Misure prevenzione e Corte cost. 2019: compatibilità con i principi CEDU

di Sergio Beltrami

[CLASSIFICAZIONE]

MISURE DI PREVENZIONE PERSONALI E PATRIMONIALI

IL SISTEMA DI PREVENZIONE ITALIANO AL VAGLIO DELLA CORTE COSTITUZIONALE DOPO LA SENTENZA DELLA CORTE EDU, CASO DE TOMMASO C. ITALIA

[RIFERIMENTI NORMATIVI]

Costituzione, artt. 13 e 117;

Convenzione EDU, art. 7;

Convenzione EDU, Prot. add. 4, art. 2;

Codice di procedura penale,artt. 129 e 673;

Legge n. 87 del 1953,art. 30;

Leggen. 1423 del 1956, art. 1

Legge n. 152 del 1975, art. 19

D. lgs. n. 159 del 2011, artt. 4, comma 1, lettera c), 16, 75, commi 1 e 2.

[SENTENZE SEGNALATE]

Corte cost., 24 gennaio/27 febbraio 2019, n. 24

Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423  (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), nel testo vigente sino all’entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui consente l’applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, anche ai soggetti indicati nel numero 1).

Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 della legge 22 maggio 1975, n. 152  (Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico), nel testo vigente sino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 159 del 2011,nella parte in cui stabilisce che il sequestro e la confisca previsti dall’art. 2-terdella legge 31 maggio 1965, n. 575  (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere) si applicano anche alle persone indicate nell’art. 1, numero 1), della legge n. 1423 del 1956.

Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 159 del 2011,nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, lettera a).

Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 16 del d.lgs. n. 159 del 2011,nella parte in cui stabilisce che le misure di prevenzione del sequestro e della confisca, disciplinate dagli articoli 20 e 24, si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, comma 1, lettera a).

Corte cost., 24 gennaio/27 febbraio 2019, n. 25

Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 2, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159   (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui prevede come delitto la violazione degli obblighi e delle prescrizioni inerenti la misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”.

Dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 1, cod. antimafia,nella parte in cui prevede come reato contravvenzionale la violazione degli obblighi inerenti la misura della sorveglianza speciale senza obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”.

Abstract. La Corte costituzionale, chiamata da plurime ordinanze di rimessione a valutare la compatibilità – sotto diversi aspetti – del sistema di prevenzione italiano con i principi affermati dalla Corte EDU, Grande Chambre, sentenza 23 febbraio 2017, caso De Tommaso c. Italia, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di plurime disposizioni.

1. La sentenza della Corte EDU,Grande Chambre, 23.2.2017, caso De Tommaso c. Italia.

La Corte EDU, Grande Chambre, con sentenza emessa in data 23 febbraio 2017, caso De Tommaso c. Italia, su ricorso di un soggetto sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, aveva dichiarato, all’unanimità, che vi era stata violazione, per quanto in questa sede maggiormente rileva, dell’art. 2 del Protocollo n. 4 alla Convenzione EDU, che tutela la libertà di circolazione (le violazioni erano state rilevate con riferimento alla legge n. 1423 del 1956, peraltro in ampia parte trasfusa nel vigente Codice delle leggi antimafia, D. Lgs. n. 159 del 2011).

1.1.La Corte EDU aveva ravvisato violazioni dell’art. 2 del Protocollo n. 4 alla Convenzione EDU sia quanto ai presupposti per l’applicazione della misura della sorveglianza speciale (peraltro annullata dalla Corte d’appello per difetto di pericolosità attuale, ed essendo stati erroneamente valorizzati a carico del prevenuto elementi in realtà riguardanti un suo omonimo) che quanto a quattro prescrizioni che ne erano conseguite.

1.1.1.Quanto al primo profilo, la Grande Chambre, nel riconoscere che le restrizioni oggetto di doglianza avevano una base legale, aveva ritenuto che l’art. 4 della l. n. 1423 del 1956 (medio tempore quasi integralmente trasfuso negli artt. 1 ss. D. Lgs. n. 159 del 2011) non contenesse una chiara e precisa indicazione degli elementi di fatto e degli specifici comportamenti sintomatici della necessaria pericolosità sociale, valorizzabili ai fini dell’applicazione della misura, finendo col rimettere il relativo apprezzamento alla discrezionalità del giudice, senza indicare le finalità e le modalità di esercizio di tale discrezionalità, il che rendeva le conclusive decisioni non prevedibili, non essendo ex ante  chiaro a quali soggetti, ed in ragione di quali comportamenti, la misura de quapotesse essere applicata; difettavano, inoltre, adeguate garanzie da eventuali abusi, avendo in concreto, il Tribunale indebitamente valorizzato, ai fini dell’applicazione, una generica ed indeterminata <<tendance à la dèlinquance>>,

1.1.2. Quanto al secondo profilo, la Grande Chambre aveva ritenuto che il contenuto delle prescrizioni di 1) “non dare ragione di sospetti” (non più menzionata dall’art. 8 D. Lgs. n. 159 del 2011 tra quelle applicabili), 2) “vivere onestamente”, 3) “rispettare le leggi”, 4) “non partecipare a pubbliche riunioni”, non fosse normativamente definito con chiarezza, e quindi che la misura di prevenzione che ne comportasse l’applicazione interferisse illegalmente sulla libertà di circolazione del prevenuto; inoltre, la prescrizione di”non partecipare a pubbliche riunioni” era di per sé illegittima, perché comprimeva illimitatamente il diritto di riunione del prevenuto, non potendo ammettersi che la fissazione dei relativi limiti spaziali e temporali fosse rimessa alla discrezionalità del giudice, in difetto di parametri normativi che delimitino e guidino l’esercizio di tale discrezionalità.

2. Le illegittimità costituzionali dichiarate da Corte cost., n. 24 del 2019.

Le questioni esaminate dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 24 del 2019 riguardano l’asserito difetto di tassatività delle fattispecie previste dai numeri 1) e 2) dell’art. 1 della legge n. 1423 del 1956, nella versione modificata dalla legge 3 agosto 1988, n. 327 (Norme in materia di misure di prevenzione personali), confluite in termini pressoché identici nelle lettere a) e b) dell’articolo 1 del d.lgs. n. 159 del 2011, applicabile con riferimento alle proposte di misure di prevenzione depositate a partire dal 13 ottobre 2011, data di entrata in vigore del predetto decreto legislativo.

Le citate disposizioni consentono l’applicazione, da un lato, della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, e, dall’altro, delle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca, a due categorie di destinatari:

– «coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono abitualmente dediti a traffici delittuosi» [art. 1, numero 1, legge n. 1423 del 1956, riprodotto in modo pressoché identico dall’art. 1, lettera a), d.lgs. n. 159 del 2011];

– «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» [art. 1, numero 2, legge n. 1423 del 1956; art. 1, lettera b), d.lgs. n. 159 del 2011).

All’esito del preventivo vaglio, la Corte costituzionale ha ritenuto ammissibili, ed esaminato nel merito:

a) le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, numeri 1) e 2), legge n. 1423 del 1956, nella parte in cui consentono l’applicazione ai soggetti ivi indicati delle misure di prevenzione personali della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con o senza obbligo o divieto di soggiorno, sollevate dalla Corte d’appello di Napoli e dal Tribunale ordinario di Udine in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 2 Prot. n. 4 Conv. EDU;

b) le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19 legge n. 152 del 1975, sollevate dalla Corte d’appello di Napoli in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. Conv. EDU, nonché con riferimento all’art. 42 Cost.;

c) le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettera c), d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal Capo II del Titolo I del Libro I del decreto si applichino anche ai soggetti indicati nel precedente art. 1, lettere a) e b), sollevate dal Tribunale ordinario di Padova in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 2 Prot. n. 4 Conv. EDU, nonché in riferimento all’art. 25, terzo comma, Cost. e all’art. 13 Cost.;

d) la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16 d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che le misure di prevenzione del sequestro e della confisca, disciplinati rispettivamente dai successivi artt. 20 e 24, si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, lettere a) e b), sollevata dal Tribunale ordinario di Padova in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Prot. addiz. Conv. EDU.

