SENTENZA N. 132

ANNO 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 511, 525, comma 2, e 526, comma 1, del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Siracusa, sezione unica penale, nel procedimento penale a carico di P.S. V. e altri, con ordinanza del 12 marzo 2018, iscritta al n. 114 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2018.

Udito nella camera di consiglio del 3 aprile 2019 il Giudice relatore Francesco Viganò.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 12 marzo 2018 il Tribunale ordinario di Siracusa, sezione unica penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 511, 525, comma 2, e 526, comma 1, del codice di procedura penale, chiedendo a questa Corte di valutare «se i medesimi siano costituzionalmente illegittimi in relazione all’art. 111 della Costituzione, se interpretati nel senso che ad ogni mutamento della persona fisica di un giudice, la prova possa ritenersi legittimamente assunta solo se i testimoni già sentiti nel dibattimento, depongano nuovamente in aula davanti al giudice-persona fisica che deve deliberare sulle medesime circostanze o se invece ciò debba avvenire solo allorquando non siano violati i principi costituzionali della effettività e della ragionevole durata del processo».

L’ordinanza di rimessione è stata pronunciata nel processo penale a carico di P.S. V., B. S., G. S. e F. S., dirigenti aziendali imputati dei delitti di cui agli artt. 416 (associazione per delinquere), 340 (interruzione di ufficio, servizio pubblico o servizio di pubblica necessità) e 629 (estorsione) del codice penale (quest’ultimo – nella prospettiva accusatoria – commesso in danno di diversi lavoratori dipendenti).

2.– In punto di rilevanza delle questioni, il giudice rimettente espone anzitutto:

– che nel processo a quo, dopo la costituzione delle parti civili, avvenuta alle udienze del 6 dicembre 2007 e del 12 giugno 2008, l’istruzione dibattimentale si è svolta, mediante escussione dei testimoni, alle udienze del 17 giugno 2010, del 18 novembre 2010, del 26 maggio 2011, del 29 settembre 2011 e del 26 gennaio 2012;

– che, dopo un primo mutamento della composizione del collegio giudicante, stante il mancato consenso dei difensori degli imputati alla lettura, ai sensi dell’art. 511 cod. proc. pen., dei verbali delle deposizioni testimoniali già assunte in dibattimento, si è reso necessario disporre la rinnovazione dell’escussione testimoniale;

– che altri testimoni sono stati sentiti alle udienze del 18 marzo 2013, del 13 maggio 2013 e del 27 gennaio 2014;

– che è poi intervenuto un ulteriore mutamento della composizione dell’organo giudicante, così che l’escussione dei testimoni è stata ripetuta all’udienza del 16 marzo 2015;

– che, successivamente, la composizione del collegio è mutata più volte, con conseguente necessità di rinnovare – fino a sei volte – l’escussione dei testimoni.

Osserva a questo punto il giudice a quo che, a seguito dell’ennesimo mutamento dell’organo giudicante, e dell’opposizione dei difensori degli imputati – espressa all’udienza del 5 febbraio 2018 – alla lettura delle dichiarazioni testimoniali in precedenza rese, procedere ora alla citazione e all’escussione di tutti testimoni comporterebbe inevitabilmente la prescrizione definitiva di tutti i reati, «con insanabile pregiudizio anche delle istanze civilistiche delle parti civili». Solo ove si ritenesse consentita la lettura, ai sensi dell’art. 511 cod. proc. pen., delle dichiarazioni già rese dai testimoni, sarebbe invece possibile pervenire a una pronuncia di merito.

3.– Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il Tribunale di Siracusa rileva che la richiesta delle difese degli imputati di integrale rinnovazione dell’istruzione dibattimentale si fonda sul combinato disposto degli artt. 525, comma 2, e 526, comma 1, cod. proc. pen., i quali rispettivamente prevedono la partecipazione alla deliberazione della sentenza degli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento e il divieto di utilizzazione, ai fini della deliberazione, di prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento.

Il giudice a quo dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale di tali disposizioni, lette in combinato disposto con l’art. 511 cod. proc. pen., il quale prevede che la lettura dei verbali di dichiarazioni, contenute nel fascicolo del dibattimento, sia disposta solo dopo l’esame della persona che le ha rese, a meno che l’esame non abbia luogo.

3.1.– Le norme censurate, ove interpretate nel senso di imporre indefettibilmente la rinnovazione dell’escussione dei testimoni in caso di mutamento della persona fisica del giudice, violerebbero, anzitutto, il canone della ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111, secondo comma, Cost.

L’obbligo di risentire, a richiesta delle parti, i testimoni già escussi in dibattimento in corrispondenza di ogni mutamento della composizione del collegio giudicante sarebbe infatti suscettibile di dilatare i tempi del processo sino a una durata potenzialmente «infinita». L’abnorme allungamento dei tempi processuali, poi, combinandosi con il meccanismo della prescrizione dei reati, comporterebbe «lo svilimento assoluto del processo penale».

Il rimettente evidenzia come, nella prassi, il rispetto dell’oralità e dell’immediatezza del processo penale, cui si ispira la disciplina censurata, sia solo formale, atteso che i testimoni, sovente nuovamente escussi a distanza di anni dall’inizio del processo, si limitano a confermare quanto in precedenza dichiarato. Nel giudizio a quo, poi, la richiesta degli imputati di rinnovare l’audizione dei testimoni sarebbe stata esercitata con modalità abusive e meramente strumentali all’allungamento dei tempi del processo, fino alla prescrizione dei reati contestati. Nessuna domanda – osserva il rimettente – è stata infatti posta dalle difese ai testimoni riconvocati, i quali, esaminati dal pubblico ministero, hanno semplicemente confermato la precedente deposizione.

A fronte di un simile scenario, la compressione del canone della ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111, secondo comma, Cost., non potrebbe trovare alcuna giustificazione.

Solo interpretando le disposizioni censurate nel senso di escludere che esse impongano indefettibilmente la rinnovazione dell’escussione dei testimoni in caso di mutamento della persona fisica del giudice, sarebbe, invece, possibile affermarne la conformità all’art. 111, secondo comma, Cost.

E invero – sottolinea il rimettente – il codice di rito contempla diverse ipotesi di utilizzabilità, ai fini della decisione, di atti di natura probatoria formatisi davanti a un diverso giudice, quali gli atti di cui si dà lettura ai sensi dell’art. 511 cod. proc. pen., le risultanze dell’incidente probatorio di cui all’art. 392 cod. proc. pen., nonché le prove acquisite in altro procedimento, ai sensi dell’art. 238 cod. proc. pen. In particolare, a fronte dell’utilizzabilità dei verbali di prove testimoniali assunte in altro procedimento, sarebbe del tutto irragionevole concludere per l’inutilizzabilità dei verbali delle prove assunte nel medesimo procedimento, nei confronti dello stesso imputato ed alla presenza dello stesso difensore. La non coincidenza tra giudice che assume la prova testimoniale e giudice che decide sarebbe, pertanto, eventualità ammessa dallo stesso codice di rito.

Con riferimento alla prova testimoniale, d’altra parte, sarebbe possibile interpretare le disposizioni censurate, alla luce del canone di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111, secondo comma, Cost., nel senso che, una volta rispettato il principio del contraddittorio in sede di prima assunzione della prova dichiarativa, il mutamento dell’organo giudicante renda «possibile (ed anzi doveroso)» ripetere l’escussione dei testimoni, solo nella misura in cui la durata del processo di primo grado non ecceda il limite di ragionevolezza, individuato dalla legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) in tre anni. Ove tale limite sia stato superato, «la prova testimoniale (già validamente assunta nel contraddittorio delle parti dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale) non potrà essere ripetuta e di essa dovrà essere data lettura ex art. 511 c.p.p.».

Tale soluzione rappresenterebbe, ad avviso del giudice a quo, un adeguato bilanciamento tra principi di oralità e immediatezza del processo penale, peraltro non espressamente menzionati in Costituzione, e il canone della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111, secondo comma, Cost.

3.2.– In secondo luogo, il Tribunale di Siracusa ritiene che il riconoscimento di un diritto incondizionato dell’imputato di chiedere la rinnovazione dell’escussione dei testimoni contrasti con il principio costituzionale dell’effettività del processo, riconosciuto da questa Corte sin dalla sentenza n. 353 del 1996 ed implicito nel dettato dell’art. 111, primo comma, Cost., che recita: «la giurisdizione si attua».

Nelle sedi giudiziarie «periferiche», infatti, in forza di frequenti trasferimenti e congedi dei giudici, la composizione dei collegi giudicanti sarebbe soggetta a continui mutamenti. In tali condizioni, il rispetto «formale e categorico» del principio dell’oralità determinerebbe l’impossibilità oggettiva di portare a termine il processo, «con inevitabile pregiudizio delle ragioni delle persone offese e con enorme dispendio di attività processuali». Il principio dell’oralità, pertanto, dovrebbe ritenersi subvalente rispetto al principio costituzionale dell’effettività del giudizio, poiché «in una situazione di fatto che non consente la permanenza dello stesso giudice persona fisica per più di qualche anno, il rispetto rigoroso dell’oralità comporta matematicamente che “la giurisdizione NON si attua”».

Del resto, l’oralità del processo sarebbe principio di rango non costituzionale, che conosce deroghe nel codice di rito, ad esempio nel caso già ricordato di assunzione della prova nelle forme dell’incidente probatorio, oppure in relazione alle dichiarazioni del coimputato che non intenda sottoporsi ad esame, e, comunque, nella fase di appello.

4. – Il Presidente del Consiglio dei ministri non è intervenuto nel presente giudizio; né si è costituita alcuna delle parti del giudizio a quo.

Considerato in diritto

1. – Con l’ordinanza indicata in epigrafe il Tribunale ordinario di Siracusa, sezione unica penale, dubita della legittimità costituzionale degli artt. 511, 525, comma 2, e 526, comma 1, del codice di procedura penale, chiedendo a questa Corte di valutare «se i medesimi siano costituzionalmente illegittimi in relazione all’art. 111 della Costituzione, se interpretati nel senso che ad ogni mutamento della persona fisica di un giudice, la prova possa ritenersi legittimamente assunta solo se i testimoni già sentiti nel dibattimento, depongano nuovamente in aula davanti al giudice-persona fisica che deve deliberare sulle medesime circostanze o se invece ciò debba avvenire solo allorquando non siano violati i principi costituzionali della effettività e della ragionevole durata del processo».

L’imposizione, a ogni di mutamento della composizione del collegio giudicante, dell’obbligo di rinnovare l’escussione dei testimoni, fatto salvo il caso in cui le parti processuali prestino il consenso alla lettura delle deposizioni precedentemente rese in dibattimento, sarebbe suscettibile di dilatare in maniera abnorme i tempi del processo, in contrasto il canone di ragionevole durata, di cui all’art. 111, secondo comma, Cost.

La disciplina censurata violerebbe, altresì, il principio costituzionale dell’effettività del processo, inscritto nell’art. 111, primo comma, Cost., poiché la (potenzialmente infinita) reiterazione dell’assunzione della prova dichiarativa impedirebbe di concludere utilmente il processo, così frustrando la piena ed effettiva attuazione della giurisdizione.

2.– Le questioni, così come formulate, sono inammissibili.

2.1. – Gli artt. 525, comma 2, e 526, comma 1, cod. proc. pen., rispettivamente prevedono la partecipazione alla deliberazione della sentenza degli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento e il divieto di utilizzazione, ai fini della deliberazione, di prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento. Dal canto suo, l’art. 511 cod. proc. pen., nel disciplinare la lettura degli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento e utilizzabili per la decisione, consente la lettura dei verbali di dichiarazioni solo dopo l’esame della persona che le ha rese, a meno che l’esame non abbia luogo.

Secondo l’interpretazione degli artt. 525, comma 2, 526, comma 1, e 511 cod. proc. pen. offerta dal diritto vivente, da tale combinato disposto deriva l’obbligo, per il giudice del dibattimento, di ripetere l’assunzione della prova dichiarativa ogni qualvolta muti la composizione del collegio giudicante, laddove le parti processuali non acconsentano alla lettura delle dichiarazioni rese dai testimoni innanzi al precedente organo giudicante (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 febbraio 1999, n. 2; sezione prima, sentenza 4 novembre 1999, n. 12496; sezione prima, sentenza 7 dicembre 2001-10 maggio 2002, n. 17804; sezione prima, sentenza 23 settembre 2004, n. 37537; sezione quinta, sentenza 7 novembre 2006-31 gennaio 2007, n. 3613; sezione quinta, sentenza 15 dicembre 2011, n. 46561; sezione quinta, sentenza 11 maggio 2017, n. 23015).

Tale interpretazione è stata ripetutamente fatta propria anche dalla giurisprudenza di questa Corte, che peraltro ha, finora, sempre escluso l’illegittimità costituzionale della disciplina oggi nuovamente censurata, così come interpretata dal diritto vivente (sentenza n. 17 del 1994; ordinanze n. 205 del 2010, n. 318 del 2008, n. 67 del 2007, n. 418 del 2004, n. 73 del 2003, n. 59 del 2002, n. 431 e n. 399 del 2001).

2.2.– Il giudice a quo prospetta, nella motivazione dell’ordinanza di rimessione, la possibilità di una diversa lettura – definita «costituzionalmente orientata» – delle disposizioni censurate, secondo la quale l’obbligo di ripetizione della prova dichiarativa, in caso di mutamento dell’organo giudicante, sussisterebbe solo nella misura in cui la durata del processo non ecceda il limite di durata ragionevole, individuato in tre anni dalla legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile). Ove il processo si protragga oltre detto limite temporale, la prova dichiarativa non dovrebbe essere nuovamente assunta – anche se la parte interessata ne faccia richiesta – e le dichiarazioni rese innanzi all’organo giudicante poi mutato potrebbero essere utilizzate per la decisione, mediante lettura dei relativi verbali.

Il rimettente, tuttavia, non fa propria questa interpretazione, evitando così di riassumere le prove dichiarative, ma ritiene invece di promuovere il presente incidente di costituzionalità, chiedendo alla Corte, alternativamente, di avallare tale interpretazione attraverso una sentenza di rigetto, ovvero di dichiarare illegittime le disposizioni censurate se interpretate secondo il diritto vivente.

In tal modo, il giudice a quo da un lato formula un petitum in termini di irrisolta alternatività (sentenza n. 87 del 2013); e dall’altro mira evidentemente a conseguire un avallo alla propria interpretazione asseritamente secundum constitutionem delle disposizioni censurate, il che determina l’inammissibilità delle questioni (ex plurimis, ordinanze n. 97 del 2017, n. 87 e n. 33 del 2016, n. 92 del 2015).

3.– Questa Corte non può esimersi, peraltro, dal sottolineare le incongruità dell’attuale disciplina, così come interpretata dal diritto vivente.

3.1.– Nell’impianto del vigente codice di procedura penale, il principio di immediatezza della prova è strettamente correlato al principio di oralità: principi, entrambi, che sottendono un modello dibattimentale fortemente concentrato nel tempo, idealmente da celebrarsi in un’unica udienza o, al più, in udienze celebrate senza soluzione di continuità (come risulta evidente dal tenore dell’art. 477 cod. proc. pen.). Solo a tale condizione, infatti, l’immediatezza risulta funzionale rispetto ai suoi obiettivi essenziali: e cioè, da un lato, quello di consentire «la diretta percezione, da parte del giudice deliberante, della prova stessa nel momento della sua formazione, così da poterne cogliere tutti i connotati espressivi, anche quelli di carattere non verbale, particolarmente prodotti dal metodo dialettico dell’esame e del controesame; connotati che possono rivelarsi utili nel giudizio di attendibilità del risultato probatorio» (ordinanza n. 205 del 2010); e, dall’altro, quello di assicurare che il giudice che decide non sia passivo fruitore di prove dichiarative già da altri acquisite, ma possa – ai sensi dell’art. 506 cod. proc. pen. – attivamente intervenire nella formazione della prova stessa, ponendo direttamente domande ai dichiaranti e persino indicando alle parti «nuovi o più ampi temi di prova, utili per la completezza dell’esame»: poteri che il legislatore concepisce come strumentali alla formazione progressiva del convincimento che condurrà il giudice alla decisione, idealmente collocata in un momento immediatamente successivo alla conclusione del dibattimento e alla (contestuale) discussione.

L’esperienza maturata in trent’anni di vita del vigente codice di procedura penale restituisce, peraltro, una realtà assai lontana dal modello ideale immaginato dal legislatore. I dibattimenti che si concludono nell’arco di un’unica udienza sono l’eccezione; mentre la regola è rappresentata da dibattimenti che si dipanano attraverso più udienze, spesso intervallate da rinvii di mesi o di anni, come emblematicamente illustra l’odierno giudizio a quo (Ritenuto in fatto, punto 2.).

In una simile situazione, il principio di immediatezza rischia di divenire un mero simulacro: anche se il giudice che decide resta il medesimo, il suo convincimento al momento della decisione finirà – in pratica – per fondarsi prevalentemente sulla lettura delle trascrizioni delle dichiarazioni rese in udienza, delle quali egli conserverà al più un pallido ricordo.

D’altra parte, la dilatazione in un ampio arco temporale dei dibattimenti crea inevitabilmente il rischio che il giudice che ha iniziato il processo si trovi nell’impossibilità di condurlo a termine, o comunque che il collegio giudicante muti la propria composizione, per le ragioni più varie. Il che comporta, oggi, la necessità di rinnovare le prove dichiarative già assunte in precedenza, salvo che le parti consentano alla loro lettura. Frequente è, d’altra parte, l’eventualità che la nuova escussione si risolva nella mera conferma delle dichiarazioni rese tempo addietro dal testimone, il quale avrà d’altra parte una memoria ormai assai meno vivida dei fatti sui quali, allora, aveva deposto: senza, dunque, che il nuovo giudice possa trarre dal contatto diretto con il testimone alcun beneficio addizionale, in termini di formazione del proprio convincimento, rispetto a quanto già emerge dalle trascrizioni delle sue precedenti dichiarazioni, comunque acquisibili al fascicolo dibattimentale ai sensi dell’art. 511, comma 2, cod. proc. pen. una volta che il testimone venga risentito.

La dilatazione dei tempi processuali che deriva dalla necessità di riconvocare i testimoni – dilatazione che può assumere dimensioni imponenti in dibattimenti complessi, come quello pendente di fronte al giudice a quo – produce costi significativi, in termini tanto di ragionevole durata del processo, quanto di efficiente amministrazione della giustizia penale; e ciò anche in considerazione della possibilità che, proprio per effetto delle dilatazioni temporali in parola, il reato si prescriva prima della sentenza definitiva.

Il tutto a fronte di una assai dubbia idoneità complessiva di tale meccanismo a garantire, in maniera effettiva e non solo declamatoria, i diritti fondamentali dell’imputato, e in particolare quello a una decisione giudiziale corretta sull’imputazione che lo riguarda.

3.2.– In un simile contesto fattuale – con il quale non può non fare i conti ogni discorso sulla tutela dei diritti fondamentali – questa Corte ritiene doveroso sollecitare l’adozione di rimedi strutturali in grado di ovviare agli inconvenienti evidenziati, assicurando al contempo piena tutela al diritto di difesa dell’imputato.

Il che potrebbe avvenire non solo favorendo la concentrazione temporale dei dibattimenti, sì da assicurarne idealmente la conclusione in un’unica udienza o in udienze immediatamente consecutive, come avviene di regola in molti ordinamenti stranieri; ma anche, ove ciò non sia possibile, attraverso la previsione legislativa di ragionevoli deroghe alla regola dell’identità tra giudice avanti al quale si forma la prova e giudice che decide. Al riguardo, occorre infatti considerare che il diritto della parte alla nuova audizione dei testimoni di fronte al nuovo giudice o al mutato collegio «non è assoluto, ma “modulabile” (entro limiti di ragionevolezza) dal legislatore» (ordinanza n. 205 del 2010), restando ferma – in particolare – la possibilità per il legislatore di introdurre «presidi normativi volti a prevenire il possibile uso strumentale e dilatorio» del diritto in questione (ordinanze n. 318 del 2008 e n. 67 del 2007).

La stessa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – che pure ascrive alle garanzie dell’equo processo la possibilità, per l’imputato, di confrontarsi con i testimoni in presenza del giudice che dovrà poi decidere sul merito delle accuse, sul presupposto della maggiore affidabilità epistemologica dell’osservazione diretta del comportamento dei testi (ex multis, Corte EDU, sentenze 27 settembre 2007, Reiner e altri contro Romania, paragrafo 74 e 30 novembre 2006, Grecu contro Romania, paragrafo 72) – riconosce cionondimeno che il principio dell’immediatezza può essere sottoposto a ragionevoli deroghe, purché siano adottate misure appropriate per assicurare che il nuovo giudice abbia una piena conoscenza del materiale probatorio. Ad esempio, la Corte EDU ha indicato quale “misura compensativa” adeguata la possibilità, per il nuovo giudice, di disporre la rinnovazione della deposizione dei (soli) testimoni la cui deposizione sia ritenuta importante (Corte EDU, sentenze 2 dicembre 2014, Cutean contro Romania, paragrafo 61, e 6 dicembre 2016, Škaro contro Croazia, paragrafo 24); e ha escluso la violazione dell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1955, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, in un caso in cui non era stata rinnovata l’escussione dei testimoni nonostante la sostituzione di un membro del collegio giudicante, sottolineando come i verbali delle deposizioni in precedenza raccolte fossero a disposizione del nuovo componente del collegio, e l’imputato non avesse chiarito quali elementi nuovi e pertinenti la rinnovazione avrebbe potuto apportare (Corte EDU, sentenza 10 febbraio 2005, Graviano contro Italia, paragrafi 39-40; in senso analogo, decisione 9 luglio 2002, P. K. c. Finlandia).

Resta, dunque, aperta per il legislatore la possibilità di introdurre ragionevoli eccezioni al principio dell’identità tra giudice avanti al quale è assunta la prova e giudice che decide, in funzione dell’esigenza, costituzionalmente rilevante, di salvaguardare l’efficienza dell’amministrazione della giustizia penale, in presenza di meccanismi “compensativi” funzionali all’altrettanto essenziale obiettivo della correttezza della decisione – come, ad esempio, la videoregistrazione delle prove dichiarative, quanto meno nei dibattimenti più articolati –, e ferma restando la possibilità (già oggi implicitamente riconosciuta dall’art. 507 cod. proc. pen.: ex plurimis, Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 18 settembre 1997, n. 10015) per il giudice di disporre, su istanza di parte o d’ufficio, la riconvocazione del testimone avanti a sé per la richiesta di ulteriori chiarimenti o l’indicazione di nuovi temi di prova, ai sensi dell’art. 506 cod. proc. pen.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 525, comma 2, 526, comma 1, e 511 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento all’art. 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Siracusa con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 maggio 2019.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2019.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

a cura di Andrea Penta

SENTENZA N. 139 ANNO 2015

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:- Marta CARTABIA Presidente

– Giuseppe FRIGO Giudice- Paolo GROSSI “

– Giorgio LATTANZI “- Aldo CAROSI “

– Mario Rosario MORELLI “

– Giancarlo CORAGGIO “

– Giuliano AMATO “

– Silvana SCIARRA “

– Daria de PRETIS “

– Nicolò ZANON “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale promossi dal Tribunale ordinario di Lecce con ordinanza del 9 luglio 2014 e dal Tribunale ordinario di Padova con ordinanza del 7 ottobre 2014, iscritte rispettivamente al n. 218 del registro ordinanze 2014 e al n. 13 del registro ordinanze 2015 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 50, prima serie speciale, dell’anno 2014 e 8, prima serie speciale, dell’anno 2015.Visti gli atti di costituzione di A.G. e S.A.;udito nell’udienza pubblica del 26 maggio 2015 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;uditi gli avvocati Paolo Spalluto per A.G. e Giovanni Gentilini per S.A.

