre il 77% dei medici ritiene che le norme che disciplinano la responsabilità professionale siano inadeguate e si ripercuotano negativamente sulla qualità delle cure e sul rapporto col paziente, mentre, dal punto di vista economico, ossia dei costi per il sistema sanitario, l’indagine ha stimato in un aumento del 10,5% il surplus di spesa sanitaria che ne deriva, dovuto essenzialmente alla medicina difensiva positiva.

Va detto, peraltro, che anche in Italia queste preoccupazioni dei medici sembrano essere essenzialmente frutto del disagio psicologico dei sanitari, correlato alla aggressività dei pazienti e all’elevato numero di denunce che vengono sporte nei loro confronti, piuttosto che ad un effettivo dilagare di condanne in sede penale.

Così, per esempio, da una verifica effettuata presso il Tribunale di Lecce nell’ultimo triennio, la percentuale di assoluzioni – che normalmente in Italia si aggira sul 25-30%, con punte del 40-50% in taluni uffici giudiziari – nel settore delle colpe mediche a Lecce è vicina al 90%. Analoga la percentuale di archiviazioni o di proscioglimenti prima del giudizio. Il fenomeno non è solo leccese. Nel corso di un Convegno in materia di colpa medica, tenutosi a Milano lo scorso febbraio ed al quale ho avuto la fortuna di partecipare[2], ho avuto modo di appurare come presso il Tribunale milanese la situazione sia, grosso modo, similare.

2 – Le novità Legislative: il Decreto Balduzzi e la Legge Gelli-Bianco

Tuttavia, il malessere della classe medica, il fenomeno, comunque esistente, della medicina difensiva e l’esigenza, probabilmente, di una più puntuale definizione della responsabilità medica hanno portato, nel giro di pochi anni, a due importanti interventi normativi: il c.d. decreto Balduzzi e la legge Gelli-Bianco.

2.1 – Il Decreto Balduzzi

Il primo, com’è noto, ha parzialmente decriminalizzato i reati di cui agli artt. 589 e 590 c.p., posti in essere da esercenti la professione sanitaria, escludendo la rilevanza penale di condotte connotate da culpa levis, che si collochino nell’ambito di linee-guida e buone pratiche scientificamente accreditate.

L’idea di fondo della legge era quella di limitare la responsabilità sul piano della legalità, da un lato provando a standardizzare l’attività del medico attraverso linee-guida o buone pratiche, dall’altro – e soprattutto – a limitare la discrezionalità del giudice. Sotto quest’ultimo profilo quello che si lamentava era il fatto che pur dovendo il giudizio sulla colpa essere contestualizzato al momento della condotta (con valutazione, dunque, necessariamente ex ante), di fatto esso veniva realizzato ex post, con la conseguenza che spesso il giudice era portato a reputare come pretendibile un comportamento diverso da quello effettivamente tenuto dal medico (una valutazione col senno di poi, potremmo dire). Con la riforma Balduzzi la limitazione di responsabilità avveniva, nelle intenzioni del Legislatore, attribuendo appunto rilevanza alle linee guida e, sul piano della colpevolezza, recuperando la graduazione delle colpe ed escludendo la responsabilità in caso di colpa lieve.

Sotto tale profilo, non mi pare che la legge abbia rivestito i caratteri di “rivoluzione copernicana” che qualcuno, forse troppo frettolosamente, le ha attribuito. Difatti, se si va a guardare la giurisprudenza del secolo scorso, ci si accorge che essa, in prevalenza, almeno fino agli inizi degli anni ottanta, era portata a ravvisare colpa solo nell’ipotesi di “errore inescusabile”, facendo applicazione dei principi contenuti nell’art. 2236 c.c., per prestazioni implicanti la soluzione di problemi tecnici di “particolare complessità”[3]. In realtà non si faceva ricorso ad una espressa e specifica graduazione della colpa (salvo che per la quantificazione della pena), ma il riferimento all’art. 2236 c.c. nella sostanza andava in questa direzione.

Questa impostazione ricevette, in parte, anche l’imprimatur della Corte Costituzionale[4], la quale affermò che “solo la colpa grave e cioè quella derivante da errore inescusabile, dalla ignoranza dei principi elementari attinenti all’esercizio di una determinata professione [può] rilevare ai fini della responsabilità penale”, precisando, tuttavia, che tale orientamento aveva senso solo se riferito all’imperizia, non anche alla negligenza o all’imprudenza.