2.1.La Corte costituzionale ha riepilogato, in premessa, gli statuti di garanzia (costituzionale e convenzionale) delle misure di prevenzione personali e patrimoniali.

2.1.1. Con riferimento alle misure di prevenzione personali, si è premesso che <<la circostanza che, ai fini dell’applicazione di una misura di prevenzione personale, sono comunque necessari elementi che facciano ritenere pregresse attività criminose da parte del soggetto, non comporta che le misure in questione abbiano nella sostanza carattere sanzionatorio-punitivo, sì da chiamare in causa necessariamente le garanzie che la CEDU, e la stessa Costituzione, sanciscono per la materia penale>>; esse, imperniate su di un giudizio di persistente pericolosità del soggetto, hanno una chiara finalità preventiva anziché punitiva,

<<mirando a limitare la libertà di movimento del loro destinatario per impedirgli di commettere ulteriori reati, o quanto meno per rendergli più difficoltosa la loro realizzazione, consentendo al tempo stesso all’autorità di pubblica sicurezza di esercitare un più efficace controllo sulle possibili iniziative criminose del soggetto. L’indubbia dimensione afflittiva delle misure stesse non è, in quest’ottica, che una conseguenza collaterale di misure il cui scopo essenziale è il controllo, per il futuro, della pericolosità sociale del soggetto interessato: non già la punizione per ciò che questi ha compiuto nel passato. La stessa Corte EDU, nella recente sentenza che – come si dirà più innanzi – è all’origine delle presenti questioni di legittimità costituzionale, ha espressamente escluso che le misure di prevenzione personali sottoposte al suo esame costituiscano sanzioni di natura sostanzialmente punitiva, come tali soggette ai vincoli che la Convenzione detta in relazione alla materia penale (Corte EDU, sentenza 23 febbraio 2017, de Tommaso contro Italia, paragrafo 143). Né la Corte costituzionale, nelle varie occasioni in cui ha sinora avuto modo di pronunciarsi sulle misure di prevenzione personali, ha mai ritenuto che esse soggiacciano ai principi dettati, in materia di diritto e di processo penale, dagli articoli 25, secondo comma, 27, 111, terzo, quarto e quinto comma, e 112, Cost. Nella sentenza de Tommaso, la Corte EDU ha, invece, affermato che le misure di prevenzione disciplinate nell’ordinamento italiano – dopo la scomparsa, nel 1988, dell’obbligo di soggiorno in un Comune diverso da quello di residenza, che aveva dato luogo alla condanna dell’Italia nella sentenza Guzzardi – costituiscono misure limitative della libertà di circolazione, sancita dall’art. 2 Prot. n. 4 CEDU; misure che, come tali, sono legittime in quanto sussistano le condizioni previste dal paragrafo 3 della norma convenzionale in questione (in particolare: idonea base legale, finalità legittima, “necessità in una società democratica” della limitazione in rapporto agli obiettivi perseguiti)>>.

Ne consegue che le misure in questione possono considerarsi legittime soltanto ove rispettino i requisiti cui l’art. 13 Cost. subordina la liceità di ogni restrizione alla libertà personale, ed in particolare:

– la riserva assoluta di legge (rinforzata, stante l’esigenza di predeterminazione legale dei «casi e modi» della restrizione);

– la riserva di giurisdizione.

In considerazione dell’attribuzione di quest’ultima garanzia, non richiesta in sede europea per misure limitative di quella che la Corte EDU considera come mera libertà di circolazione, ricondotta in quanto tale al quadro garantistico dell’art. 2 Prot. n. 4 Conv. EDU, l’ordinamento interno attribuisce ai diritti fondamentali dei destinatari della misura della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, un livello di garanzie superiore rispetto a quello assicurato in sede europea, soddisfatto dalla mera previsione a) di una idonea base legale delle misure in questione, e b) della necessaria proporzionalità  della misura rispetto ai legittimi obiettivi di prevenzione dei reati (costituente requisito di sistema nell’ordinamento costituzionale italiano, in relazione a ogni atto dell’autorità suscettibile di incidere sui diritti fondamentali dell’individuo).

2.1.2. Con riferimento alle misure di prevenzione patrimoniali, premesso che <<il presupposto giustificativo della confisca di prevenzione – e pertanto dello stesso sequestro, che ne anticipa provvisoriamente gli effetti – è «la ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato con i proventi di attività illecita» (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 26 giugno 2014, dep. 2015, n. 4880)>>, rilevato che la presunzione relativa di origine illecita dei beni, che ne giustifica l’ablazione in favore della collettività, non conduce necessariamente a riconoscere la natura sostanzialmente sanzionatorio-punitiva delle misure in questione, e non comporta, pertanto, che esse debbano soggiacere allo statuto costituzionale e convenzionale delle pene, e considerato che la Corte EDU non ha mai riconosciuto alla confisca di prevenzione natura sostanzialmente penale,

avendo escluso <<che ad essa possano applicarsi gli artt. 6, nel suo “volet pénal”, e 7 CEDU; e si è invece affermato che la misura rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 1, Prot. addiz. CEDU, in ragione della sua incidenza limitatrice rispetto al diritto di proprietà (ex multis, Corte EDU, sezione seconda, sentenza 5 gennaio 2010, Bongiorno e altri contro Italia; decisione 15 giugno 1999, Prisco contro Italia; sentenza 22 febbraio 1994, Raimondo contro Italia). Particolarmente significativa, nell’ambito della giurisprudenza della Corte EDU, appare d’altra parte la sentenza Gogitidze e altri contro Georgia del 2015, che ha ritenuto compatibile con la Convenzione una confisca specificamente rivolta ad apprendere beni di ritenuta origine illecita, nei confronti di pubblici ufficiali imputati di gravi reati contro la pubblica amministrazione e di loro prossimi congiunti: una confisca, più in particolare, operante sulla base di meccanismi presuntivi simili a quelli previsti nell’ordinamento italiano, e comunque in assenza di condanna del pubblico funzionario. Nel procedere, in particolare, al vaglio di compatibilità della relativa disciplina con i principi dell’equo processo di cui all’art. 6 CEDU, la Corte ha negato che tale misura rappresenti una sanzione di carattere sostanzialmente punitivo, come tale soggetta ai principi che la Convenzione detta in materia di processo penale, e l’ha piuttosto qualificata come un’«azione civilein remfinalizzata al recupero di beni illegittimamente o inspiegabilmente accumulati»dal loro titolare (paragrafo 91); osservando, altresì, che la ratio di questa tipologia di confisca senza condanna è al tempo stesso,«compensatoria e preventiva», mirando essa, da un lato, a ripristinare la situazione che esisteva prima dell’acquisto illecito dei beni da parte del pubblico ufficiale; e, dall’altro, a impedire arricchimenti illeciti del soggetto, inviando il chiaro segnale agli ufficiali pubblici che le loro condotte illecite, anche laddove rimangano impunite in sede penale, non potranno assicurare loro alcun vantaggio economico (paragrafi 101-102)>>,

la Corte costituzionale, quanto ai principi costituzionali e convenzionali che ne integrano lo specifico statuto di garanzia, ha osservato che, pur non avendo natura penale, sequestro e confisca di prevenzione incidono pesantemente sui diritti di proprietà e di iniziativa economica, tutelati a livello costituzionale (artt. 41 e 42 Cost.) e convenzionale (art. 1 Prot. addiz. CEDU), e devono, pertanto, soggiacere al combinato disposto delle garanzie cui la Costituzione e la stessa Convenzione EDU subordinano la legittimità di qualsiasi restrizione ai diritti in questione:

a) la sua previsione attraverso una legge (artt. 41 e 42 Cost.) che possa consentire ai propri destinatari, in conformità alla costante giurisprudenza della Corte EDU sui requisiti di qualità della “base legale” della restrizione, di prevedere la futura possibile applicazione di tali misure (art. 1 Prot. addiz. CEDU);

b) l’essere la restrizione “necessaria” rispetto ai legittimi obiettivi perseguiti (art. 1 Prot. addiz. CEDU), e pertanto proporzionata rispetto a tali obiettivi, ciò che rappresenta un requisito di sistema anche nell’ordinamento costituzionale italiano per ogni misura della pubblica autorità che incide sui diritti dell’individuo, alla luce dell’art. 3 Cost.;

c) la necessità che la sua applicazione sia disposta in esito a un procedimento che – pur non dovendo necessariamente conformarsi ai principi che la Costituzione e il diritto convenzionale dettano specificamente per il processo penale – deve tuttavia rispettare i canoni generali di ogni “giusto” processo garantito dalla legge (artt. 111, primo, secondo e sesto comma, Cost., e 6 CEDU, nel suo “volet civil“), assicurando in particolare la piena tutela al diritto di difesa (art. 24 Cost.) di colui nei cui confronti la misura sia richiesta.

2.2. Anche prima dell’intervento della Corte EDU con la sentenza De Tommaso, la giurisprudenza di legittimità si era adoperata per conferire, in via ermeneutica, maggiore precisione alle due fattispecie di “pericolosità generica” in esame qui all’esame, proseguendo in quest’opera dopo la predetta pronuncia della Corte EDU, al dichiarato fine di porre rimedio al deficit di precisione da essa rilevato.

In particolare, con riferimento alle “fattispecie di pericolosità generica” disciplinate dall’art. 1, numeri 1) e 2), della legge n. 1423 del 1956 e – oggi – dall’art. 1, lettere a) e b), del d.lgs. n. 159 del 2011 (disposizione, quest’ultima, alla quale per comodità si farà prevalentemente riferimento nel prosieguo), la giurisprudenza di legittimità ha, nel tempo, precisato che:

– l’aggettivo «delittuoso», che compare sia nella lettera a) che nella lettera b) della disposizione, va letto nel senso che l’attività del proposto debba caratterizzarsi in termini di “delitto” e non di un qualsiasi illecito (Sez. I, 19 aprile 2018, n. 43826; Sez. II, 23 marzo 2012, n. 16348), sì da escludere, ad esempio, che «il mero status di evasore fiscale» sia sufficiente a fondare la misura, ben potendo l’evasione tributaria consistere anche in meri illeciti amministrativi (Sez. V, 6 dicembre 2016, dep. 2017, n. 6067; Sez. VI, 21 settembre 2017, n. 53003);

– l’avverbio «abitualmente», che pure compare sia nella lettera a) che nella lettera b) della disposizione, va letto nel senso di richiedere una «realizzazione di attività delittuose […] non episodica, ma almeno caratterizzante un significativo intervallo temporale della vita del proposto» (Sez. I, 24 marzo 2015, n. 31209), in modo che si possa «attribuire al soggetto proposto una pluralità di condotte passate» (Sez. I, 15 giugno 2017, dep. 2018, n. 349), talora richiedendosi che esse connotino «in modo significativo lo stile di vita del soggetto, che quindi si deve caratterizzare quale individuo che abbia consapevolmente scelto il crimine come pratica comune di vita per periodi adeguati o comunque significativi» (Sez. II, 19 gennaio 2018, n. 11846);

– il termine «traffici»delittuosi, di cui alla lettera a) del medesimo articolo, è stato in un caso definito come «qualsiasi attività delittuosa che comporti illeciti arricchimenti, anche senza ricorso a mezzi negoziali o fraudolenti […]», risultandovi così comprese anche attività «che si caratterizzano per la spoliazione, l’approfittamento o l’alterazione di un meccanismo negoziale o dei rapporti economici, sociali o civili» (Sez. II, n. 11846 del 2018 cit.), ed in altro caso inteso come «commercio illecito di beni tanto materiali (in via meramente esemplificativa: di stupefacenti, di armi, di materiale pedopornografico, di denaro contraffatto, di beni con marchi o segni distintivi contraffatti, di documenti contraffatti impiegabili a fini fiscali, di proventi di delitti in tutte le ipotesi di riciclaggio) quanto immateriali (di influenze illecite, di notizie riservate, di dati protetti dalla disciplina in tema di privacy, etc.), o addirittura concernente esseri viventi (umani, con riferimento ai delitti di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), o di cui all’art. 600 cod. pen. e segg., ed animali, con riferimento alla normativa di tutela di particolari specie), nonché a condotte lato sensu negoziali ed intrinsecamente illecite (usura, corruzione), ma comunque evitando che essa si confonda con la mera nozione di delitto […] da cui sia derivato una qualche forma di provento» (Sez. VI, n. n. 53003 del 2017 cit.);

– il riferimento ai «proventi» di attività delittuose, di cui alla lettera b) della disposizione censurata, viene poi interpretato nel senso di richiedere la «realizzazione di attività delittuose che […] siano produttive di reddito illecito» e dalle quale sia scaturita un’effettiva derivazione di profitti illeciti (Sez. I, n. 31209 del 2015 cit.).

Nell’ambito di questa interpretazione “tassativizzante”, la giurisprudenza di legittimità – in sede di interpretazione del requisito normativo, che compare tanto nella lettera a) quanto nella lettera b) dell’art. 1 del d.lgs. n. 159 del 2011, degli «elementi di fatto» su cui l’applicazione della misura deve basarsi – ha fatto, infine, confluire anche considerazioni attinenti alle modalità di accertamento in giudizio di tali elementi della fattispecie.

Pur muovendo dal presupposto che «il giudice della misura di prevenzione può ricostruire in via totalmente autonoma gli episodi storici in questione – anche in assenza di procedimento penale correlato – in virtù della assenza di pregiudizialità e della possibilità di azione autonoma di prevenzione» (Sez. I, n. 43826 del 2018 cit.), si è chiarito che:

– non sono sufficienti meri indizi, perché la locuzione utilizzata va considerata volutamente diversa e più rigorosa di quella utilizzata dall’art. 4 del d.lgs. n. 159 del 2011 per l’individuazione delle categorie di cosiddetta pericolosità qualificata, dove si parla di «indiziati» (Sez. I, n. 43826 del 2018 e Sez. VI, n. 53003 del 2017 citt.);

– l’esistenza di una sentenza di proscioglimento nel merito per un determinato fatto impedisce, alla luce anche del disposto dell’art. 28, comma 1, lett. b), che esso possa essere assunto a fondamento della misura, salvo alcune ipotesi eccezionali (Sez. I, n. 43826 del 2018 cit.);

– occorre un pregresso accertamento in sede penale, che può discendere da una sentenza di condanna oppure da una sentenza di proscioglimento per prescrizione, amnistia o indulto che contenga in motivazione un accertamento della sussistenza del fatto e della sua commissione da parte di quel soggetto (Sez. II, n. 11846 del 2018, Sez. VI, n. 53003 del 2017 e Sez. I, n. 31209 del 2015 citt.).

2.3. Ciò premesso, si è osservato chele questionidi legittimità costituzionale sollevate andavano esaminate prendendo in considerazione le disposizioni censurate nella lettura fornitane dalla più recente giurisprudenza di legittimità, al fine di verificare se tali interpretazioni – perlopiù sviluppatasi dopo la sentenza della Corte EDU De Tommaso – ne garantiscano un’applicazione prevedibile da parte dei consociati.

