Nota sui carichi esigibili

di Michele Nardelli

Premessa.

Parlare dei carichi esigibili è compito arduo. Allo stato è uno dei temi maggiormente divisivi per la Magistratura, e il rischio che sia la scrittura di questa nota, e sia la sua lettura, vengano svolte a partire dalle proprie radicate convinzioni è molto alto.

E tuttavia il confronto deve essere comunque ricercato, sicché messe in conto – e anzi auspicate – tutte le possibili critiche, cercherò di analizzare le questioni controverse.

Perché i carichi esigibili.

Il primo punto, ovviamente, non può che riguardare la stessa necessità di pervenire alla individuazione dei carichi.

Sotto questo profilo, a me pare che due siano gli argomenti di rilievo. Il primo riguarda l’esplosione dei flussi in ingresso, e il secondo i riflessi, sulla vita professionale dei magistrati, dei ritardi nelle definizioni, dei ritardi nei depositi, e in generale delle anomalie di gestione, che derivino dall’enorme mole delle assegnazioni.

Sotto il primo profilo, mi pare necessario fare ricorso ad alcuni dati statistici, che a fini di studio possono essere individuati in quelli della Cassazione Civile (sono pubblicati nel sito cortedicassazione.it).

La serie storica dal 2000, mostra che le definizioni, rimaste comprese tra poco più di 19.000 e poco meno di 22.000, negli anni dal 2000 al 2003, sono poi cresciute fino a raggiungere, negli anni dal 2004 al 2014 compresi, una media annua di 29780 (da 20.386 degli anni 2000/2003 compresi).

La durata media dei procedimenti, che hanno avuto come esito la sentenza, è passata dai 28 mesi del 2000 ai 52,2 mesi del 2014.

La produttività dei Consiglieri è passata (numero dei procedimenti trattati in udienza per ciascun Consigliere) dai 154,4 del 2000 ai 228,6 del 2014 (ci sono state punte di 260 procedimenti nel 2009, e di 262,5 procedimenti nel 2011). I procedimenti pendenti per Consigliere sono passati dai 426,1 del 2000, ai 768,8 del 2014 (ma anche qui con una punta di oltre 840 procedimenti nel 2010).

La pendenza complessiva è passata dai 56.597 procedimenti del 2000, agli oltre 100.000 fascicoli del 2014.

L’Indice di ricambio dei sopravvenuti (calcolato come il rapporto percentuale tra il numero dei procedimenti definiti e il numero dei procedimenti sopravvenuti), è stato positivo, quindi superiore a 100, in soli quattro degli anni compresi tra il 2000 e il 2014.

Non è questa la sede per trattare le cause della incredibile esplosione della domanda giudiziaria, e tuttavia è innegabile che essa si sia riversata sui magistrati. Basti qui rimarcare i dati relativi all’incremento delle pendenze per Consigliere, nonostante l’aumento quantitativo delle definizioni, sia in assoluto e sia come media del singolo Consigliere; e all’incremento del numero dei fascicoli trattati in udienza dal singolo magistrato di Cassazione. E d’altra parte, che i fascicoli assegnati a ciascun magistrato stessero aumentando, era constatazione che poteva essere fatta già su base empirica, osservando l’evoluzione delle dimensioni delle borse per il trasporto dei documenti negli anni, passate dalle comode 24 ore in voga fino ai primi anni 2000, ai ben più capienti trolley degli anni successivi.

Se l’incremento non avesse avuto immediate conseguenze sulla vita professionale dei magistrati, e qui viene in rilievo il secondo profilo di criticità, dei carichi esigibili non ci sarebbe stata alcuna necessità. Sarebbe bastato che ciascuno avesse continuato a svolgere il proprio lavoro come prima, senza alcun interesse diretto al crescere delle pendenze, e alle modalità di gestione dei ruoli.

E tuttavia è proprio questo, lo si voglia o non, che è parallelamente mutato nel corso degli anni.

Anche qui non rileva comprendere i motivi per i quali il collegamento economia/giurisdizione abbia preso piede sempre più, perché è sufficiente, ai fini della presente trattazione, prendere atto che tale collegamento sia stato operato, e sia divenuto sempre più centrale nei temi della organizzazione del lavoro giudiziario.

I ritardi della giustizia sono allora divenuti rilevanti sia in relazione al generale diritto al giusto processo, che si sostanzia anche nella sua ragionevole durata, e sia in relazione ai risvolti economici sui quali i ritardi incidono (ad esempio -tra gli aspetti più citati- il ruolo disincentivante della lunghezza della risposta giudiziaria sulla entità degli investimenti stranieri).