Ritenuto in fatto

1.- Con ordinanza del 9 luglio 2014 il Tribunale ordinario di Lecce ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale:a) dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che, quando è contestata in dibattimento una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine, l’imputato possa chiedere di definire il processo con giudizio abbreviato relativamente al reato oggetto della nuova contestazione;b) del medesimo art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che, quando è contestata in dibattimento una circostanza aggravante o un reato concorrente che già risultava dagli atti di indagine, l’imputato possa chiedere il giudizio abbreviato anche in relazione alle imputazioni che non hanno formato oggetto di modifica.1.1.- Il Tribunale rimettente premette di essere investito del processo penale nei confronti di una persona imputata del reato di violenza sessuale continuata in danno della figlia della sua convivente, minorenne all’epoca dei fatti, nonché dei reati di maltrattamenti e violenza sessuale continuata in danno della propria moglie.Riferisce, altresì, che in una precedente udienza dibattimentale, il pubblico ministero aveva modificato e integrato l’imputazione relativa ai reati commessi in danno della minore, sulla base di elementi che già emergevano dalle dichiarazioni rese dalle persone offese nel corso dell’incidente probatorio. Il pubblico ministero aveva in particolare contestato, da un lato, la circostanza aggravante di cui all’art. 609-ter del codice penale, anticipando la data di consumazione delle violenze sessuali ad un periodo nel quale la persona offesa non aveva ancora compiuto i quattordici anni; dall’altro, il delitto di cui all’art. 609-quater cod. pen., con riferimento agli atti sessuali che l’imputato avrebbe compiuto dopo che la minore aveva raggiunto i quattordici anni e conviveva con lui.A fronte di ciò, il difensore dell’imputato aveva chiesto che il processo fosse definito con rito abbreviato per tutte le imputazioni o, in subordine, per i soli reati oggetto delle nuove contestazioni.Al riguardo, il giudice a quo osserva che, per quanto attiene alla contestazione del reato di cui all’art. 609-quater cod. pen., la Corte costituzionale, con la sentenza n. 333 del 2009, ha già riconosciuto all’imputato il diritto di richiedere il giudizio abbreviato nel caso di contestazione di un reato concorrente (art. 517 cod. proc. pen.) o di un fatto diverso (art. 516 cod. proc. pen.) risultanti dagli atti di indagine: e ciò dopo che, nelle medesime ipotesi, la sentenza n. 265 del 1994 aveva consentito all’imputato di chiedere l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.Tale ultima facoltà è stata, altresì, riconosciuta all’imputato, con la successiva sentenza n. 184 del 2014, nel caso di contestazione, ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen., di una circostanza aggravante che già emergeva dagli atti di indagine.Nell’occasione, la Corte ha ribadito che la scelta in ordine al rito da seguire, costituente espressione del diritto di difesa, viene a dipendere dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero. Nel caso in cui, a seguito dell’errore del rappresentante della pubblica accusa e del conseguente ritardo nella contestazione dell’aggravante, l’imputazione subisca una modifica sostanziale, risulta, dunque, lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali. Tale preclusione viola, altresì, l’art. 3 Cost., venendo l’imputato irragionevolmente discriminato, ai fini dell’accesso a detti riti, in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza della valutazione delle risultanze delle indagini preliminari da parte del pubblico ministero alla chiusura delle indagini stesse.A parere del rimettente, pur riferendosi la declaratoria di illegittimità costituzionale da ultimo ricordata unicamente al “patteggiamento”, gli argomenti addotti a fondamento di essa varrebbero anche rispetto alla richiesta di giudizio abbreviato.L’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non consente all’imputato di accedere a detto rito alternativo nel caso di contestazione suppletiva di una circostanza aggravante già risultante dagli atti, si porrebbe, infatti, parimenti in contrasto tanto con l’art. 24 Cost., per violazione del diritto di difesa, cui attiene l’opzione per il reato speciale; quanto con l’art. 3 Cost., stante la disparità di trattamento, a parità di esigenze difensive, sia rispetto a chi, per effetto della sentenza n. 184 del 2014, può richiedere nella medesima ipotesi l’applicazione della pena, sia rispetto a chi, per effetto della sentenza n. 333 del 2009, può richiedere il giudizio abbreviato nel caso di contestazione “tardiva” di un reato concorrente.Ad avviso del rimettente, l’art. 517 cod. proc. pen. violerebbe i parametri evocati anche nella parte in cui, nel caso di contestazione di una circostanza aggravante o di un reato concorrente già risultanti dagli atti di indagine, non permette all’imputato di richiedere il giudizio abbreviato anche in relazione ai reati che non formano oggetto della contestazione suppletiva.In base ad un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, infatti, nel caso in cui il processo abbia ad oggetto più imputazioni, la richiesta di rito alternativo deve riguardarle tutte, giacché l’effetto premiale che caratterizza il rito risulterebbe incompatibile con una frammentazione del processo che costringa comunque a celebrare il dibattimento. Alla stregua di tale indirizzo interpretativo – pur opinabile, secondo il rimettente, posto che il giudizio dibattimentale è comunque semplificato dall’accesso al rito alternativo per una parte delle imputazioni – la mancata estensione del diritto di chiedere il giudizio abbreviato alla globalità delle imputazioni impedirebbe all’imputato di accedere al rito speciale anche con riguardo alle imputazioni non modificate.In ogni caso, poi, la preclusione censurata impedirebbe all’imputato di adottare una strategia difensiva, relativamente al rito da seguire, che tenga conto dell’ «intera materia del processo». La modifica anche di una soltanto delle plurime imputazioni sarebbe, infatti, suscettiva di alterare i presupposti delle scelte operate dalla difesa considerando i possibili esiti del processo, sulla base delle imputazioni originariamente formulate dal pubblico ministero. Detta modifica potrebbe, ad esempio, far cadere l’aspettativa dell’imputato di poter fruire, nel caso di condanna, di una pena mite, suscettibile di sospensione condizionale, ovvero di sostituzione con misure alternative in sede esecutiva. Né, d’altra parte – come reiteratamente affermato dalla giurisprudenza costituzionale – potrebbe farsi carico all’imputato di non aver previsto i possibili sviluppi futuri del processo, nel momento in cui non ha richiesto il rito alternativo nel termine di legge.1.2.- Si è costituito A.G., imputato nel processo principale, il quale, richiamando e facendo proprie le considerazioni espresse dal rimettente, ha chiesto l’accoglimento delle questioni.2.- Con ordinanza del 7 ottobre 2014, il Tribunale ordinario di Padova ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato nel caso di contestazione in dibattimento di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.2.1.- Il giudice a quo riferisce di essere investito del processo nei confronti di una persona rinviata a giudizio per il delitto di cessione continuata di sostanza stupefacente. Nel corso del dibattimento, il pubblico ministero aveva modificato l’imputazione, contestando la circostanza aggravante della consegna dello stupefacente a persona di età minore, di cui all’art. 80, comma 1, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza): circostanza aggravante che già emergeva dagli atti compiuti nella fase delle indagini preliminari.A fronte di ciò, l’imputato aveva chiesto di essere giudicato con rito abbreviato condizionato o, in subordine, con rito abbreviato semplice.In proposito, il rimettente rileva come manchi, allo stato, nell’art. 517 cod. proc. pen., una specifica previsione che consenta all’imputato di accedere al giudizio abbreviato nell’ipotesi di contestazione suppletiva di una circostanza aggravante cosiddetta “patologica”, basata, cioè – come nel caso di specie – su elementi già risultanti dagli atti di indagine: profilo per il quale la norma censurata verrebbe a porsi in contrasto tanto con l’art. 24, secondo comma, che con l’art. 3 Cost. Tale conclusione si imporrebbe in base a considerazioni analoghe a quelle che hanno indotto la Corte costituzionale a dichiarare costituzionalmente illegittimo il citato art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede, nell’evenienza considerata, la facoltà dell’imputato di chiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.Sarebbe ravvisabile, infatti, anche con riguardo al giudizio abbreviato, la lesione del diritto di difesa connessa al fatto che, nell’ipotesi in esame, le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito speciale risultano sviate da un anomalo ritardo nella contestazione della circostanza aggravante – atta ad incidere in modo significativo sull’entità della sanzione irrogabile – conseguente ad un errore o ad un’omissione del rappresentante della pubblica accusa.D’altra parte, come già evidenziato dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 333 del 2009, avuto riguardo all’ipotesi della contestazione di un reato concorrente, la differenza di regime, in punto di recupero della facoltà di accesso ai riti alternativi di fronte ad una contestazione suppletiva “tardiva”, a seconda che si discuta di “patteggiamento” o di giudizio abbreviato, risulterebbe ingiustificata e fonte, quindi, di una discrasia rilevante sul piano del rispetto dell’art. 3 Cost.Quest’ultimo parametro risulterebbe violato anche per la irragionevole discriminazione cui l’imputato si trova esposto, ai fini dell’accesso al rito speciale, in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza delle valutazioni del pubblico ministero in ordine alle risultanze delle indagini al momento dell’esercizio dell’azione penale.Parimenti ingiustificata risulterebbe, infine, la disparità di trattamento fra l’imputato che subisce la contestazione suppletiva di una circostanza aggravante el’imputato cui sia contestato in dibattimento un fatto diverso o un reato concorrente, il quale – per effetto delle sentenze n. 333 del 2009 e n. 237 del 2012 – può invece accedere al giudizio abbreviato, tanto nel caso di contestazione “patologica” che in quello di contestazione “fisiologica” (basata, cioè, sulle nuove risultanze dell’istruzione dibattimentale). E ciò tanto più ove si consideri che l’art. 517 cod. proc. pen. prefigurava, in origine, una piena equiparazione dei diritti dell’imputato nei casi di contestazione di un reato concorrente ovvero di una circostanza aggravante.2.2.- Si è costituito S.A., imputato nel giudizio a quo, il quale, richiamando le più significative decisioni della Corte costituzionale in materia e aderendo alle valutazioni formulate dal rimettente, ha chiesto che la questione venga accolta.Considerato in diritto1.- I Tribunali ordinari di Lecce e di Padova dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che, ove sia contestata in dibattimento una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine, l’imputato possa chiedere di definire il processo con giudizio abbreviato relativamente al reato oggetto della nuova contestazione.Ad avviso dei rimettenti, varrebbero, in proposito, considerazioni analoghe a quelle svolte da questa Corte nella sentenza n. 184 del 2014, con riguardo alla facoltà dell’imputato di richiedere, nella medesima evenienza, l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. La norma censurata violerebbe, in specie, l’art. 24 della Costituzione – e, più in particolare, a parere del Tribunale ordinario di Padova, il secondo comma di tale articolo – in quanto la scelta in ordine al rito da seguire, costituente espressione del diritto di difesa, viene a dipendere dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero: sicché risulterebbe lesivo di quel diritto precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali allorché, a seguito dell’errore del rappresentante della pubblica accusa e del conseguente ritardo nella contestazione dell’aggravante, l’imputazione subisca una modifica sostanziale.Risulterebbe inoltre violato, sotto plurimi profili, l’art. 3 Cost. In primo luogo, perché l’imputato verrebbe irragionevolmente discriminato, ai fini dell’accesso al giudizio abbreviato, in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza della valutazione delle risultanze delle indagini preliminari da parte del pubblico ministero alla chiusura delle indagini stesse. In secondo luogo, per la ingiustificata disparità di trattamento dell’imputato che intenda chiedere il giudizio abbreviato nell’ipotesi in esame rispetto all’imputato che, nella medesima ipotesi della contestazione cosiddetta “tardiva” di una circostanza aggravante, voglia chiedere il “patteggiamento”, ovvero che intenda richiedere il giudizio abbreviato nel caso di contestazione di un reato concorrente, tanto “tardiva” che (secondo il Tribunale ordinario di Padova) “fisiologica”: ipotesi, queste ultime, nelle quali la preclusione all’accesso al rito alternativo è stata rimossa, rispettivamente, dalle sentenze n. 184 del 2014, n. 333 del 2009 e n. 237 del 2012 di questa Corte.Il solo Tribunale ordinario di Lecce dubita, altresì, della legittimità costituzionale del medesimo art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui, nel caso di contestazione di una circostanza aggravante o di un reato concorrente già risultanti dagli atti di indagine, non consente all’imputato di richiedere il giudizio abbreviato anche in relazione ai reati diversi da quello oggetto della contestazione suppletiva.Secondo il rimettente, anche sotto tale profilo la norma denunciata si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. In primo luogo, perché, ove si aderisse alla tesigiurisprudenziale che ritiene inammissibile la richiesta di giudizio abbreviato riferita ad una parte soltanto delle imputazioni cumulativamente formulate nei confronti del medesimo imputato, il diritto di difesa di quest’ultimo rimarrebbe pregiudicato, sul piano delle possibilità di accesso al rito alternativo, anche con riguardo alle imputazioni oggetto della nuova contestazione. In secondo luogo, e comunque, perché la preclusione censurata impedirebbe all’imputato di elaborare una strategia difensiva che tenga conto dell’intera vicenda processuale, posto che la modifica anche di una sola delle plurime imputazioni sarebbe suscettibile di alterare i presupposti delle valutazioni in ordine alla convenienza del rito speciale, operate dalla difesa considerando i possibili esiti del processo in base alle imputazioni originariamente formulate dal pubblico ministero.2.- Le ordinanze di rimessione sollevano questioni relative alla medesima norma e in parte identiche, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.3.- Con le questioni in esame, questa Corte è chiamata nuovamente a verificare, sotto due ulteriori profili, la legittimità costituzionale della preclusione all’accesso ai riti alternativi a contenuto premiale in cui l’imputato incorre di fronte alle nuove contestazioni dibattimentali: preclusione conseguente al fatto che la nuova contestazione interviene quando il termine ultimo per la formulazione della richiesta del rito alternativo (individuato attualmente dagli artt. 438, comma 2, 446, comma 1, e 555, comma 2, cod. proc. pen.) è ormai spirato. Le doglianze degli odierni rimettenti attengono, più specificamente, alla mancata previsione del recupero della facoltà di accesso al giudizio abbreviato in presenza di contestazioni suppletive cosiddette “tardive” o “patologiche”, basate, cioè, non sulle nuove risultanze dell’istruzione dibattimentale, ma su elementi che già emergevano dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale (e dunque volte, nellasostanza, a porre rimedio a incompletezze o errori del pubblico ministero nella formulazione originaria dell’imputazione): contestazioni ritenute ammissibili dalla consolidata giurisprudenza di legittimità.4.- La prima delle due questioni, sollevata da entrambi i rimettenti – concernente la facoltà dell’imputato di richiedere il giudizio abbreviato nel caso di contestazione “tardiva” di una circostanza aggravante, con riguardo al reato cui questa si riferisce – è fondata.4.1.- Questa Corte, già con la sentenza n. 265 del 1994, dichiarò costituzionalmente illegittimi gli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedevano la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., relativamente al fatto diverso o al reato concorrente oggetto di contestazione “tardiva”.Nell’occasione, la Corte rilevò che le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito alternativo vengono a dipendere, anzitutto, dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero: sicché, «quando in presenza di una evenienza patologica del procedimento, quale è quella derivante dall’errore sulla individuazione del fatto e del titolo del reato in cui è incorso il pubblico ministero, l’imputazione subisce una variazione sostanziale, risulta lesivo del diritto di difesa dell’imputato precludere l’accesso ai riti speciali». Ne risultava violato, altresì, il principio di eguaglianza, venendo l’imputato irragionevolmente discriminato, sul piano della fruizione dei riti alternativi, in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza della valutazione delle risultanze delle indagini preliminari da parte del pubblico ministero al momento della chiusura delle indagini stesse.Ancorché la contestazione suppletiva del reato concorrente e delle circostanze aggravanti sia regolata in modo unitario dall’art. 517 cod. proc. pen., la Corte non si espresse, nel frangente, sull’ipotesi della contestazione “tardiva” di una circostanza aggravante, in quanto non devoluta al suo esame.4.2.- La declaratoria di illegittimità costituzionale è stata, peraltro, successivamente estesa anche a tale ipotesi dalla sentenza n. 184 del 2014.La Corte ha, infatti, rilevato come le considerazioni poste a base della precedente decisione fossero riferibili anche alla contestazione “tardiva” di circostanze aggravanti, in quanto parimenti idonea a determinare «un significativo mutamento del quadro processuale». Le circostanze in questione possono, infatti, incidere in modo rilevante sull’entità della sanzione – tanto più quando si tratti di circostanze ad effetto speciale – e talvolta sullo stesso regime di procedibilità del reato. Né, d’altra parte, poteva farsi leva, in senso contrario, sulla neutralizzazione dell’aggravamento di pena a seguito del giudizio di bilanciamento con circostanze attenuanti, ai sensi dell’art. 69 del codice penale, il quale rappresenta una mera eventualità.La Corte ha osservato, inoltre, che l’imputato che si veda contestare in dibattimento una circostanza aggravante già risultante dagli atti di indagine si trova in situazione non dissimile da quella del destinatario della contestazione “tardiva” di un fatto diverso: «evenienza che in realtà potrebbe costituire per l’imputato anche un pregiudizio minore». Sicché, una volta divenuta ammissibile la richiesta di “patteggiamento” nel caso di modificazione dell’imputazione a norma dell’art. 516 cod. proc. pen., la preclusione di essa nel caso di contestazione di una nuova circostanza aggravante, ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen., risultava foriera di ingiustificate disparità di trattamento.4.3.- Le conclusioni non possono essere diverse con riguardo alla richiesta di giudizio abbreviato, cui si riferisce l’odierna questione.Con la sentenza n. 333 del 2009, questa Corte ha, infatti, ritenuto che – per le medesime ragioni indicate dalla sentenza n. 265 del 1994 – anche il mancato riconoscimento della possibilità di accedere a tale rito alternativo, nel caso di contestazione dibattimentale “tardiva” del fatto diverso o del reato concorrente, si ponesse in contrasto con gli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., dichiarando, quindi, costituzionalmente illegittimi, in parte qua, i citati artt. 516 e 517 cod. proc. pen.Al riguardo, la Corte ha rilevato che l’ostacolo che precedentemente si opponeva a tale declaratoria, costituito dalla problematicità dell’innesto del giudizio abbreviato nella fase del dibattimento – a fronte della quale la questione era stata ritenuta inammissibile dalla sentenza n. 265 del 1994, perché implicante scelte discrezionali devolute al legislatore – doveva ritenersi superato alla luce delle modifiche della disciplina del rito speciale intervenute medio tempore. Nel nuovo panorama normativo, «la differenza di regime, in punto di recupero della facoltà di accesso ai riti alternativi di fronte ad una contestazione suppletiva “tardiva”, a seconda che si discuta di “patteggiamento” o di giudizio abbreviato», finiva, quindi, per risultare «essa stessa fonte di una discrasia rilevante sul piano del rispetto dell’art. 3 Cost.».4.4.- Alla luce di quanto precede, l’esigenza costituzionale di riconoscere all’imputato il diritto di richiedere il giudizio abbreviato anche nel caso di contestazione “tardiva” di una circostanza aggravante – fattispecie rimasta estranea alla declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla citata sentenza n. 333 del 2009 – risulta del tutto evidente.Anche sotto tale profilo, infatti, si riscontra il pregiudizio al diritto di difesa, connesso all’impossibilità di rivalutare la convenienza del rito alternativo in presenza di una variazione sostanziale dell’imputazione, intesa ad emendare precedenti errori od omissioni del pubblico ministero nell’apprezzamento dei risultati delle indagini preliminari. Così come si riscontra la violazione del principio di eguaglianza, correlata alla discriminazione cui l’imputato si trova esposto a seconda della maggiore o minore esattezza e completezza di quell’apprezzamento.Emergono, inoltre, non giustificabili sperequazioni di trattamento rispetto all’assetto complessivo della materia, conseguente ai precedenti interventi di questa Corte: da un lato, nel confronto con la facoltà, di cui l’imputato fruisce a seguito della sentenza n. 333 del 2009, di richiedere il giudizio abbreviato nel caso – non dissimile – di contestazione “tardiva” del fatto diverso; dall’altro, nel confronto con la possibilità, di cui l’imputato beneficia in forza della sentenza n. 184 del 2014, di accedere al “patteggiamento” nella medesima ipotesi della contestazione “tardiva” di una circostanza aggravante.L’art. 517 cod. proc. pen. va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui, nel caso di contestazione in dibattimento di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale, non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato cui attiene la nuova contestazione.5.- Non è fondata, per converso, la seconda questione, sollevata dal solo Tribunale ordinario di Lecce, intesa a far sì che, nel caso di contestazione dibattimentale “tardiva” tanto di un reato concorrente che di una circostanza aggravante, la restituzione all’imputato della facoltà di accesso al giudizio abbreviato si estenda anche alle imputazioni diverse da quella attinta dalla nuova contestazione. L’ipotesi, ovviamente, è che si sia al cospetto di un processo oggettivamente cumulativo, ossia con una pluralità di imputazioni formulate contro la stessa persona: situazione che si determina, peraltro, automaticamente nel caso di contestazione suppletiva di un reato concorrente, la quale va ad aggiungersi all’imputazione originaria.5.1.- Ad avviso del Tribunale salentino, la predetta estensione si imporrebbe anzitutto alla luce del corrente orientamento della giurisprudenza di legittimità, in forza del quale non è ammessa la richiesta di giudizio abbreviato “parziale”, limitata, cioè, a una parte soltanto delle imputazioni cumulativamente formulate nei confronti della stessa persona: e ciò in quanto, nel caso di richiesta parziale, il processo non sarebbe definito nella sua interezza, onde rimarrebbe ingiustificato l’effetto premiale, voluto dal legislatore al fine di deflazionare il ricorso alla fase dibattimentale per ciascun «processo» relativo al singolo imputato, e non per ciascun reato, secondo quanto previsto dall’art. 438 cod. proc. pen. Alla luce di tale indirizzo interpretativo – che lo stesso rimettente reputa, peraltro, «opinabile», in quanto l’accesso al rito speciale per una parte delle imputazioni semplifica comunque la fase dibattimentale per le altre – l’imputato potrebbe accedere al giudizio abbreviato, relativamente all’imputazione oggetto della nuova contestazione, solo qualora tale rito fosse esperibile anche per le altre imputazioni.In ogni caso, poi – secondo il giudice a quo – l’invocata generalizzazione della facoltà di richiedere il giudizio abbreviato sarebbe costituzionalmente necessaria, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., in quanto la modifica anche di una sola delle plurime imputazioni potrebbe mutare il quadro complessivo della vicenda processuale, sulla cui base l’imputato si è determinato a non formulare la richiesta del rito speciale entro il termine di legge.5.2.- Questa Corte ha avuto, peraltro, già modo di occuparsi del problema dell’estensione del recupero della facoltà di accesso al giudizio abbreviato da partedell’imputato, nel caso di nuova contestazione dibattimentale formulata nell’ambito di processi oggettivamente cumulativi, tanto con la citata sentenza n. 333 del 2009 (concernente, come detto, la contestazione “tardiva” del fatto diverso o del reato concorrente), quanto con la successiva sentenza n. 237 del 2012 (attinente alla contestazione “fisiologica” del reato concorrente).In entrambe le circostanze, la Corte si è trovata a dover prendere in esame – in sede di verifica della rilevanza delle questioni – l’indirizzo giurisprudenziale che nega l’ammissibilità del giudizio abbreviato “parziale”, richiamato dall’odierno rimettente: ciò, in quanto gli imputati nei giudizi a quibus avevano richiesto il rito alternativo in rapporto al solo reato concorrente loro contestato in dibattimento, e non anche alle imputazioni originarie.Superando il dubbio di ammissibilità, la Corte ha, peraltro, ritenuto «non implausibile» la tesi prospettata dai giudici rimettenti, stando alla quale il predettoorientamento, riferito all’ipotesi in cui l’azione penale per le plurime imputazioni sia esercitata nei modi ordinari, non poteva reputarsi automaticamente estensibile alle fattispecie oggetto dei quesiti di costituzionalità.A sostegno di tale conclusione, si è specificamente rilevato che, nel caso di processo oggettivamente cumulativo, l’esigenza che emerge – sul piano del ripristino della legalità costituzionale – è quella di restituire all’imputato la facoltà di accedere al rito alternativo relativamente al nuovo addebito, in ordine al quale non avrebbe potuto formulare una richiesta tempestiva a causa dell’avvenuto esercizio dell’azione penale con modalità “anomale” (nell’ipotesi della contestazione “tardiva”), o comunque derogatorie rispetto alle ordinarie cadenze procedimentali (nell’ipotesi della contestazione “fisiologica”): e ciò, «senza che possa ipotizzarsi un recupero globale della facoltà stessa», esteso, cioè, anche alle imputazioni diverse da quelle oggetto della nuova contestazione, rispetto alle quali «l’imputato ha consapevolmente lasciato spirare il termine di proposizione della richiesta» (sentenza n. 333 del 2009). Sarebbe, infatti, «illogico – e, comunque, non costituzionalmente necessario – che, a fronte della contestazione suppletiva di un reato concorrente (magari di rilievo marginale rispetto al complesso dei temi d’accusa), l’imputato possa recuperare, a dibattimento inoltrato, gli effetti premiali del rito alternativo anche in rapporto all’intera platea delle imputazioni originarie», relativamente alle quali si è scientemente astenuto dal formulare la richiesta nel termine (sentenza n. 237 del 2012). Soluzione, questa, che rischia di privare di ogni razionale giustificazione lo sconto di pena connesso all’opzione per il rito speciale.In tale prospettiva – e sulla falsariga, peraltro, di quanto era già avvenuto con la sentenza n. 265 del 1994, in rapporto al “patteggiamento” – gli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi nella parte in cui, nelle evenienze considerate, non restituiscono all’imputato la possibilità di accedere al giudizio abbreviato relativamente (e, dunque, limitatamente) al reato concorrente o al fatto diverso contestato in dibattimento.5.3.- Le considerazioni ora ricordate – estensibili senz’altro all’ipotesi della contestazione dibattimentale “tardiva” di una circostanza aggravante – rendono non configurabile il vulnus agli artt. 3 e 24 Cost. sotto entrambi i profili denunciati dal giudice a quo.Si aggiunga che qualora all’imputato fosse attribuita, nelle ipotesi in esame – come chiede il rimettente, tramite la proposizione di due distinte questioni, tra loro cumulative – la facoltà di accedere al giudizio abbreviato tanto in rapporto (e limitatamente) al reato oggetto della nuova contestazione, quanto (e anche) alle imputazioni residue, l’imputato stesso verrebbe a trovarsi in posizione non già uguale, ma addirittura privilegiata rispetto a quella in cui si sarebbe trovato se la contestazione fosse avvenuta nei modi ordinari. Egli potrebbe, infatti, scegliere tra una richiesta di giudizio abbreviato “parziale” (limitata alla sola nuova imputazione) e una richiesta globale: facoltà di scelta della quale – stando all’indirizzo giurisprudenziale evocato dal giudice a quo – non fruirebbe invece nei casi ordinari, essendogli consentita solo la seconda opzione.PER QUESTI MOTIVILA CORTE COSTITUZIONALEriuniti i giudizi,1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui, nel caso di contestazione di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale, non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato oggetto della nuova contestazione;2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 517 del codice di procedura penale nella parte in cui, nel caso di contestazione di un reato concorrente o di circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale, non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato anche in relazione ai reati diversi da quello che forma oggetto della nuova contestazione, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Lecce con l’ordinanza indicata in epigrafe.Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 maggio 2015.

F.to:

Marta CARTABIA, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 9 luglio 2015.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella Paola MELATTI

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a cura di Giorgio Fidelbo

Rel. n. III/101/2015                                                             Roma, 25 maggio 2015

RASSEGNA DELLE PRONUNCE DELLA CORTE COSTITUZIONALE IN MATERIA PENALE (GENNAIO-MARZO 2015)

SOMMARIO: Parte I. Diritto penale sostanziale. 1.0. La questione degli ‘eterni giudicabili’: illegittimità costituzionale della sospensione senza limiti del corso della prescrizione nel caso di incapacità processuale irreversibile dell’imputato (sent. n. 45 del 2015). – Parte II. Legislazione penale speciale. 2. Edilizia e urbanistica. – 2.0. L’applicazione della confisca nel caso di proscioglimento per prescrizione del reato di lottizzazione abusiva: inammissibilità della questione (sent. n. 49 del 2015). – Parte III. Diritto processuale penale. 3.1. Giudizio abbreviato nei confronti di minorenni: illegittimità costituzionale del giudice monocratico minorile nel rito abbreviato instaurato in seguito al decreto di giudizio immediato (sent. n. 1 del 2015). – 3.2. Opposizione a decreto penale di condanna e omesso proscioglimento ex art. 129 c.p.p. nel caso di contestuale domanda di oblazione: infondatezza della questione (sent. n. 14 del 2015). – 3.3. Sospensione del procedimento per incapacità dell’imputato per infermità di mente: restituzione degli atti al giudice a quo (ord. n. 20 del 2015). – 3.4. Decreto penale di condanna: illegittimità costituzionale della facoltà di opposizione del querelante (sent. n. 23 del 2015). – 3.5. Omessa previsione del proscioglimento per particolare tenuità del fatto, con formula analoga e simmetrica a quella prevista per i procedimenti di competenza del giudice di pace, nei procedimenti penali di competenza del Tribunale: inammissibilità della questione (sent. n. 25 del 2015). – 3.6. Divieto di accesso al giudizio abbreviato nel caso di fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale: manifesta inammissibilità per sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata (ord. n. 28 del 2015). – 3.7. Concorrente esterno in associazione mafiosa: illegittimità costituzionale della presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere (sent. n. 48 del 2015).
 

PARTE I: DIRITTO PENALE SOSTANZIALE

1.0. La questione degli ‘eterni giudicabili’: illegittimità costituzionale della sospensione senza limiti del corso della prescrizione nel caso di incapacità processuale irreversibile dell’imputato.

Con la sentenza n. 45, depositata il 25 marzo 2015, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 159, comma 1, cod. pen., nella parte in cui, ove lo stato mentale dell’imputato sia tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento e questo venga sospeso, non esclude la sospensione della prescrizione quando è accertato che tale stato è irreversibile.
Occorre premettere che il nostro ordinamento, per garantire il diritto di difesa, impone, ex art. 71 cod. proc. pen., la sospensione del processo in caso di incapacità dell’imputato, stabilendo che in seguito il giudice deve eseguire ogni sei mesi ulteriori accertamenti peritali ex art. 72 cod. proc. pen.. Il punto è che, in tal caso, l’art. 159, comma 1, cod. pen., sospende il corso della prescrizione, con la conseguenza che, ove si tratti di incapacità irreversibile, si determina 2 una paralisi processuale che, salvo particolari casi di proscioglimento, non è superabile nemmeno tramite la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, in quanto il corso della prescrizione è appunto sospeso insieme con il procedimento, determinando per l’imputato definitivamente incapace uno status di ‘eterno giudicabile’, rimuovibile solo dalla morte. Secondo il giudice a quo la norma censurata – imponendo la sospensione senza limiti del corso della prescrizione nel caso di incapacità processuale irreversibile dell’imputato – viola gli artt. 3, 24 e 27 Cost.. L’art. 3 Cost., nel duplice profilo uguaglianza/ragionevolezza, in quanto assoggetta ad un medesimo trattamento situazioni del tutto difformi, essendo irragionevole che all’imputato affetto da irreversibile incapacità di partecipare al processo conseguano le stesse conseguenze giuridiche previste dall’ordinamento nei casi di impedimenti transitori.
L’art. 24 Cost., in quanto nell’improbabile ipotesi di un venir meno della condizione di incapacità, l’imputato è costretto a difendersi per fatti risalenti nel tempo, con le evidenti difficoltà di apprestare un’adeguata strategia difensiva. L’art. 27, comma 3, Cost., in quanto una pena inflitta all’esito di un processo svolto a distanza di tempo e interrotto per le carenze cognitive dell’imputato non può svolgere la funzione rieducativa assegnatale dalla Costituzione. Ulteriore contrasto, infine, è ravvisato con il principio della ragionevole durata del processo, nella duplice accezione di garanzia oggettiva, sub specie di buona amministrazione della giustizia, e di garanzia soggettiva, sub specie di diritto dell’imputato ad essere giudicato in tempi ragionevoli, sancito anche dall’art. 6 CEDU.

La Corte costituzionale dichiara fondata la questione, in relazione all’art. 3 Cost., restando assorbiti gli ulteriori parametri.
L’anomalia della disciplina censurata era già stata evidenziata con la sentenza n. 23 del 2013, la quale, nel dichiarare l’inammissibilità di analoga questione, aveva rivolto un deciso monito al legislatore, ritenendo «non … tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al grave problema individuato nella presente pronuncia».
Nel perdurare dell’inerzia legislativa, la Corte, con la decisione in esame, si determina a dichiarare illegittima la norma censurata, ritenendo evidentemente prevalente la necessità di eliminare la norma incostituzionale sulle ragioni che in precedenza avevano consigliato il ricorso al monito. Ribadisce, quindi, i principi già espressi nel citato precedente n. 23 del 2013, affermando che «l’indefinito protrarsi nel tempo della sospensione del processo – con la conseguenza della tendenziale perennità della condizione di giudicabile dell’imputato, dovuta all’effetto, a sua volta sospensivo, sulla prescrizione – presenta il carattere della irragionevolezza», giacché entra in contraddizione con le rationes poste a base della prescrizione dei reati, preordinata al progressivo affievolimento dell’interesse della comunità alla punizione della condotta penalmente illecita, e della sospensione del processo, fondata sul diritto di difesa, che esige la possibilità di una cosciente partecipazione dell’imputato al procedimento. Infatti, «nell’ipotesi di irreversibilità dell’impedimento … risultano frustrate entrambe le finalità insite nelle norme sostanziali e processuali richiamate, con la 3 conseguenza che le ragioni delle garanzie ivi previste si rovesciano inevitabilmente nel loro contrario».

La Corte ritiene dunque irragionevole, con riguardo alla sospensione dei termini di prescrizione del reato, la mancata considerazione della differenza tra la sospensione per incapacità di partecipare coscientemente al processo di durata limitata nel tempo rispetto a quella che deriva da un’incapacità irreversibile destinata a non avere un limite, dando luogo alla condizione di ‘eterno giudicabile’. In altri termini, si esclude la equiparazione della situazione dell’imputato impedito per incapacità temporanea e quella dell’imputato impedito da incapacità definitiva e irreversibile, che presentano differenze fondamentali tali da rendere irragionevole l’identità di disciplina. Infatti i soggetti irreversibilmente incapaci sono destinati – stante l’irreversibilità del proprio stato e la necessaria e infinita sospensione del processo che “determina di fatto l’imprescrittibilità del reato’ – a rimanere perennemente imputati, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’ingiustificata disparità di trattamento.

Conclusivamente: illegittimità costituzionale della norma censurata, di guisa che, eliminato l’ostacolo al fluire della prescrizione, diventa necessariamente limitata nel tempo anche la sospensione del procedimento, destinato, una volta decorso il termine di prescrizione, a chiudersi con una sentenza di improcedibilità per estinzione del reato.

PARTE II. LEGISLAZIONE PENALE SPECIALE.