In proposito, dopo aver ribadito che

«l’esistenza di interpretazioni giurisprudenziali costanti non val[e], di per sé, a colmare l’eventuale originaria carenza di precisione del precetto penale» (sentenza n. 327 del 2008)»,e che nessuna interpretazione può«surrogarsi integralmente alla praevia lex scripta, con cui si intende garantire alle persone “la sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d’azione” (sentenza n. 364 del 1988)» (sentenza n. 115 del 2018), in quanto«nei paesi di tradizione continentale, e certamente in Italia» è indispensabile l’esistenza di un «diritto scritto di produzione legislativa» rispetto al quale «l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo» (sentenza n. 115 del 2018)»,

si è precisato che, quando si versi – come nei casi in esame – al di fuori della materia penale<<non può del tutto escludersi che l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla base dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione>>: è, infatti, essenziale – sia nell’ottica costituzionale che in quella convenzionale – che tale interpretazione giurisprudenziale <<sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa>>.

All’uopo assume, peraltro, rilievo la sola <<tassatività sostanziale>>, che attiene <<al rispetto del principio di legalità al metro dei parametri già sopra richiamati, inteso quale garanzia di precisione, determinatezza e prevedibilità degli elementi costitutivi della fattispecie legale che costituisce oggetto di prova>>, non anche la cosiddetta <<tassatività processuale>>, che concerne il quomodo della prova, attiene <<alle modalità di accertamento probatorio in giudizio>>,  ed è quindi riconducibile <<a differenti parametri costituzionali e convenzionali – tra cui, in particolare, il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e il diritto a un “giusto processo” ai sensi, assieme, dell’art. 111 Cost. e dall’art. 6 CEDU – i quali, seppur di fondamentale importanza al fine di assicurare la legittimità costituzionale del sistema delle misure di prevenzione, non vengono in rilievo ai fini delle questioni di costituzionalità ora in esame>>.

2.3.1. La Corte costituzionale, valorizzando l’evoluzione giurisprudenziale successiva alla sentenza De Tommaso, ha quindi ritenuto che risulta oggi possibile assicurare in via interpretativa contorni sufficientemente precisi alla fattispecie descritta dell’art. 1, numero 2), della legge n. 1423 del 1956, poi confluita nell’art. 1, lettera b), del d.lgs. n. 159 del 2011, che evoca la categoria di «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose»,sì da consentire ai consociati di prevedere ragionevolmente in anticipo in quali «casi» – oltre che in quali «modi» – essi potranno essere sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, nonché alle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca:

<<la locuzione «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» è oggi suscettibile, infatti, di essere interpretata come espressiva della necessità di predeterminazione non tanto di singoli “titoli” di reato, quanto di specifiche “categorie” di reato. Tale interpretazione della fattispecie permette di ritenere soddisfatta l’esigenza – sulla quale ha da ultimo giustamente insistito la Corte europea, ma sulla quale aveva già richiamato l’attenzione la sentenza n. 177 del 1980 di questa Corte – di individuazione dei «tipi di comportamento» («types of behaviour») assunti a presupposto della misura. Le “categorie di delitto” che possono essere assunte a presupposto della misura sono in effetti suscettibili di trovare concretizzazione nel caso di specie esaminato dal giudice in virtù del triplice requisito – da provarsi sulla base di precisi «elementi di fatto», di cui il tribunale dovrà dare conto puntualmente nella motivazione (art. 13, secondo comma, Cost.) – per cui deve trattarsi di:

a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto,

b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui,

c) i quali a loro volta costituiscano – o abbiano costituito in una determinata epoca – l’unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito.

Ai fini dell’applicazione della misura personale della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, al riscontro processuale di tali requisiti dovrà naturalmente aggiungersi la valutazione dell’effettiva pericolosità del soggetto per la sicurezza pubblica, ai sensi dell’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 159 del 2011>>.

Con riferimento alle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca, i requisiti poc’anzi enucleati dovranno a loro volta  essere accertati in relazione al lasso temporale nel quale si è verificato, nel passato, l’illecito incremento patrimoniale che la confisca intende neutralizzare:

<<dal momento che, secondo quanto autorevolmente affermato dalle sezioni unite della Corte di cassazione, la necessità della correlazione temporale in parola «discende dall’apprezzamento dello stesso presupposto giustificativo della confisca di prevenzione, ossia dalla ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato con i proventi di attività illecita» (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 26 giugno 2014-2 febbraio 2015, n. 4880), l’ablazione patrimoniale si giustificherà se, e nei soli limiti in cui, le condotte criminose compiute in passato dal soggetto risultino essere state effettivamente fonte di profitti illeciti, in quantità ragionevolmente congruente rispetto al valore dei beni che s’intendono confiscare, e la cui origine lecita egli non sia in grado di giustificare>>.

2.3.2. Diversamente, la fattispecie di cui all’art. 1, numero 1), della legge n. 1423 del 1956, poi confluita nell’art. 1, lettera a), del d.lgs. n. 159 del 2011, che evoca la categoria di «coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi» risulta tuttora affetta da <<radicale imprecisione>>, poiché la giurisprudenza successiva alla sentenza De Tommaso non è riuscita a riempire di significato certo e ragionevolmente prevedibile ex ante per l’interessato, il disposto normativo in esame:

<<sul punto convivono tutt’oggi due contrapposti indirizzi interpretativi, che definiscono in modo differente il concetto di «traffici delittuosi». Da un lato, ad esempio, la sentenza della Corte di cassazione, n. 11846 del 2018, fa riferimento a «qualsiasi attività delittuosa che comporti illeciti arricchimenti, anche senza ricorso a mezzi negoziali o fraudolenti […]», ricomprendendovi anche attività «che si caratterizzano per la spoliazione, l’approfittamento o l’alterazione di un meccanismo negoziale o dei rapporti economici, sociali o civili». Dall’altro, e sempre a guisa d’esempio, la pronuncia della Corte di cassazione, n. 53003 del 2017, si riferisce al «commercio illecito di beni tanto materiali […] quanto immateriali […] o addirittura concernente esseri viventi (umani […] ed animali […]), nonché a condotte lato sensu negoziali ed intrinsecamente illecite […], ma comunque evitando che essa si confonda con la mera nozione di delitto […] da cui sia derivato una qualche forma di provento», osservando ulteriormente che «nel senso comune della lingua italiana […] trafficare significa in primo luogo commerciare, poi anche darsi da fare, affaccendarsi, occuparsi in una serie di operazioni, di lavori, in modo affannoso, disordinato, talvolta inutile, e infine, in ambito marinaresco, maneggiare, ma non può fondatamente estendersi al significato di delinquere con finalità di arricchimento». Simili genericissime (e tra loro tutt’altro che congruenti) definizioni di un termine geneticamente vago come quello di «traffici delittuosi», non ulteriormente specificato dal legislatore, non appaiono in grado di selezionare, nemmeno con riferimento alla concretezza del caso esaminato dal giudice, i delitti la cui commissione possa costituire il ragionevole presupposto per un giudizio di pericolosità del potenziale destinatario della misura: esigenza, questa, sul cui rispetto ha richiamato non solo la Corte EDU nella sentenza de Tommaso, ma anche – e assai prima – questa stessa Corte nella sentenza n. 177 del 1980. Né siffatte nozioni di «traffici delittuosi», dichiaratamente non circoscritte a delitti produttivi di profitto, potrebbero mai legittimare dal punto di vista costituzionale misure ablative di beni posseduti dal soggetto che risulti avere commesso in passato tali delitti, difettando in tal caso il fondamento stesso di quella presunzione di ragionevole origine criminosa dei beni, che si è visto costituire la ratio di tali misure>>.

Per tali ragioni si è concluso che la previsione normativa in questione, anche nelle interpretazioni giurisprudenziali che hanno tentato di precisarne l’ambito applicativo, non soddisfa le esigenze di precisione imposte tanto dall’art. 13 Cost., quanto, in riferimento all’art. 117, comma primo, Cost., dall’art. 2 del Prot. n. 4 CEDU per ciò che concerne le misure di prevenzione personali della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno; né quelle imposte dall’art. 42 Cost. e, in riferimento all’art. 117, comma primo, Cost., dall’art. 1 del Prot. addiz. CEDU per ciò che concerne le misure patrimoniali del sequestro e della confisca.