Questi profili sono di fatto stati trattati dal Legislatore anche mediante interventi che hanno avuto un impatto immediato sui magistrati.

La legge Pinto ha disciplinato un generale limite legale di durata dei processi, con riflessi di possibile responsabilità erariale per i magistrati.

Ma anche la recente modifica dell’art. 43 della legge fallimentare ha previsto uno specifico criterio di priorità nella trattazione delle controversie nelle quali è parte un fallimento, tanto che il Presidente del Tribunale deve trasmettere annualmente al Presidente della Corte di Appello i dati relativi al numero di  procedimenti in cuiè parte un fallimento e alla loro durata, nonché ledisposizioni adottate per assicurarne la priorità di trattazione, e tanto che il Presidente della Corte di Appello nedeve dare atto nella relazione sull’amministrazione della giustizia.

Va poi ricordato il D.Lgs. 109/2006, art. 2, comma 1, lett. q, che prevede quale illecito disciplinare il ritardo reiterato, grave e ingiustificato, nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni.

E non vanno dimenticati, come effetti di fonti sub-primarie, i risvolti del parametro della laboriosità, con il corollario del rispetto dei termini di deposito dei provvedimenti, nell’ambito delle valutazioni di professionalità.

In tutto questo, come è ovvio, i margini di intervento non possono certo riguardare le sopravvenienze, ma solo le definizioni.

A costo di essere banali, infatti, è evidente che qualunque sia l’entità del flusso in ingresso, esso debba essere assegnato ad un magistrato. Ma a fronte di un flusso esorbitante le capacità di trattazione, è evidente che da qualche parte il sistema-giudice possa andare in crisi.

E ciò potrà accadere rispetto al termine legale di durata dei processi, o rispetto ai criteri di priorità, o ai ritardi nei depositi, ma in ogni caso con riflessi immediati sulle valutazioni che riguardano, per quello che interessa in questa sede, il singolo magistrato.

Ed allora, se si assume che il carico di lavoro che si riversa sul singolo magistrato sia eccessivamente oneroso, e se si assume che la capacità di definizione di ciascuno non sia infinita, ma sia soggetta all’unica variabile realmente indipendente, costituita dal tempo a disposizione, deve ammettersi che l’unico strumento di tutela sia quello di valutare l’entità delle definizioni, in relazione ad un livello di esigibilità massima.

Come dovrebbe agire il sistema dei carichi.

La finalità.

Per quanto anche sul primo punto non vi sia unanimità di vedute, se si ammette che i carichi siano ormai necessari, le divergenze continuano.

Il primo punto di contrasto riguarda la stessa finalità di un sistema di carichi esigibili.

In astratto, la fissazione di questo concetto può rispondere sia a profili meramente difensivi, e sia a profili di tipo qualitativo.

Quanto al primo aspetto, e per dirla in maniera molto semplice, si potrebbe pensare alla possibilità per la quale il raggiungimento di un certo livello di definizioni garantisca il Magistrato da qualunque tipo di rilievo. O quanto meno lo garantisca salva prova contraria della persistenza di una sua responsabilità.

Quanto al secondo aspetto, si potrebbe pensare all’esigenza di perseguire, mediante la limitazione del numero delle definizioni, anche l’esigenza di garantire che la decisione sia adeguatamente ponderata, e altrettanto adeguatamente esplicitata nella redazione della motivazione.

La differenza tra le due opzioni non è minima, perché mentre nel primo caso si può ammettere – già in astratto- che il livello prefissato sia superabile, in virtù di una ottimale organizzazione del lavoro, ovvero dell’inserimento in un contesto organizzativo efficiente (ma anche di una maggiore capacità di applicazione), nel secondo caso il superamento del livello prefissato imporrebbe di valutare contestualmente l’aspetto qualitativo delle definizioni, ed imporrebbe anche una più penetrante verifica della qualità della produzione giudiziaria, quando contenuta nella soglia.

Ad una valutazione personale, la prima opzione appare preferibile.

La verifica della qualità del prodotto giudiziario del Magistrato è oggi già suscettibile di essere, sia pure non direttamente, effettuata, nell’ambito delle valutazioni di professionalità.