Siamo, tuttavia, in un periodo in cui si registrava un affidamento quasi  “fideistico” del paziente al medico, alla scienza non veniva attribuita un’efficacia onnipotente e si pensava ancora che si potesse anche morire per… cause naturali.

Le cose cambiano – e di molto – a cavallo fra gli anni ottanta e novanta (parallelamente a quanto andava accadendo negli USA), allorquando la giurisprudenza, disattendendo le indicazioni contenute nella Sentenza del 1973 della Corte Costituzionale, accantona l’art. 2236 c.c., ritenendo che la sua applicazione anche in campo penale determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra la categoria dei medici ed altri soggetti[5].

La giurisprudenza degli anni ottanta-novanta ritiene che l’accertamento della colpa professionale del medico, “pur valutato con larghezza e comprensione per la peculiarità dell’esercizio dell’arte medica e per la difficoltà di casi particolari”, debba avvenire pur sempre “nell’ambito dei criteri dettati dall’art. 43 c.p.”. La notevole diffusione delle conoscenze – ritengono i giudici – non può far mandare esente da responsabilità chi non le utilizza al meglio.

Ancor più rigorosa, poi, la giurisprudenza sul nesso di causalità prima della Sentenza Franzese, la quale – penso a Cass. 12.5.83 Melis – ritiene sussistere il nesso causale fra condotta colposa ed evento tutte le volte in cui l’intervento medico omesso o correttamente eseguito avrebbe avuto “serie ed apprezzabili possibilità” di raggiungere lo scopo, possibilità che Cass. 12.7.91 Silvestri limita addirittura al 30%.

La sentenza S.U. Franzese (pur criticata) ha, poi, fermato quella che era una vera e proprio deriva.

Ma, tornando alla colpa, si è evidenziato come entrambi gli indirizzi giurisprudenziali sopra citati presentassero degli inconvenienti

Ritenere, infatti, pienamente applicabile l’art. 2236 c.c. significa introdurre, in ambito penale, criteri estranei al sistema, non essendo ammessa la graduazione della colpa se non con riferimento all’ipotesi, del tutto particolare, di colpa cosciente e all’art. 133 c.p.

Per altro verso il riferimento puro e semplice all’art. 43 c.p. limita fortemente l’opera del giudice nell’attagliare la responsabilità penale al caso concreto e rende totalmente diverso l’accertamento della responsabilità del medico in ambito penale, più severo, rispetto all’ambito civile, in contrasto col principio di unitarietà dell’ordinamento giuridico (proprio tale severità aveva spinto la giurisprudenza d’antan a fare riferimento all’art. 2236 c.c.).

Da qui le limitazioni contenute nell’art. 3 della legge n. 189/12 (Legge Balduzzi) che, tuttavia, hanno suscitato – esse pure – non poche perplessità.

2.2. – Critiche al Decreto Balduzzi

C’è stato, infatti, chi vi ha ravvisato una intrinseca contraddizione già nel fatto che un terapeuta che segua delle linee-guida possa, poi, essere in colpa. Si è osservato, infatti, che le “linee guida” sono “un percorso diagnostico terapeutico ideale, suggerito dalla migliore scienza ed esperienza di un dato contesto storico da società scientifiche di prestigio internazionale”. Esse sono redatte da organismi affidabili in grado di dare una lettura critica alla complessità delle informazioni scientifiche, ma non hanno – in base all’orientamento sinora prevalente in dottrina ed anche in certa giurisprudenza – una reale efficacia vincolante o prescrittiva, dovendo necessariamente essere integrate dalle caratteristiche peculiari e irripetibili del caso concreto.

Peraltro va detto che nell’esperienza statunitense, per una maliziosa eterogenesi dei fini, le guidelines hanno perseguito principalmente l’obiettivo di risparmiare sulle cure mediche e di prevenire contenziosi legali, più che quello di migliorare la salute e la qualità della vita del paziente. In particolare una delle perplessità più consistenti sulle guidelines riguarda da sempre proprio le loro reali finalità, essendosi da taluno sostenuto che il loro scopo principale sarebbe soprattutto quello di economizzare la spesa sanitaria corrente, “contenendo” ad es. i tempi di degenza secondo criteri standard non sempre compatibili con le reali condizioni del paziente.