2. Edilizia e urbanistica.

2.0. L’applicazione della confisca nel caso di proscioglimento per prescrizione del reato di lottizzazione abusiva: inammissibilità della questione.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 49 depositata il 26 marzo 2015, ha dichiarato inammissibile, in riferimento agli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, comma 1, Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, testo A).

La questione è stata sollevata con due diverse ordinanze provenienti dalla terza sezione penale della Corte di cassazione e dal Tribunale di Teramo.

Secondo la Corte di cassazione la disposizione censurata – per la quale la sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni, abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite – nella parte in cui, in forza dell’interpretazione fornita dalla Corte EDU con la sentenza Varvara c. Italia (29 ottobre 2013), non è applicabile «nel caso di dichiarazione di prescrizione del reato anche qualora la responsabilità penale sia stata accertata in tutti i suoi elementi» contrasta con gli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, comma 1, Cost., in quanto privilegerebbe la tutela del diritto di proprietà – 4 preordinata, invece, ad assicurarne la funzione sociale (art. 41 e 42 Cost.) – a scapito di principi costituzionali di rango superiore, e specificamente del diritto a sviluppare la personalità umana in un ambiente salubre (2, 9 e 32 Cost.).

Per il Tribunale di Teramo, invece, la disposizione impugnata – nella parte in cui consente, nell’accezione assegnatagli dal diritto nazionale vivente, che l’accertamento della responsabilità nei confronti dell’imputato del reato di lottizzazione abusiva, che legittima l’applicazione della confisca, possa essere contenuto anche in una sentenza che dichiari estinto il reato per prescrizione – è in contrasto con l’art. 7 Cedu, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, e conseguentemente con l’art. 117, comma 1, Cost..

Entrambi i giudici a quibus ritengono che il predetto art. 44, comma 2, del TU sull’edilizia, per effetto della sentenza Varvara, precluda la confisca nel caso di declaratoria di prescrizione del reato. Tuttavia, al di là di questo tratto comune, essi sono orientati a diverse e contrapposte finalità.

In definitiva, il Tribunale di Teramo vorrebbe ottenere la declaratoria di illegittimità costituzionale parziale dell’art. 44, comma 2, come interpretato dalla Corte di cassazione, per contrasto con la CEDU, come interpretata dalla sentenza Varvara, in modo da adeguare il diritto vivente stabilito dalla Cassazione ai principi della giurisprudenza di Strasburgo; la Cassazione, invece, ritenendo che l’art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, nel significato attribuitogli per effetto della sentenza Varvara (divieto di confisca a reato ormai prescritto) collida con valori costituzionali preminenti, vorrebbe conseguire l’effetto opposto, ovvero la conferma e il rafforzamento del diritto vivente.

2.1. Le ragioni di inammissibilità delle questioni.

Le ragioni di inammissibilità – in particolare della questione sollevata dalla Cassazione – sono plurime e ciascuna di esse fornisce alla Corte l’occasione per mettere a punto i rapporti tra ordinamento interno e CEDU e correlativamente per precisare il ruolo del giudice nazionale e quello del giudice europeo.

2.1.1. Anzitutto, inammissibilità per erronea individuazione del petitum: il giudice a quo(Cassazione) avrebbe dovuto sollevare questione di legittimità costituzionale della legge n. 848 del 1955 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione EDU) – nella parte in cui conferisca esecuzione ad una norma sospettata di incostituzionalità e cioè, nella specie, al divieto di applicare la confisca urbanistica se non unitamente ad una sentenza di condanna – e non dell’art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001.

La Corte ha, infatti, già chiarito con le c.d. sentenze gemelle (n. 348 e 349 del 2007) che il carattere sub-costituzionale della CEDU impone un raffronto tra le regole da essa ricavate e la Costituzione, e che l’eventuale dubbio di costituzionalità da ciò derivato, non potendosi incidere sulla legittimità della Convenzione, deve venire prospettato con riferimento alla legge nazionale di adattamento. Pertanto, «la pretesa antinomia venutasi a creare tra il diritto nazionale interpretato in senso costituzionalmente orientato, e dunque fermo nell’escludere 5 che la confisca urbanistica esiga una condanna penale, e la CEDU, che a parere del rimettente esprimerebbe una regola opposta, avrebbe … dovuto essere risolta ponendo in dubbio la legittimità costituzionale della legge di adattamento, in quanto essa permette l’ingresso nell’ordinamento italiano di una simile regola». 2.1.2. Non solo. Il remittente (Cassazione) ha pure errato nel ritenere che, in forza della sentenza Varvara, l’art. 44 citato debba assumere il significato che la Corte EDU gli avrebbe attribuito e cioè divieto di confisca nel caso di reato prescritto e che, proprio in tale accezione, vulneri i suindicati parametri costituzionali. Infatti, la Corte costituzionale afferma che la “pretesa antinomia” tra il dictum della sentenza Varvara ed il diritto nazionale costituzionalmente orientato è la risultante di un percorso argomentativo “errato” per un duplice ordine di ragioni.

2.1.2.1. Primo: non spetta al giudice di Strasburgo determinare il significato della legge nazionale, gli spetta solo valutare se essa, come definita e applicata dal giudice nazionale, abbia, nel caso sottoposto al suo giudizio, violato la CEDU.

2.1.2.2. Secondo: il dovere del giudice comune di interpretare il diritto interno in senso conforme alla CEDU è «ovviamente subordinato al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme», stante il «predominio assiologico della Costituzione sulla Cedu», essendo «fuor di dubbio che il giudice debba obbedienza anzitutto alla Carta repubblicana». In altri termini, la Corte costituzionale richiama l’attenzione del giudice comune sul principio di gerarchia delle fonti, indicandogli il corretto percorso metodologico che deve seguire nella lettura e valutazione della giurisprudenza europea. Precisa che all’esito di detto iter “il più delle volte” emergerà una soluzione del caso concreto capace di conciliare i principi desumibili dalle varie fonti, mentre “nelle ipotesi estreme” ribadisce che «è fuor di dubbio che il giudice debba obbedienza anzitutto alla Carta repubblicana».

Applicando tali principi, la Corte costituzionale precisa che: anzitutto il giudice a quo non avrebbe potuto assegnare, in sede interpretativa, all’art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, un significato che egli stesso reputa incostituzionale; comunque, come già detto, l’antinomia da questi prospettata tra il diritto nazionale interpretato in senso costituzionalmente conforme, nel senso che la confisca urbanistica non esige una formale condanna penale, e la CEDU, che invece esprimerebbe una regola opposta, avrebbe dovuto essere risolta, non già sollevando la questione di legittimità costituzionale della norma che prevede la confisca obbligatoria interpretandola in modo convenzionalmente orientato, bensì della legge di adattamento alla CEDU, nella parte in cui consente l’ingresso nell’ordinamento italiano di una norma convenzionale ‘vivente’ sospetta di incostituzionalità e cioè la norma che impone quella interpretazione.

2.1.3. Ma, la questione è inammissibile anche per difetto di motivazione sulla rilevanza della questione nel giudizio a quo. Per la seguente ragione: secondo l’ordinanza di rimessione della Cassazione la regula juris tratta dalla giurisprudenza europea consistente nel divieto, enunciato con la sentenza Varvara, di disporre la confisca, nel caso di reato prescritto, 6 impedirebbe l’applicazione della confisca urbanistica nei confronti dei terzi acquirenti dei beni lottizzati, sebbene nella specie la stessa rilevi che non siano «emersi dagli atti elementi incontrovertibili che [permettano] di escludere che i terzi acquirenti fossero in buona fede».

La Corte costituzionale rileva che con detta motivazione il giudice a quo «non ha affatto dato conto del superamento della presunzione di non colpevolezza del terzo», in quanto, ai fini della motivazione sulla rilevanza, «sarebbe stato necessario argomentare il raggiungimento della prova della responsabilità del terzo acquirente perché, seguendo il ragionamento del rimettente, solo in tal caso vi sarebbe stata la necessità di applicare la contestata regola di diritto tratta dal caso Varvara». Con la conseguenza che il criterio di giudizio adottato dal giudice a quo è inidoneo a sorreggere la confisca anche secondo il diritto vivente ritenuto dallo stesso giudice a quo e vulnerato nella sua prospettazione dalla sentenza Varvara. Infatti, il diritto interno vivente esige un pieno accertamento sulla responsabilità dell’imputato e sulla malafede del terzo eventualmente colpito da confisca, che non viene meno nel caso di proscioglimento per prescrizione, il quale – afferma la Corte costituzionale – può ben «accompagnarsi alla più ampia motivazione sulla responsabilità, ai soli fini della confisca del bene lottizzato». Motivazione che – alla luce della giurisprudenza europea – «non costituisce una facoltà del giudice, ma un obbligo dal cui assolvimento dipende la legalità della confisca» e che deve essere assolto «attenendosi ad adeguati standard probatori e rifuggendo da clausole di stile».

2.1.4. Infine, la Corte costituzionale rileva in entrambe le ordinanze di rimessione un ulteriore motivo di inammissibilità dovuto ad un duplice erroneo presupposto interpretativo.

2.1.4.1. Anzitutto, i giudici a quibus assegnano alla sentenza Varvara un significato che essa non ha, sotto due profili.

In primo luogo, essi ritengono che la Corte europea affermi che, una volta qualificata una sanzione ai sensi dell’art. 7 CEDU, ovvero una pena, essa debba essere inflitta dal giudice penale, attraverso la sentenza di condanna per un reato, e così affermano per la confisca urbanistica. Traendone la conseguenza della obliterazione delle scelte legislative nazionali in ordine alla distinzione tra illecito penale e illecito amministrativo. Per contro la Corte costituzionale sottolinea la piena vigenza del principio di sussidiarietà di rilievo costituzionale e coerente con la giurisprudenza della Corte EDU, la quale – nell’elaborare i peculiari indici per qualificare una sanzione come pena – non ha inteso cancellare la distinzione tra sanzione amministrativa e sanzione penale e misconoscere la discrezionalità dei legislatori nazionali nell’optare per misure sanzionatorie amministrative rispetto a quelle penali. La giurisprudenza della Corte EDU ha, invece, voluto assicurare anche alla sanzione amministrativa qualificabile come pena ex art. 7 CEDU quel fascio di garanzie offerte dagli artt. 6 e 7 della CEDU, anche quando la sanzione sia applicata da autorità amministrativa. In definitiva, la Corte costituzionale evidenzia che non è affatto detto che la sentenza Varvara si sia distaccata da siffatto indirizzo e che essa debba essere letta secondo i canoni 7 dell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, attività che i giudici remittenti non hanno svolto.

Inoltre ed in particolare, la Corte costituzionale rileva che i giudici a quibus – di conseguenza – ritengono che la sentenza Varvara affermi la necessità di una ‘formale’ condanna per poter legittimamente applicare la confisca. Invece, secondo la Corte costituzionale, si tratta di decidere «se il giudice europeo, quando ragiona espressamente in termini di “condanna”, abbia a mente la forma del pronunciamento del giudice, ovvero la sostanza che necessariamente si accompagna a tale pronuncia, laddove essa infligga una sanzione criminale ai sensi dell’art. 7 CEDU, vale a dire l’accertamento della responsabilità». Il giudice delle leggi ritiene che il riferimento sia alla condanna in senso sostanziale, soddisfatta dall’accertamento incidentale della responsabilità del soggetto assoggettato a confisca, che può avvenire anche con una declaratoria di prescrizione del reato. Infatti, afferma che «nell’ordinamento giuridico italiano la sentenza che accerta la prescrizione di un reato non denuncia alcuna incompatibilità logica o giuridica con un pieno accertamento di responsabilità», essendo «quest’ultimo … doveroso qualora si tratti di disporre una confisca urbanistica». Insomma, l’accertamento di responsabilità – richiesto dall’applicazione della confisca – non coincide necessariamente con una formale sentenza di condanna, potendo emergere da una mera sentenza di proscioglimento per prescrizione del reato, purché il giudice di merito accerti in concreto, incidenter tantum, la responsabilità soggettiva nei suoi fondamentali elementi costitutivi.

2.1.4.2. Ulteriore erroneo presupposto dei giudici a quibus è che il principio tratto dalla sentenza Varvara abbia carattere vincolante. Sul punto la Corte costituzionale – premesso che i giudici nazionali non sono «passivi ricettori di un comando esegetico impartito altrove nelle forme della pronuncia giurisdizionale» – richiama anzitutto e preliminarmente il principio del giudice soggetto soltanto alla legge, ex art. 101, comma 2, Cost., quasi a volerne ribadire il ruolo guida nell’attività giurisdizionale, nel quale si concreta l’autonomia interpretativa del giudice ordinario. Afferma, infatti, che «il giudice nazionale non può spogliarsi della funzione che gli è assegnata dall’art. 101, comma 2, Cost.», con il quale si «esprime l’esigenza che il giudice non riceva se non dalla leggel’indicazione delle regole da applicare nel giudizio, e che nessun’altra autorità possa quindi dare al giudice ordini o suggerimenti circa il modo di giudicare in concreto», aggiungendo che «ciò vale anche per le norme della CEDU, che hanno ricevuto ingresso nell’ordinamento giuridico interno grazie a una legge ordinaria di adattamento».

Non senza aggiungere che l’autonomia interpretativa del giudice, ex art. 101, comma 2, Cost., trova un limite nella «primaria esigenza di diritto costituzionale che sia raggiunto uno stabile assetto interpretativo sui diritti fondamentali», preordinato ad assicurare «certezza e stabilità del diritto», tanto più importanti in ambito penale.

Chiarito il quadro di fondo, la Corte costituzionale afferma la necessità di un uso corretto dei precedenti della Corte europea, sottolineandone, in termini perentori, il diverso peso, a seconda del diverso grado di consolidamento: un conto è se siano espressione di sentenze 8 innovative e, pertanto, isolate; altro se costituiscano espressione di giurisprudenza consolidata e, pertanto, siano precedenti in senso sostanziale. Non in tutti i casi sorge per il giudice comune il vincolo europeo.

Quindi, la Corte costituzionale enumera i casi in cui il giudice comune è tenuto a conformarsi alla giurisprudenza europea: a) quando la decisione della Corte europea ha definito la causa di cui il giudice comune torna ad occuparsi; b) quando si tratti di una sentenza ‘pilota’; c) quando la giurisprudenza di Strasburgo costituisca diritto consolidato; mentre nessun obbligo in tal senso vi è «a fronte di pronunce … non espressive di un orientamento ormai divenuto definitivo».

Il passaggio centrale dell’argomentazione della Corte costituzionale è proprio questo: solo nel caso di diritto consolidato o di una ‘sentenza pilota’ il giudice italiano è vincolato a recepire la giurisprudenza di Strasburgo, adeguando ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto ad una legge interna, per mezzo di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione, ovvero, se ciò non fosse possibile, ricorrendo all’incidente di legittimità costituzionale. Detto vincolo si dissolve, invece, con riguardo a pronunce ancora isolate o comunque non espressive di un orientamento consolidato, con la conseguenza che, in tal caso, i giudici comuni non hanno l’obbligo di adeguarvisi, potendo ben discostarsi dalla soluzione isolata o, comunque, non consolidata.

Va da sé che solo il diritto consolidato della CEDU può aprire le porte al sindacato di costituzionalità . Mentre, il diritto europeo non consolidato non solo non è vincolante per il giudice comune ma nemmeno può dare luogo ad un incidente di costituzionalità allorché si ponga un dubbio di costituzionalità della norma convenzionale.

Ma, quando si è davanti ad un diritto consolidato? La Corte costituzionale riconosce che ciò non sarà sempre ‘di immediata evidenza’, tuttavia afferma che «vi sono senza dubbio indici idonei ad orientare il giudice nazionale nel suo percorso di discernimento», delineando, per così dire, un percorso in negativo capace di segnalare che non si è in presenza di un adeguato consolidamento. Gli indici negativi sono i seguenti: la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; i ‘distinguo’ o i contrasti con altre pronunce; le opinioni dissenzienti, specie se sorrette da robuste deduzioni; il decisum proveniente da sezioni semplici che non abbia ancora l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti peculiari, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano. In tutti questi casi il giudice comune non è vincolato dalla giurisprudenza di Strasburgo.

Passando all’applicazione dei detti indici alla questione oggetto del suo sindacato, la Corte costituzionale evidenzia che il principio di diritto enunciato nella sentenza Varvara, come riconoscono gli stessi remittenti che gli attribuiscono una portata innovativa, non è perciò stesso espressione di un’interpretazione consolidata nell’ambito della giurisprudenza europea ma di una posizione isolata. La conseguenza è che, in tal caso, essa non è in grado di incidere quando contrasti con la Costituzione; né vi è alcuna ragione di investire al riguardo la Corte costituzionale. Espressamente afferma la Corte costituzionale che quando il giudice comune si interroga sulla compatibilità della norma convenzionale con la Costituzione «questo solo dubbio, in assenza di un diritto consolidato, è sufficiente per escludere quella stessa norma dai potenziali contenuti assegnabili in via ermeneutica alla disposizione della CEDU, così prevenendo, con interpretazione costituzionalmente orientata, la proposizione della questione di legittimità costituzionale».

In altri termini: i remittenti hanno dato peso ad un precedente isolato – che, stante la sua unicità, avrebbero dovuto ignorare e, quindi, nemmeno porsi il problema del contrasto con la CEDU – e per di più lo hanno interpretato in modo non costituzionalmente e convenzionalmente orientato. Avrebbero, invece, dovuto adottare il canone dell’interpretazione costituzionalmente conforme in ordine all’art. 44 citato, e per l’effetto confermare il diritto vivente interno, ignorare il precedente isolato di Strasburgo e non investire la Corte costituzionale.

Conclusivamente, i passaggi essenziali della sentenza della Corte, astraendo dal caso concreto, sono i seguenti: 1) non spetta al giudice di Strasburgo determinare il significato della legge nazionale; 2) il giudice deve obbedienza anzitutto alla Carta repubblicana; 3) l’eventuale antinomia tra il diritto nazionale interpretato in senso costituzionalmente conforme e la CEDU, deve essere risolta sollevando la questione di legittimità costituzionale della legge di adattamento alla CEDU; 4) la confisca non può essere applicata senza un accertamento della responsabilità; 5) detto accertamento non esige una condanna formale ed è, pertanto, compatibile con la pronuncia di proscioglimento per prescrizione del reato; 6) i giudici comuni non sono vincolati dalla giurisprudenza della Corte europea se essa non sia consolidata.

A margine, va segnalato che, con provvedimento del 25 marzo 2015, la II sezione della Corte EDU ha rimesso alla Grande Camera la questione relativa alla compatibilità della normativa italiana in tema di applicabilità della confisca mediante una sentenza dichiarativa della prescrizione del reato con l’art. 7 della CEDU.

PARTE III. DIRITTO PROCESSUALE PENALE

3.1. Giudizio abbreviato nei confronti di minorenni: illegittimità costituzionale del giudice monocratico minorile nel rito abbreviato instaurato in seguito a decreto di giudizio immediato.

Con la sentenza n. 1, depositata il 22 gennaio 2015, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 458 cod. proc. pen. e dell’art. 1 del d.P.R. n. 448 del 1988, nella parte in cui prevedono che, nel processo minorile, nel caso di giudizio abbreviato richiesto dall’imputato in seguito a un decreto di giudizio immediato, la composizione dell’organo giudicante sia quella monocratica del giudice per le indagini preliminari e non quella collegiale prevista dall’art. 50-bis, comma 2, del r.d. n. 12 del 1941.

Secondo il giudice a quo la norma censurata contrasta con gli art. 3, 24 e 31 Cost.: con l’art. 3, comma 1, Cost., per l’ingiustificata disparità di trattamento tra i minori assoggettati al giudizio abbreviato dinanzi al Gip, ex art. 458 cod. proc. pen., e quelli sottoposti al giudizio collegiale del tribunale per i minorenni, pur essendo tutti su un piano di parità quanto all’esigenza di recupero e di reinserimento sociale, maggiormente garantita dal procedimento avanti all’organo specializzato collegiale; vulnera, inoltre, l’art. 3, comma 2, Cost., in quanto la previsione di siffatta eccezione alla composizione collegiale del giudice minorile, avente una funzione di garanzia dello sviluppo della personalità dell’adolescente, finisce per ostacolare tale sviluppo; infine, vulnera anche l’art. 31 Cost., attesa la specifica funzione del giudice minorile di protezione della gioventù, a differenza del tribunale ordinario.

La Corte costituzionale dichiara la questione ammissibile e fondata.

In punto di ammissibilità la Corte costituzionale rileva che la sentenza delle S.U. n. 18292 del 2014, per la quale “nel procedimento a carico di minorenni, la competenza alla celebrazione del giudizio abbreviato, sia esso instaurato nell’udienza preliminare o a seguito di giudizio immediato, spetta al giudice nella composizione collegiale prevista dall’art. 50-bis, comma 2, dell’ord. giud. e non al giudice delle indagini preliminari”, non è applicabile nel giudizio a quo, in quanto il remittente – che ha sollevato la questione in sede di giudizio di rinvio – è vincolato, ex art. 25 cod. proc. pen., dalla decisione sulla competenza emessa dalla Corte di cassazione, con la conseguenza che, pur essendovi una opzione esegetica costituzionalmente orientata, la questione sollevata conserva la sua rilevanza anche a seguito della sopravvenienza giurisprudenziale citata.

Inoltre, la Corte – pur ribadendo la propria giurisprudenza, per la quale l’effetto vincolante delle decisioni della Corte di cassazione in materia di competenza, ex art. 25 cod. proc. pen., comporta l’irrilevanza delle questioni che tendano a rimettere in discussione la competenza attribuita dalla Cassazione nel caso concreto – ritiene la questione ammissibile «perché il giudice a quo non propone una questione di competenza ma una questione concernente la composizione dell’organo; dubita cioè che il Gip sia idoneo a svolgere, nel processo minorile, il giudizio abbreviato, non solo per il suo carattere monocratico ma anche perché esso 11 lo priva dell’apporto degli esperti che compongono il collegio del giudice minorile dell’udienza preliminare».

Nel merito la Corte costituzionale afferma la fondatezza della questione. In continuità con i propri precedenti (segnatamente le sentenze n. 222 del 1983 e n. 143 del 1996) ribadisce che il principio costituzionale di cui all’art. 31, comma 2, Cost. esige «l’adozione di un sistema di giustizia minorile caratterizzato dalla specializzazione del giudice, dalla prevalente esigenza rieducativa nonché dalla necessità di valutazioni … fondate su prognosi individualizzate in funzione del recupero del minore deviante». Evidenzia la ratio del tribunale dei minori, preordinato ad assicurare al minore deviante giudici specializzati, forniti di capacità personali e tecniche idonee a vagliarne adeguatamente la personalità e ad individuarne il trattamento rieducativo più appropriato, rilevando che si tratta di finalità preminente. Rimarca che, pertanto, l’interesse del minore nel procedimento penale minorile «trova adeguata tutela proprio nella particolare composizione del giudice specializzato (magistrati ed esperti)», che assicura «un’adeguata considerazione della personalità e delle esigenze educative del minore». E correlativamente sottolinea che il giudizio abbreviato, previsto sia nell’udienza preliminare che a seguito di giudizio immediato, può dare luogo a diversi epiloghi, quindi può concludersi non solo con una sentenza di proscioglimento o con una sentenza di condanna ma anche con la sospensione del processo con messa alla prova o con altre formule definitorie specifiche che caratterizzano il processo minorile come le sentenze di non luogo a procedere per perdono giudiziale o per irrilevanza del fatto. Epiloghi tutti riconducibili a finalità di tutela del minore che impongono l’esigenza di specializzazione del giudice e della collegialità. Insomma, il giudizio abbreviato minorile è sostitutivo sia dell’udienza preliminare, sia del dibattimento e i suoi esiti, quali che siano, esigono la valutazione del giudice collegiale per garantire decisioni fondate su un’adeguata considerazione della personalità del minore e sulle sue esigenze formative ed educative. Sicché, come affermato dalle Sezioni Unite «è il peculiare contenuto decisorio degli esiti del giudizio abbreviato che impone la composizione collegiale dell’organo giudicante, non la sede formale in cui questi si innestano» (S.U. n. 18292 del 2014, rv 258573).

Conseguentemente la Corte ritiene “manifestamente incongruo”, avuto riguardo ai valori costituzionali sottesi alla tutela del minore, che sia il giudice monocratico delle indagini preliminari a svolgere il giudizio abbreviato, che di regola è invece svolto dal giudice collegiale dell’udienza preliminare. Pertanto, considerato che l’abbreviato può essere instaurato sia nel corso dell’udienza preliminare che a seguito di trasformazione del rito immediato, è fondata anche la censura dell’art. 3, comma 1, Cost., per la struttura monocratica, anziché collegiale, del giudice del giudizio abbreviato richiesto dopo l’emissione del decreto di giudizio immediato; la sua funzione è, infatti, uguale a quella svolta dal giudice collegiale dell’udienza preliminare, con la conseguenza che la diversa composizione dell’organo è priva di ragioni che possano giustificare il sacrificio degli interessi del minore – la cui tutela è di norma affidata alla struttura collegiale di tale organo – e per di più dipende da mere 12 evenienze processuali e soprattutto della determinazione discrezionale del P.M. di esercitare l’azione penale con la richiesta di giudizio immediato, anziché con la richiesta di rinvio a giudizio.

3.2Opposizione a decreto penale di condanna e omesso proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. nel caso di contestuale domanda di oblazione: infondatezza della questione.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 14 del 2015, depositata il 13 febbraio del 2015, ha dichiarato, in riferimento agli artt. 3, 24, 27 e 111 della Costituzione, non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 464, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui, «secondo il diritto vivente», non consente al giudice di pronunciare sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. allorché l’imputato, contestualmente all’opposizione a decreto penale di condanna, abbia presentato domanda di oblazione.

Secondo il giudice a quo la norma censurata viola l’art. 3 Cost., determinando una irragionevole disparità di trattamento tra la fase che precede l’emissione del decreto di condanna – in cui il giudice, ex art. 459, comma 3, cod. proc. pen., può prosciogliere l’imputato ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. – e quella ad essa successiva, in quanto, una volta emesso il decreto – ove sia proposta opposizione con contestuale domanda di oblazione – egli si troverebbe vincolato ad “imporre” all’imputato il pagamento di una somma di denaro a tale titolo, anche quando dalle deduzioni contenute nell’atto di opposizione emerga in modo evidente la sua innocenza. Violato sarebbe, altresì, l’art. 24 Cost., in quanto la possibilità di fruire del proscioglimento immediato nella fase anteriore all’emissione del decreto penale di condanna, verrebbe a dipendere dalla completezza o meno delle indagini svolte dal pubblico ministero fino a quel momento, senza che rilevino i successivi apporti probatori della difesa. Infine, vulnerato sarebbe, anche l’art. 27 Cost., ledendo il diritto dell’imputato a conseguire in ogni stato e grado del giudizio l’assoluzione, allorché emerga univocamente l’insussistenza della sua responsabilità penale, nonché l’art. 111 Cost., sia «nella parte in cui prevede il diritto dell’imputato di allegare prove della propria innocenza» (nella specie, mediante l’atto di opposizione); sia nella parte in cui, afferma il principio di ragionevole durata del processo.

La Corte costituzionale dichiara non fondata la questione principalmente con l’argomentazione che il giudice remittente si è basato su un erroneo presupposto interpretativo, in quanto il diritto vivente che egli evoca non è applicabile nell’ipotesi di opposizione con contestuale domanda di oblazione. In sintesi, la Corte ribadisce il diritto vivente evocato dal giudice a quo, recentemente confermato dalle Sezioni Unite Zanda – per le quali il G.i.p., investito dell’opposizione a decreto penale di condanna, diversamente da quanto avviene in sede di decisione sulla richiesta di emissione del decreto, in virtù dell’art. 459, comma 3, cod. proc. pen., non può prosciogliere l’imputato ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., essendosi in detta fase spogliato dei poteri decisori di merito e conservando solo poteri di propulsione processuale (S. U. n. 21243 del 2010 e n. 12283 del 2005). Ma nel contempo ne esclude l’operatività all’ipotesi dell’opposizione a decreto di condanna abbinata ad una domanda di 13 oblazione, circoscrivendolo solo all’ipotesi della mera opposizione a decreto penale. Pertanto, nel caso di opposizione con contestuale domanda di oblazione, il giudice conserva poteri decisori sul merito dell’imputazione compatibili con una sentenza di proscioglimento immediato.

A queste conclusioni la Corte costituzionale perviene essenzialmente sulla base di una duplice argomentazione. Anzitutto, rileva che sono le stesse Sezioni Unite ad individuare proprio nella decisione sull’eventuale domanda di oblazione, ex art. 464, comma 2, cod. proc. pen., un’eccezione alla carenza di poteri decisori sul merito dell’azione penale da parte del Gip, investito dell’opposizione a decreto e, quindi, a precisare che, in tale ipotesi, il Gip eccezionalmenteconserva i predetti poteri. In secondo luogo e per l’effetto, afferma che, ove abbinata ad una domanda di oblazione, l’opposizione non determina – se non all’esito del rigetto di detta domanda – l’instaurazione di un giudizio a carattere lato sensu impugnatorio ma determina, invece, l’instaurazione di un sub-procedimento davanti allo stesso gip, regolato dall’art. 141 disp. att. cod. proc. pen., che prevede anche l’interlocuzione del pubblico ministero, del quale deve essere acquisito il parere. Non senza aggiungere che, in esito ad esso, il giudice è chiamato ad adottare un provvedimento che implica un esame del merito dell’imputazione: e ciò tanto più quando si discuta di una domanda di oblazione discrezionale, il cui accoglimento presuppone una valutazione in ordine alla gravità del fatto, oltre che la verifica dell’assenza di conseguenze dannose o pericolose del reato eliminabili da parte del contravventore. In tale contesto, appare, pertanto, conseguente anche la pronuncia di proscioglimento immediato allo stato degli atti. D’altro canto, ove la richiesta di oblazione sia accolta e l’imputato versi la somma dovuta, il giudice pronuncia sentenza di proscioglimento per estinzione del reato, revocando il decreto penale di condanna.