Se anche non pare possibile, per una evidente scissione temporale tra le decisioni assunte dai giudici del grado inferiore, e l’esito delle impugnazioni (senza peraltro dimenticare che le valutazioni in sede di gravame sono mediate anche dalla capacità dei difensori di veicolare le doglianze -o resistervi- in maniera adeguata), tener conto dei livelli quantitativi delle conferme e delle riforme, non di meno è già prevista la verifica dei provvedimenti acquisiti a campione.

Ed allora, non pare necessario ancorare la finalità dei carichi esigibili a profili esclusivamente qualitativi, così rendendo sospetto già in radice il loro superamento.

È sufficiente che sia perseguito l’obiettivo primario dei carichi esigibili, che deve consistere nell’evitare che l’enorme flusso in ingresso, comporti -direttamente o indirettamente- riflessi negativi sul singolo magistrato.

Il ruolo del magistrato in presenza dei carichi esigibili.

Il secondo aspetto da trattare è di tipo eminentemente culturale. Esso si concentra in una domanda: fissare i carichi esigibili modificherebbe l’essenza della funzione giurisdizionale, così come è prevista dalla Costituzione, e così come siamo abituati a considerarla? Detta in maniera più brutale, la fissazione dei carichi ci trasformerebbe in burocrati?

Questo è il profilo più scivoloso da affrontare, perché mentre sui numeri è difficile non intendersi, sulle opzioni valoriali incidono aspetti soggettivi difficilmente superabili.

Mi limiterò pertanto a rilevare che il carico esigibile, nella prospettiva che qui si sostiene, non rappresenta il livello di definizione, raggiunto il quale il magistrato possa tirare i remi in barca. Esso individua solo il punto di pareggio (da wikipedia, con principio mutuabile in questa sede: <<break evenpoint  o break even, abbreviato in BEP, è un valore che indica la quantità, espressa in volumi di produzione o fatturato, di prodotto venduto necessaria a coprire i costi precedentemente sostenuti, al fine di chiudere il periodo di riferimento senza profitti né perdite>>). Ma ciò non toglie, come detto, che oltre quel livello vi sia tutta la possibilità di proseguire il lavoro di definizione, come meglio cercherò di evidenziare nel prosieguo.

La determinazione.

Il terzo aspetto da trattare è di tipo pratico. La fissazione dei carichi esigibili deve essere unica a livello nazionale, o deve tener conto della condizione del singolo Ufficio?

Anche su questo profilo vi è notevole disaccordo, perché sono allo stato sostenute entrambe le opzioni.

In effetti, a sostegno del dato del singolo ufficio militano alcune considerazioni organizzative.

La più o meno maggiore corrispondenza tra l’organico effettivo e quello teorico (con ricadute sul numero di sopravvenienze pro-capite); la maggiore o minore presenza di Cancellieri (a sua volta con ricadute sulla assistenza, anche in ipotesi in udienza); la maggiore o minore pendenza (che influisce sugli adempimenti che non hanno rilievo statistico, ma anche sul numero di udienze annue che possono essere dedicate ai singoli fascicoli, ciò che rileva sui tempi di definizione); la presenza di stagisti o tirocinanti (in grado di collaborare nella organizzazione del ruolo e nella sua gestione), sono tutti fattori che possono aiutare nell’aumentare il numero delle definizioni.

A livello statistico, ad esempio, sono noti i dati elaborati presso il Tribunale di Milano, per il periodo 1.7.2011/23.7.2012. Si è riscontrato in quella sede che con la presenza di tirocinanti, l’incremento di produttività era stato di circa il 21% per le sentenze, e di circa il 10% con altre modalità, con un incremento medio di oltre il 15% delle definizioni. Ma anche presso il Tribunale di Firenze, uno studio approfondito ha dimostrato che la media delle sentenze totali dei giudici affiancati da uno stagista, è stata superiore del 28%, del 53% e del 57% per gli anni 2009, 2010, 2011, rispetto ai giudici senza lo stagista. Le sentenze contestuali sono state maggiori del 106%, 113% e 41%. E anche il raffronto per singolo Giudice (effettuato in relazione a periodi con e senza stagista) ha permesso di evidenziare risultati positivi, perché lo smaltimento medio è stato superiore del 16% in presenza dello stagista (rispetto a periodi nei quali gli stessi Giudici non avevano avuto lo stagista), e le pendenze finali erano diminuite del 10%. Ovviamente, sono in linea con tali risultati anche gli indici di ricambio, di smaltimento e di durata media dei procedimenti.

E tuttavia, la preferenza per il dato nazionale poggia su altre considerazioni.