Ad ogni buon conto, il problema della possibile contraddizione tra linee-guida e colpa viene superato dalla giurisprudenza osservandosi che può esservi colpa anche in presenza di linee-guida, non potendosi il medico considerare come un automa, attesa la possibilità che oltre alle linee guida vi siano anche altre regole cautelari da considerare, senza contare il caso della colpa nella fase non selettiva ma esecutiva dell’intervento medico. Altri, infine, hanno evidenziato l’eccessiva indeterminatezza della colpa lieve.

Ovviamente l’entrata in vigore della legge ha avuto un’eco immediata nella giurisprudenza, la quale, in modo assolutamente maggioritario, coerentemente col dettato normativo (e con la già citata Sentenza della Corte Costituzionale del 1973), ha limitato l’esenzione da responsabilità alla sola ipotesi della imperizia, escludendo che la culpa levis possa aver rilievo anche rispetto agli altri profili della colpa (imprudenza e negligenza) [6], “essendo concettualmente da escludere che linee-guida e buone prassi possano in qualche modo prendere in considerazione condotte imprudenti e negligenti”.

Tuttavia, non sono mancate pronunce[7] che, attenendosi alla lettera della legge, hanno ritenuto che l’art. 3 del Decreto Balduzzi, se pure trova il suo terreno d’elezione nell’ambito della colpa da imperizia, può trovare ugualmente applicazione con riferimento al parametro della diligenza le volte in cui siano richieste prestazioni che riguardino più la sfera dell’accuratezza dei compiti, che quella dell’adeguatezza professionale.

Non è mancato, infine, chi, in dottrina, ha rilevato come l’aver messo insieme esigenze di standardizzazione e colpevolezza abbia finito col creare una sorta di corto circuito, posto che l’attività medica necessita sempre di un costante adeguamento della condotta al caso concreto (non esistono “malattie” – si è detto – ma “malati”) ed un eccessivo irrigidimento rispetto a regole predefinite, avulse dal caso concreto, può risultare addirittura “criminogeno”[8].

2.3 – La Legge Gelli-Bianco e il nuovo reato di cui all’art. 590-sexies c.p.

Ce n’era abbastanza per ritenere insoddisfacente l’intervento del Decreto Balduzzi, per cui alle problematiche sopra sommariamente evidenziate, si è pensato di ovviare con l’introduzione di una nuova figura di reato, quelle di cui all’art. 590-sexies c.p. [9], contenuto nella legge Gelli-Bianco.

La più rilevante novità del nuovo testo di legge è quella della eliminazione del grado della colpa, riferita però, con chiarezza, al solo ambito dell’imperizia; inoltre si è precisato che le linee guida debbono essere “definite e pubblicate ai sensi di legge” e che le raccomandazioni da queste previste debba essere “adeguate alle specificità del caso concreto” (il che, se vogliamo, costituisce evidente riprova della estrema difficoltà di incasellare l’attività medica entro standard prefissati).

Sin da subito, i primi commentatori hanno posto in rilievo alcuni difetti della nuova legge:

  • quello delle linee-guida e delle buone prassi, che rischia – come già evidenziato – di irreggimentare la professione sanitaria e di mortificare le specificità professionali del singolo medico o di deresponsabilizzarlo (personalmente credo che sia ben difficile elidere l’autonomia del medico);
  • il problema della scelta fra le più “comode” e tranquillizzanti linee-guida codificate ed un percorso diagnostico e curativo differente, di cui il sanitario sia fermamente convinto e che magari trovi conforto in prassi non codificate e ancora sperimentali, di cui, però, la comunità scientifica abbia contezza (si pensi, per esempio, alla diversità di approcci terapeutici sperimentati dai vari presidi ospedalieri nel corso della pandemia in atto);
  • il fatto che, nonostante tutto, resti l’ampia discrezionalità del giudice (lo si è visto dalle prime sentenze delle Sezioni semplici) nella valutazione della condotta del sanitario, che non può – essa pure – essere incasellata dentro linee-guida, dovendo pur sempre il giudice valutare liberamente se le circostanze concrete esigessero una condotta diversa da quella prescritta dalle linee-guida.