Pertanto, non sussistono, in tal caso, le ragioni che hanno indotto le Sezioni Unite a negare l’applicabilità dell’art. 129 cod. proc. pen., in sede di opposizione a decreto penale di condanna; al contrario il sub-procedimento di oblazione rappresenta una sedes nella quale – sempre alla luce della ricostruzione delle sezioni unite – può bene innestarsi la regola di precedenza della declaratoria delle cause di non punibilità rispetto agli altri provvedimenti decisionali adottabili dal giudice, anche per quanto attiene alla gerarchia tra le formule di proscioglimento delineata dall’art. 129, comma 2, cod. proc. pen..

Conclusivamente, come già detto, il giudice a quo ha dedotto il dubbio di legittimità costituzionale basandosi su un erroneo presupposto interpretativo, sub specie di inesatta identificazione dell’ambito di operatività del diritto vivente. Con conseguente infondatezza della relativa questione.

3.3. Sospensione del procedimento per incapacità dell’imputato per infermità di mente: restituzione degli atti al giudice a quo.

La Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 20, depositata il 26 febbraio 2015, ha ordinato la restituzione degli atti al Tribunale ordinario di Roma, il quale aveva sollevato, in riferimento 14 agli artt. 3, 13, 24, comma 2, 32 e 111 Cost. e agli artt. 11 e 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 5 della CEDU, questione di legittimità costituzionale dell’art. 71, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui – a fronte di un’incapacità processuale permanente e irreversibile di un imputato affetto da infermità mentale e sottoposto a misura di sicurezza provvisoria detentiva – non consente che il giudice possa celebrare il processo e definirlo con una sentenza, ivi compresa quella di assoluzione per non imputabilità ed applicazione di misure di sicurezza, allorché l’imputato sia rappresentato da un curatore speciale, cioè da un soggetto che surroga le capacità dell’infermo di mente perché in grado di tutelarne in concreto gli interessi.

La Corte dispone la restituzione degli atti perché in epoca successiva all’ordinanza di rimessione è entrato in vigore il d.l. 31 marzo 2014, n. 52, convertito con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 81 del 2014, il quale all’art. 1, comma 1-quater stabilisce che «le misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla pena edittale massima», aggiungendo che «per la determinazione della pena a tali effetti si applica l’art. 278 cod. proc. pen.» e che «per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo non si applica la disposizione di cui al primo periodo». Con la conseguenza che spetta al giudice a quo la valutazione sulla perdurante rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione sollevata alla luce del mutato quadro normativo determinato dallo ius superveniens.

3.4Decreto penale di condanna: illegittimità costituzionale della facoltà di opposizione del querelante.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 23, depositata il 27 febbraio 2015, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 459 cod. proc. pen., nella parte in cui prevede la facoltà del querelante di opporsi, in caso di reati perseguibili a querela, alla definizione del procedimento con l’emissione del decreto penale di condanna. Il giudice a quo ritiene che la norma censurata contrasti con gli art. 3, 111 e 112 Cost.: con l’art. 3, sotto il duplice profilo dell’irragionevolezza della disposizione e della violazione del principio di uguaglianza, in quanto il potere attribuito dalla legge al querelante di opporsi alla definizione del procedimento attraverso il rito monitorio non trova giustificazione ragionevole nella tutela di un interesse del querelante; parimenti non vi è ragionevole giustificazione alla diversità di disciplina relativa alla definizione del procedimento mediante richiesta di applicazione della pena, ex art. 444 cod. proc. pen., che non prevede un’analoga facoltà di opposizione in capo al querelante; con l’art. 111 Cost., in quanto il potere di veto del querelante in subiecta materia, comportando il ricorso ad altro rito, determina un’inevitabile ed ingiustificata dilatazione dei tempi del processo, vulnerando il principio della ragionevole durata; con l’art. 112 Cost., in quanto l’ufficio del P.M. 15 verrebbe condizionato nella scelta delle modalità di esercizio dell’azione penale, in violazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale.

La Corte costituzionale dichiara fondata la questione in riferimento agli art. 3 e 111 Cost., restando assorbita la censura relativa all’art. 112 Cost.. Afferma, infatti, che «la norma censurata non trova una valida giustificazione né con riferimento alla posizione processuale della persona offesa, né con riguardo a quella del querelante». Evidenzia che «la persona offesa, nel processo penale, è portatrice di un duplice interesse: quello al risarcimento del danno che si esercita mediante la costituzione di parte civile, e quello all’affermazione della responsabilità penale dell’autore del reato, che si esercita mediante un’attività di supporto e di controllo dell’operato del pubblico ministero». Interessi che sono comunque entrambi garantiti. Sul primo punto, il giudice delle leggi – premesso che l’assetto generale del nuovo processo penale è ispirato all’idea della separazione dei giudizi, penale e civile, essendo prevalente l’esigenza di speditezza dei processi rispetto all’interesse del soggetto danneggiato di avvalersi del processo penale ai fini del riconoscimento delle sue pretese civilistiche – richiama i propri precedenti in materia di decreto penale di condanna (sent. n. 166 del 1975, 171 del 1982 e 443 del 1990, 124 del 1999, tutti antecedenti alla cd. legge Carotti), nei quali si afferma che l’eventuale impossibilità per il danneggiato di partecipare al processo penale non incide in modo apprezzabile sul suo diritto di difesa e, ancor prima, sul suo diritto di agire in giudizio, restando intatta la possibilità di esercitare l’azione risarcitoria in sede civile. Non senza aggiungere, confermando ulteriormente il proprio favor verso i riti deflativi, che risulterebbe “improprio” un sistema processuale che subordinasse l’accesso ad un dato rito alternativo «ad una sorta di determinazione meramente potestativa della persona offesa, che non riveste la qualità di parte». Parimenti garantito è l’interesse della persona offesa alla persecuzione del reato, posto che la rappresentazione dei fatti esposta in sede di querela trova riscontro nell’attività di indagine del P.M. ed il querelante vede soddisfatta la propria volontà di punizione dell’imputato.

Inoltre, la norma censurata, riconoscendo la facoltà di opposizione del querelante è del tutto incoerente con la mancata previsione di una analoga facoltà di opposizione in sede di patteggiamento, in cui il querelante, anche se costituito parte civile, non ha alcun potere di interdizione del rito e trova esclusivamente in sede civile tutela al proprio interesse al risarcimento del danno. Né un ipotizzato interesse specifico del querelante – distinto da quello della persona offesa, a che il procedimento non si concluda con il decreto penale di condanna – individuato nella possibilità di rimettere la querela, giustifica la disposizione censurata, la quale resta contraddittoria rispetto alla mancata previsione di analoga facoltà di opposizione alla definizione del processo in sede di patteggiamento. Pertanto, la disposizione censurata determina un ingiustificato allungamento dei tempi del processo e soprattutto ostacola l’effetto deflativo connaturato ai riti speciali di tipo premiale, che riveste particolare importanza per assicurare il funzionamento del processo accusatorio.

In definitiva essa cagiona la lesione del principio della ragionevole durata del processo non giustificata per le ragioni dette dalle esigenze di tutela del querelante e della persona offesa, congruamente garantite.

Conclusivamente: la norma censurata non supera il test di ragionevolezza rendendo irragionevole il veto al procedimento per decreto, preordinato ad esigenze deflative.

3.5. Omessa previsione del proscioglimento per particolare tenuità del fatto, con formula analoga e simmetrica a quella prevista per i procedimenti di competenza del giudice di pace, nei procedimenti penali di competenza del Tribunale: inammissibilità della questione.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 25 del 2015, depositata il 3 marzo 2015, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 529 cod. proc. pen., sollevata in riferimento agli art. 2, 3, 24, e 111 Cost.

Secondo il giudice a quo l’omessa previsione nell’art. 529 cod. proc. pen. della formula di proscioglimento ‘per particolare tenuità del fatto’, simmetrica e analoga a quella prevista dall’art. 34 della legge n. 274 del 2000 per i procedimenti penali di competenza del giudice di pace, determina un trattamento diseguale di situazioni ontologicamente uguali, in quanto la tenuità del fatto può sussistere per qualunque tipo di reati, con conseguente violazione degli artt. 2 e 3 Cost..Violato sarebbe anche l’art. 24 Cost. che risulterebbe compresso rispetto all’ipotetico imputato citato dinnanzi al giudice di pace; infine, la norma censurata, causando una disparità di trattamento e una violazione del diritto di difesa dell’imputato sulla base della sola diversità del giudice procedente, colliderebbe anche con il principio del giusto processo sancito dall’art. 111 Cost..

La Corte costituzionale dichiara inammissibile la questione per mancanza di motivazione sulla rilevanza.

Rileva che il giudice a quo vorrebbe estendere ai procedimenti penali di competenza del tribunale la formula di esclusione della procedibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 34 d.lgs.vo n. 274 del 2000. Sennonché l’ordinanza di rimessione non solo non contiene una esauriente descrizione del fatto oggetto del giudizio a quo, ma nemmeno fornisce indicazioni sulla esistenza delle condizioni richieste dall’art. 34 d.lgs.vo n. 274 del 2000 per l’operatività della formula di proscioglimento per la particolare tenuità del fatto. Si limita, infatti, ad affermare che il furto per il quale era in corso il processo doveva ritenersi «di particolare tenuità e di basso allarme sociale trattandosi di apprensione di merce di modicissimo valore … dagli scaffali di un supermercato». Ciò, tuttavia, secondo la Corte, non è sufficiente a giustificare il proscioglimento ex art. 34 d. lgs.vo n. 274 del 2000. Richiedendosi ai fini della configurabilità della predetta causa di esclusione della procedibilità non solo l’esiguità del danno, ma anche la valutazione dell’occasionalità del fatto, del grado di colpevolezza dell’imputato e del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento gli può arrecare. Sennonché di tali elementi l’ordinanza di remissione non contiene cenno alcuno e nemmeno dà conto della mancanza di opposizione, oltre che dell’imputato, anche della persona 17 offesa, che costituisce condizione necessaria della causa di proscioglimento per la ‘particolare tenuità del fatto’. Con la conseguenza che il giudice a quo richiede l’estensione davanti al tribunale della formula di proscioglimento, di cui al suddetto art. 34 d. lgs.vo n. 274 del 2000, senza dare conto della esistenza degli elementi che normativamente integrano tale fattispecie.

3.6. Divieto di accesso al giudizio abbreviato nel caso di fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale: manifesta inammissibilità per sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata.

La Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 28 del 2015, depositata il 3 marzo 2015, ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 516 cod. proc. pen., sollevata in riferimento agli art. 3, 24 e 117 Cost., nella parte in cui non prevede che l’imputato possa chiedere il giudizio abbreviato in corso di dibattimento, ove il P.M. abbia modificato l’imputazione per adeguarla alle nuove risultanze dibattimentali. La Corte rileva che successivamente all’ordinanza di rimessione è intervenuta la sentenza n. 273 del 2014 che ha dichiarato costituzionalmente illegittima la norma censurata «nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione». Con conseguente manifesta inammissibilità della questione per sopravvenuta mancanza di oggetto, posto che, a seguito della sentenza n. 273 del 2014, la norma censurata è stata già rimossa dall’ordinamento, in parte qua, con efficacia ex tunc.

3.7. Concorrente esterno in associazione mafiosa: illegittimità costituzionale della presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 48 del 2015, depositata il 26 marzo del 2015, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416 bis cod. pen., è applicata custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, rispetto al concorrente esterno nel suddetto delitto, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

Secondo il giudice a quo la norma censurata viola gli artt. 3, 13, comma 1, e 27, comma 2, Cost.: l’art. 3, in quanto sottopone ad un medesimo trattamento cautelare posizioni tra loro diverse quali quelle dell’appartenente all’associazione mafiosa e quella del concorrente esterno nella stessa; l’art. 13, comma 1, sub specie di vulnus dei suoi principi ispiratori, in particolare i principi di adeguatezza, proporzionalità e minimo sacrificio necessario; l’art. 27, comma 2, sub specie di violazione della presunzione di non colpevolezza, venendo attribuiti alla coercizione cautelare i tratti funzionali tipici della pena.

La Corte costituzionale dichiara fondata la questione.

La decisione in esame si inscrive nel filone inaugurato con la sentenza n. 265 del 2010, ulteriormente ribadito da altre pronunce, che hanno dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., in rapporto a particolari reati, evidenziando la differenza strutturale tra essi e i fatti di criminalità mafiosa (sent. nn. 164 e 231 del 2011; 110 del 2012; 57, 213 e 232 del 2013) e individuando specificamente il tratto nodale di questi ultimi – idoneo a giustificare la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere – nell’appartenenza dell’indiziato all’associazione mafiosa. Le pronunce che si inscrivono nel predetto filone sono, pertanto, accomunate da un unico elemento, costituito dall’irragionevole parificazione all’associazione mafiosa, e la relativa illegittimità costituzionale deriva non tanto dalla presunzione in sé, quanto dalla sua natura assoluta, e, quindi, tale da comportare una totale e indiscriminata irrilevanza del principio del ‘minimo sacrificio necessario’.

Nel novero delle decisioni che compongono il filone in questione, la Corte richiama, assegnandogli “particolare rilievo” nella soluzione della questione sottoposta al suo sindacato, la sentenza n. 57 del 2013, che ha dichiarato costituzionalmente illegittima la presunzione di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. in rapporto ai delitti aggravati dal metodo mafioso o commessi per agevolare l’attività di associazioni mafiose. Il nucleo argomentativo della sentenza n. 57 del 2013, in sintesi, è il seguente: la presunzione assoluta sulla quale fa leva il regime cautelare speciale non risponde, in tal caso, a dati di esperienza generalizzati, in quanto detta aggravante non richiede, in conformità alla consolidata giurisprudenza, che l’autore del fatto sia partecipe di un sodalizio di stampo mafioso, potendo anche trattarsi di un estraneo. La conseguenza è che il mero contesto mafioso – in cui si colloca la condotta criminosa addebitata all’indiziato – che non presupponga necessariamente l’appartenenza all’associazione mafiosa non basta ad assicurare alla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere un fondamento giustificativo costituzionalmente valido.

Argomentazione che la Corte estende alla figura del concorso esterno in associazione mafiosa. Infatti, ribadito, in conformità con la consolidata giurisprudenza, il principio che il concorrente esterno è il soggetto che, senza essere stabilmente inserito nell’organizzazione criminale e, rimanendo dunque privo dell’affectio societatis, fornisce un contributo causalmente efficiente, oltre che consapevole e volontario, alla conservazione o al rafforzamento delle capacità operative del sodalizio. Sottolinea che il concorrente esterno – a differenza di quello intraneo – non è inserito nella struttura criminale, non fa parte del sodalizio e ne rimane al di fuori (diversamente si trasformerebbe in associato), ed è, dunque, privo dello stabile inserimento in una organizzazione criminale con caratteristiche di spiccata pericolosità, in grado di rendere costituzionalmente compatibile la presunzione assoluta di pericolosità sociale. Non sussiste, pertanto, anche in questo caso una ragione giustificativa che consenta l’equiparazione del concorrente esterno con la figura dell’associato, reputata idonea a giustificare la presunzione assoluta di adeguatezza della 19 sola misura carceraria. Infatti, mentre nel caso dell’associato detta presunzione cede, secondo la giurisprudenza di legittimità, solo di fronte alla dimostrazione della rescissione definitiva del vincolo di appartenenza al sodalizio, nel caso del concorrente esterno, estraneo all’organizzazione e libero da vincoli, il parametro per superare la presunzione «è diverso e meno severo, rimanendo legato alla prognosi di non reiterabilità del contributo alla consorteria». Anche nel caso del concorrente esterno manca, pertanto, il vincolo di adesione permanente al gruppo criminale che è in grado di legittimare, ‘sul piano empirico-sociologico, il ricorso in via esclusiva alla misura restrittiva più gravosa, quale unico strumento idoneo a recidere i rapporti dell’indiziato con l’ambiente delinquenziale di appartenenza e a neutralizzarne la pericolosità. Con conseguente illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., in parte qua.

Redattore:Maria Meloni                                Il vice direttore Giorgio Fidelbo

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SENTENZA N. 222 ANNO 2015


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE



composta dai signori: Presidente: Alessandro CRISCUOLO; Giudici : Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON,

ha pronunciato la seguente


SENTENZA



nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 16 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), promosso dal Tribunale ordinario di Ragusa nel procedimento penale a carico di G.S. con ordinanza del 23 settembre 2014, iscritta al n. 238 del registro ordinanze 2014 epubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 7 ottobre 2015 il Giudice relatore Silvana Sciarra.

Ritenuto in fatto

1.- Con ordinanza del 23 settembre 2014, il Tribunale ordinario di Ragusa solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 16 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), in riferimento agli artt. 3 e 77, secondo comma, della Costituzione.

1.1.- Il giudice rimettente premette che, nell’ambito di un giudizio penale, in fase dibattimentale, attinente all’ipotesi di reato di cui all’art. 187 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), non riconducibile ai casi per i quali è disposta la deroga alla sospensione feriale dei termini processuali (ex artt. 91 e 92 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, intitolato «Ordinamento giudiziario», ed artt. 2 e 2-bis della legge 7 ottobre 1969,n. 742, recante «Sospensione dei termini processuali nel periodo feriale»), conordinanza emessa in data 23 settembre 2014, ha fissato l’udienza per l’assunzione di una prova testimoniale in data 8 settembre 2015. In questa data, sulla base della disciplina anteriore alla novella di cui al citato art. 16, non sarebbe stata possibile la celebrazione di un’udienza istruttoria.
Precisa, inoltre, che, sebbene la disposizione censurata non abbia espressamentemodificato l’art. 90, primo comma, dell’ordinamento giudiziario, secondo cui i magistrati che esercitano funzioni giudiziarie hanno un periodo annuale di feriedi quarantacinque giorni, essa, lungi dal riferirsi esclusivamente ai magistrati ordinari in tirocinio, sarebbe espressiva della volontà del legislatore di procedere ad una riduzione delle ferie per tutti i magistrati (ordinari, amministrativi, contabili e militari), con o senza funzioni, nonché per gli avvocati e i procuratori dello Stato. Pertanto, essa avrebbe determinato la tacita abrogazione
dell’art. 90, primo comma, dell’ordinamento giudiziario, come si desumerebbe, oltre che dai «non equivoci comunicati del Governo», dalla inscindibile correlazione tra il primo ed il secondo comma della medesima disposizione.
Il rimettente ritiene che la riduzione del periodo di sospensione feriale dei termini processuali «dal 6 al 31 agosto di ciascun anno», disposta dal comma 1 dell’art. 16 (precedentemente prevista dal 1° agosto al 15 settembre e determinata dalla distinta esigenza di assicurare riposo agli avvocati ed ai procuratori legali) non sarebbe stata in alcun modo efficace, ai fini della rapida definizione dei procedimenti e dello smaltimento dell’arretrato, senza la contestuale riduzione del periodo di congedo ordinario riconosciuto ai magistrati da quarantacinque a trenta giorni, di cui al comma 2 del medesimo art. 16.


Considerato che l’obiettivo perseguito dal legislatore è quello dell’aumento di produttività in sede giurisdizionale, connesso al numero di udienze tenute e dei procedimenti definiti nel corso dell’anno giudiziario, sarebbe palese, secondo il rimettente, che l’eventuale mancata riduzione delle ferie riconosciute alla magistratura avrebbe reso infruttuosa la contestuale riduzione del periodo di sospensione feriale dal 6 al 31 agosto. Ciò sarebbe ulteriormente avvalorato dalla
tendenziale coincidenza del congedo per ferie goduto dal magistrato ordinario con il periodo feriale fissato al principio di ogni anno (nell’ambito della stagione estiva) ai sensi dell’art. 90 dell’ordinamento giudiziario, periodo che, a sua volta, tendenzialmente coincide con la sospensione feriale dei termini processuali.
Pertanto, i commi 1 e 2 dell’art. 16, pur se attinenti a profili distinti, sarebbero mossi da una ratio unitaria.
Tanto premesso, il giudice rimettente sostiene che la fissazione dell’udienza diassunzione della prova testimoniale in data 8 settembre 2015 sia una conseguenza, prima ancora che della contrazione del periodo di sospensione feriale dei termIni processuali, della riduzione del periodo di congedo ordinario di cui all’art. 90 dell’ordinamento giudiziario, in relazione al disposto del successivo art.91, secondo cui, durante il periodo feriale dei magistrati, le corti d’appello ed i tribunali trattano le cause penali relative ad imputati detenuti o a reati che possono prescriversi o che, comunque, presentano carattere di urgenza.

Su tali basi, il Tribunale ordinario di Ragusa ritiene che il combinato disposto delle disposizioni di cui all’art. 16 collida con gli artt. 3 e 77, secondo comma, Cost. 

1.2.- In via preliminare, il rimettente afferma che la questione è, senza dubbio, rilevante nel procedimento penale in trattazione. Il Tribunale ordinario di Ragusa ricorda che la pregiudizialità necessaria della questione di costituzionalità rispetto alla decisione del giudizio a quo si ravvisa «ogni qualvolta il giudice dubita della legittimità costituzionale delle disposizioni normative che, in quel momento, è chiamato ad applicare per la prosecuzione e/o la definizione del giudizio» (sentenza n. 53 del 1982) e rileva che, nella vicenda in esame, la questione viene sollevata successivamente all’emissione dell’ordinanza di ammissione della prova testimoniale e di fissazione dell’udienza, ma anteriormente alla data prevista per la sua assunzione (8 settembre 2015), «ipotesi che renderà in concreto determinante la decisione della Corte».


1.3.- Nel merito, il rimettente censura l’art. 16 anzitutto per violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost.La norma risulterebbe, infatti, priva, in maniera evidente, dei requisiti della necessità e dell’urgenza che, secondo l’indirizzo della giurisprudenza costituzionale, «legittimano il Governo ad emanare decreti-legge» (sentenza n. 16 del 2002).
Tenuto conto che l’art. 16 del d.l. n. 132 del 2014 prevede, al comma 3, che «[le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 acquistano efficacia a decorrere dall’anno2015», una decretazione d’urgenza avente ad oggetto una riduzione dei periodi di sospensione feriale dei termini processuali e di ferie dei magistrati, con effetto a decorrere dall’anno 2015, si porrebbe in contrasto manifesto con il presupposto dell’urgenza di provvedere.
Tale contrasto sarebbe avvalorato dalla considerazione che, stabilito l’inizio del periodo di sospensione feriale dei termini in data 6 agosto 2015 e considerata l’esigenza, per ragioni di buona organizzazione del servizio giustizia, che i magistrati godano di regola delle proprie ferie in via continuativa e preferibilmente durante il periodo di sospensione feriale dei termini, le disposizioni di cui all’art. 16 sarebbero destinate a produrre i propri effetti non prima dei mesi di luglio e agosto 2015. Si tratterebbe, pertanto, di tempi assolutamente compatibili con la deliberazione delle due Camere e il processo ordinario di formazione delle leggi, anche qualora si volesse attribuire rilievo ad una preventiva calendarizzazione delle udienze.


1.4.- La norma sarebbe in contrasto anche con l’art. 3 Cost.
Essa, infatti, parificando il periodo di congedo ordinario riconosciuto ai magistrati a quello degli altri impiegati civili dello Stato, senza tener conto delle peculiarità dell’attività giudiziaria, mostrerebbe un assetto normativo inidoneo ad assicurare la concreta ed integrale fruizione, da parte dei magistrati, dei trenta giorni di congedo ordinario riconosciuti agli impiegati civili dello Stato, realizzando una disparità di trattamento rispetto a questi ultimi non giustificata e non ragionevole. Si tratterebbe di una parificazione solo apparente, perché la riforma non derogherebbe alla necessità che il giudice rispetti i termini per il deposito dei provvedimenti, anche qualora questi scadano nel periodo di sospensione feriale e nel corso del periodo di congedo ordinario. Il magistrato sarebbe, dunque, tenuto, come nel passato, a prestare la propria attività lavorativa anche durante il periodo di congedo ordinario, non potendo sottrarsi all’obbligo di predisporre e depositare gli atti i cui termini scadano nel corso delle proprie ferie.


2.- Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata.
La difesa statale premette che l’obiettivo perseguito dal legislatore con il decreto-legge n. 132 del 2014, in cui si colloca la disposizione sospettata di illegittimità costituzionale, consiste nell’aumento della produttività in sede giurisdizionale, obiettivo legato, tra l’altro, al numero delle udienze tenute e dei procedimenti definiti nel corso dell’anno giudiziario. In questa prospettiva la riduzione del periodo di sospensione feriale dei termini processuali e quella del periodo di congedo ordinario riconosciuto ai magistrati sarebbero congiuntamente preordinate a produrre l’effetto di razionalizzare e incrementare l’efficienza degli uffici giudiziari.
Tanto premesso, in primo luogo, sarebbero sussistenti i requisiti di necessità ed urgenza previsti dall’art. 77 Cost.

La norma censurata sarebbe, infatti, coerente con i predetti obiettivi.
Considerato il dato dell’elevatissimo contenzioso pendente, soprattutto in appello, e della sistematica violazione del termine di ragionevole durata del processo di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, la norma in esame rientrerebbe fra le misure finalizzate ad attuare un’inversione di tendenza nella durata dei procedimenti, trasformando quello che è ora un fattore di appesantimento della crisi in un possibile «volano» per la crescita economica.
La disposizione transitoria contenuta nel comma 3 dell’articolo in esame, in forza della quale la riduzione del termine di sospensione feriale dei termini processuali e delle ferie dei magistrati e degli avvocati e procuratori dello Stato produrranno effetto a decorrere dall’anno 2015, non costituirebbe, di per sé, un dato incompatibile, almeno in modo evidente, con il presupposto dell’urgenza richiesto dall’art. 77 Cost.
Del pari infondata sarebbe la dedotta violazione dell’art. 3 Cost.
La norma censurata non sembrerebbe arbitraria o carente di un adeguato fondamento giustificativo, tanto da determinare la lamentata violazione dell’art. 3 Cost., nella parte in cui, in funzione dell’evidenziata finalità di migliorare l’efficienza e la produttività degli apparati giudiziari, riduce il periodo di congedo ordinario dei magistrati per parificarlo a quello della generalità degli impiegati dello Stato,.
La censura inerente all’effettivo godimento delle ferie sarebbe in ogni caso superabile alla luce del contenuto del comma 4 dell’art. 16 del d.l. n. 132 del 2014, che, con una specifica disposizione, rimette agli organi di governo delle magistrature e dell’avvocatura dello Stato l’adozione di misure organizzative conse
guenti all’applicazione delle disposizioni dell’articolo in esame. Tali disposizioni dovrebbero, infatti, comprendere quelle volte ad assicurare l’effettività del godimento del periodo di ferie spettante ai magistrati, come ridisegnato dal legislatore.
La difesa statale ritiene, inoltre, che la questione si esponga a un radicale giudizio di manifesta inammissibilità, tenuto conto del fatto che il rimettente non tenta nemmeno di ipotizzare un’interpretazione costituzionalmente orientata della nuova disciplina di regolazione del periodo di godimento delle ferie dei magistrati.

Considerato in diritto

1.- Il Tribunale ordinario di Ragusa dubita della legittimità costituzionale dell’art. 16 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in mate
ria di processo civile), in riferimento agli artt. 3 e 77, secondo comma, della Costituzione.
A suo avviso, tale norma, disponendo la riduzione sia del periodo di sospensione feriale dei termini processuali (comma 1), sia del congedo ordinario dei magistrati (comma 2), «con efficacia a decorrere dall’anno 2015» (comma 3), si porrebbe in evidente contrasto con il presupposto dell’urgenza di provvedere, imposto per l’adozione dei decreti-legge dall’art. 77, secondo comma, Cost. Essa violerebbe anche l’art. 3 Cost. in quanto, parificando il periodo di congedo ordinario riconosciuto ai magistrati a quello degli altri impiegati civili dello Stato, senza tener conto delle peculiarità dell’attività giudiziaria, fra cui quella di dover depositare i provvedimenti nei termini, anche ove questi ultimi scadano nel periodo di congedo ordinario, darebbe luogo a un assetto normativo tale da non assicurare la concreta ed integrale fruizione, da parte dei magistrati, dei trenta giorni di congedo riconosciuti agli impiegati civili dello Stato,realizzando una disparità di trattamento rispetto a questi ultimi non giustificata e non ragionevole.