2.4. Da ciò è conseguita la declaratoria di illegittimità costituzionale di tutte le disposizioni cui si riferiscono le questioni ritenute ammissibili in precedenza indicate, <<nella parte in cui consentono di applicare le misure di prevenzione della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, del sequestro e della confisca, ai soggetti indicati nell’art. 1, numero 1), della legge n. 1423 del 1956, poi confluito nell’art. 1, lettera a), del d.lgs. n. 159 del 2011 («coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi»)>>.

2.4.1. Le disposizioni in esame <<si sottraggono invece alle censure di illegittimità costituzionale in questa sede formulate (…) nella parte in cui consentono di applicare le misure di prevenzione della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, del sequestro e della confisca, ai soggetti indicati nell’art. 1, numero 2), della legge n. 1423 del 1956, poi confluito nell’art. 1, lettera b), del d.lgs. n. 159 del 2011 («coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose»)>>.

2.5. La giurisprudenza di legittimità non risulta aver compiutamente esaminato la questione degli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale di norme riguardanti l’applicabilità di misure di prevenzione.

In quello che sembrerebbe allo stato l’unico precedente massimato (Sez. 1, sentenza n. 36583 del 28/03/2017, Rv. 271400, M.) si è affermato, in tema di sorveglianza speciale, che la valutazione della sussistenza dei presupposti del reato di cui all’art. 9, comma 1, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, non può essere effettuata alla luce dell’integrazione del quadro normativo risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 291 del 2013 – che ha introdotto la necessità di rivalutazione della pericolosità sociale del sottoposto nell’ipotesi di sospensione della misura causata dallo stato detentivo del medesimo – qualora l’esecuzione della misura stessa sia cessata in epoca antecedente alla suddetta pronuncia.

2.5.1. Numerose sono, al contrario, le affermazioni di principio potenzialmente suscettibili di assumere rilievo ai fini della determinazione delle conseguenze della declaratoria d’illegittimità costituzionale appena illustrata.

Fra le tante decisioni di rilievo, merita di essere segnalata Sez. U, n. 42858del 29/05/2014, Rv. 260695, P.M. in proc. Gatto, secondo la quale <<I fenomeni dell’abrogazione e della dichiarazione di illegittimità costituzionale delle leggi vanno nettamente distinti, perché si pongono su piani diversi, discendono da competenze diverse e producono effetti diversi, integrando il primo un fenomeno fisiologico dell’ordinamento giuridico, ed il secondo, invece, un evento di patologia normativa; in particolare, gli effetti della declaratoria di incostituzionalità, a differenza di quelli derivanti dallo “ius superveniens”, inficiano fin dall’origine, o, per le disposizioni anteriori alla Costituzione, fin dalla emanazione di questa, la disposizione impugnata>>.

Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, Rv. 258650, Ercolano, ha chiarito che <<L’art. 30, comma quarto, l. n. 87 del 1953, relativo alla cessazione della esecuzione e di tutti gli effetti penali di sentenza irrevocabile di condanna in applicazione di norma dichiarata incostituzionale, non è stato implicitamente abrogato dall’art. 673 cod. proc. pen., posto che quest’ultima disposizione, a differenza della prima, avente natura sostanziale, è norma processuale che detta la disciplina del procedimento di esecuzione per l’ipotesi dell’abrogazione o della declaratoria d’incostituzionalità di una previsione incriminatrice>>.

Infine, secondo Sez. U, n. 27614 del29/03/2007,Rv. 236535, Lista<<La sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge ha efficacia “erga omnes” – con l’effetto che il giudice ha l’obbligo di non applicare la norma illegittima dal giorno successivo a quello in cui la decisione è pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Repubblica – e forza invalidante, con conseguenze simili a quelle dell’annullamento, nel senso che essa incide anche sulle situazioni pregresse verificatesi nel corso del giudizio in cui è consentito sollevare, in via incidentale, la questione di costituzionalità, spiegando, così, effetti non soltanto per il futuro, ma anche retroattivamente in relazione a fatti o a rapporti instauratisi nel periodo in cui la norma incostituzionale era vigente, sempre, però, che non si tratti di situazioni giuridiche “esaurite”, e cioè non più suscettibili di essere rimosse o modificate, come quelle determinate dalla formazione del giudicato, dall’operatività della decadenza, dalla preclusione processuale>>. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che ricorresse una situazione “esaurita” nel caso di appello del P.M. avverso sentenza assolutoria, dichiarato inammissibile per effetto degli artt. 1 e 10 comma secondo, L. n. 46 del 2006, che ne precludevano la esperibilità, pur dopo la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle relative disposizioni – C. cost. n. 26 del 2007 -, stante l’inerzia della parte pubblica, la quale, non avendo assunto alcuna iniziativa processuale intesa a prevenire il consolidarsi della inammissibilità, mediante la preliminare deduzione di incostituzionalità delle suddette disposizioni o l’esercizio della facoltà, prevista dall’art. 10 comma terzo L. cit., di proporre ricorso per cassazione entro 45 giorni dalla notifica della ordinanza di inammissibilità dell’appello, aveva di fatto prestato ad essa acquiescenza). 

In riferimento al diverso tema della successione di leggi nel tempo, Sez. U, n. 4880 del 26/06/2014, dep. 2015, Rv. 262602, S.  (conforme Sez. 2, n. 28096 del 26/03/2015, Rv. 264133, M.), ha ritenuto l’applicabilità, in tema di misure di prevenzione, dell’art. 200 cod. pen. (<<Le modifiche introdotte nell’art. 2-bisdella legge n. 575 del 1965, dalle leggi n. 125 del 2008 e n. 94 del 2009, non hanno modificato la natura preventiva della confisca emessa nell’ambito del procedimento di prevenzione, sicché rimane tuttora valida l’assimilazione dell’istituto alle misure di sicurezza e, dunque, l’applicabilità, in caso di successioni di leggi nel tempo, della previsione di cui all’art. 200 cod. pen.>>); sempre in argomento, Sez. 2, n. 30938 del 10/06/2015, Rv. 264173, A. ha ritenuto <<“convenzionalmente” legittima l’applicazione retroattiva delle misure di prevenzione patrimoniale, con riferimento a fatti anteriori all’entrata in vigore delle norme che le disciplinano, poiché le stesse, in quanto connotate da natura preventiva e non sanzionatoria, non sono riconducibili alla nozione di “pena” di cui all’art. 7 CEDU>>.

3. Le illegittimità costituzionali dichiarate da Corte cost., n. 25 del 2019.

Le questioni esaminate dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 25 del 2019 riguardano l’art. 75, comma 2, del d. lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui sanziona penalmente la violazione degli obblighi di «vivere onestamente» e «rispettare le leggi» connessi all’imposizione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno.

3.1.  Le Sezioni Unite (sentenza n. 40076 del 27/04/2017, Rv. 270496, Paterno’), al dichiarato fine di interpretare l’art. 75 d. lgs. n. 159 del 2011 in conformità con quanto affermato dalla sentenza De Tommaso della Corte EDU (cfr. § 1.1.2.) avevano affermato che <<l’inosservanza delle prescrizioni generiche di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”, da parte del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, non configura il reato previsto dall’art. 75, comma secondo, D.Lgs. n. 159 del 2011, il cui contenuto precettivo è integrato esclusivamente dalle prescrizioni c.d. specifiche; la predetta inosservanza può, tuttavia, rilevare ai fini dell’eventuale aggravamento della misura di prevenzione>>.