In altri termini, sotto il profilo strettamente dommatico, non pare che la legge abbia raggiunto quello che era il suo obbiettivo: arginare la medicina difensiva e porre un limite agli spazi di censurabilità penale del comportamento del medico. È apprezzabile, invece, che si sia limitata alla sola imperizia l’esenzione da punibilità.

Le perplessità testé evidenziate hanno trovato immediato riscontro nella giurisprudenza.

2.4 – La Giurisprudenza sull’art. 590-sexies c.p.

La prima sentenza della Sezione quarta[10], nota come Sentenza Tarabori, dopo aver rilevato che l’art. 590-sexies contiene tratti di “ovvietà” (non comprendendosi come possa “essere chiamato a rispondere di un evento lesivo” per colpa l’autore che abbia “rispettato tutte le raccomandazioni espresse da linee-guida qualificate … in concreto attualizzate in un modo che risulti adeguato in rapporto alle contingenze del caso concreto”), evidenzia come seguendo un’interpretazione letterale si giungerebbe a risultati non conformi sul piano costituzionale. E ciò perché una siffatta interpretazione porterebbe ad escludere la punibilità del sanitario che, pur avendo cagionato un evento lesivo a causa di un comportamento rimproverabile per imperizia, “in qualche momento della relazione terapeutica abbia comunque fatto applicazione di direttive qualificate” (come nel caso di un chirurgo che “esegua correttamente, secondo le linee-guida accreditate, l’asportazione di una neoplasia e tuttavia per un errore esecutivo, invece di recidere il peduncolo di una neoformazione, tagli un’arteria”). Se così fosse, la norma si porrebbe in insanabile contrasto con la Costituzione, in particolare con l’art. 32, e risulterebbe priva di riscontri in altre esperienze internazionali. La Corte individua, quindi, una lettura alternativa della norma, la quale riconosce al medico, tenuto ad attenersi a linee-guida e raccomandazioni, niente più che la sola “pretesa a vedere giudicato il proprio operato” alla stregua di tali direttive, previo vaglio di adeguatezza, “non assumendo rilievo, ai fini della punibilità, condotte mediche che, sebbene poste in essere nell’ambito di relazione terapeutica governata da linee-guida pertinenti ed appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo”, come nel caso di errore per imperizia nella fase esecutiva. Da qui la conclusione, sotto il profilo della legge mitior, che fra le due leggi, la Balduzzi e la Gelli-Bianco, quella più favorevole sarebbe la Balduzzi, quantomeno per la limitazione di responsabilità ai soli casi di colpa grave.

Una interpretazione, quella data dalla Sentenza Tarabori, quasi abrogatrice della norma.

Al contrario, altra sentenza della medesima Sezione quarta[11] (Sentenza Cavazza), valorizzando il dato letterale della norma evidenzia come la nuova disciplina, diversamente dalla Balduzzi, non attribuisca più alcun rilievo al grado della colpa ed individui proprio nell’imperita applicazione di linee-guida adeguate e pertinenti l’applicazione della causa di non punibilità, residuando una ipotesi di colpa per imperizia solo nel momento selettivo delle linee-guida rispetto al caso concreto (imperizia in eligendo).

In altri termini, il sanitario solo se scegliesse di operare con riferimento a linee-guida inadeguate e non pertinenti rispetto al caso concreto potrebbe rispondere per colpa da imperizia, laddove, invece, in presenza di una corretta selezione del quadro tecnico sanitario rispetto al caso concreto, non si darebbe colpa per imperizia neppure a fronte di una errata esecuzione dell’intervento, operando la causa di esclusione della punibilità, riferita dalla norma all’imperizia tout court.

Questa antitesi interpretativa (peraltro insorta nell’ambito della medesima sezione) ha portato all’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite[12].

Premesso che la questione sottoposta alle S. U. è quella di delineare “l’ambito applicativo della previsione di non punibilità, prevista dall’art. 590-sexies c.p., in tema di responsabilità del medico per omicidio o lesioni colpose”, la Sentenza Mariotti muove da un inquadramento sistematico della nuova disposizione “nell’ottica di una migliore definizione della colpa medica”.

Sotto tale profilo, il primo punto fermo è quello delle linee-guida, rispetto alle quali la Sentenza non si discosta da quanto statuito dalle Sezioni semplici, evidenziando che esse costituiscono un “condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche” valido sia per l’operatore sanitario – che viene posto in condizioni di assumere “in modo più efficiente ed appropriato” le proprie determinazioni professionali – sia per lo stesso giudizio penale, costituendo esse “indici cautelari di parametrazione” atti a meglio determinare le fattispecie colpose previste dalla norma.