2.- In linea preliminare, occorre rilevare che, successivamente all’adozione dell’ordinanza di rimessione, è stata adottata la legge 10 novembre 2014, n. 162, di conversione del d.l. n. 132 del 2014. Quest’ultima ha inciso sul testo dell’art. 16 limitatamente al comma 1, nel quale le parole «dal 6 al 31 agosto di ciascun anno» sono state sostituite dalle seguenti: «dal 1º al 31 agosto di ciascun anno». Si è, in altri termini, stabilito che il periodo di sospensione feriale dei termini processuali decorra, anziché dal 6 agosto, come previsto nel testo del d.l. n. 132 del 2014, dal 1° agosto, mentre il termine finale del predetto periodo è rimasto alla data del 31 agosto, così equiparando la durata del periodo disospensione feriale dei termini processuali a quella del congedo ordinario dei magistrati (pari a trenta giorni).
Tale ius superveniens non incide sul giudizio di legittimità costituzionale, poiché si rivolge a disciplinare aspetti della disposizione denunciata (la delimitazione a trenta giorni anziché a venticinque del periodo di sospensione feriale dei termini processuali) non rilevanti ai fini della valutazione delle censure diillegittimità costituzionale proposte.
Conseguentemente, deve escludersi la necessità di procedere ad una restituzione degli atti, anche perché, come questa Corte ha già avuto modo di precisare, «un’eventuale restituzione degli atti al giudice rimettente, ove questa non sia giustificata dalla necessità che sia nuovamente valutata la perdurante rilevanza nelgiudizio a quo e la non manifesta infondatezza della quaestio a suo tempo sollevata, potrebbe condurre, proprio in aperto contrasto col principio di effettività della tutela giurisdizionale che non può essere disgiunta dalla sua tempestività, ad un inutile dilatamento dei tempi dei giudizi a quibus, soggetti per due volte alla sospensione conseguente al promovimento dell’incidente di legittimità costituzionale, e ad una duplicazione dello stesso giudizio di costituzionalità,con il rischio di vulnerare il canone di ragionevole durata del processo sancito dall’art. 111 Cost. (sentenza n. 186 del 2013)» (sentenza n. 172 del 2014).


3.- La questione, così come posta, è inammissibile per difetto di motivazione inpunto di rilevanza.
3.1.- Questa Corte ha ripetutamente affermato che, quando il rimettente non spieghi adeguatamente le ragioni per le quali ritiene di dover applicare la norma della cui legittimità costituzionale dubita per proseguire nel giudizio pendente dinanzi a sé, la questione è inammissibile (fra le tante, di recente, sentenza n.178 del 2015; ordinanze n. 187 e n. 183 del 2015).
Nell’itinerario argomentativo seguito dal giudice a quo non è ravvisabile alcun elemento che chiarisca le ragioni per le quali egli ritiene di dover fare applicazione delle disposizioni censurate, per consentire la prosecuzione del procedimento in corso. Nonostante egli affermi, apoditticamente, che «la questione è, senz’altro, rilevante nel procedimento penale in trattazione» e richiami il principio per cui la pregiudizialità della questione di legittimità costituzionale rispetto al giudizio a quo sussiste anche allorquando il giudice dubita della legittimità costituzionale di disposizioni normative che, in quel momento, è chiamato ad applicare per la prosecuzione del giudizio, l’esigenza di dover applicare la norma censurata non emerge con chiarezza.
Il Tribunale ordinario di Ragusa premette di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 16 del d.l. n. 132 del 2014 nell’ambito di un giudizio penale, in fase dibattimentale, attinente all’ipotesi di reato di cui all’art. 1
87 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada). In particolare, precisa che, con ordinanza emessa il 23 settembre 2014, ha fissato l’udienza per l’assunzione di una prova testimoniale in data 8 settembre 2015.
In questa data, sulla base della disciplina anteriore alla novella di cui al citato art. 16, non sarebbe stata possibile la fissazione di un’udienza istruttoria, in quanto compresa nel periodo di sospensione feriale dei termini processuali. Tale fissazione – puntualizza il rimettente – «discende […] anzitutto dalla riduzione del periodo di congedo ordinario di cui all’art. 90 ord. giud.- in relazione al disposto del successivo art. 91 (secondo cui, nel periodo feriale dei magistrati, le corti d’appello ed i tribunali ordinari trattano le cause penali relative ad imputati detenuti o a reati che possono prescriversi o che, comunque, presentano caratteri di urgenza) – prima ancora che dalla connessa contrazione del periodo di sospensione feriale dei termini processuali».
Non si spiega perché il giudice si ritenga obbligato a fissare l’udienza per l’assunzione della prova testimoniale proprio in una data non più ricompresa nel periodo di sospensione feriale dei termini processuali per effetto dell’art. 16, comma 1, del d.l. n. 132 del 2014 e sulle ragioni che rendono, secondo il rimettente, necessaria l’applicazione di quest’ultima norma alla prosecuzione del giudizio in corso.
Risulta ancor meno dimostrata la necessaria applicazione della previsione relativa alla riduzione del periodo di congedo ordinario dei magistrati, di cui al comma 2 dell’art. 16. Il giudice rimettente nulla dice a tal proposito, limitandosia ricordare la ratio unitaria (che attiene alla rapida definizione dei procedimenti e allo smaltimento dell’arretrato) dei commi 1 e 2 del citato art. 16, nonché la tendenziale coincidenza del congedo ordinario goduto dal magistrato «con il periodo feriale fissato al principio di ogni anno […] a sua volta tendenzialmente coincidente con il periodo di sospensione feriale dei termini processuali».
Lo stesso rimettente riconosce che una tale coincidenza è solo tendenziale e dunque eventuale, poiché non sussiste alcun precetto normativo che imponga un simile effetto. Non rileva, dunque, la pretesa unitarietà di ratio di disposizioni «attinenti a profili distinti» (come affermato nella stessa ordinanza di rimessione), ovvero a fattispecie diverse, ai fini della dimostrazione della loro congiunta applicazione nel caso di specie.
Questa Corte ha già avuto più volte occasione di delineare l’ambito di applicazione e la finalità dell’istituto della sospensione feriale dei termini processuali, precisando che esso, nato «dalla necessità di assicurare un periodo di riposo a favore degli avvocati e procuratori legali […] è anche correlato al potenziamento del diritto di azione e di difesa (art. 24 Cost.)» (sentenza n. 255 del 1987), cui deve essere accordata tutela, «quando la possibilità di agire in giudizio costituisca per il titolare l’unico rimedio per far valere un suo diritto» (sentenza n. 49 del 1990).
Risulta, dunque, evidente che l’individuazione del periodo di sospensione feriale dei termini processuali risponde a un’esigenza di garanzia dell’effettività del diritto di difesa nel periodo di riposo degli avvocati, ben diversa da quella sottesa alla previsione del periodo di congedo ordinario dei magistrati, cui sono viceversa indirizzate, a titolo esclusivo, alcune delle censure, in specie quelle relative alla violazione dell’art. 3 Cost.

Per Questi Motivi


LA CORTE COSTITUZIONALE



dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), sollevata in riferimento agli artt. 3 e 77, secondo comma, della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consul
ta, il 7 ottobre 2015


F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 novembre 2015.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella Paola MELATTI

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Esecuzione

Pignoramento dello stipendio: resta fermo il limite del quinto

E’ in parte inammissibile, in parte infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 545 c.p.c., nella parte in cui non prevede l’impignorabilità assoluta di quella parte della retribuzione necessaria a garantire al lavoratore i mezzi indispensabili alle sue esigenze di vita.

Corte costituzionale, sentenza 3 dicembre 2015, n. 248

In sintesi, i principi enunciati dalla Corte costituzionale sono i seguenti.

Per le pensioni, la regola era quella del limite del quinto, ma a seguito di pronunce della Corte costituzionale, è stata sottratta alla pignorabilità la parte necessaria a soddisfare le esigenze minime di vita del pensionato, la cui individuazione è riservata alla discrezionalità del legislatore. Il d.l. n. 83 del 2015 ha, quindi, aggiunto all’art. 545 c.p.c. un comma in virtù del quale le pensioni non possono essere pignorate per un ammontare corrispondente alla misura massima mensile dell’assegno sociale, aumentato della metà, mentre la parte eccedente tale ammontare è pignorabile nei limiti previsti dal terzo, quarto e quinto comma di detta norma, nonché dalle speciali disposizioni di legge. Inoltre, con l’ottavo comma, è stato posto rimedio ad una anomalia che si verificava in passato, conseguente al fatto che, qualora la pensione fosse confluita nel conto corrente o postale, diveniva pignorabile senza alcun limite, in quanto ritenuta una disponibilità liquida fungibile.

Gli stipendi, in relazione ai crediti diversi da quelli alimentari, sono invece pignorabili nella misura del quinto, salvo che si tratti di esecuzione concorsuale, perché in quest’ultima ipotesi è affidata al giudice la fissazione della parte di esso che può comunque essere percepita dal fallito. Inoltre, il d.l. n. 83 del 2015 ha introdotto nell’art. 545 c.p.c. l’ottavo comma, sopra richiamato, che riguarda specificamente la disciplina dello stipendio, nel caso di accredito su conto corrente bancario o postale.

Per i crediti inerenti alle imposte sul reddito, l’art. 72-ter del d.P.R. n. 602 del 1973 stabilisce che le somme dovute a titolo di stipendio o di pensione possono essere pignorate nella misura specificamente indicata da detta norma.

Delineato il quadro normativo di riferimento, la sentenza enuncia tre importanti principi.

Il primo è che il bilanciamento dell’esigenza del debitore-lavoratore, di avere, attraverso una retribuzione congrua, un’esistenza libera e dignitosa, con quella di non vanificare la garanzia del credito, conservando un senso al principio della responsabilità patrimoniale, è stato ragionevolmente realizzato, fissando un limite (del quinto) congruo a detto scopo. E’ vero infatti che nel caso degli stipendi di importo più basso quest’ultima esigenza può essere messa a rischio anche da un tale limite. Tuttavia, in tale ipotesi l’obbligo della solidarietà sociale non può essere posto a carico del solo creditore e va invece fronteggiato mediante gli strumenti dello specifico settore dell’assistenza sanitaria o attraverso quelli dell’assistenza generale.

Il secondo principio, enunciato ribadendo la precedente giurisprudenza costituzionale, è che non è possibile operare un parallelismo tra la pignorabilità delle retribuzioni e quella delle pensioni – neppure a seguito delle modifiche realizzate dal d.l. n. 83 del 2015, che hanno assimilato la pignorabilità di stipendi e pensioni nel solo caso di somme accreditate su conto corrente bancario o postale – e resta, quindi, preclusa la possibile estensione del criterio del “minimo vitale” a crediti diversi da quelli pensionistici.

Il terzo principio è, infine, che la disciplina della riscossione coattiva delle imposte sul reddito, siccome condizionata dal peculiare carattere del credito, neppure è idonea a fondare una comparazione con il pignoramento per crediti diversi e, quindi, a fare emergere una violazione del principio di eguaglianza.

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di Andrea Penta

Nota a

Corte cost. sentenza  229/2015
Presidente CRISCUOLO – Redattore MORELLI
Udienza Pubblica del 06/10/2015    Decisione  del 21/10/2015
Deposito del 11/11/2015 

1.     Premessa
Di fronte all’inerzia del legislatore che, malgrado i richiami di Strasburgo, continua a latitare, è toccato nuovamente alla Consulta cercare di rendere non contraddittorio il quadro normativo esistente.Invero, la sentenza in commento, con la quale (dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, commi 3, lettera b), e 4, della legge 40/2004), nella sostanza, si è escluso che possa configurare un’ipotesi di reato la selezione di embrioni nella procreazione assistita, laddove sia finalizzata soltanto a evitare di impiantare nell’utero della donna embrioni affetti da malattie genetiche ritenute gravi (ai sensi dell’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 194/78), si inserisce nel solco di altra, di poco risalente, pronuncia del medesimo autorevole consesso, con la quale la Consulta aveva dichiarato[1] l’illegittimità costituzionale della stessa legge n. 40/2004 nella parte in cui non consentiva il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili gravi (in particolare, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194), accertate da apposite strutture pubbliche[2].La meno recente declaratoria di illegittimità aveva il dichiarato scopo di consentire la “previa individuazione”, in funzione del successivo impianto nell’utero della donna, “di embrioni cui non risulti trasmessa la malattia del genitore comportante il pericolo di rilevanti anomalie o malformazioni (se non la morte precoce) del nascituro”, alla stregua del suddetto “criterio normativo di gravità”[3].E’ evidente il fil rouge che lega allora le due pronunce, alla luce della elementare considerazione per cui ciò che era divenuto lecito per effetto della prima sentenza non poteva più essere considerato illegale per il principio di non contraddizione.

In realtà, a ben vedere, la strada era stata già spianata da un altro intervento della Corte costituzionale[4], con il quale, partendo dalle premesse per cui la scelta di una coppia di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, libertà riconducibile agli artt. 2, 3, e 31 Cost. (poiché concerne la sfera privata e familiare) e la determinazione di avere, o meno, un figlio, concernendo anche la coppia assolutamente sterile e infertile, attiene alla sfera più intima ed intangibile della persona umana e non può che essere intangibile (ovviamente, qualora non vulneri altri valori costituzionali), anche quando la determinazione sia esercitata mediante la scelta di ricorrere, a tale scopo, alla tecnica di procreazione medicalmente assistita (da ora in poi, p.m.a.) di tipo eterologo[5], è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 4, comma 3, l. n. 40 del 2004, nella parte in cui stabilisce il divieto del ricorso a tecniche di p.m.a. di tipo eterologo, qualora sia stata diagnostica alla coppia una patologia che sia causa di sterilità od infertilità assolute ed irreversibili[6].

In quest’ottica, sono state considerate non dirimenti le differenze tra p.m.a. di tipo omologo ed eterologo, benché soltanto la prima renda possibile la nascita di un figlio geneticamente riconducibile ad entrambi i componenti della coppia. Pertanto, in virtù dell’art. 8 (“Stato giuridico del nato”) della l. n. 40/2004, anche i nati dalla tecnica di p.m.a. di tipo eterologo hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere a quelle tecniche.

La ratio sottesa alla decisione era anche stata di tipo sociale, se si considera che il divieto in oggetto, impedendo alla coppia destinataria della legge, ma assolutamente sterile e infertile, di utilizzare la tecnica di p.m.a. eterologa, realizzava un ingiustificato, diverso trattamento delle coppie affette dalla più grave patologia, in base alla capacità economica delle stesse, che assurgeva intollerabilmente a requisito dell’esercizio di un diritto fondamentale, quale quello di formare una famiglia con dei figli, negato solo a quelle prive delle risorse finanziarie necessarie per potere fare ricorso a tale tecnica recandosi in altri Paesi. Del resto, la negazione assoluta del diritto a realizzare la genitorialità, alla formazione della famiglia con figli (che costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, riconducibile agli art. 2, 3 e 31 Cost.), con incidenza sul diritto alla salute, era stabilita in danno delle coppie affette dalle patologie più gravi, in contrasto con la ratio legis, nonché con il dichiarato scopo della l. n. 40 del 2004 di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana” (art. 1, co. 1). Pertanto, la norma censurata incideva anche sul diritto alla salute, che va inteso nel significato, proprio dell’art. 32 Cost., comprensivo anche della salute psichica, oltre che fisica, e la cui tutela deve essere di pari grado a quello della salute fisica, atteso che l’impossibilità di formare una famiglia con figli insieme al proprio partner, mediante il ricorso alla p.m.a. di tipo eterologo, può incidere negativamente, in misura anche rilevante, sulla salute della coppia. Infine, il divieto assoluto di fecondazione eterologa non era neppure giustificabile dalla necessità di tutelare, nell’ambito del bilanciamento degli interessi costituzionalmente coinvolti, il diritto del nato da p.m.a. di tipo eterologo all’identità genetica, poiché l’ordinamento ammette a determinate condizioni la possibilità per il figlio di accedere alle informazioni relative all’identità dei genitori biologici.

Da ultimo, la pronuncia si segnalava altresì per considerazioni di natura etica, nel momento in cui osservava che la Costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli (come è deducibile dalle sentenze n. 189 del 1991 e n. 123 del 1990). Nondimeno, il progetto di formazione di una famiglia caratterizzata dalla presenza di figli, anche indipendentemente dal dato genetico, è favorevolmente considerata dall’ordinamento giuridico, in applicazione di principi costituzionali, come dimostra la regolamentazione dell’istituto dell’adozione. La considerazione che quest’ultimo mira prevalentemente a garantire una famiglia ai minori (come già affermato in precedenza dalla stessa Corte sin dalla sentenza n. 11 del 1981) rende, comunque, evidente che il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa[7]. La libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori e di formare una famiglia, nel senso sopra precisato, di sicuro non implica che la libertà in esame possa esplicarsi senza limiti. Tuttavia, questi limiti, anche se ispirati da considerazioni e convincimenti di ordine etico, pur meritevoli di attenzione in un ambito così delicato, non possono consistere in un divieto assoluto, come già sottolineato, a meno che lo stesso non sia l’unico mezzo per tutelare altri interessi di rango costituzionale.

L’apertura non è stata, peraltro, incondizionata, atteso che alla p.m.a. di tipo eterologo possono fare ricorso esclusivamente le “coppie maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi” (art. 5, comma 1, l. n. 40 del 2004), “qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità” (art. 1, comma 2, l. n. 40 del 2004) e sia stato accertato il carattere assoluto delle stesse, dovendo siffatte circostanze essere “documentate da atto medico” e da questo certificate, ai sensi dell’art. 4, comma 1, l. n. 40 del 2004. Senza dimenticare, peraltro, che tale forma di procreazione viene rigorosamente circoscritta alla donazione di gameti e tenuta distinta da diverse metodiche, quali la cosiddetta “surrogazione di maternità”.

2.     Le rationes decidendi sottese alla pronuncia della Consulta

Nella fattispecie sottoposta all’esame della Consulta, il giudizio di legittimità costituzionale era stato promosso dal Tribunale ordinario di Napoli nell’ambito di un procedimento penale a carico di un gruppo di professionisti rinviati a giudizio per aver realizzato la produzione di embrioni umani con fini diversi da quelli previsti dalla legge 40, effettuando una selezione eugenetica e la soppressione di embrioni affetti da patologie. Il tribunale partenopeo aveva, quindi, sollevato una duplice questione di legittimità costituzionale nella parte in cui si contemplano quali ipotesi di reato, rispettivamente, la selezione eugenetica e la soppressione degli embrioni soprannumerari “senza alcuna eccezione”.

La Corte, in estrema sintesi, ha stabilito che non commettono più reato i medici che selezionano gli embrioni anche per evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili, laddove continua ad essere vietata e, dunque, penalmente sanzionabile la soppressione degli embrioni (vedasi postea), anche quando sono embrioni soprannumerari, affetti da malattie genetiche, a seguito di una selezione finalizzata ad evitarne appunto l’impianto nell’utero della donna.

In particolare, i giudici hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 3, lettera b (che vieta ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti ovvero interventi che, attraverso tecniche di selezione, di manipolazione o comunque tramite procedimenti artificiali, siano diretti ad alterare il patrimonio genetico dell’embrione o del gamete ovvero a predeterminarne caratteristiche genetiche, ad eccezione degli interventi aventi finalità diagnostiche e terapeutiche), e comma 4 (che prevede reclusione fino a sei mesi e multe fino a 150 mila euro per chi viola la norma).

La Consulta ha cercato di raggiungere, allo stato non è possibile scrutinare se con successo, il difficile obiettivo di conciliare due diverse esigenze: da un lato, la possibilità per i medici di effettuare una selezione degli embrioni, tutelando le esigenze della coppia, dall’altro, il diritto alla vita dell’embrione, considerando legittimo il divieto di soppressione.

La prima parte (quella di fondatezza) della pronuncia della Corte costituzionale, sulla quale si soffermeranno nel presente paragrafo le attenzioni, era stata in qualche modo anticipata da una decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo[8], con la quale si era preconizzato che anche l’allora normativa italiana sulle diagnosi genetiche preimpianto potesse ledere il diritto dei privati al rispetto della loro vita privata e familiare[9]. E’ lo stesso rimettente ad operarne un sia pur fugace cenno, allorquando, tra i motivi di asserita illegittimità costituzionale, evidenzia che l’art. 13, commi 3, lett. b), e 4, l. n. 40/2004 contrasterebbe, altresì, con l’art. 117, primo comma, Cost., «in relazione all’art. 8 della CEDU, come interpretato nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, laddove ha affermato che il diritto al rispetto della vita privata e familiare include il desiderio della coppia di generare un figlio non affetto da malattia genetica (in tal senso, Corte EDU, Costa e Pavan contro Italia, sentenza del 28 agosto 2012, § 57)».

Ciò nonostante, l’intervento si rivela quanto mai opportuno, al fine di dissipare i dubbi che, comunque, si erano insinuati in seno alla giurisprudenza di merito[10]. D’altra parte, analoga questione, sollevata questa volta dal tribunale capitolino[11], era stata dichiarata inammissibile dalla Consulta. In mancanza di una pronuncia favorevole, i giudici aditi si erano in passato prevalentemente orientati nel senso di accogliere con provvedimento di urgenza la richiesta di coppie fertili, ma portatrici di malattie genetiche trasmissibili in via ereditaria, di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, comprensive della diagnosi e della selezione preimpianto degli embrioni[12]. Sempre in questa direzione, veniva disposta[13] con provvedimento d’urgenza la diagnosi preimpianto sullo stato di salute degli embrioni, per fornire ai futuri genitori le informazioni necessarie per esprimere il consenso all’impianto, prevedendo che poi quest’ultimo potesse aver luogo – consentendolo la donna – con riferimento ai soli embrioni accertati come sani o, comunque, portatori sani di patologie genetiche.

In questo panorama, non va dimenticato che l’art. 14, comma 2, l. 19 febbraio 2004 n. 40, nella parte in cui limitava la produzione di embrioni ad un numero non superiore a tre ed imponeva un unico e contemporaneo impianto degli embrioni prodotti, era stato dichiarato costituzionalmente illegittimo[14] limitatamente, appunto, alle parole “ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre” (restando comunque salvo il principio secondo cui le tecniche di produzione non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario, secondo accertamenti demandati, nella fattispecie concreta, al medico)[15], ponendosi in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il duplice profilo del principio di ragionevolezza e di quello di uguaglianza, in quanto il legislatore riservava il medesimo trattamento a situazioni dissimili (in conseguenza delle caratteristiche degli embrioni, delle condizioni soggettive e dell’età delle donne che si sottopongono alla procedura di procreazione assistita), nonché in contrasto con l’art. 32 Cost. per il pregiudizio alla salute della donna (sia rendendo necessario il ricorso alla reiterazione di cicli di stimolazione ovarica ove il primo impianto non dia alcun esito sia per il rischio connesso a gravidanze plurime[16]) ed eventualmente del feto[17]. In sintesi, la Corte muove dal rilievo che la stessa l. n. 40 del 2004 non riconosce una tutela assoluta all’embrione, in quanto cerca di individuare «un giusto bilanciamento» con la tutela delle esigenze della procreazione (e, quindi, in primis con il diritto della donna ad una gravidanza libera e consapevole).

Estremamente vicina alle conclusioni cui poi è pervenuta la Corte costituzionale era una parte della giurisprudenza[18], che riconosceva il diritto della coppia, in condizioni di infertilità e portatrice di una patologia irreversibile, ad ottenere, nell’ambito dell’intervento di procreazione medicalmente assistita, l’esame clinico e diagnostico sugli embrioni ed il trasferimento in utero solo degli embrioni sani o portatori sani delle patologie da cui gli stessi ricorrenti risultavano affetti, mediante le metodologie previste in base alla scienza medica e con crioconservazione degli ulteriori embrioni. Corollario di tale impostazione era la previsione, per l’eventualità in cui la struttura sanitaria pubblica si fosse trovata nell’impossibilità erogare la prestazione sanitaria tempestivamente in forma diretta, che la stessa prestazione potesse essere erogata in forma indiretta, mediante il ricorso ad altre strutture sanitarie.

Il leitmotiv che rappresenta il minimo comune denominatore della maggior parte delle sentenza che si sono approcciate al problema in termini favorevoli è senz’altro rappresentato dalla esaltazione del diritto all’autodeterminazione ed al consenso informato (inteso come compimento di scelte esistenziali libere e consapevoli, il quale, a sua volta, presuppone, nel contesto di una procreazione cosciente e responsabile, anche una specifica informazione circa lo stato di salute degli embrioni), nonché dall’affermazione della prevalenza del diritto alla salute psicofisica della donna sugli interessi dell’embrione (sul punto si tornerà funditus nel prosieguo)[19].

Per la Corte, prevedere come reato la selezione degli embrioni, anche laddove questi siano affetti da malattie genetiche “gravi” e “trasmissibili”, è in contrasto con i principi costituzionali (artt. 3 e 32 Cost.), creando un vulnus al diritto alla salute, tutelato dalla stessa legge 40, nonché al diritto al rispetto della vita privata e familiare, che comprende il desiderio della coppia di generare un figlio non affetto da malattie genetiche, previsto dalla Cedu.

Il punto centrale dell’iterargomentativo sviluppato dalla Corte si sostanzia nell’affermazione secondo cui, a seguito della sentenza additiva n. 96 del 2015, quanto è divenuto così lecito non può – per il principio di non contraddizione − essere più attratto nella sfera del penalmente rilevante. Ed è in questi esatti termini e limiti che l’art. 13, commi 3, lettera b), e 4, va incontro a declaratoria di illegittimità costituzionale, nella parte, appunto, in cui vieta, sanzionandola penalmente, la condotta selettiva del sanitario volta esclusivamente ad evitare il trasferimento nell’utero della donna di embrioni che, dalla diagnosi preimpianto, siano risultati affetti da malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge n. 194 del 1978, accertate da apposite strutture pubbliche.

3.     I rapporti con l’interruzione volontaria della gravidanza

Per quanto alcuni primi commentatori[20] abbiano sostenuto il contrario, la pronunzia non si fonda anche sul contrasto della norma censurata con l’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza, dal punto di vista del vizio di coerenza della norma.

Tuttavia, nel rilievo, per quanto fallace, c’è del vero.

Nella sua formulazione originaria, la legge disponeva che l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita era consentito solo quando fosse stata accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed era, comunque, circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate o dipendenti da cause accertate (art. 4, comma 1)[21]. Il ricorso alle tecniche presupponeva, perciò, una vera e propria impossibilità della procreazione naturale, il che implicava, tra l’altro, che coppie fertili, ma portatrici di malattie genetiche, non avrebbero potuto far ricorso alla fecondazione in vitro.

Nel momento in cui si è esteso l’ambito di applicazione della procreazione artificiale, sono aumentati i problemi connessi alla possibile presenza di embrioni malformati.

Sull’impianto originario della legge si è poi innestato l’intervento del Ministro della Salute, che, con decreto 11 aprile 2008, ha consentito l’accesso alle tecniche anche nei casi in cui vi siano uomini portatori di malattie virali sessualmente trasmissibili per infezioni da Hiv, Hbv (epatite B) e Hcv (epatite C)[22]. Ciò sul presupposto che le predette malattie, in ragione del rischio elevato di infezione per la madre e per il feto, avrebbero costituito, di fatto, una causa ostativa della procreazione, che si sarebbe tradotta, inevitabilmente, in una condizione di infecondità, in tal guisa consentendo l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.

Il problema era acuito dalla previsione, contenuta nella legge, del divieto di diagnosi, vieppiù se si considera che tale divieto si poneva in contrasto con la prassi invalsa da decenni di effettuare indagini prenatali sui feti, al fine di consentire alla madre, se del caso, l’interruzione della gravidanza ex art. 6, lett. b), l. n. 194/1978. Peraltro, ancorché fosse vero che quest’ultima legge ammetteva l’interruzione della gravidanza non per il fatto che il feto si presentasse malformato, ma per i riflessi che la nascita di quel soggetto avrebbe potuto avere sulla salute fisica o psichica della madre, mentre l’indagine preimpianto sull’embrione non si collegava se non indirettamente con la tutela della salute della donna, sembrava, tuttavia, indubbio che si era venuta, in tal modo, a creare una rilevante antinomia nel sistema[23].

Per assurdo, si è assistito ad un controsenso. Da un lato, tra le finalità della legge non era stata contemplata quella di consentire l’accesso alle tecniche di p.m.a. a coppie non sterili che volessero evitare la trasmissione di malattie genetiche ai propri figli[24]. Dall’altro lato, però, non si era presa in considerazione l’evenienza che potessero essere trasferiti nell’utero della donna embrioni risultati ex post affetti da malattie genetiche trasmissibili.

L’impossibilità di effettuare diagnosi preimpianto, con conseguente obbligo di impianto di tutti gli embrioni, e, comunque, l’irrevocabilità del consenso all’impianto degli embrioni formati (in particolare, l’irrevocabilità del consenso alla fecondazione all’indomani del termine dei sette giorni accordato alla coppia per l’esercizio dello ius poenitendi, come previsto dall’art. 6, punto 3 l. n. 40 del 2004), non impedisce, infatti, la possibilità di ricorrere, iniziata la gravidanza (ed all’esito di esami ecografici, come l’amniocentesi), all’aborto cd. terapeutico. In definitiva, la donna vedrebbe riconosciuto il suo diritto ad una completa informazione sul trattamento sanitario (ivi compresa l’indagine sullo stato di salute del feto) solo nell’ipotesi in cui la gravidanza sia già in atto (cd. diagnosi prenatale), e non anche nella situazione del tutto analoga ed antecedente in cui l’embrione non sia stato ancora impiantato.

Peraltro, l’art. 14 comma 4 l. n. 40 del 2004, nel vietare la riduzione embrionaria di gravidanze plurime, fa salvi proprio i casi previsti dalla l. n. 194 del 1978.