In particolare, se non c’è dubbio che il contesto organizzativo caratterizzato dall’ufficio del processo sia tale da favorire il lavoro, ed aumentare la capacità di definizione, è altrettanto vero che allo stato questa realtà non solo non è comune alle varie sedi giudiziarie, ma neppure è strutturale. L’attività di organizzazione del lavoro degli stagisti è complessa, e richiede del tempo non solo perché ciascuno di noi acquisisca familiarità con il progetto, ma anche per la formazione iniziale del soggetto che viene ad essere inserito nell’ufficio del giudice. Essa dipende poi, come è ovvio, dalla maggiore o minore capacità del personale interessato, di calarsi nella realtà lavorativa ed organizzativa, e dai tempi che allo scopo sono necessari. Peraltro, si tratta di personale che svolge un ciclo di formazione e di collaborazione per un tempo limitato, e che viene poi sostituito da altro personale, ciò che comporta anche la necessità di reiterare nel tempo le attività di formazione iniziale, al fine di stabilire ogni volta un giusto grado di interazione tra il giudice e lo stagista.

In tale contesto, valorizzare, a fini di determinazione del carico esigibile, il dato locale, o addirittura contingente, rischia di creare quanto meno un certo disorientamento, oltre che chiare differenze tra contesti e contesti. Senza dimenticare che non essendo un ufficio istituzionalmente strutturato, esso ben potrebbe venir meno in corso d’anno, o costituirsi in corso d’anno, con ulteriori difficoltà di gestione e di determinazione del dato.

Ed allora, ancora una volta, l’unica variabile della quale tener conto, appare quella del singolo magistrato. È sulla capacità di questa unità che va determinato il carico esigibile, senza distinguere tra contesti locali meglio o peggio organizzati.

Il dato del carico di lavoro, per collegare questo punto a quello precedente, andrà però valutato a valle. In altre parole, proprio perché esso non deve rappresentare il livello massimo da raggiungere, e a cui parametrare il complessivo impegno richiesto al magistrato, dovrà tenersi conto della maggiore o minore capacità di organizzare le risorse a disposizione, da parte del giudice, compresa la possibile migliore capacità di organizzare il proprio lavoro, sfruttando gli strumenti utilizzabili allo scopo, in vista delle valutazioni diverse da quelle inerenti la professionalità.

In questo senso, la capacità di organizzare l’ufficio del processo, quando presente, deve essere valutata in vista della attribuzione degli incarichi direttivi o semi-direttivi, ed in generale per tutte le vicende che non riguardino la stretta progressione in carriera, ai fini delle valutazioni di professionalità, ovvero le vicende disciplinari, salva la prova del contrario da parte degli organi che agiscono in tali sedi.

Il carico esigibile rappresenta allora una sorta di scriminante, che dovrebbe far presumere, salva la prova del contrario, la assenza di responsabilità disciplinare, o erariale, e che dovrebbe far presumere, anche in questo caso salva la prova del contrario, il giudizio positivo sulle voci relative del giudizio di professionalità.

Si tratta peraltro di un istituto diverso da quello rappresentato dai programmi di gestione ai sensi dell’art. 37 del DL 98/2011, che infatti non è incentrato sui magistrati, ma sulle esigenze dell’ufficio (non a caso il comma 1 lett. B impone che in quella sede si debba tener conto dei carichi esigibili di lavoro dei magistrati individuati dai competenti organi di autogoverno).

E si tratta di un istituto differente da quello rappresentato dagli standard di rendimento, che sono ancorati a parametri che estendono le maggiori capacità di definizione dei colleghi dello stesso Ufficio, anche a chi in ipotesi non avesse analoghe capacità, ma che avesse comunque definizioni numericamente rilevanti, con riflessi diretti sulle valutazioni di professionalità.

Infine, e quanto alla concreta determinazione, il sistema dovrebbe tener conto di un numero massimo di definizioni esigibili, tarato su un peso specifico da attribuire ad ogni tipologia di controversia, e ad ogni modalità di definizione. Non vi è dubbio, infatti, che altro è trattare un giudizio di divorzio consensuale, e altro è trattare un giudizio di divorzio contenzioso. Sotto quest’ultimo profilo, è sufficiente evidenziare come una concreta determinazione sia stata ad esempio già ipotizzata dal gruppo di studio dell’Anm, per i Pubblici Ministeri (lavoro risalente al giugno 2009).

                                                                                      Michele Nardelli

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