Passando, poi, ad esaminare i punti di contrasto delle due sentenze della IV sezione, le S. U., muovendo dall’art. 12 delle preleggi sui canoni di interpretazione, opera una sottile distinzione e rileva come il divieto ricavabile da tale disposizione sia quello di andare “contro” il significato proprio delle espressioni usate nel testo di legge, non già quello di andare “oltre” la letteralità del testo, soprattutto allorquando l’opzione ermeneutica costituisca lo sforzo per pervenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata della norma, coerentemente a quello che è anche il costante indirizzo della Corte Costituzionale.

Dopo aver criticato entrambe le sentenze messe dalla quarta Sezione (la Tarabori per avere sostanzialmente sterilizzato la causa di non punibilità prevista dalla norma e la Sentenza Cavazza per avere, al contrario, propugnato un’interpretazione impropriamente lata, di fatto abrogatrice della fattispecie di colpa per imperizia), le Sezioni Unite provano a delineare l’ambito di applicabilità del nuovo art. 590-sexies c.p.

Premesso che il presupposto applicativo della norma è costituito dall’avere il sanitario cagionato per imperizia un evento lesivo o morte ed esclusa la non punibilità con riferimento al momento selettivo delle linee-guida, avuto riguardo al tenore inequivoco della norma, la Sentenza focalizza l’attenzione esclusivamente sulla fase attuativa, evidenziando, tuttavia l’esigenza di “individuare opportuni temperamenti che valgano a non esporre la conclusione a dubbi o censure sul piano della legittimità costituzionale, per irragionevolezza o contrasto con altri principi del medesimo rango”.

Da qui la necessità, per le S.U., di “circoscrivere un ambito o, se si vuole, un grado della colpa” che, per la sua limitata entità, si renda compatibile con l’attestazione che il sanitario, in tal modo colpevole, sia tributario dell’esenzione di pena per aver rispettato linee-guida e buone pratiche. Tale ambito è, ancora una volta, quello della colpa lieve, che figurava nel Decreto Balduzzi e che, pur non essendo stato riproposto dalla legge Gelli-Bianco, ad essa è tuttavia sotteso in quanto intrinseco “alla formulazione del nuovo precetto”.

Tale soluzione viene ancorata ad una serie di argomenti, fra i quali anche il negletto disposto di cui all’art. 2236 c.c., l’elaborazione giurisprudenziale sulla graduazione della colpa, la necessità di ridurre la discrezionalità del giudice.

Una sorta di “eterno ritorno”, verrebbe da dire.

Tirando le fila di tutto il discorso sviluppato dalle S. U. sulla colpa medica può dirsi che:

  1. Il sanitario risponde a titolo di colpa (anche lieve) se l’evento deriva da negligenza o imprudenza;
  2. Se l’evento deriva invece da imperizia, il sanitario ne risponde, anche per colpa lieve quando il caso non è regolato da linee-guida o buone pratiche clinico assistenziali, ovvero, in presenza di esse, con riferimento al momento selettivo, se la scelta non è adeguata al caso concreto;
  3. Se l’evento deriva da imperizia nella fase esecutiva di linee-guida corrette ed adeguate, il sanitario risponde solo a titolo di colpa grave, mentre non è punibile in caso di colpa lieve.

Quanto al problema dell’applicabilità della legge più favorevole al reo, per i fatti commessi prima dell’entrata in vigore della Gelli-Bianco, le S.U. ritengono, ancora una volta, più favorevole il Decreto Balduzzi, il quale non prevedeva la punibilità della colpa lieve anche per le ipotesi di negligenza ed imprudenza, come pure per quanto riguarda l’imperizia lieve ricadente sul momento selettivo delle linee-guida.

2.5 – Critiche alla Sentenza S.U. Mariotti

Pur essendo la Sentenza Mariotti un provvedimento di grande spessore (un giurista ha parlato di vera e propria “ortopedia ermeneutica[13]), che mira, oltre che a comporre il contrasto giurisprudenziale che si era determinato, a fissare una interpretazione dell’art. 590-sexies che limiti i guasti della medicina difensiva e, al contempo, sia rispettosa dei beni della vita e della salute dei cittadini, di rilevanza costituzionale, non sono mancate notazioni critiche.