La conclusione è che – con la l. n. 40 del 2004 – vi sarebbe, quindi, una sorta di «doppio regime»: da un lato, l’obbligo di impiantare gli embrioni pur malati; dall’altro, la possibilità di aborto, sussistendo le condizioni di legge. Tuttavia, sarebbe del tutto irragionevole riconoscere rilevanza allo stato di salute psichica della madre dopo l’impianto dell’embrione nell’utero, al punto di consentirle l’aborto, e negarlo invece prima (atteso che la prospettiva dell’impianto di un embrione che può essere portatore di patologie è circostanza che certo altera la salute, in primo luogo psichica, della donna). Viceversa, l’espressa salvezza della l. n. 194 del 1978, sull’interruzione volontaria della gravidanza, fa ritenere che la tutela del concepito si arresti comunque davanti al prevalente interesse della donna alla sua salute fisio-psichica. In quest’ottica, come la gestante può interrompere la gravidanza quando vi sia un pericolo per la sua salute fisica o psichica (anche in relazione ad anomalie o malformazioni del concepito), così deve garantirsi il suo diritto a rifiutare l’impianto dell’embrione, nel caso in cui ciò possa causare, in relazione alla conoscenza della presenza di una malattia genetica o cromosomica dell’embrione stesso, del pari un pregiudizio alla sua salute fisica o psichica[25].

3.1.La diagnosi preimpianto

L’individuazione degli embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili passa, ovviamente, per la diagnosi cd. preimpianto, la quale, disciplinata dagli artt. 13, comma 2, e 14 della l. 40/2004, dispone che la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita, a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso, e qualora non siano disponibili metodologie alternative[26]. Nel mentre, il successivo art. 14 comma 5 prevede che i soggetti di cui all’art. 5 della stessa legge sono informati sul numero e, su loro richiesta, sullo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell’utero, cosicché la ricerca clinica sull’embrione è ammessa solo con limiti ben determinati ed all’interno di un procedimento di procreazione medicalmente assistita[27].

La diagnosi è una tecnica medica che consiste nell’analizzare gli embrioni creati per il tramite della fecondazione assistita in vitro, prima che gli stessi vengano impiantati nell’utero della donna. L’analisi mira a diagnosticare l’eventuale presenza di malattie genetiche o alterazioni cromosomiche negli embrioni prima del loro impianto. La finalità principale della diagnosi preimpianto è, infatti, quella di individuare e selezionare, tra gli embrioni ottenuti dall’unione di gameti di coppie portatrici di malattie genetiche trasmissibili, quelli sani da trasferire poi nell’utero. Si vuole così risolvere il problema dell’eventuale trasmissione della malattia, di cui sono portatori i futuri genitori, al nascituro e, conseguentemente, aumentare la nascita di bambini sani non affetti da patologie ereditarie[28].

Al pari del ricorso alla fecondazione eterologa, la diagnosi preimpianto ha posto delicate questioni di carattere etico e morale, dovendosi contemperare opposti interessi: da un lato, quello dell’embrione; dall’altro, quelli della coppia all’autodeterminazione ed alla procreazione libera e consapevole e della donna a tutelare la propria salute.

Anticipando la decisione della Consulta, a partire dalla seconda metà degli anni duemila, una parte della giurisprudenza di merito si era già mossa nella direzione di consentirla[29].

Precursore dell’orientamento favorevole è stato il Tribunale di Cagliari nel 2007[30], per il quale è lecita, e deve essere pertanto eseguita, la diagnosi preimpianto dell’embrione, allorché concorrano le seguenti condizioni: a) sia stata richiesta dai soggetti aventi diritto ad essere informati sul numero e «sullo stato di salute degli embrioni prodotti»; b) abbia ad oggetto gli embrioni destinati all’impianto nella donna; c) sia strumentale all’accertamento di eventuali malattie dell’embrione e finalizzata a garantire a coloro che abbiano avuto legittimo accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita un’adeguata informazione (sullo stato degli embrioni da impiantare). Il tribunale cagliaritano ha individuato le due possibili interpretazioni della legge n. 40 del 2004 in materia di diagnosi genetica preimpianto. Tale diagnosi dovrebbe ritenersi vietata sulla base dell’interpretazione letterale degli artt. 13 e 14 della legge, delle Linee Guida Ministeriali in materia di fecondazione assistita (del 22 luglio 2004), che espressamente vietano accertamenti diagnostici sugli embrioni di tipo invasivo, consentendo solo una diagnosi di tipo osservazionale, e dell’interpretazione della legge alla luce dei suoi criteri ispiratori; la diagnosi genetica deve essere, invece, considerata ammissibile sulla base dell’interpretazione conforme a Costituzione, cui il giudice ha l’obbligo di fare riferimento. In forza dell’interpretazione adeguatrice, ha ritenuto che, nel caso di diagnosi genetica richiesta dai genitori, la norma da applicare fosse l’art. 14, comma 5, che non reca alcun divieto (e si riferisce al rapporto tra embrione e donna che accede alla procreazione artificiale, il cui interesse è quello all’informazione ed alla cura), e non l’art. 13, comma 2 (che si riferisce al rapporto tra embrione e collettività, il cui interesse è quello alla libertà di ricerca e sperimentazione scientifica). Di conseguenza, ha disapplicato le Linee Guida considerate in contrasto con la legge, come interpretata in modo conforme a Costituzione.

Il fondamento della tesi è da individuarsi nel rilievo accordato al diritto, costituzionalmente garantito dagli artt. 2 e 32 Cost., al consenso informato (id est, alla piena consapevolezza in ordine al trattamento sanitario), il quale rinviene un substrato normativo negli artt. 6 (che contempla il dovere del medico di informare in modo dettagliato la coppia sui possibile effetti collaterali sanitari e psicologici conseguenti all’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, sulle probabilità di successo e sui rischi dalle stesse derivanti) e 14, co. 4 (che prevede il diritto della coppia ad essere informata sul numero e, su loro richiesta, sullo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell’utero), della stessa legge n. 40/2004.

A breve distanza di tempo il Tribunale di Firenze ha ordinato (previa disapplicazione, ai sensi della legge n. 2248/1865, All. E, delle linee guida all’epoca vigenti), ex art. 700 c.p.c., l’esecuzione della diagnosi degli embrioni creati, tramite fecondazione in vitro, dai gameti dei componenti la coppia ed il trasferimento in grembo dei soli embrioni sani o portatori sani (con la crioconservazione di quelli malati) secondo le tecniche della migliore scienza medica, in relazione alla salute della donna[31]. Il giudice gigliato ha ritenuto che la legge 40 del 2004, come interpretata col canone dell’interpretazione conforme a Costituzione, non contenesse un divieto di diagnosi genetica preimpianto. Nel sostenere la percorribilità dell’interpretazione conforme, il giudice ha richiamato la di poco precedente sentenza del Tribunale di Cagliari, cui ha rinviato per relationem. Inoltre, ha considerato l’esclusione della diagnosi genetica preimpianto irragionevole in riferimento alla l. n. 194 del 1978: infatti la previsione di un obbligo di impianto degli embrioni malformati si palesava del tutto irrazionale, nel momento in cui (come si è visto) la legge 194 del 1978 consentiva l’interruzione volontaria di gravidanza per problemi di salute della donna derivanti anche da previsioni di anomalie o malformazioni del feto.

Decisivo è, poi, stato l’intervento del Tar Lazio[32], che, con riferimento alle linee guida in materia di procreazione assistita del 2004, ha affermato l’illegittimità del divieto di diagnosi preimpianto circa le condizioni di salute degli embrioni, annullando in parte qua le linee guida stesse con la completa obliterazione del divieto dal testo nuovo del 2008. In estrema sintesi, il Tar ha assunto che la l. n. 40 del 2004, art. 13, non ponesse affatto il divieto di diagnosi preimpianto, in quanto anzi consentiva «la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano, sia pure per finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche volte alla tutela della salute ed allo sviluppo dell’embrione stesso e … interventi aventi finalità diagnostiche e terapeutiche allo stesso scopo». Dal confronto tra la norma di legge e quella contenuta nelle linee guida emergeva, quindi, che queste ultime riducessero le possibilità di intervento alla sola osservazione dell’embrione. In tal modo, secondo il Tar, l’autorità amministrativa, che avrebbe solo potuto adottare regole «di alto contenuto tecnico e di natura eminentemente procedurale», era intervenuta positivamente «sull’oggetto della procreazione medicalmente assistita, che rimane consegnata alla legge». In altri termini solo la legge poteva delimitare l’ambito oggettivo della disciplina della procreazione assistita[33].

Merita di essere menzionato altresì il Tribunale di Bologna[34], che nel 2009, ritenuta la netta distinzione fra la ricerca clinica e sperimentale senza finalità diagnostiche e terapeutiche, che rimane vietata, sugli embrioni e la mera diagnosi preimpianto relativa ai medesimi, e considerato quanto acclarato da Corte cost. n. 151/2009, ha riconosciuto alla donna coniugata il diritto a che, in un centro sanitario specialistico ed autorizzato, fosse compiuta la diagnosi genetica preimpianto relativa ad un numero di embrioni superiore a tre, potendo essa rifiutare gli embrioni portatori della stessa, grave, malattia genetica ereditaria (la distrofia muscolare) di cui soffriva, e disposto altresì la crioconservazione, per un futuro impianto, degli embrioni idonei ma non utilizzati, nonché degli embrioni affetti dalla stessa patologia. E così, posto che, a seguito dell’intervento sia del giudice amministrativo (TAR Lazio 2008 cit.) che della Corte costituzionale, era venuto meno il divieto di diagnosi preimpianto, nonché l’obbligo di produrre non più di tre embrioni, da installarsi tutti contemporaneamente, ha ordinato con provvedimento di urgenza l’installazione, con il consenso della paziente, dei soli embrioni che non presentassero quella patologia, tanto con la crioconservazione anche degli embrioni idonei di cui non fosse possibile l’immediato trasferimento.

Si è poi diffusa l’interpretazione delle norme in materia di procreazione medicalmente assistita, derivante dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, del Tar Lazio-Roma e da altre pronunzie, nonché dalle nuove “Linee guida” emanate dal Ministero della salute nel 2008, nel senso che permettessero l’accesso a tale procreazione anche alle coppie non sterili né infertili, qualora, per le loro patologie genetiche trasmissibili, andassero soggette a generazione di figli malati (nel senso che rischiassero concretamente di mettere al mondo figli affetti da gravi malattie a causa di patologie genetiche trasmissibili). Partendo dal presupposto secondo cui queste coppie solo attraverso la diagnosi preimpianto sugli embrioni creati “in vitro” potessero evitare detto rischio, è stata considerata legittima la diagnosi preimpianto degli embrioni di una coppia con patologie, che avesse divisato di sottoporsi alla procreazione medicalmente assistita, potendo l’impianto dei soli embrioni sani inibire il rischio di procreare figli affetti da gravi malattie[35]. In qwuesto senso i diritti costituzionalmente garantiti all’autodeterminazione (nelle scelte procreative) della coppia ed alla salute della donna diventano il grimaldello per aprire l’ostacolo rappresentato dall’art. 4, co. 1, della legge n. 40/2004.

Peraltro, le nuove linee guida, approvate dal Ministero della Salute con d.m. 11 aprile 2008, avevano, tra l’altro, eliminato le disposizioni delle precedenti linee che limitavano la possibilità di indagine a quella di tipo osservazionale.

4.     La condotta di soppressione di embrioni affetti da grave malattia genetica

I giudici della Consulta hanno, invece, dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, che contempla i limiti all’applicazione delle tecniche sugli embrioni, nella parte in cui vieta la crioconservazione e la soppressione di embrioni e prevede la reclusione fino a sei mesi e multe fino a 150 mila euro per chi commette reato (commi 1 e 6).

Per i giudici la malformazione degli embrioni non ne giustifica, e solo per questo, un trattamento deteriore rispetto a quello degli embrioni sani creati in numero superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto e  si prospetta, quindi,  “l’esigenza di tutelare la dignità dell’embrione, alla quale non può parimenti darsi, allo stato, altra risposta che quella della procedura di crioconservazione”. “L’embrione, infatti – scrivono i giudici della Corte Costituzionale – quale che ne sia il più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riducibile a mero materiale biologico”.

E’ interessante ripercorrere sinteticamente l’iterargomentativo seguito dalla Consulta:

1) la discrezionalità legislativa circa l’individuazione delle condotte penalmente punibili può essere censurata in sede di giudizio di costituzionalità soltanto ove il suo esercizio ne rappresenti un uso distorto od arbitrario, così da confliggere in modo manifesto con il canone della ragionevolezza[36];

2) nel caso in esame, deve escludersi che risulti, per tali profili, censurabile la scelta del legislatore del 2004 di vietare e sanzionare penalmente la condotta di «soppressione di embrioni», ove pur riferita agli embrioni che, in esito a diagnosi preimpianto, risultino affetti da grave malattia genetica;

3) anche con riguardo a detti embrioni, si prospetta, infatti, l’esigenza di tutelare la dignità dell’embrione, alla quale non può parimenti darsi, allo stato, altra risposta che quella della procedura di crioconservazione;

4) l’embrione, invero, quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riducibile a mero materiale biologico;

5) la tutela dell’embrione, riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost., è suscettibile di «affievolimento» (al pari della tutela del concepito), ma solo in caso di conflitto con altri interessi di pari rilievo costituzionale (come il diritto alla salute della donna) che, in temine di bilanciamento, risultino, in date situazioni, prevalenti;

6) nella fattispecie in esame, il vulnus alla tutela della dignità dell’embrione (ancorché) malato, quale deriverebbe dalla sua soppressione tamquam res, non trova, però, giustificazione, in termini di contrappeso, nella tutela di altro interesse antagonista;

7) d’altra parte, il divieto di soppressione dell’embrione malformato non ne comporta l’impianto coattivo nell’utero della gestante, come il rimettente, invece, presupponeva.

L’impianto originario della legge n. 40/2004 lasciava trasparire l’atteggiamento di cautela adottato dal legislatore, che trovava la sua ratio nell’intento di assicurare i diritti di tutti i soggetti coinvolti nel procedimento procreativo, compreso il concepito, il quale veniva espressamente, e per la prima volta, elevato al rango di “soggetto” (art. 1), a tal punto che in suo favore erano state espressamente dettate specifiche misure di tutela agli artt. 13 e 14.

La richiamata disposizione dettata dall’art. 1 costituiva il fondamento dell’intera legge e, per certi versi, aveva incisivamente innovato il precedente quadro normativo, in cui l’acquisto di diritti era subordinato all’evento della nascita (per come sancito dall’art. 1, comma 2, c.c.[37]). Al di là della coerenza formale della definizione enucleata nell’art. 1, appariva indiscutibile che il legislatore avesse inteso statuire che l’embrione, in quanto “vita umana”, meritava la tutela della propria dignità, pur se la stessa, in linea di principio, non avrebbe potuto assumere il grado di protezione propriamente riservato alla persona vivente[38].

Nel solco di tale impostazione, la legge era disseminata di disposizioni dirette a definire una sfera di intangibilità dell’embrione[39], in applicazione della sua riconosciuta soggettività. In tal senso è sufficiente operare il richiamo ai limitati casi di ricorso alle tecniche (art. 4), ai rigidi requisiti soggettivi (art. 5), al divieto di fecondazione eterologa (artt. 4, comma 3, e 9), al necessario circostanziato consenso informato (art. 6), alla indispensabile autorizzazione regionale della struttura in cui gli interventi avrebbero potuto essere esclusivamente realizzati (art. 10), al relativo registro nazionale in cui le medesime avrebbero dovuto obbligatoriamente essere iscritte (art. 11).

Sul piano della tutela, l’embrione viene, dunque, equiparato al concepito il quale, pur non avendo una piena capacità giuridica, è comunque un soggetto di diritto, perché titolare di molteplici interessi personali riconosciuti dall’ordinamento sia nazionale che sovranazionale, quali il diritto alla vita, alla salute, all’onore, all’identità personale, a nascere sano, diritti, questi, rispetto ai quali l’avverarsi della condicio iuris della nascita è condizione imprescindibile per la loro azionabilità in giudizio ai fini risarcitori[40].

Il punto davvero critico sta però nella assoluta preminenza che la l. n. 40 del 2004 attribuisce alla posizione dell’embrione, in misura ben maggiore a quella che compete allo stesso feto, una volta che la gravidanza ha avuto inizio, e anche alla stessa gestante, pur se la Corte costituzionale ha affermato – ormai da decenni – che il diritto alla salute della madre, che è già persona, prevale su quella del concepito, che persona deve ancora diventare[41].

Una chiave di lettura è desumibile nel contesto della questione della legittimità o meno della permanenza del divieto di utilizzo degli embrioni per la ricerca scientifica e, quindi, possibilità di donazione degli embrioni da parte di una coppia, previsto dall’art. 13, commi 1 e 2, sollevata con ordinanza del Trib. di Firenze del 7 dicembre 2012. Invero, la stessa si trova ancora all’esame della Corte costituzionale (risultando calendarizzata per l’udienza pubblica del 22 marzo 2016) a seguito di rinvio a nuovo ruolo in attesa della pronuncia della C.E.D.U. sul c.d. caso Parrillo c. Italia (ric. n. 46470/2011).Medio temporela decisione attesa è intervenuta in data 27 agosto 2015. Orbene, con questa sentenza, la Grande Camera della C.E.D.U. – nel rigettare il ricorso sancendo che il diritto di donazione di embrioni per la ricerca scientifica, stabilito dal citato art. 13 della legge n. 40/2004 non è contrario all’art. 8 della Convenzione EDU – ha fissato due rilevanti principi: 1) che gli embrioni ottenuti con la fecondazione in vitro contengono il materiale genetico delle persone che lo hanno concepito e, di conseguenza, rappresentano un parte costitutiva della loro identità (e non possono, perciò, essere considerati possibile oggetto del diritto di proprietà nel senso propriamente inteso dalla Convenzione europea); 2) che, in ogni caso, alla stregua dell’impianto e della complessiva disciplina normativa di cui all’anzidetta legge n. 40 del 2004 dello Stato italiano l’embrione umano deve essere considerato nel nostro sistema giuridico come “soggetto giuridico avente diritto al rispetto dovuto alla dignità umana”.

Sulla base di queste premesse, la Consulta sembra aver trovato il punto di equilibrio tra gli opposti interessi nella seguente alternativa: a) nel caso di condotta selettiva del sanitario volta esclusivamente ad evitare il trasferimento nell’utero della donna di embrioni che, dalla diagnosi preimpianto, siano risultati affetti da malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità, l’interesse a tutelare la salute psico-fisica della donna prevale su quello dell’embrione ad essere impiantato nell’utero; b) viceversa, una volta eliminato quest’ultimo rischio, la tutela dell’embrione torna a prevalere, non potendosi disporre la soppressione di quelli malati ma accantonati, i quali dovranno, di contro, essere sottoposti alla procedura di crioconservazione.

Andrea Penta

(magistrato addetto all’Ufficio del Massimario)


[1] Corte cost., 05/06/2015, n. 96, in Diritto & Giustizia 2015.

[2] Traendo spunto da tale presa di posizione, Trib. Milano, sez. V, 12/06/2015, n. 3301, in Redazione Giuffrè 2015, ha, in tema di reato ex art. 567 c.p., ritenuto che la trascrizione di certificati di nascita dei bambini nati con la fecondazione eterologa non sia in contrasto con l’ordine pubblico, poiché, anche nell’ordinamento italiano, il principio cardine è quello della responsabilità procreativa finalizzato a proteggere il valore della tutela della prole. Cosicché, detto principio è assicurato sia dalla procreazione naturale che da quella medicalmente assistita ove sorretta dal consenso del padre sociale. Conseguentemente, l’ingresso della norma straniera e dei suoi effetti, non mette in crisi detto principio cardine dell’ordinamento e, ciò, in quanto, ben può armonizzarsi il divieto di ricorrere alla fecondazione eterologa con il riconoscimento del rapporto di filiazione e, solo del rapporto di filiazione, tra il padre sociale ed il nato a seguito di fecondazione eterologa. Da ciò ne deriva la legittima trascrizione dell’atto di nascita (nel caso di specie, si trattava di due bambine gemelle) legalmente formato all’estero dall’Ufficiale dello Stato Civile del Paese ove le nascite si sono verificate con il ricorso alla tecnica in questione (tecnica li riconosciuta ed in Italia vietata).

[3] Si è, in proposito, rilevato che l’irragionevolezza dell’indiscriminato divieto di accesso alla p.m.a., con diagnosi preimpianto, da parte delle coppie fertili affette (anche come portatrici sane) da gravi patologie genetiche ereditarie, suscettibili (secondo le evidenze scientifiche) di trasmettere al nascituro rilevanti anomalie o malformazioni, è resa evidente dalla circostanza che l’ordinamento italiano consente, comunque, a tali coppie di perseguire l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria, attraverso l’innegabilmente più traumatica modalità dell’interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali. Tale sistema normativo, dunque, non permette, pur essendo scientificamente possibile, di far acquisire “prima” alla donna un’informazione che le potrebbe evitare di assumere “dopo” una decisione ben più pregiudizievole per la sua salute, senza che quest’ultima possa trovare un positivo contrappeso, in termini di bilanciamento, in un’esigenza di tutela del nascituro, in ogni caso esposto all’aborto.

[4] Il riferimento è a Corte cost., 10/06/2014, n. 162, in Diritto di Famiglia e delle Persone (Il) 2014, 4, 1289, con nota di Cicero; inGuida al diritto 2014, 27, 16, con nota di Porracciolo; in Diritto di Famiglia e delle Persone (Il) 2014, 3, 973, con nota di D’Avack; in Foro it. 2014, 9, 2324, con nota di Casaburi; in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale 2014, 3, 1473, con nota di Risicato; inGiurisprudenza Costituzionale 2014, 3, 2563, con nota di Tripodina. Identica questione era già arrivata al vaglio della Consulta, la quale, però, in data 07/06/2012, con ordinanza n. 150 (in Giustizia Civile 2013, 11-12, 2317, con nota di Luberti, aveva restituito ai giudici a quibus, affinché valutassero l’influenza delle sopravvenienze di diritto, gli atti concernenti le questioni di legittimità costituzionale proposte in relazione all’art. 4, comma 3, l. 19 febbraio 2004 n. 40, nella parte in cui non consente il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo.

[5] In proposito, T.A.R. Veneto Venezia, sez. III, 08/05/2015, n. 501, in Redazione Foro amministrativo 2015, 5, ha reputato illegittima la delibera della Giunta Regionale del Veneto, nella parte in cui stabilisce l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (p.m.a.) eterologa a carico del Servizio Sanitario Nazionale fino al compimento del 43° anno di età della donna. La distinzione conseguente al mantenimento, per la sola omologa, dei criteri e dei requisiti soggettivi più favorevoli (50 anni) rispetto alla eterologa (43 anni) è stata, infatti, considerata in evidente contrasto sia con la normativa statale (che non pone alcuna distinzione), sia con i principi generali di eguaglianza, così come ricordati dalla Corte Costituzionale proprio in occasione dell’affermata analogia delle due tecniche procreative assistite. Ciò in quanto, avuto riguardo all’età della donna, la norma nazionale non dà indicazione precisa, ma fa riferimento all’età potenzialmente fertile, che quindi deve valere per entrambe le ipotesi.

[6] Sia pure in un differente ambito, era pervenuto ad analoghe conclusione Consiglio di Stato, sez. III, 09/04/2015, n. 1486, in Foro it. 2015, 5, 292, a mente del quale, posto che le differenze tra procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo e quella di tipo omologo non sono dirimenti, costituendo l’una solo una species dell’altra, sicché non si giustificano al riguardo disparità di trattamento di tipo economico, va sospesa la delibera della regione Lombardia alla stregua della quale per la prima è previsto, a carico degli utenti, il pagamento dell’intero trattamento, e non del solo ticket, come invece per la seconda. La pronuncia è stata preceduta da Corte europea diritti dell’uomo, sez. I, 01/04/2010, n. 57813, in Europa e dir. priv. 2010, 4, 1219, con nota di Cerri, ed in Guida al diritto 2011, 46, 17, secondo cui il divieto di utilizzare le tecniche di procreazione assistita di carattere eterologa non è compatibile con la Convenzione europea. Gli Stati sono liberi di prevedere il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, ma nel momento in cui ammettono la possibilità di utilizzare tale tecnica non devono discriminare tra le coppie a seconda del tipo di infertilità.

[7] Sembra, peraltro, essere di diverso avviso Trib. Roma, sez. I, 22/04/2015, in Redazione Giuffrè2015, il quale, pur partendo da un condivisibile presupposto (quello secondo cui, in materia di procreazione medicalmente assistita, nell’ipotesi di ricorso cautelare – fondato sull’asserito presupposto che i nascituri nati dalla coppia evocata in giudizio, siano stati concepiti attraverso una tecnica di procreazione medicalmente assistita tramite la fecondazione di gameti prelevati dalla persona del ricorrente e da quella di sua moglie, e non della donna che li ha partoriti e del marito di lei – volto ad ottenere che i minori vengano mantenuti in una struttura che impedisca la creazione di un legame affettivo con i genitori che attualmente risultano tali all’anagrafe, in attesa della definizione del giudizio sull’identità dei genitori legittimi e che venga, altresì, garantito un diritto di visita dei genitori genetici che possa aiutare nella costruzione di un legame affettivo tale da non pregiudicare un futuro giudizio che accerti la maternità e paternità dei ricorrenti, l’interesse primario che va tutelato è quello dei minori), ha respinto il ricorso cautelare così proposto, ritenendo che le dette richieste non fossero rispondenti all’interesse dei minori, sulla base della considerazione per cui l’oggetto specifico della cautela richiesta si tradurrebbe nella imposizione di un contatto tra i bambini ed una coppia che negli intenti si propone di sostituirsi a quella degli attuali genitori, in un contesto di fondo conflittuale, non definito e non definibile in tempi brevi, che introdurrebbe nella loro crescita elementi di confusione e li esporrebbe a tensioni, non essendo ragionevolmente prevedibile né umanamente esigibile, a dire del giudicante, che le due coppie coinvolte, già presumibilmente provate dall’evento drammatico che le ha colpite, mantengano nel tempo un atteggiamento di neutralità e serena collaborazione di fronte allo svolgersi degli eventi.

[8] Corte europea diritti dell’uomo, sez. II, 28/08/2011, n. 54270, in Dir. famiglia 2013, 1, 19. In data 11.2.2013 è stata, poi, respinta la richiesta presentata dal Governo italiano, contro tale sentenza, di rinvio alla Grande Camera della Corte CEDU, con la conseguenza che la decisione resa in primo grado è divenuta definitiva.

[9] In particolare, era stato ritenuto contrario alla Convenzione il divieto di ricorso alla fecondazione omologa in vitro a coppie fertili portatrici sane di fibrosi cistica. La censura si è, soprattutto, incentrata sulla irragionevolezza del sistema legislativo italiano il quale, da un lato vieterebbe l’impianto limitato ai soli embrioni non affetti dalla malattia di cui i ricorrenti erano portatori sani, ma dall’altro autorizzerebbe poi la donna ad abortire un feto (il cui sviluppo è evidentemente assai più avanzato di quello di un embrione) affetto da quella stessa patologia.

[10] Basti pensare a Trib. Bologna, sez. I, 14/08/2014, in Redazione Giuffrè 2014, che in materia di trattamento di procreazione medicalmente assistita (p.m.a.) in vitro di tipo eterologo (ossia con donazione di gameti da parte di un soggetto estraneo alla coppia richiedente) ai sensi della l. n. 40/2004, aveva indicato, tra le speciali misure di cui all’art. 9, comma 1 e comma 2 previste a garanzia del nascituro, oltre che il divieto del disconoscimento della paternità e dell’anonimato della madre – nel segno della autoresponsabilità di chi accede alla p.m.a. -, il divieto di commercializzazione di gameti o embrioni e il divieto di surrogazione di maternità (art. 12, comma 6., l. n. 40/2004), nonché proprio il divieto di selezione a scopo eugenetico degli embrioni (art. 13, comma 3, lett. b)). Parimenti, Trib. Catania 3 maggio 2004, inGiust. civ., 2004, I, 2447, aveva espressamente escluso la configurabilità di un diritto della coppia di selezionare i nascituri in sani e malati, eliminando questi ultimi. In particolare, il giudice etneo aveva negato ai coniugi richiedenti, portatori sani di grave malattia genetica, la possibilità di accedere alla diagnosi preimpianto, per la ermetica ragione che la l. n. 40 del 2004 consente le pratiche di fecondazione assistita per rimuovere le cause di sterilità, mettendo però la coppia che vi accede nella stessa condizione di partenza delle coppie fertili «senza la possibilità di selezionare i nascituri in sani e malati». Conforme Trib. Roma 23 febbraio 2005, inForo it., 2005, I, 881, con osservazioni di Casaburi. Secondo Tar Lazio 9 maggio 2005, n. 3452, inForo it., 2005, III, 518, inoltre – a fondamento della diagnosi preimpianto -, non è invocabile la pretesa di avere «un figlio sano», atteso che il principio di responsabilità della procreazione non è compatibile con i diritti del concepito. Il medesimo giudice amministrativo, pressoché contestualmente, era giunto alle stesse conclusioni in un procedimento analogo (Tar Lazio 23 maggio 2005, n. 4047, in Rep. Foro it., 2005, Sanità pubblica, n. 382), pur manifestando aperture verso una diversa lettura delle linee guida. 