Procedendo ad una interpretazione convenzionalmente orientata dell’art. 75 cit., si era in tal modo ritenuto di poter disapplicare un segmento della predetta norma penale incriminatrice senza ricorrere alla Corte costituzionale. La fattispecie incriminatrice di cui all’art. 75 cit., nelle intenzioni delle Sezioni Unite, sembrerebbe inizialmente essere stata, più che parzialmente disapplicata, convenzionalmente reinterpretata, attraverso il rilievo che il difetto di tassatività del segmento dell’art. 75 riguardante la violazione delle prescrizioni di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi” incide sulla stessa colpevolezza dell’agente, non messo in condizione di sapere quali comportamenti gli sono consentiti e quali no; tuttavia questa opzione, che avrebbe legittimato un’assoluzione per difetto dell’elemento soggettivo (ovvero “perché il fatto non costituisce reato”), sembra essere stata conclusivamente accantonata, essendo stato l’imputato assolto “perché il fatto non sussiste”, a testimonianza della conclusiva, diversa opzione per la disapplicazione, in parte qua, dell’art. 75.

3.2. Nella evidente condivisione delle istanze che le Sezioni Unite avevano inteso accogliere (per la indiscutibile vaghezza, indeterminatezza e non prevedibilità delle prescrizione di «vivere onestamente» e «rispettare le leggi» – imposte  in ogni caso con la misura della sorveglianza special, in violazione del principio di legalità prescritto in materia penale dalla Costituzione e del canone di prevedibilità sancito dalla Convenzione EDU), ma ritenendo all’uopo necessario il ricorso alla Corte costituzionale, la II Sezione penale, con ordinanza n. 49194 del 2017 aveva successivamente dichiarato non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 75, comma 2, cit., in relazione agli artt. 25 e 117 della Costituzione ed all’art. 7 della Convenzione EDU, come interpretato dalla sentenza emessa dalla Corte EDU, Grande Chambre, nel caso De Tommaso c. Italia del 23 febbraio 2017, nella parte in cui la norma sanziona penalmente la violazione degli obblighi di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”.

3.3. Il giudizio a quo aveva ad oggetto la condotta di un sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno che aveva commesso un reato comune (nella specie, una rapina), del quale era stato ritenuto responsabile; la stessa condotta poi – secondo i giudici di merito – aveva integrato anche la fattispecie del reato previsto dall’art. 75, comma 2, cit., perché il sottoposto alla misura, nel commettere la rapina, aveva inevitabilmente, con la medesima condotta, violato anche l’obbligo di vivere onestamente e di rispettare le leggi, il che integrava il reato di cui all’art. 75, comma 2, per il quale era stato irrogato all’imputato un aumento di penaexart. 81, comma 1, c.p.

La II Sezione, investita della cognizione del ricorso per cassazione contro la predetta sentenza di condanna, aveva ritenuto l’inammissibilità del ricorso, rilevando, peraltro, che l’aumento di pena per il concorso formale dei due reati poteva risultare contra legem in ragione della denunciata illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 2; peraltro, la pur condivisa decisione delle Sezioni Unite  non costituiva una sopravvenuta abolitio criminis per successione della legge nel tempo, ma una mera interpretazione giurisprudenziale più favorevole per l’imputato ricorrente, non assimilabile ad uno ius superveniens, il che impediva di tenerne conto, in considerazione dell’inammissibilità del ricorso; diversamente ove l’art. 75, comma 2, fosse stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, si sarebbe verificata una situazione assimilabile alla abolitio criminis, rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen.

La stessa situazione si riproduce in sede di esecuzione della condanna passata in giudicato, in quanto una decisione giurisprudenziale non può costituire presupposto, in favore di soggetti separatamente giudicati, della revoca della sentenza di condanna definitiva, presupponendo l’art. 673 c.p.p. a tal fine una abrogazione (che competerebbe al Legislatore) oppure una dichiarazione d’illegittimità costituzionale (che competerebbe alla Corte costituzionale) della norma incriminatrice.

3.3.1. La Corte costituzionale ha accolto questa prospettazione, riconoscendo l’effettiva rilevanza della questione, condividendo, in particolare, il rilievo che la abolitio criminis- per ius superveniensod a seguito di pronuncia di illegittimità costituzionale – è cosa diversa dallo sviluppo della giurisprudenza, essenzialmente di legittimità, che approdi all’esito (pur negli effetti simile) di ritenere che una determinata condotta non costituisca reato:

<<in un ordinamento in cui il giudice è soggetto alla legge e solo alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.), la giurisprudenza ha un contenuto dichiarativo e nella materia penale deve conformarsi al principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., che vuole che sia la legge a prevedere che il fatto commesso è punito come reato. L’attività interpretativa del giudice, anche nella forma dell’interpretazione adeguatrice costituzionalmente orientata, può sì perimetrare i confini della fattispecie penale circoscrivendo l’area della condotta penalmente rilevante. Ma rimane pur sempre un’attività dichiarativa, non assimilabile alla successione della legge penale nel tempo. (…) Risponde poi al canone di plausibilità l’ulteriore affermazione della Corte rimettente secondo cui nella strettoia processuale determinata da un ricorso manifestamente infondato, avviato pertanto a una pronuncia di inammissibilità, la Corte possa rilevare d’ufficio ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. l’abolitio criminis, ma non anche la sopravvenienza di una giurisprudenza che esclude la rilevanza penale della condotta per cui è stata pronunciata la sentenza di condanna. L’affermazione trova le sue radici in un risalente, ma sempre seguito, arresto delle Sezioni unite penali (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 22 novembre-21 dicembre 2000, n. 32) che, inaugurando un filone giurisprudenziale più volte ribadito, hanno affermato che l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen. Di questo principio si è fatta ripetuta applicazione soprattutto in caso di prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso. Più recentemente tale non rilevabilità d’ufficio ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. è stata affermata anche con riferimento alla prescrizione maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello, ma non rilevata né eccepita in quella sede e neppure dedotta con i motivi di ricorso (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 dicembre 2015-25 marzo 2016, n. 12602). (…) Solo se il ricorso fosse stato ammissibile, ancorché infondato, le questioni di costituzionalità avrebbero potuto essere risolte in via interpretativa e sarebbero risultate prive di rilevanza perché il giudice di legittimità ben avrebbe potuto rilevare che, secondo il mutato orientamento giurisprudenziale, la condotta contestata non costituiva reato (in tal senso, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 21 settembre 2017-21 giugno 2018, n. 28825). Invece, contenendo il ricorso solo censure manifestamente infondate, il giudice di legittimità non può rilevare d’ufficio l’insussistenza del reato secondo il nuovo orientamento giurisprudenziale e da ciò consegue la rilevanza – e quindi l’ammissibilità – delle questioni di costituzionalità dal momento che solo un’eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale della disposizione incriminatrice consentirebbe al giudice di legittimità di annullare la sentenza impugnata limitatamente al concorrente reato di cui al censurato art. 75, comma 2, e quindi all’aumento di pena ai sensi dell’art. 81, primo comma, cod. pen.>>.

3.3.2. Non appare inopportuno ricordare che, in precedenti decisioni, la giurisprudenza costituzionale aveva evidenziato che le norme della Convenzione EDU, pur rivestendo grande rilevanza, «sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell’ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudizi nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto» (Corte cost., n. 348 del 2007), e quindi che la disapplicazione di una disposizione di legge interna da parte del giudice, perché ritenuta non conforme alle previsioni della Convenzione EDU, come interpretata dalla Corte EDU, sarebbe illegittima, perché in contrasto con la stessa Costituzione.

Alle norme della Convenzione EDU deve, invece, assegnarsi il rango di «fonti interposte», destinate ad integrare il parametro di cui all’art. 117 della Costituzione, il cui primo comma impone al legislatore, nazionale e regionale, di conformare il prodotto normativo agli obblighi internazionali, fra i quali vanno annoverati anche quelli derivanti dalla richiamata Convenzione.