La prima è quella di avere la Cassazione, col ricorso all’interpretazione costituzionalmente orientata, forzato il dato normativo, introducendovi una graduazione della colpa che la norma non conteneva, limitando la non punibilità che, stando alla lettera della legge, sarebbe stata più estesa.

È vero che si tratta di una pronuncia di legittimità e per giunta delle Sezioni Unite, dall’evidente rilievo nomofilattico (ma siamo pur sempre in un sistema di civil law), tuttavia – come è stato rilevato – qui si rileva una “fortissima tensione con la legalità”, nel momento in cui si torna ad attribuire un ruolo ermeneutico alle graduazioni della colpa. In altri termini: può una interpretazione costituzionalmente orientata spingersi fino al punto da introdurre in una disposizione di legge, sia pure sospettata di incostituzionalità, un elemento nuovo – la graduazione della colpa e la previsione di non punibilità limitata alla sola colpa lieve da imperizia – peraltro non presente nel nostro sistema penale? Qui l’idea di una giurisprudenza “creativa” pare davvero molto concreta[14].

Seconda nota critica. Quale rilevanza può avere, in concreto, la limitazione di responsabilità alla sola colpa lieve da imperizia? Molto marginale, io credo. In un sistema in cui rivestono un ruolo rilevantissimo le linee-guida codificate e le buone pratiche mediche, l’errore del medico nella sola fase esecutiva che sia frutto di colpa lieve sarà rara avis, laddove, invece, proprio nella fase della scelta, in presenza di diverse modalità operative frutto di diverse scuole di pensiero, potrà essere più facile incappare nella colpa lieve che, in tal caso, secondo la pronuncia delle S.U. non dovrebbe avere alcuna capacità scriminante. Probabilmente, a fronte di un chiaro dettato normativo, pesantemente interpolato dalla Corte, questa distinzione fra momento selettivo e momento attuativo avrebbe potuto essere evitata, anche perché non credo sia semplice per il giudice trarre agevolmente la regola di giudizio.

Di ciò si ha chiara conferma leggendo alcune sentenze successive alle Sezioni Unite Mariotti. Sarà stato un caso, ma erano tutte sentenze di annullamento di precedenti condanne: il che vale a confermare quanto evidenziato in precedenza a proposito delle percentuali di condanna rilevate presso i Tribunali di Lecce e di Milano.

A parte ciò, permangono tuttora tutta una serie di difficoltà:

  1. Ad individuare, anzitutto, con correttezza il profilo di colpa, attesa la differenza, oggi importante, fra colpa per imperizia e colpa per imprudenza o negligenza, differenza che non sempre è così così netta;[15]
  2. A conoscere ed individuare le linee guida corrette rispetto al caso di specie;
  3. a ricorrere ad una graduazione della colpa nei termini di cui all’art. 2236 c.c. (estranea all’ambito penale), quale regola di esperienza cui attenersi per valutare l’imperizia e pervenire poi all’affermazione di responsabilità.

Con specifico riferimento al ruolo di questa disposizione civilistica nel processo penale richiamo il recente scritto di una brillante giurista[16], la quale, probabilmente non a torto dal punto di vista dommatico, ha ritenuto che il richiamo dell’art. 2236 c.c. quale massima di esperienza cui ancorare la valutazione della condotta del sanitario, non può essere limitata alla sola fase esecutiva (secondo il disposto di cui all’art. 590-sexies c.p.), ma deve investire anche il momento selettivo, della individuazione delle linee-guida, posto che i problemi particolarmente complessi, richiamati dalla norma del codice civile si rinvengono anche – se non soprattutto – proprio nel momento delle scelte cliniche cui prestare adesione; laddove la minimizzazione di tale norma, operata dalla sentenza Mariotti, si porrebbe anche in contrasto con una remota Sentenza della Corte Costituzionale (la n. 166/73, precedentemente richiamata). Peraltro, la conclusione cui perviene questa studiosa è quella di mettere da parte la graduazione della colpa, perché priva di solide basi scientifiche e perché presenta ampi margini di discrezionalità, in favore di un ritornoal concetto di colpa quale delineato dall’art. 43 c.p., senza intromissione di corpi estranei come l’art. 2236 c.c., ma considerando comunque la specificità dell’attività medica e dando rilievo soprattutto alla dimensione soggettiva della colpa, con una lettura dell’art. 590-sexies nel senso, in parte delineato dalla Sentenza Tarabori, che tale norma non indicherebbe una causa di esclusione della punibilità, ma “della tipicità colposa per inesigibilità del comportamento dovuto, cioè per soggettiva impossibilità del medico di uniformarsi al precetto”. E ciò varrebbe tanto per l’imperizia nella fase esecutiva, quanto per quella nella fase selettiva.