[11] Trib. Roma, 15/01/2014, in Foro it. 2014, 2, 574, con nota di Casaburi, ed in Ragiusan 2014, 361-362, 192, secondo cui non era manifestamente infondata la q.l.c. degli artt. 1, commi 1 e 4, e 4, comma 1, l. 19 febbraio 2004 n. 40, nella parte in cui non consentivano il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di patologie geneticamente trasmissibili, in riferimento agli art. 2, 3, 32 e 117 comma 1 Cost., quest’ultimo in relazione agli art. 8 e 14 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

[12] Trib. Roma, 26/09/2013, in Foro it. 2013, 11, 3112, con nota di Casaburi, ed in Ragiusan 2014, 361-362, 188, aveva a tal fine espressamente disapplicato l’art. 4 l. n. 40 del 2004, in ottemperanza a quanto prescritto, con riferimento alle medesime parti, dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 28 agosto 2012.

[13] Si pensi a Trib. Cagliari, 12/11/2012, in Foro it. 2012, 12, 3349, in una fattispecie in cui entrambi i coniugi richiedenti erano portatori di una gravissima malattia genetica, trasmissibile all’embrione con elevato grado di probabilità.

[14] Corte cost., 08/05/2009, n. 151, in Giur. cost. 2009, 3, 1656, con nota di Manetti.

[15] In altri termini, con tale decisione sono stati eliminati il divieto di produzione di più di tre embrioni e  l’obbligo di contemporaneo impianto di tutti gli embrioni prodotti (ivi compresi quelli eventualmente affetti da patologie ereditarie) previsti dal richiamato art. 14, comma 2.

[16] La norma censurata, invero, comportava l’inutile moltiplicazione dei cicli di stimolazione ovarica, ove il primo impianto non avesse avuto esito, con l’aumento del rischio di patologie e di pregiudizio per la salute della donna e del feto medesimo.

[17] In dottrina, sullo specifico tema, cfr. D’Avack, La legge sulla procreazione medicalmente assistita: un’occasione mancata per bilanciare valori e interessi contrapposti in uno stato laico, in Dir. fam., 2004, 793

[18] Trib. Cagliari, 09/11/2012, in Ragiusan 2013, 348-350, 258, ed in Guida al diritto 2013, 8, 35, con nota di Porracciolo, in un caso di talassemia mediterranea.

[19] In questa direzione si muove l’art. 12 della Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 (ratificata con la legge n. 145/2001), il quale non prevede limitazioni a test diagnostici predittivi volti a stabilire se l’embrione è portatore di patologie ereditarie.

[20] A.M. Felicetti, su CamminoDiritto.it, http://www.camminodiritto.it/articolosingolo.asp?indexpage=869, 17 novembre 2015. Tra i primi commentatori si segnala altresì S. Corbetta, Non è più reato trasferire nell’utero della donna i soli embrioni sani, su Ilquotidianogiuridico.it, 12 novembre 2015.

[21] Per un’accurata disamina dell’evoluzione normativa, si segnala A. Carrato, Che c’è di nuovo in materia di famiglia e di stato delle persone?, Laboratorio tematico su  “Procreazione medicalmente assistita, status del generato e profili connessi”, Linee guida per il dibattito, Scuola Superiore della Magistratura, 27 ottobre 2015.

[22] L’opportuno richiamo si deve ad A. Carrato, Che c’è di nuovo in materia di famiglia e di stato delle persone?  ,cit..

[23] In questi termini si è espresso A. Carrato, Che c’è di nuovo in materia di famiglia e di stato delle persone?  ,cit..

[24] A tal proposito, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, firmata a Nizza nel 2000 (poi allegata al Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, entrato in vigore il 1° dicembre 2009), disponeva (art. 3.2) che, nell’ambito della medicina e della biologia, avrebbe dovuto essere, in particolare, rispettato il divieto delle pratiche eugenetiche, segnatamente di quelle aventi come scopo la selezione delle persone. Parte della dottrina aveva, peraltro, osservato che questa previsione fosse da interpretare in senso restrittivo, nel senso cioè di vietare le forme classiche di eugenetica e non screening genetici diretti a prevenire la nascita di individui affetti da gravi malattie.

[25] In questi sostanziali termini si è espresso F. Mastro, La procreazione medicalmente assistita: fecondazione eterologa e diagnosi reimpianto tra autorità e autodeterminazione, in Coordinate ermeneutiche di diritto civile, a cura di M. Santise, Torino, 2014, 305 ss. La diagnosi preimpianto, infatti, può considerarsi il mezzo attraverso il quale avere cognizione prima di eventuali malformazioni dell’embrione, al fine di scongiurare futuri rischi per la salute fisica e psicologica della donna.

[26] Un prima questione di legittimità costituzionale, sollevata da Trib. Cagliari 16 luglio 2005, in Foro it., 2005, I, 2876, sulla base del rilievo per cui la tutela della salute della donna sarebbe prevalente rispetto a quella dell’embrione, laddove verrebbe pregiudicata dal vero e proprio obbligo (pur non coercibile) di subire l’impianto dell’embrione, senza la possibilità di accedere alla diagnosi preimpianto, anche in situazioni a rischio, era stata dichiarata inammissibile da Corte cost., ord. 9 novembre 2006, n. 369, in Foro it., 2007, I, 698, sulla base della considerazione estremamente formalistica, oltre che in contrasto con la giurisprudenza precedente della stessa Consulta, che il giudice remittente sarebbe caduto in palese contraddizione, perché avrebbe desunto il divieto di diagnosi preimpianto non solo dall’art. 13 cit., ma anche da altre disposizioni, non impugnate, nonché dagli stessi principi ispiratori della l. n. 40 del 2004.

[27] In proposito si segnala Trib. Milano, sez. I, 04/03/2015, in Redazione Giuffrè 2015. Per Tribunale Cagliari, 09/11/2012, in Giur. merito 2013, 5, 1020, con nota di Scalera, le coppie infertili, portatrici di malattie genetiche trasmissibili al nascituro, hanno diritto ad ottenere, nell’ambito dell’intervento di procreazione medicalmente assistita, l’esame clinico e diagnostico sugli embrioni ed il trasferimento in utero solo degli embrioni sani o portatori sani delle patologie di cui le stesse risultano affette.

[28] F. Mastro, La procreazione medicalmente assistita, cit., 305.

[29] L’indirizzo fino ad allora prevalente sembrava, invece, essere approdato ad una soluzione differente, sulla base della valutazione, a suo dire dirimente, secondo cui la finalità della legge sarebbe stata solo quella di risolvere i problemi riproduttivi, non anche quella di selezionare gli embrioni in sani e malati, con conseguente soppressione di questi ultimi. In particolare, mentre il secondo comma dell’art. 13 ammetterebbe la ricerca clinica sull’embrione esclusivamente per finalità legate alla tutela ed allo sviluppo dell’embrione stesso, il quinto comma dell’art. 14 consentirebbe un’indagine sullo stato di salute degli embrioni solo di tipo osservazionale. Per una panoramica sulle principali pronunce edite, si rimanda alla nota 10.

[30] Trib. Cagliari 24 settembre 2007, in Giust. civ., 2008, I, 217, ed in Giur. cost. 2008, 1, 537, con nota di Pellizzone.

[31] Trib. Firenze 18 dicembre 2007, in Dir. fam., 2008, 720, ed in Giur. cost. 2008, 1, 537, con nota di Pellizzone. Nella specie la patologia che aveva indotto la coppia, coniugata, ad accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita era una seria oligospermia del ricorrente, derivata da una rara malattia genetica tumorale «con possibilità di essere trasmessa ai figli con una probabilità del 50% e probabilità di trasmissione a un proprio figlio del proprio tumore».

[32] TAR Lazio, Roma, sez. III-quater 21 gennaio 2008 n. 398, in Foro it., 2008, III, 207 e 312, con osservazioni di Casaburi.

[33] In dottrina, anche sul punto, si segnala Corti,La procreazione assistita, in Il nuovo diritto di famiglia, diretto da G. Ferrando, III, Bologna, 2007, 499.

[34] Trib. Bologna, sez. I, 29/06/2009, in Dir. famiglia 2009, 4, 1854, ed in Giur. merito 2009, 12, 3000, con nota di Casaburi, Il restyling giurisprudenziale della l. n. 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita, in relazione ad una coppia infertile, di cui la donna era affetta da una grave malattia geneticamente trasmissibile.

[35] Così Trib. Salerno, 09/01/2010, n. 191, in Giurisprudenza di Merito 2010, 5, 1289, con nota di Santarsiere, per il quale i diritti alla salute e di autodeterminazione delle scelte procreative afferiscono a quelli fondamentali dei soggetti coinvolti nella procreazione medicalmente assistita riconosciuti e garantiti dall’art. 2 Cost..

[36] Già in passato la Corte costituzionale aveva statuito che l’equilibrio delle contrapposte esigenze appartiene “primariamente alla valutazione del legislatore” (sentenza Corte cost. n. 347 del 1998).

[37] Tale disposizione costituì un’assoluta novità per il nostro ordinamento, che fino ad ora aveva riconosciuto diritti al nascituro solo in ipotesi eccezionali, subordinate all’evento della nascita.

[38] Per una più diffusa disamina della questione, si rimanda a A. Carrato, Che c’è di nuovo in materia di famiglia e di stato delle persone?,cit,per il quale “In sostanza, risultava con evidenza che il legislatore avesse inteso considerare l’embrione come un’entità titolare di diritti, in favore del quale onde l’ordinamento era chiamato a proteggerne, innanzitutto, quello alla vita e quello involgente l’aspettativa di nascere, e, più in generale, la dignità umana, così dovendone impedire una utilizzazione in qualsiasi modo strumentale, che potesse, invero, comportare il sacrificio dell’embrione in favore di persone viventi o per finalità di ricerca”.

[39] Un definizione esaustiva del termine “embrione” è rinvenibile in Corte giustizia UE, grande sezione, 18/10/2011, n. 34, in Ragiusan 2012, 333-334, 227, secondo cui costituisce un embrione umano qualsiasi ovulo fin dalla fecondazione, qualunque ovulo umano non fecondato in cui sia stato impiantato il nucleo di una cellula umana matura e qualunque ovulo umano non fecondato che, attraverso partenogenesi, sia stato indotto a dividersi e a svilupparsi; spetta al giudice nazionale stabilire, in considerazione degli sviluppi della scienza, se una cellula staminale ricavata da un embrione umano nello stadio di blastocisti costituisca un embrione umano ai sensi dell’art. 6 della direttiva n. 44 del 1998.

[40] In quest’ottica, Cassazione civile, sez. III, 11/05/2009, n. 10741, in Giust. civ. Mass. 2009, 5, 748, ha riconosciuto ad una persona nata con malformazioni congenite, dovute alla colposa somministrazione di farmaci dannosi (nella specie teratogeni) alla propria madre durante la gestazione, la legittimazione a domandare il risarcimento del danno alla salute nei confronti del medico che quei farmaci prescrisse o non sconsigliò.

[41] Corte cost. 18 febbraio 1975, n. 27, in Foro it., 1975, I, 515.

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di Maria Meloni

Rel. n. III/103/2015                                                                Roma 7 marzo 2016

RASSEGNA DELLE PRONUNCE DELLA CORTE COSTITUZIONALE

IN MATERIA PENALE

  (OTTOBRE – DICEMBRE 2015)

SOMMARIO: Parte I. Diritto penale sostanziale. -1.1. Concorso formale e reato continuato. Aumento di pena per i recidivi reiterati (art. 81, comma 4, cod. pen.).: inammissibilità della questione  (sent. n. 241 del 2015). -1.2.Non punibilità per fatti commessi a danno di congiunti (art. 649, comma 1, cod. pen.): inammissibilità della questione  (sent. n. 223 del 2015)Parte II. Legislazione penale complementare.– 2.1. Reati tributari.Omesso versamento delle ritenute, ex art. 10 bis d. lgs.vo n. 274 del 2000e soglia di punibilità:restituzione degli atti al giudice a quo (ord. n. 256 del 2015).- 2.2. Omessa corresponsione dell’assegno divorzile e regime di procedibilità:non fondatezza della questione (sent. n. 220 del 2015). -2.3 .Procreazione medicalmente assistita: reato di selezione preimpianto: illegittimità costituzionale; reato di soppressione degli embrioni: infondatezza della questione  (sent. n. 229 del 2015). – 2.4. Reati del codice della strada. 2.4.1. Guida in stato di ebbrezza, raddoppio della durata della sospensione della patente in caso di veicolo appartenente a terzo estraneo, omessa previsione di riduzione della durata della sospensione per lo svolgimento di lavoro di pubblica utilità in misura eguale al proprietario del veicolo:non fondatezza della questione  (sent. n. 198 del 2015).- 2.4.2 .Revoca della patente nei confronti di soggetti condannati per reati in materia di stupefacenti con sentenza di patteggiamento divenuta definitiva prima dell’entrata in vigore della norma censurata: manifesta inammissibilità della questione  (ord. n. 212 del 2015). –Parte III. Diritto processuale penale. -3.1. Subordinazione del patteggiamento alla previa estinzione dei debiti tributari: restituzione degli atti al giudice a quo  (ord. n. 225 del 2015).- 3.2. Sospensione del procedimento con messa alla prova, inapplicabilità dell’istituto all’imputato il cui dibattimento sia già aperto al momento della sua entrata in vigore, con legge n. 67 del 2014: non fondatezza della questione  (sent. n. 240 del 2015).

PARTE I: DIRITTO PENALE SOSTANZIALE

1.1. Concorso formale e reato continuato. Aumento di pena per i recidivi reiterati (art. 81, comma 4, Cost.): inammissibilità della questione (sent. n. 241 del 2015). La Corte costituzionale, con la sentenza n.241, depositata il 26 novembre 2015, dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 81, comma 4, cod. pen., aggiunto dall’art. 5 della legge n. 251 del 2005, sollevata in riferimento agli art. 3 e 27, comma 3, Cost..

Secondo il giudice a quo la norma censurata, con particolare riguardo “ai casi nei quali la pena per il reato satellite debba determinarsi inderogabilmente nel massimo edittale”, comportando un aumento obbligato e predeterminato della pena per il reato satellite, viola gli art. 3 e 27, comma 3, Cost., sub specie di contrasto, rispettivamente, con il principio di uguaglianza/ragionevolezza e di proporzionalità e funzione rieducativa della pena.

La Corte costituzionale dichiara inammissibile la questione per una duplice ragione.

Anzitutto, per insufficiente descrizione della fattispecie. Il giudice remittente non specifica se, nel giudizio a quo, la recidiva reiterata era stata già applicata con una precedente sentenza, anteriore alla commissione dei reati per i quali si procede. Specificazione essenziale ai fini della rilevanza della questione. Secondo la più recente e prevalente giurisprudenza di legittimità, infatti, ai fini dell’operatività del limite minimo dell’aumento di pena, previsto dall’art. 81, comma 4, cod. pen., è necessario che la recidiva reiterata sia stata applicata con una sentenza definitiva, precedente alla commissione dei reati in concorso formale o avvinti dal vincolo della continuazione. Con la conseguenza che, in assenza di detto presupposto temporale e giuridico, la disciplina di cui all’art. 81, comma 4, cod. pen. non è applicabile e la relativa questione non è rilevante. D’altro canto, qualora detta condizione non ricorra ed il remittente abbia, comunque, ritenuto applicabile, in virtù di diversa interpretazione, la norma impugnata, avrebbe dovuto fornirne una plausibile motivazione. Egli ha, invece, eluso la questione relativa al momento di applicazione della recidiva reiterata, impedendo così alla Corte di verificare la rilevanza della questione, che è, pertanto, inammissibile.

Ma la questione è inammissibile anche per erroneità del presupposto interpretativo del giudice a quo, il quale ritiene che, in base alla norma impugnata, si sarebbe dovuto applicare, a titolo di aumento per la continuazione, il massimo edittale (nella specie quello allora vigente per il reato previsto dall’art. 4 della legge n. 110 del 1975). La Corte costituzionale evidenzia che l’art. 81, comma 4, cod. pen. – nel disporre che per i recidivi reiterati l’aumento di pena per il reato satellite non possa essere inferiore ad un terzo della sanzione applicata per il reato più grave – fa, comunque, salvi i limiti indicati dal precedente comma 3, vale a dire che, nei casi di reato continuato e di concorso formale, la pena risultante dal cumulo giuridico non può, comunque, essere superiore a quella che, in concreto, il giudice avrebbe inflitto in caso di cumulo materiale. Non senza precisare significativamente che la pena applicabile in caso di cumulo materiale, ex art. 81, comma 3, cod. pen., è la pena che il giudice ritiene adeguata alla fattispecie concreta, e non certo quella massima edittale, come invece ritenuto erroneamente dal giudice a quo.

1.2. Non punibilità per fatti commessi a danno di congiunti (art. 649, comma 1, cod. pen.): inammissibilità della questione (sent. n. 223 del 2015). La Corte costituzionale, con la sentenza n. 223 del 2015, depositata il 5 novembre 2015, dichiara l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 649, comma 1, cod. pen., sollevata in riferimento agli art. 3, commi 1 e 2, e 24, comma 1, Cost..

La norma censurata esclude la punibilità dei congiunti della persona offesa in taluni reati contro il patrimonio. Secondo il giudice a quo essa contrasta con gli art. 3, commi 1 e 2, e 24, comma 1, Cost.; con l’art. 3, comma 1, perché la non punibilità dei congiunti dell’offeso comporta un trattamento ingiustificatamente più favorevole rispetto a quello riservato a soggetti che pongano in essere identica condotta e siano però privi di un’analoga relazione familiare con vittima; con l’art. 3, comma 2, per l’ostacolo posto a “soggetti deboli”, all’esercizio del diritto ad ottenere tutela giudiziale nei confronti dei congiunti, alla pari rispetto a ogni altro consociato; con l’art. 24, comma 1, per la compressione del diritto della persona offesa di agire in giudizio a tutela dei propri diritti.

La Corte dichiara inammissibile la questione, per plurime ragioni. Anzitutto, per il carattere apodittico e generico delle censure, le quali non spiegano in che senso i familiari delle vittime del reato siano necessariamente da considerare “soggetti deboli”. Nemmeno spiegano perché la compressione della tutela penale debba necessariamente tradursi nella generalizzata eliminazione della tutela giurisdizionale per le persone offese, e perché essa debba essere sempre garantita in sede penale e non possa, comunque, ricevere tutela almeno in sede civile. Sono, pertanto, carenti le censure svolte in riferimento agli art. 3, comma 2 e 24, comma 1, Cost.. La Corte, invece, esclude – disattendendo un’eccezione dell’Avvocatura dello Stato – che la questione sia inammissibile perché preordinata ad ottenere una pronuncia con effetti in malam partem. Richiamando la propria giurisprudenza in tema di sindacato  costituzionale sulle norme penali di favore, nel cui ambito rientra la norma censurata,  la Corte precisa che l’eventuale accoglimento della questione non incide sulla riserva di legge, in quanto l’effetto in malam partem non dipende dall’introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di quelle esistenti ad opera della Corte ma dall’automatica espansione della norma comune dettata dal legislatore al caso oggetto della disciplina derogatoria.

La questione centrale è, tuttavia, rappresentata dal lamentato vulnus dell’art. 3, comma 1, Cost.. La Corte ne esclude la violazione con un ragionamento articolato in cui evidenzia la necessità di valutare la disposizione censurata, in punto di ragionevolezza, alla stregua dell’attuale realtà sociale, nella quale alla tradizionale comunanza di interessi, sul piano dei rapporti patrimoniali, si affianca e si sostituisce, in molti casi, la reciproca autonomia dei componenti il nucleo familiare. Ciò premesso, in sequenza la Corte rileva: a) che il fondamento di ogni deroga al principio di uguaglianza deve essere misurato, in termini di razionalità, con riguardo alle condizioni di fatto e di diritto nelle quali la deroga è chiamata ad operare; b) che tali condizioni sono sottoposte a costante evoluzione, cosicché la ragionevolezza della soluzione derogatoria adottata dal legislatore può essere posta in discussione anche secondo un criterio di anacronismo; c) che, pertanto, la Corte può intervenire nei casi in cui sia manifestamente irragionevole, alla luce della mutata realtà sociale, “l’inopportuno trascinamento nel tempo di discipline maturate in un determinato contesto”. Pur tuttavia, nella fattispecie in scrutinio, nemmeno la constatazione di effetti manifestamente non ragionevoli, sul piano dell’uguaglianza tra cittadini innanzi alla legge penale, è sufficiente a superare il vaglio di ammissibilità. Manca, infatti, una soluzione a rime obbligate, essendo prospettabili una molteplicità di alternative costituzionalmente compatibili, idonee ad evitare che prevalga sempre e comunque l’impunità per determinate figure parentali. La conclusione è, pertanto, un monito al legislatore, al quale spetta l’aggiornamento della disciplina dei reati contro il patrimonio commessi in ambito familiare, trattandosi di scelte di politica criminale.

PARTE II: LEGISLAZIONE PENALE COMPLEMENTARE

2.1. Reati tributari. Omesso versamento delle ritenute, ex art. 10 bis d. lgs.vo n. 274 del 2000, e soglia di punibilità: restituzione degli atti al giudice a quo(ord. n. 256 del 2015). La Corte costituzionale, con ordinanza n. 256 del 2015, depositata il 3 dicembre 2015, ordina la restituzione ai giudici remittenti degli atti relativi alle  questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, aggiunto dall’art. 1, comma 414, della l. n. 311 del 2004, sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui, relativamente ai fatti commessi sino al 17 dicembre 2011, punisce il reato di omesso versamento di ritenute risultante dalla certificazione rilasciata ai sostituti per un ammontare superiore a 50.000 euro per ciascun periodo di imposta, anziché a 103.291,38 euro. La Corte rileva che, successivamente alle ordinanze di rimessione, è intervenuto il d.lgs. n. 158 del 2015 che ha modificato anche la norma censurata, innalzando la soglia di punibilità dell’illecito in questione dai precedenti 50.000 euro a 150.000 euro per ciascun periodo di imposta, con conseguente necessità di nuova valutazione in ordine alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza delle questioni sollevate alla luce del mutato quadro normativo.

2.2. Omessa corresponsione dell’assegno divorzile e regime di procedibilità: non fondatezza della questione (sent. n. 220 del 2015). La Corte costituzionale, con la sentenza n. 220 del 2015, depositata il 5 novembre 2015, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970 nella parte in cui – nel disporre che al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione dell’assegno dovuto a titolo di contributo al mantenimento di un figlio minore, si applicano le pene previste dall’art. 570 cod. pen. – non stabilisce per tale reato la procedibilità a querela. Secondo il giudicea quola norma censurata viola l’art. 3 Cost. determinando irragionevoli disparità di trattamento di situazioni analoghe, specificamente con riguardo ai reati di cui agli artt. 388, comma 2, cod. pen. (mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice), 6 l. n. 154 del 2001 (inosservanza degli ordini di protezione contro gli abusi familiari) e 570 cod. pen. (violazione degli obblighi di assistenza familiare), evocati quali tertia comparationis.

La Corte costituzionale dichiara non fondata la questione. Principalmente, perché il raffronto tra fattispecie normative finalizzato a verificare la ragionevolezza delle scelte legislative deve avere ad oggetto fattispecie omogenee, risultando altrimenti improponibile la stessa comparazione. Mentre i tertia comparationis evocati dal giudice a quo presentano “elementi differenziali rispetto all’ipotesi regolata dalla norma censurata tali da impedire un loro utile raffronto … o, comunque, da non consentire di ritenere valicato il limite all’ampia discrezionalità di cui il legislatore fruisce nella materia considerata”. Secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, infatti, la scelta del regime di procedibilità dei reati è rimessa alla discrezionalità del legislatore ed è sindacabile in sede di legittimità costituzionale solo per vizio di manifesta irrazionalità. Con conseguente infondatezza della questione sollevata e contestuale monito al legislatore affinché ricomponga, sulla base di una ponderata valutazione degli interessi coinvolti, le disarmonie esistenti nel sistema delle incriminazioni relative ai rapporti familiari.

2.3. Procreazione medicalmente assistita: reato di selezione preimpianto: illegittimità costituzionale; reato di soppressione degli embrioni: infondatezza della questione(sent. n. 229 del 2015). –  La Corte costituzionale, con la sentenza n. 229 del 2015, depositata l’11 novembre del 2015, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, commi 3, lettera b), e 4 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui contempla come ipotesi di reato la condotta di selezione degli embrioni, anche nei casi in cui questa sia esclusivamente finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela della maternità e sulla interruzione della gravidanza) e accertate da apposite strutture pubbliche. Ha, inoltre, dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, commi 1 e 6, della l. n. 40 del 2004 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), sollevata – in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione ed all’art. 117, primo comma Cost. – in relazione all’art. 8 della CEDU.

Secondo il giudice a quo l’art. 13, commi 3, lett. b) e 4 della legge n. 40 del 2004 – vietando e penalmente sanzionando, in modo indiscriminato, ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni, senza escludere dalla fattispecie di reato l’ipotesi in cui la condotta dei sanitari sia finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna degli embrioni affetti da malattie genetiche – contrasta con gli artt. 3 e 32 della Costituzione, per violazione del principio di ragionevolezza e del diritto alla salute, tutelato dalla stessa “legge 40” anche nei confronti della coppia generatrice;  viola, altresì, l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU come interpretato nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, per la quale il diritto al rispetto della vita privata e familiare include il desiderio della coppia di generare un figlio non affetto da malattia genetica.   

Il giudice a quo sottopone al vaglio di costituzionalità anche il successivo art. 14, commi 1 e 6, della predetta legge n. 40 del 2004 – nella parte in cui parallelamente sanziona penalmente la condotta di soppressione degli embrioni, anche ove trattasi di embrioni soprannumerari risultati affetti da malattie genetiche a seguito di selezione finalizzata ad evitarne appunto l’impianto nell’utero della donna – ritenendolo in contrasto con l’art. 2 Cost., sotto il profilo della tutela del diritto all’autodeterminazione della coppia; con l’art. 3 Cost., per irragionevolezza e contraddittorietà rispetto al disposto dell’art. 6 della legge n. 194 del 1978, che consente agli operatori sanitari di praticare l’aborto terapeutico – anche oltre il termine di 90 giorni dall’inizio della gravidanza – in presenza di processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro; ed, infine, con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al medesimo parametro europeo come sopra evocato.

La Corte costituzionale ritiene fondata la prima questione, ponendosi in stretta continuità con la recente sentenza n. 96 del 2015, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 […], accertate da apposite strutture pubbliche. E ciò al fine esclusivo della previa individuazione, in funzione del successivo impianto nell’utero della donna, di embrioni cui non risulti trasmessa la malattia del genitore comportante il pericolo di rilevanti anomalie o malformazioni (se non la morte precoce) del nascituro, alla stregua del suddetto criterio normativo di gravità. La motivazione centrale dell’attuale declaratoria di illegittimità costituzionale consiste nell’assorbente considerazione che “quanto è divenuto … lecito, per effetto della suddetta pronunzia additiva, non può dunque – per il principio di non contraddizione − essere più attratto nella sfera del penalmente rilevante”. Alla base di entrambe le declaratorie di illegittimità costituzionale vi è fondamentalmente la considerazione che il nostro ordinamento regolamenta, con la l. n. 194 del 1978, l’interruzione di gravidanza, molto più invasiva e pericolosa per la salute della donna e comportante la soppressione del concepito, sicché non può ragionevolmente impedirsi l’accesso ad una diagnosi e selezione preimpianto utili a prevenire la trasmissione al nascituro di rilevanti malattie capaci di mettere a repentaglio la  salute psico-fisica della madre.

Conclusivamente: l’art. 13, commi 3, lettera b), e 4, della legge n. 40 del 2004 viene dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui vieta, sanzionandola penalmente, la condotta selettiva del sanitario volta esclusivamente ad evitare il trasferimento nell’utero della donna di embrioni che, dalla diagnosi preimpianto, siano risultati affetti da malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge n. 194 del 1978, accertate da apposite strutture pubbliche.

La Corte costituzionale dichiara, invece, non fondata la seconda connessa questione  di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1 e 6, della legge n. 40 del 2004, il quale sanziona penalmente la condotta di soppressione degli embrioni, ancorché si tratti di embrioni che, in esito a diagnosi preimpianto, risultino affetti da grave malattia genetica. In continuità con la propria consolidata giurisprudenza, la Corte ribadisce che la discrezionalità legislativa in materia di individuazione delle condotte punibili può essere censurata, in sede di giudizio di costituzionalità, soltanto ove il suo esercizio ne rappresenti un uso distorto od arbitrario, così da confliggere in modo manifesto con il canone della ragionevolezza (ex plurimis sentenze n. 81 del 2014, n. 273 del 2010, n. 364 del 2004, ordinanze n. 249 del 2007, n. 110 del 2003, n. 144 del 2001). Ipotesi non sussistente nel caso oggetto di scrutinio, in quanto anche con riguardo a tali embrioni – la cui malformazione non ne giustifica, comunque, un trattamento deteriore rispetto a quello degli embrioni sani, creati in numero superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto – si prospetta l’esigenza di tutelarne la dignità, alla quale non può parimenti darsi, allo stato, altra risposta che quella della procedura di crioconservazione. La Corte, inoltre, precisa che la sentenza n. 151 del 2009 ha riconosciuto il fondamento costituzionale della tutela dell’embrione, riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost., ritenendola suscettibile di affievolimento, ma solo in caso di conflitto con altri interessi di pari rilievo costituzionale (come il diritto alla salute della donna) che, in termini di bilanciamento, risultino, in date situazioni, prevalenti. Nella fattispecie in scrutinio, il vulnus alla tutela della dignità dell’embrione, ancorché malato, quale deriverebbe dalla sua soppressione tamquam res, non trova però giustificazione, in termini di contrappeso, nella tutela di altro interesse antagonista. Il che conferma la non manifesta irragionevolezza della normativa incriminatrice denunciata, la quale neppure contrasta con l’asserito diritto di autodeterminazione o, con il richiamato parametro europeo, per l’assorbente ragione che il divieto di soppressione dell’embrione malformato non ne comporta l’impianto coattivo nell’utero della gestante.