Proprio perché si tratta di norme che integrano il predetto parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre a livello sub-costituzionale, è necessario che esse stesse siano conformi a Costituzione, non sottraendosi, dunque, al relativo sindacato da parte del Giudice delle leggi: osserva al riguardo la Corte costituzionale che «le norme della Convenzione EDU vivono nell’interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea; la verifica di compatibilità costituzionale deve riguardare la norma come prodotto dell’interpretazione, non la disposizione in sé e per sé considerata. Si deve pertanto escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali (imposto dall’art. 117, 1° co., Cost.) e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione» (Corte cost., n. 348 del 2007).

Pertanto, in materia di rapporti tra l’art. 117, comma 1, della Costituzione e le norme della Convenzione EDU, tenuto conto dell’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza costituzionale, deve ritenersi che, qualora il contrasto tra la disciplina nazionale e le norme della Convenzione EDU, come interpretate dalla Corte EDU, non possa essere risolto in via interpretativa, va esclusa la possibilità di applicare direttamente la norma convenzionale interposta «obliterando il contrario disposto di una norma interna» (Sez. un., sentenza n. 27620 del 28 aprile 2016, in motivazione; conformi, Sez. un., sentenza n. 34472 del 19 aprile 2012, in motivazione, e Sez. un., sentenza n. 41694 del 18 ottobre 2012, in motivazione): in questo caso, dovrà essere sollevato l’incidente di costituzionalità, e la Corte costituzionale dovrà accertare se le disposizioni interne in questione siano compatibili con quelle della Convenzione, come interpretate dalla Corte di Strasburgo ed assunte quali fonti integratrici dell’indicato parametro costituzionale e, nel contempo, verificare se le norme convenzionali interposte, sempre nell’interpretazione fornita dalla medesima Corte europea, non si pongano in conflitto con altre norme conferenti dell’ordinamento costituzionale italiano; ciò in quanto

«il dovere del giudice comune di interpretare il diritto interno in senso conforme alla Convenzione EDU è subordinato al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme, poiché tale modo di procedere riflette il predominio assiologico della Costituzione sulla Convenzione EDU. Nelle ipotesi in cui non sia possibile percorrere tale via, è fuor di dubbio che il giudice debba obbedienza anzitutto alla Carta repubblicana e sia perciò tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale della legge di adattamento» (Corte cost., n. 49 del 2015).

3.4. Nel merito, la questione sollevata dalla II Sezione penale è stata ritenuta fondata con riferimento agli artt. 7 Convenzione EDU e 2 del Protocollo n. 4 della stessa Convenzione.

3.4.1. La Corte costituzionale ha ricordato di aver già valutato (con la sentenza n. 282 del 2010) la conformità al principio di legalità in materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.), ed al conseguente principio di tassatività e determinatezza della fattispecie penale, della fattispecie penale prevista dall’art. 9 della legge n. 1423 del 1956, all’epoca vigente dopo le modifiche apportate con l’art. 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito in legge 31 luglio 2005, n. 155, che disponeva nel comma 1 che il «contravventore agli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno» e nel comma 2, allora censurato, che se «l’inosservanza riguarda gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni». Tra le prescrizioni della sorveglianza speciale la cui violazione poteva integrare il reato era già previsto – dall’art. 5 della stessa legge n. 1423 del 1956 – l’obbligo di vivere onestamente e rispettare le leggi. Tali disposizioni (l’art. 5 e l’art. 9) si ritrovano riprodotte negli stessi termini,in parte qua, nell’art. 8 e nel censurato art. 75 cod. antimafia.

In quella occasione, la Corte costituzionale aveva ricordato che <<per verificare il rispetto del principio di tassatività o di determinatezza della norma penale occorre non già valutare isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, bensì collegarlo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa s’inserisce>>; aveva, inoltre, ribadito che «l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti elastici, non comporta unvulnusdel parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo» (ex plurimis, sentenze n. 327 del 2008, n. 5 del 2004, n. 34 del 1995 e n. 122 del 1993)>>.

Aveva, quindi, concluso ritenendo che la prescrizione di vivere onestamente e di rispettare le leggi non violasse il principio di legalità in materia penale: <<da una parte, le «leggi» sono tutte le norme a contenuto precettivo, non solo quelle la cui violazione è sanzionata penalmente; d’altra parte, l’obbligo di «vivere onestamente» va «collocat[o] nel contesto di tutte le altre prescrizioni previste dal menzionato art. 5» e quindi ha il valore di un monito rafforzativo di queste ultime senza un autonomo contenuto prescrittivo>>.

3.4.2. La sentenza De Tommaso della Corte EDU ha preso in considerazione, in particolare, l’art. 2 del Protocollo n. 4 della Convenzione, nella parte in cui pone il principio di legalità con riferimento specifico alla libertà di circolazione che può subire solo le restrizioni «previste dalla legge», censurando il sistema nazionale delle misure di prevenzione – quanto ai presupposti soggettivi e al loro contenuto – in quanto formulato «in termini vaghi ed eccessivamente ampi» tali da non rispettare il criterio della «prevedibilità», come enunciato dalla giurisprudenza di quella Corte, secondo la quale, in particolare, gli obblighi di «vivere onestamente e rispettare le leggi» (oltre che di «non dare ragione alcuna ai sospetti», prescrizione questa non più rilevante perché non riprodotta nel citato art. 8 cod. antimafia) non sono delimitati in modo sufficiente e che, pertanto, risulti violato il principio di prevedibilità della condotta da cui consegue la limitazione della libertà personale, ex art. 2 del Protocollo n. 4.

3.4.3. Con la citata sentenza Paternò, le Sezioni Unite, nel confrontarsi con ildictumdella sentenza De Tommaso, hanno osservato che

«la Corte europea, riferendosi al contenuto del “vivere onestamente nel rispetto delle leggi”, sottolinea, quindi, come tali prescrizioni non siano state sufficientemente delimitate dall’interpretazione della Corte costituzionale, in quanto permane una evidente indeterminatezza dei comportamenti che si pretendono dal sorvegliato speciale, soprattutto nella misura in cui possono integrare la fattispecie penale di cui all’art. 9 legge n. 1423 del 1956 (ora art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011)».

Hanno quindi operato una «rilettura del diritto interno che sia aderente alla CEDU», pervenendo alla conclusione che «il richiamo “agli obblighi e alle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno” può essere riferito soltanto a quegli obblighi e a quelle prescrizioni che hanno un contenuto determinato e specifico, a cui poter attribuire valore precettivo. Tali caratteri difettano alle prescrizioni del “vivere onestamente” e del “rispettare le leggi”», e quindi che «le prescrizioni del vivere onestamente e rispettare le leggi non possono integrare la norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011 (…) ad esse tuttavia può essere data indiretta rilevanza ai fini dell’eventuale aggravamento della misura di prevenzione della sorveglianza speciale».

3.4.4. Ciò premesso, e preso atto che la giurisprudenza di legittimità ha già compiuto il processo di adeguamento ai principi della Convenzione EDU proprio con riferimento alla fattispecie oggetto dell’ordinanza di rimessione, ammettendo la non configurabilità del reato previsto dal censurato art. 75, comma 2, allorché la violazione degli obblighi e delle prescrizioni della misura della sorveglianza speciale consista nell’inosservanza dell’obbligo di vivere onestamente e di rispettare le leggi, la Corte costituzionale ha, nondimeno dovuto convenire che

<<non si è di fronte a un’abolitio criminis per successione nel tempo della legge penale; ciò comporta che, proprio per l’affermata non riconducibilità dell’orientamento giurisprudenziale sopravvenuto a unoius superveniens, sussiste non di meno una limitata area in cui occorre ancora domandarsi se la fattispecie penale suddetta, schermata solo dall’interpretazione giurisprudenziale, sia conforme, o no, al principio di legalità in materia penale, vuoi costituzionale che convenzionale. Area questa costituita – come già sopra rilevato – sia dall’esecuzione del giudicato penale di condanna, sia dalla rilevabilità ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. in caso di ricorso per cassazione recante solo censure manifestamente infondate e quindi inammissibili>>.