Una siffatta interpretazione non si sottrae, però, ad altra censura, che investe, in generale le figure delittuose dei delitti colposi quali delineatesi negli ultimi anni, essendo incontestabile che, stando anche all’evoluzione legislativa in materia, sembra più non esistere “la colpa” tout court, posto che l’interprete è costretto a confrontarsi con un pluralismo di “colpe”, col rischio di andare incontro ad una vera e propria frammentazione concettuale. L’art. 590-sexies delinea, infatti, una nuova specie di omicidio colposo commesso dal medico, ma non va dimenticato che tale opzione legislativa è coerente con la frammentazione tipologica realizzata già nel 2016 con l’omicidio stradale. Si tratta, in entrambi i casi, di diversificazioni che se in astratto ambiscono a soddisfare esigenze di ragionevolezza, così da essere più esattamente calibrate sul disvalore oggettivo del fatto, dall’altro non si sottraggono all’accusa di essere scarsamente coerenti con l’art. 3 della Costituzione.

3 – Colpa medica e medicina difensiva al cospetto dell’epidemia da Covid-19

A fronte di tutto ciò l’emergenza indotta dall’epidemia da Covid-19 pare abbia cambiato – e di molto – le carte in tavola e messo da parte, almeno per il momento, l’idea stessa di medicina difensiva.

Come evidenziato dal giornalista Polito – e come è sotto gli occhi di tutti – il personale medico e paramedico, investito dal flagello Covid-19, si è speso con grande generosità, senso del dovere ed enorme spirito di sacrificio per fronteggiare al meglio la pandemia. Le immagini di medici ed infermieri esausti, crollati su un tavolino o una branda sotto il peso della stanchezza, hanno fatto il giro del mondo. Si sono trovati improvvisamente a combattere contro un nuovo “mostro” e lo hanno fatto senza riserve mentali e con determinazione assoluta, pagando anche un rilevante contributo in termini di vite umane. Da qui il mutato atteggiamento dell’opinione pubblica.

Ovviamente nulla esclude che, passata la tempesta, possa scatenarsi, anche contro medici e paramedici, un ridda di azioni giudiziarie, civili e penali, come l’articolo di Ferrarella lascia temere. Risulta che si siano già costituiti gruppi social dal nome quanto mai significativo “Noi denunceremo” e, insieme a questi, anche dei Comitati di parenti delle vittime – soprattutto quelle ricoverate nelle RSA – che intendono proporre delle class action per le vittime del Covid 19 (anche se è stato precisato che tali azioni non sarebbero dirette conto il personale medico e paramedico – considerato “vittima”, al pari dei defunti – quanto contro le strutture, le aziende sanitarie, le Regioni e persino lo Stato), a causa delle gravi mancanze rilevate sul piano della prevenzione e dell’organizzazione.

È evidente, in ogni caso, che un evento di così grande portata e rilevanza, come una pandemia, si trascinerà dietro un lievitare di indagini e processi, essendo necessario far luce su quanto è accaduto, potendosi ravvisare ipotesi di reato come l’omicidio colposo, l’epidemia colposa, l’abbandono di incapaci, ecc.

Qualcuno ha proposto, perciò, la previsione di uno “scudo penale” per proteggere i medici, soprattutto quelli privi di specifiche specializzazioni, da eventuali azioni civili o penali. Tuttavia le proposte di legge fino ad oggi presentante, per un verso, sembrano incidere, in maniera piuttosto confusa, sul requisito della colpa medica, quale oggi vigente anche nel diritto vivente della Cassazione, rendendo ancor più nebulosa l’attuale normativa, per altro verso – e più gravemente – insieme con la protezione dei medici, sembrano puntare (grazie ad alcuni emendamenti) soprattutto alla previsione di uno scudo penale per i dirigenti delle aziende sanitarie e delle Regioni, così impedendo perfino agli stessi medici e paramedici di contestare eventuali inadempienze delle strutture, per esempio in materia di sicurezza sul lavoro.

Proposte di molto dubbia costituzionalità, contro le quali i primi ad insorgere sono stati proprio i medici, sicché, almeno sino ad oggi, non se ne è fatto niente.

Personalmente, per tutelare i medici, ritengo non ci sia bisogno di normative ad hoc, del tipo “scudo penale”, essendo sufficiente una ragionevole ed equilibrata lettura delle disposizioni vigenti, nonostante la difficoltà di applicazione della legge Gelli-Bianco, stante l’assenza di linee-guida per combattere il Covid-19 (tanto è vero che si fatto ricorso alle “buone prassi” già utilizzate su scala mondiale in occasione di altre epidemie). Il riferimento che ai magistrati toccherà di fare sarà allora quello dei criteri tradizionali della colpa generica, quale delineata dall’art. 43 c.p. In particolare, da un lato, non potrà non tenersi in grande considerazione la specificità dell’attività medica e darsi rilievo precipuamente alla dimensione soggettiva della colpa, tale da escludere la punibilità per inesigibilità della condotta, avuto riguardo alla condizione in cui medici e paramedici sono stato chiamati ad operare, dall’altro, in seconda battuta, considerare l’applicabilità dell’art. 54 c.p. o di altra scriminante, così da evitare che “una colpa senza regole finisca con lo sconfinare nello schema del capro espiatorio”[17].

Quando si discute di colpa medica si ha sempre a che fare con una materia particolarmente difficile, complessa e, per certi versi, malmostosa (anche per il giudice) sicché pare utile richiamare, a mo’ di conclusione, il pensiero di un illustre psichiatra, l’ungherese (naturalizzato statunitense), Thomas Stephen Szasz: “In origine, quando la religione era forte e la scienza era debole, gli uomini confondevano la magia con la medicina; ora che la scienza è forte e la religione debole, gli uomini confondono la medicina con la magia”.

Salvo riscoprire, forse, all’esito della più grande tragedia che ha colpito il mondo dopo il secondo conflitto mondiale, che la medicina esiste, è una scienza e non magia, e a praticarla sono, con tutti i limiti derivanti dalla loro natura, sempre e solo gli uomini.

*Sintesi aggiornata degli interventi ai Convegni di Lecce – “Responsabilità medica e problemi aperti” (17-18.5.2019) – e Milano –“Il macrodanno alla persona” (14.2.2020), organizzati da Università UNIMEIER


[1] Antonio Polito – Corriere della Sera del 31.3.2020

[2] “Il macrodanno alla persona”, organizzato da UNIMEIER – Aula magna della Corte d’Appello di Milano, 14.2.2020

[3] Trib MI 31.5.66; Cass. 6.3.67, Izzo; Cass. 17.7.68, De Gennaro

[4] Sentenza 22.11.1973, n. 166

[5] Cass., 18 dicembre 1989, in Riv. pen., 1991, 565; 

[6] Cass. 20.3.15, Rota

[7] Cass. 8.7.14, Anelli; Cass. 9.10.14 Stefanetti

[8] Roberto Bartoli in DPC n. 5/18

[9] Art. 590-sexies, comma 2°: “Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite pubblicate ai sensi di legge, ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali; sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”

[10] Cass. 20.4.17 ric. Tarabori

[11] Cass. 19.10.17, Cavazza

[12] Cass. S.U. 21.12.17 (dep. 22.2.18) Mariotti

[13] L. Risicato – Lo statuto differenziato della colpa medica nell’ambito della colpa penale . In Cass. pen. 2019

[14] Sulla giurisprudenza creativa e sull’eccesso di interpretazioni costituzionalmente orientate si veda G. Di Cagno “La giustizia, la politica e noi” ediz.Cacucci

[15] Si veda Cass. n. 24384/18 in cui la Cassazione ha ritenuto imperita una condotta che i giudici di merito avevano qualificato come imprudente

[16] Antonella Merli – Brevi note sul ruolo dell’art. 2236 c.c. nel settore della responsabilità penale colposa degli operatori sanitari e sul rapporto con il nuovo art. 590-sexies c.p. in Cass. Pen. fasc. 11/19

[17] F. Palazzo “Pandemia e responsabilità colposa” in Sistema penale 26.4.20

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