3.4.5. La Corte costituzionale ha, pertanto, ribadito che <<l’interpretazione del giudice comune, ordinario o speciale, orientata alla conformità alla CEDU – le cui prescrizioni e principi appartengono indubbiamente ai vincoli derivanti da obblighi internazionali con impronta costituzionale (quelli con «vocazione costituzionale»: sentenza n. 194 del 2018) – non implica anche necessariamente l’illegittimità costituzionale della disposizione oggetto dell’interpretazione per violazione di un principio o di una previsione della CEDU, quale parametro interposto ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost.>>, e che, <<quando viene in rilievo un diritto fondamentale, «il rispetto degli obblighi internazionali […] può e deve […] costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa» (sentenza n. 317 del 2009)>>, precisando che <<non c’è però, nel progressivo adeguamento alla CEDU, alcun automatismo, come risulta già dalla giurisprudenza di questa Corte, stante, nell’ordinamento nazionale, il «predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU» (sentenza n. 49 del 2015)>>, e che:

– da una parte, <<la denunciata violazione del parametro convenzionale interposto, ove già emergente dalla giurisprudenza della Corte EDU, può comportare l’illegittimità costituzionale della norma interna sempre che nelle pronunce di quella Corte sia identificabile un «approdo giurisprudenziale stabile» (sentenza n. 120 del 2018) o un «diritto consolidato» (sentenze n. 49 del 2015 e, nello stesso senso, n. 80 del 2011)>>

[peraltro, quanto alla ancora una volta evocata possibilità di limitare l’efficacia delle sentenze della Corte EDU – a prescindere da quelle “pilota”, sempre vincolanti – ai soli “orientamenti consolidati” cfr. Corte EDU, Grande Chambre, 28 giugno 2018, casi G.I.E.M. S.r.l. ed altri c. Italia (§ 252: <<the Court would emphasise that its judgments all have the same legal value. Their binding nature and interpretative authority cannot be therefore depend on the formation by which the were rendered>>), chiara nell’evidenziare che non esistono suoi orientamenti “consolidati” o “non consolidati”, perché le decisioni della Corte EDU hanno tutte lo stesso valore giuridico, la stessa efficacia vincolante e la stessa “autorità interpretativa”, a prescindere dal fatto che siano emesse dallaGrande Chambreo da sezioni semplici];

– dall’altra, <<va verificato che il bilanciamento, in una prospettiva generale, con altri principi presenti nella Costituzione non conduca a una valutazione di sistema diversa – o comunque non necessariamente convergente – rispetto a quella sottesa all’accertamento, riferito al caso di specie, della violazione di un diritto fondamentale riconosciuto dalla CEDU. Va infatti ribadito che, «[a] differenza della Corte EDU, questa Corte […] opera una valutazione sistemica, e non isolata, dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, ed è, quindi, tenuta a quel bilanciamento, solo ad essa spettante» (sentenza n. 264 del 2012); bilanciamento in cui si sostanzia tra l’altro il «margine di apprezzamento» che compete allo Stato membro (sentenze n. 193 del 2016, n. 15 del 2012 e n. 317 del 2009)>>.

3.5. A parere della Corte costituzionale, nella fattispecie oggetto di rimessione ricorrono entrambi i predetti presupposti:

– quanto al primo profilo, la giurisprudenza di legittimità si è indirizzata nel senso di considerare la sentenza De Tommaso idonea a fondare l’interpretazione convenzionalmente orientata di cui si è detto;

– quanto al secondo profilo, si è osservato che <<la valutazione di sistema all’interno dei parametri della Costituzione e il possibile bilanciamento con altri valori costituzionalmente tutelati non è affatto distonica, nella fattispecie, rispetto al pieno dispiegarsi dei parametri interposti>>, poiché <<l’esigenza di contrastare il rischio che siano commessi reati, che è al fondo dellaratiodelle misure di prevenzione e che si raccorda alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza, come valore costituzionale, è comunque soddisfatta dalle prescrizioni specifiche che l’art. 8 consente al giudice di indicare e modulare come contenuto della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con o senza obbligo (o divieto) di soggiorno>>. D’altro canto, <<la previsione come reato della violazione, da parte del sorvegliato speciale, dell’obbligo «di vivere onestamente» e «di rispettare le leggi» ha, da una parte, l’effetto abnorme di sanzionare come reato qualsivoglia violazione amministrativa e, dall’altra parte, comporta, ove la violazione dell’obbligo costituisca di per sé reato, di aggravare indistintamente la pena, laddove l’art. 71 cod. antimafia già prevede come aggravante, per una serie di delitti, la circostanza che il fatto sia stato commesso da persona sottoposta, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale durante il periodo previsto di applicazione della misura>>.

3.5.1. Si è, pertanto, concluso che l’art. 75, comma 2, D. Lgs. n. 159 del 2011 viola il canone di prevedibilità della condotta sanzionata con la limitazione della libertà personale, quale contenuto in generale nell’art. 7 Conv. EDU ed in particolare nell’art. 2 del Protocollo n. 4, e rilevante come parametro interposto ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost.; è stata, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 2, cit. nella parte in cui punisce come delitto l’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi” da parte del soggetto sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno.

3.6. La Corte costituzionale ha, infine, osservato che le questioni sollevate dall’ordinanza di rimessione riguardavano il delitto previsto dall’art. 75, comma 2, cit., ma che analoghi dubbi di costituzionalità <<possono porsi con riferimento al reato contravvenzionale di cui al comma 1 della medesima disposizione che prevede analogamente la violazione degli obblighi inerenti la misura di prevenzione della sorveglianza speciale, ma senza obbligo né divieto di soggiorno, allorché le prescrizioni consistono nell’obbligo di vivere onestamente e di rispettare le leggi>>; ha, pertanto, dichiarato, in via consequenziale e per le stesse ragioni, l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 1, stesso D. Lgs., nella parte in cui prevede come reato contravvenzionale la violazione degli obblighi inerenti la misura della sorveglianza speciale senza obbligo o divieto di soggiorno, ove consistente nell’obbligo di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”.

3.7. Per quanto riguardagli effetti della declaratoria d’illegittimità costituzionale di una norma penale incriminatrice, appare sufficiente ricordare che, ai sensi dell’art. 30, comma 4, L. n. 87 del 1953, <<quando, in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali>>.

Il procedimento finalizzato alla relativa declaratoria è disciplinato dall’art. 673 c.p.p.; nell’ambito del procedimento di cognizione, provvederà il giudice che procede ex art. 129 c.p.p.

4. L’illegittimità costituzionale dichiarata da Corte cost., n. 26 del 2019: cenni.

Solo per completezza, attesa la contestualità delle varie declaratorie d’illegittimità costituzionale, appare, infine, opportuno ricordare che Corte cost., 24 gennaio/27 febbraio 2019, n. 26  ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 198, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2013)»,limitatamente alle parole «muniti di ipoteca iscritta sui beni di cui al comma 194 anteriormente alla trascrizione del sequestro di prevenzione,» e «Allo stesso modo sono soddisfatti i creditori che: a) prima della trascrizione del sequestro di prevenzione hanno trascritto un pignoramento sul bene; b) alla data di entrata in vigore della presente legge sono intervenuti nell’esecuzione iniziata con il pignoramento di cui alla lettera a)».

In questo caso, peraltro, non si è trattato di una declaratoria conseguente alla necessità di adeguare il sistema di prevenzione interno alle garanzie convenzionali nell’interpretazione fornitane dalla Corte EDU, poiché le questioni sollevate sono state ritenute fondate  in relazione all’art. 3 Cost.