2.4. Reati del codice della strada.

2.4.1. Guida in stato di ebbrezza, raddoppio della durata della sospensione della patente in caso di veicolo appartenente a terzo estraneo e omessa previsione di riduzione della durata della sospensione per lo svolgimento di lavoro di pubblica utilità in misura eguale al proprietario del veicolo: non fondatezza della questione(sent. n. 198 del 2015). La Corte costituzionale, con la sentenza n.198 del 2015, depositata il 9 ottobre 2015, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 186, comma 9-bis, quarto periodo, del d.lgs. n. 285 del 1992 (Nuovo codice della strada), sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.. Secondo il giudice a quo  la norma censurata, nella parte in cui non prevede, per il caso di svolgimento con esito positivo del lavoro di pubblica utilità, che la riduzione alla metà della sanzione accessoria della sospensione della patente – già irrogata, con la sentenza di condanna, in misura doppia per essere risultato il veicolo, condotto in stato di ebbrezza, appartenente a terzi estranei al reato – possa essere operata senza tener conto dell’indicato raddoppio, viola il principio di uguaglianza. Occorre rilevare che la norma censurata prevede, che, qualora non si sia verificato un incidente stradale, il giudice possa sostituire le sanzioni penali dell’ammenda e dell’arresto con la sanzione del lavoro di pubblica utilità di cui all’art. 54 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274. Occorre, altresì, considerare che l’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada, prevede per il reato di guida in stato di ebbrezza la sospensione della patente in misura doppia nel caso di conducente non proprietario del veicolo. Tuttavia, il giudice a quo non contesta il diverso trattamento sanzionatorio riservato alle due condotte poste in comparazione (la guida in stato di ebbrezza del conducente proprietario e non proprietario, cui si riferiscono, rispettivamente, la sospensione “semplice” e quella “raddoppiata”). Riconosce, anzi, esplicitamente la ragionevolezza della scelta legislativa di punire il conducente non proprietario con una sanzione sospensiva più lunga, non potendo egli essere colpito nel patrimonio con la confisca, e, difatti, non censura l’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada. Contesta piuttosto, sul piano comparativo, gli esiti finali determinati dalle diverse previsioni sanzionatorie descritte, laddove intervenga il peculiare meccanismo premiale introdotto dal legislatore al comma 9-bis dell’art. 186 del d.lgs. 285 del 1992, che è, del resto, la disposizione oggetto della questione di legittimità costituzionale. Nel senso che ne discenderebbe, a carico di soggetti responsabili del medesimo reato di guida in stato di ebbrezza, un diverso trattamento sanzionatorio, dipendente dalla sola circostanza che essi siano o non proprietari del veicolo condotto. Infatti, in caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità, la maggiore durata della sospensione della patente per i conducenti non proprietari non troverebbe più giustificazione nella mancata confisca del veicolo, giacché, proprio in virtù del menzionato svolgimento positivo, il giudice deve comunque disporre la revoca della confisca disposta in danno dei conducenti proprietari. Questi ultimi insomma, all’esito dell’esecuzione, si troverebbero ingiustamente favoriti, perché soggetti ad una sospensione della patente di guida non raddoppiata e, al tempo stesso, immuni da un provvedimento di ablazione patrimoniale. Con conseguente violazione dell’art. 3 Cost..

La Corte costituzionale evidenzia la ratio della disposizione censurata consistente nella necessità di prevenire e reprimere la prassi (che parrebbe essersi diffusa dopo l’introduzione della previsione della confisca obbligatoria del veicolo) del ricorso a vetture intestate ad altri per spostarsi pur dopo l’abuso di alcool, ovvero di abusare di alcool con minori remore perché alla guida di veicoli intestati a terzi. Rileva che, non operando, in caso di veicolo appartenente a terzi, la deterrenza derivante dal rischio di un grave danno patrimoniale, connesso appunto alla confisca del veicolo, non è implausibile che il legislatore abbia ritenuto di compensare la conseguente diminuzione di efficacia dissuasiva con l’aggravamento di una sanzione a sua volta temuta (e non suscettibile di sospensione condizionale), quale la sospensione del permesso di condurre. Precisa che nell’ambito della disciplina in esame, la sostituzione della pena detentiva e pecuniaria con quella del lavoro di pubblica utilità avvia una vera e propria procedura di tipo “premiale”. Infatti, il giudice nel caso di esito positivo della prestazione offerta dall’interessato, assume una serie di provvedimenti favorevoli al soggetto condannato, e, in particolare, dichiara estinto il reato, dispone la revoca della confisca del veicolo, se disposta, e dimezza la durata della sospensione della patente di guida. Aggiunge che, per costante giurisprudenza costituzionale, le determinazioni concernenti il complessivo trattamento sanzionatorio di qualunque reato, compreso quello qui in considerazione (guida in stato di ebbrezza), sono il frutto di apprezzamenti tipicamente politici, che si collocano, pertanto, su un terreno caratterizzato da ampia discrezionalità legislativa, «il cui esercizio è censurabile, sul piano della legittimità costituzionale, solo ove trasmodi nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, come avviene quando si sia di fronte a sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione» (sentenza n. 81 del 2014 e in precedenza, ex multis, sentenze n. 68 del 2012, n. 273 e n. 47 del 2010).

Orbene, svolta la comparazione nei termini proposti dal rimettente, tale manifesta irragionevolezza e tale arbitrio non sono affatto riscontrabili. Non lo sono nel diverso trattamento sanzionatorio “di partenza”, e non lo sono nemmeno all’esito del positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità.

Ciò perché a seguito dell’esito positivo del lavoro di pubblica utilità, analoghi effetti premiali non possono che essere riferiti alle sanzioni di partenza, diverse per ragioni obiettivamente rilevanti. Al tempo stesso, una puntuale comparazione delle posizioni “finali” avrebbe richiesto un apprezzamento anche con riguardo agli effetti della confisca comunque disposta, in esito alla fase cognitiva, a carico del conducente proprietario, spesso accompagnata medio temporedall’indisponibilità del mezzo per effetto di sequestro.

In ogni caso, la pretesa per cui, pur essendo ragionevolmente sanzionati in misura differenziata nella fase cognitiva del processo, i soggetti in comparazione debbano uscire puniti “allo stesso modo” dalla fase esecutiva, presupporrebbe, sia pure a fini di omologazione, l’attribuzione di un diverso “peso”, a seconda dei casi, ad un identico fattore di premialità, cioè al buon comportamento tenuto nello svolgimento del lavoro di pubblica utilità. Sennonché, la riduzione premiale del trattamento sanzionatorio “trova giustificazione in una condotta diversa da quella illecita, e cioè, appunto, nella efficace e diligente prestazione di un servizio a favore della collettività”. Pertanto, l’eventuale accoglimento della pronuncia additiva richiesta comporterebbe un’ingiustificabile (e perciò irragionevole) differenziazione degli effetti della medesima condotta tenuta in fase esecutiva. In altri termini, il giudice a quo finisce per teorizzare il diritto ad un più marcato trattamento premiale del conducente non proprietario, rispetto a quello proprietario, pur nella perfetta identità dei comportamenti tenuti in chiave rieducativa.

In realtà, al medesimo comportamento non può che corrispondere l’identità del trattamento premiale, cioè la riduzione percentuale, in misura fissa, sulla pena irrogata, con effetti ovviamente diversi in termini assoluti, a seconda dei valori di partenza. Con conseguente infondatezza della questione sollevata.  

2.4.2. Revoca della patente nei confronti di soggetti condannati per reati in materia di stupefacenti con sentenza di patteggiamento divenuta definitiva prima dell’entrata in vigore della norma censurata: manifesta inammissibilità della questione(ord. n. 212 del 2015). La Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 212 del 2015, depositata il 29 ottobre 2015, dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 120 d. lgs.vo n. 285 del 1992 (Nuovo codice della strada), come sostituito dall’art. 3, comma 52, lett. a) della l. n. 94 del 2009, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.. Secondo il giudice remittente la norma censurata – nella parte in cui prevede la revoca della patente di guida nei confronti di soggetti condannati per reati in materia di stupefacenti (art. 73 e 74 del d.P.R. n. 309 del 1990) – viola gli art. 3 e 24 Cost.. La Corte costituzionale dichiara manifestamente inammissibile la questione, considerato che la sentenza n. 281 del 2013 ha già dichiarato costituzionalmente illegittima la norma censurata nella parte in cui si applica anche con riferimento a sentenze pronunciate, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., in epoca antecedente all’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009.

PARTE III. DIRITTO PROCESSUALE PENALE

3.1. Subordinazione del patteggiamento alla previa estinzione dei debiti tributari: restituzione degli atti al giudice a quo (ord. n. 225 del 2015).La Corte costituzionale, con ordinanza n.225 del 2015, depositata il 5 novembre 2015, ordina la restituzione degli atti relativi alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2-bis del d.lgs. n. 74 del 2000 (aggiunto dall’art. 2, comma 36-vicies semel, lett. m, del d.l. n. 138 del 2011, convertito con modificazioni, dalla l. n. 148 del 2011), impugnato in riferimento agli artt. 3, 10, 24, 77, 101, 104, 111, 112 e 113 Cost.. Secondo il giudice a quo la norma censurata stabilendo che, per i delitti di cui al medesimo decreto, le parti possono accedere al patteggiamento solo ove ricorra l’attenuante prevista dai precedenti commi 1 e 2, del predetto art. 13 e cioè solo se i debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei predetti delitti – comprensivi delle sanzioni amministrative, ancorché non applicabili all’imputato in forza del principio di specialità – siano stati estinti, mediante pagamento, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, viola gli artt. 3, 10, 24, 77, 101, 104, 111, 112 e 113 Cost.. La Corte rileva che, successivamente all’ordinanza di remissione, è intervenuto il d.lgs. n. 158 del 2015, che ha apportato un ampio complesso di modifiche al sistema sanzionatorio tributario, tanto penale che amministrativo ed, in particolare, che la disposizione limitativa dell’accesso al patteggiamento è stata trasferita nel comma 2 del nuovo art. 13 bis del d.lgs. n. 74 del 2000, aggiunto dall’art. 12 del d.lgs. n. 158 del 2015, la quale non è identica alla precedente, sottoposta a scrutinio, come non lo è la disciplina, da essa richiamata, della circostanza attenuante speciale del risarcimento del danno. Spetta, pertanto, al giudicea quoverificare se e in quale misura lo ius superveniens incida sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza della questione sollevata.

3.2. Sospensione del procedimento con messa alla prova, inapplicabilità dell’istituto all’imputato il cui dibattimento sia già aperto al momento della entrata in vigore della legge n. 67 del 2014: non fondatezza della questione (sent. n. 240 del 2015). La Corte costituzionale, con la sentenza n. 240 del 2015, depositata il 26 novembre 2015, dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464 bis, comma 2, cod. proc. pen., sollevate in riferimento agli artt.  3, 24, 111 e 117, comma 1, Cost, quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU. Secondo il giudice a quo la norma censurata nella parte in cui, in assenza di una disciplina transitoria, non prevede l’ammissione all’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova – introdotto dalla legge n. 67 del 2014 – degli imputati di processi pendenti in primo grado, nei quali la dichiarazione di apertura del dibattimento sia stata effettuata prima dell’entrata in vigore della nuova norma, contrasta con il principio di uguaglianza, il diritto di difesa e quello al giusto processo nonché con il principio di retroattività della legge più favorevole sancita dalla CEDU. La Corte costituzionale dichiara non fondate le questioni, ritenendo inapplicabile l’istituto della sospensione del procedimento penale con messa alla prova ai procedimenti che abbiano superato il limite posto dalla norma censurata, nei quali cioè sia già intervenuta la dichiarazione di apertura del dibattimento. Pertanto, ritiene legittima, sotto il profilo dell’art. 3 Cost., la scelta legislativa di parificare la disciplina del termine per la richiesta, senza distinguere tra processi nuovi o in corso, ma avendo riguardo allo stato del processo  e, da questo punto di vista, ha trattato in modo uguale situazioni processuali uguali. La Corte rileva che il termine entro il quale l’imputato può richiedere la sospensione del processo con messa alla prova è collegato alle caratteristiche e alle funzioni dell’istituto, che è alternativo al giudizio e a vocazione deflattiva. Ne evince che consentire, sia pure in via transitoria, la richiesta nel corso del dibattimento, anche dopo che il giudizio si è protratto nel tempo, significherebbe alterare il procedimento. Rileva che, d’altro canto, non averlo consentito non giustifica la censura ex art. 3 Cost.: la preclusione, oggetto di censura, dipende solo dal diverso stato dei processi e, d’altro canto, il legislatore gode di ampia discrezionalità nello stabilire la disciplina temporale di nuovi istituti processuali, sicché le relative scelte, ove non siano manifestamente irragionevoli, si sottraggono a censure di illegittimità costituzionale. Nessun contrasto sussiste, inoltre, con l’art. 7 CEDU, in quanto la preclusione censurata e i suoi effetti è conseguenza non della mancanza di retroattività della norma penale ma del normale regime temporale della norma processuale. In altri termini, la norma censurata, avendo natura processuale, è regolata dal principio tempus regit actume non dal principio di retroattività della lex mitior che, invece, riguarda esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena. Infine, giudica prive di fondamento le censure concernenti il diritto di difesa ed il giusto processo, in quanto sollevate sulla base dell’erroneo presupposto che nei processi in corso al momento della entrata in vigore della norma censurata dovrebbe riconoscersi all’imputato, quale espressione del diritto di difesa e del diritto a un giusto processo, la facoltà di scegliere il nuovo procedimento speciale, del quale è stata, invece, legittimamente esclusa l’applicabilità.

Redattore: Maria Meloni

Il vice direttore

Giorgio Fidelbo

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La negoziazione assistita è compatibile con la Costituzione

Corte Cost., sentenza 7 luglio 2016 n. 162 (Pres. Grossi, est. Morelli)

Procedimento civile – Controversie in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti – Obbligo di esperire la procedura di negoziazione assistita, a pena di improcedibilità della domanda giudiziale (art. 3 d.l. 132 del 2014, conv. in L. 162 del 2014)

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 162, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione. La «negoziazione assistita» non è un “inutile doppione” della cosiddetta “messa in mora” di cui agli artt. 145, 148 e 149 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 atteso che l’istituto introdotto nel 2014presuppone che (nel contesto della procedura di messa in mora) l’offerta risarcitoria non sia stata ritenuta satisfattiva dal danneggiato, ovvero che non sia stata neppure formulata dall’assicuratore.  La negoziazione assistita disegna un procedimento che precede, ed è volto anche ad evitare, l’accesso al giudice, attraverso «un accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza di avvocati iscritti all’albo». La tutela garantita dall’art. 24 Cost. – la quale non comporta l’assoluta immediatezza dell’esperibilità del diritto di azione (sentenze n. 243 del 2014 e n. 276 del 2000, per tutte) – non è, dunque, compromessa dal meccanismo della negoziazione assistita, attesa la sua complementarità rispetto al previo procedimento di messa in mora dell’assicuratore, agli effetti dell’auspicata realizzazione anticipata, in via stragiudiziale, dell’interesse risarcitorio del danneggiato. Né è sostenibile che la compresenza dei due istituti sia idonea a protrarre «sine die» l’esercizio del diritto di azione, attesa la brevità del termine («non superiore a tre mesi», prorogabile solo «su accordo delle parti» per non più di trenta giorni) entro il quale deve essere comunque conclusa la negoziazione (art. 2, lettera a, del d.l. n. 132 del 2014). Quanto ai costi di tale procedura (che non necessariamente gravano solo sull’attore, potendo formare oggetto di diversa regolamentazione in sede di accordo, od essere posti a carico del soccombente in caso di successivo giudizio), deve parimenti escludersi che questi – certamente inferiori ai costi del giudizio, che l’interessato ha la possibilità, peraltro, di risparmiare – siano tali da limitare o rendere eccessivamente difficoltosa la tutela giurisdizionale.  Dal che, appunto, la conclusione che il meccanismo della negoziazione assistita – reso obbligatorio dalla disposizione denunciata nelle controversie risarcitorie di danno da circolazione di veicoli o natanti – riflette un ragionevole bilanciamento tra l’esigenza di tutela del danneggiato e quella (di interesse generale), che il differimento dell’accesso alla giurisdizione intende perseguire, di contenimento del contenzioso, anche in funzione degli obiettivi del “giusto processo”, per il profilo della ragionevole durata delle liti, oggettivamente pregiudicata dal volume eccessivo delle stesse.

SENTENZA N. 162

ANNO 2016

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Paolo GROSSI; Giudici : Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Nicolò ZANON, Giulio PROSPERETTI,

Ritenuto in fatto

1.− Nel corso di un procedimento civile avente ad oggetto il risarcimento di danni causati da circolazione stradale, richiesti dal danneggiato nei confronti della propria impresa assicuratrice ai sensi dell’art. 149 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), l’adito Giudice di pace di Vietri di Potenza – premesso che dall’esame degli atti risultava che l’azione era stata introdotta senza che l’attore avesse esperito il procedimento di «negoziazione assistita», prescritto quale «condizione di procedibilità della domanda giudiziale» dall’art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 162 – ha ritenuto, di conseguenza, rilevante, e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione – ed ha, per ciò, sollevato, con l’ordinanza in epigrafe – questione di legittimità costituzionale del suddetto art. 3, comma 1, del d.l. n. 132 del 2014, convertito, «relativamente alla parte in cui – disponendo “Chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti deve, tramite il suo avvocato, invitare l’altra parte a stipulare una convenzione di negoziazione assistita” – sottopone la procedibilità della domanda giudiziale all’esperimento del procedimento di negoziazione assistita».

Secondo il rimettente, la disposizione denunciata – introducendo una ulteriore «condizione di procedibilità», che si sovrappone alla “condizione di proponibilità” già prevista dagli artt. 145, 148 e 149 del d.lgs. n. 209 del 2005, in tema di azioni risarcitorie del danno da circolazione di autoveicoli – sarebbe «del tutto irragionevole oltre che inutile» ed avrebbe «il solo fine di rinviare sine die l’inizio del contenzioso», con ciò, appunto, violando gli artt. 3 e 24 Cost.

Gli stessi parametri risulterebbero – sotto duplice profilo – altresì violati, sia perché «i pesi della negoziazione assistita vengono posti, irragionevolmente, sempre e solo sull’attore e non sul convenuto», sia per la disparità di trattamento tra i danneggiati che, sempre ad avviso del giudice a quo, verrebbe a determinarsi per essere obbligatoria, la negoziazione assistita, unicamente per le pretese risarcitorie non eccedenti l’importo di euro 50.000,00, e non anche per quelle di valore superiore (oltre che per quelle non eccedenti euro 1.100,00, nelle quali la parte può stare in giudizio personalmente, ex art. 82, primo comma, del codice di procedura civile).

La lesione del diritto all’eguaglianza, comporterebbe, infine, sempre ad avviso del giudice a quo, quella, consequenziale, dell’art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili della persona.

2.- È intervenuto, in questo giudizio, il Presidente del Consiglio dei ministri, per il tramite dell’Avvocatura generale dello Stato, la quale ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità della questione, per difetto di sua attuale rilevanza e, in subordine, ne ha contestato, sotto ogni profilo, la fondatezza.

Considerato in diritto

1.− Con l’ordinanza in epigrafe, e per i profili di denunciata violazione degli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione già in narrativa riassunti, viene posta a questa Corte la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 162, «relativamente alla parte in cui – disponendo “Chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti deve, tramite il suo avvocato, invitare l’altra parte a stipulare una convenzione di negoziazione assistita” – sottopone la procedibilità della domanda giudiziale all’esperimento del procedimento di negoziazione assistita».

2.- La difesa dello Stato ha eccepito l’inammissibilità, per difetto di attuale rilevanza di tale questione; ma l’eccezione – il cui esame è preliminare – non è suscettibile di accoglimento.

È pur vero, infatti, che – ai sensi (del quarto periodo) del medesimo comma 1 del denunciato art. 3 del d.l. n. 132 del 2014, come convertito – il giudice che, come nella specie, rilevi, in prima udienza, il mancato previo esperimento della negoziazione assistita, non deve dichiarare subito l’improcedibilità della domanda, essendo tenuto a fissare una successiva udienza con contestuale assegnazione di termine alle parti per recuperare la negoziazione e, solo ove questa risulti, anche dopo ciò, omessa, la domanda diviene improcedibile.

Ma ciò non esclude – e necessariamente anzi implica – l’attualità della questione, come sollevata in prima udienza, una volta che, con l’incidente di costituzionalità, il rimettente si propone di rimuovere in radice la negoziazione assistita, e non già di consentire alle parti (che nel giudizio a quo non l’hanno preventivamente esperita) di poterla recuperare entro il termine all’uopo loro assegnabile.

3.- Nel merito, la questione non è fondata.

3.1.- Erra, in primo luogo, il giudice a quo nel ritenere che la negoziazione assistita sia un “inutile doppione” della cosiddetta “messa in mora” di cui agli artt. 145, 148 e 149 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), e che, di conseguenza, essa irragionevolmente arrechi un vulnus al diritto di difesa, con il «rinviare sine die» la tutela risarcitoria di soggetti danneggiati da circolazione di veicoli e natanti.

E, ben vero, le norme contenute nel «Codice delle assicurazioni private» e la disposizione qui oggetto di censure, lungi dal sovrapporsi inutilmente, hanno contenuto e assolvono funzioni diverse e, utilmente, complementari.

I richiamati artt. 145, 148 e 149 di quel codice prevedono, infatti, un meccanismo (che si sostanzia, appunto, nella messa in mora della compagnia assicuratrice, con la presentazione di una circostanziata richiesta risarcitoria), la cui ratio è quella di rafforzare le possibilità di difesa offerte al danneggiato, attraverso il raccordo dell’onere di diligenza, a suo carico, con l’obbligo di cooperazione imposto all’assicuratore «Il quale, proprio in ragione della prescritta specificità di contenuto della istanza risarcitoria, non potrà agevolmente o pretestuosamente disattenderla, essendo tenuto alla formulazione di una proposta adeguata nel quantum» (sentenza n. 111 del 2012).

È questa, dunque, una fase “stragiudiziale”, che si svolge direttamente tra le parti, e che il legislatore del 2005 ha previsto nella prospettiva di rendere, già in tal momento, possibile una anticipata e satisfattiva tutela del danneggiato.

Diversa, invece, è la finalità (e differenti sono la natura e le modalità) della «negoziazione assistita» introdotta dall’art. 2 del d.l. n. 132 del 2014, che il successivo suo art. 3 ha reso obbligatoria (tra l’altro e per quel che qui rileva) per le controversie in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti.

Una tale “negoziazione” presuppone che (nel contesto della procedura di messa in mora) l’offerta risarcitoria non sia stata ritenuta satisfattiva dal danneggiato, ovvero che non sia stata neppure formulata dall’assicuratore.

È a questo punto, infatti, che si inserisce il meccanismo predisposto dalla normativa denunciata, la quale disegna un procedimento che precede, ed è volto anche ad evitare, l’accesso al giudice, attraverso «un accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza di avvocati iscritti all’albo».

La tutela garantita dall’art. 24 Cost. – la quale non comporta l’assoluta immediatezza dell’esperibilità del diritto di azione (sentenze n. 243 del 2014 e n. 276 del 2000, per tutte) – non è, dunque, compromessa dal meccanismo della negoziazione assistita, attesa la sua complementarità rispetto al previo procedimento di messa in mora dell’assicuratore, agli effetti dell’auspicata realizzazione anticipata, in via stragiudiziale, dell’interesse risarcitorio del danneggiato.

Né è sostenibile che la compresenza dei due istituti sia idonea – come paventa il rimettente – a protrarre «sine die» l’esercizio del diritto di azione, attesa la brevità del termine («non superiore a tre mesi», prorogabile solo «su accordo delle parti» per non più di trenta giorni) entro il quale deve essere comunque conclusa la negoziazione (art. 2, lettera a, del d.l. n. 132 del 2014).

Mentre, quanto ai costi di tale procedura (che non necessariamente gravano solo sull’attore, potendo formare oggetto di diversa regolamentazione in sede di accordo, od essere posti a carico del soccombente in caso di successivo giudizio), deve parimenti escludersi che questi – certamente inferiori ai costi del giudizio, che l’interessato ha la possibilità, peraltro, di risparmiare – siano tali da limitare o rendere eccessivamente difficoltosa la tutela giurisdizionale.

Dal che, appunto, la conclusione che il meccanismo della negoziazione assistita – reso obbligatorio dalla disposizione denunciata nelle controversie risarcitorie di danno da circolazione di veicoli o natanti – riflette un ragionevole bilanciamento tra l’esigenza di tutela del danneggiato e quella (di interesse generale), che il differimento dell’accesso alla giurisdizione intende perseguire, di contenimento del contenzioso, anche in funzione degli obiettivi del “giusto processo”, per il profilo della ragionevole durata delle liti, oggettivamente pregiudicata dal volume eccessivo delle stesse.

3.2.- Neppure si può, poi, condividere la premessa interpretativa che induce il rimettente a sospettare una disparità di trattamento tra danneggiati, cui darebbe luogo la disposizione denunciata con il prescrivere l’obbligatorietà della mediazione assistita con riferimento alle sole azioni risarcitorie di valore non superiore ad euro 50.000,00.

Un tal limite di valore è riferito, infatti, nel secondo periodo del comma 1 dell’art. 3 del d.l. n. 132 del 2014, alle domande di «pagamento a qualsiasi titolo di somme» proposte «fuori dei casi previsti nel periodo precedente».

Mentre, nel precedente (primo) periodo del comma stesso, l’obbligo di «invitare l’altra parte a stipulare una convenzione di mediazione assistita» è riferito, senza ulteriori specificazioni (e senza, quindi, quella soglia di valore) a «chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti».

Dal che la non fondatezza, anche per tal residuo profilo, della questione sollevata dal giudice a quo.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 162, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione, dal Giudice di pace di Vietri di Potenza, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 giugno 2016.

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Corte Cost., sentenza 23 giugno 2016 n. 152  (Pres. Grossi, est. Morelli)

Procedimento civile – Art. 96 comma III c.p.c. – Natura giuridica – Risarcitoria – Esclusione – Funzione sanzionatoria – Sussiste  (art. 96 comma III c.p.c.)

L’art. 96 comma III c.p.c. risponde ad una funzione sanzionatoria delle condotte di quanti, abusando del proprio diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, contribuendo così ad aggravare il volume (già di per sé notoriamente eccessivo) del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti. Depongono in questo senso, oltre ai lavori preparatori della novella, significativi elementi lessicali. La norma fa, infatti, riferimento alla condanna al «pagamento di una somma», segnando così una netta differenza terminologica rispetto al «risarcimento dei danni», oggetto della condanna di cui ai primi due commi dell’art. 96 cod. proc. civ. Ancorché inserita all’interno del predetto art. 96, la condanna di cui all’aggiunto suo terzo comma è testualmente (e sistematicamente), inoltre, collegata al contenuto della «pronuncia sulle spese di cui all’articolo 91»; e la sua adottabilità «anche d’ufficio» la sottrae all’impulso di parte e ne conferma, ulteriormente, la finalizzazione alla tutela di un interesse che trascende (o non è, comunque, esclusivamente) quello della parte stessa, e si colora di connotati innegabilmente pubblicistici. Ne consegue che l’art. 96 comma III c.p.c. istituisce una ipotesi di condanna di natura sanzionatoria e officiosa prevista dall’art. 96 comma 3 c.p.c. per l’offesa arrecata alla giurisdizione.

Corte Cost., sentenza 23 giugno 2016 n. 152 (Pres. Grossi, est. Morelli)

Procedimento civile – Art. 96 comma III c.p.c. – Somma devoluta alla parte e non allo Stato – Ragionevolezza – Sussiste (art. 96 comma III c.p.c.)

La motivazione, che ha indotto il Legislatore, nell’art. 96 comma III c.p.c., a porre «a favore della controparte» l’introdotta previsione di condanna della parte soccombente al «pagamento della somma» in questione, è ricollegabile all’obiettivo di assicurare una maggiore effettività, ed una più incisiva efficacia deterrente, allo strumento deflattivo apprestato da quella condanna, sul presupposto che la parte vittoriosa possa, verosimilmente, provvedere alla riscossione della somma, che ne forma oggetto, in tempi e con oneri inferiori rispetto a quelli che graverebbero su di un soggetto pubblico. Non è dunque fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata la riguardo.

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Diritto alla salute del disabile e assistenza da parte del convivenza more uxorio

Corte Cost., sentenza 23 settembre 2016 n. 213 (Pres. Grossi, est. Criscuolo)

Assistenza – Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone portatrici di handicap – Permessi al lavoratore per l’assistenza al portatore di handicap in situazione di gravità – Soggetti beneficiari – Convivente more uxorio (art. 33, l. 104 del 1992)

Deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), come modificato dall’art. 24, comma 1, lettera a), della legge 4 novembre 2010 n. 183, nella parte in cui non include il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado. La norma, non includendo il convivente nell’elencazione dei soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito, viola l’art. 3 Cost. per contraddittorietà logica, atteso che la disposizione intende tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile. La convivenza more uxorio rilevante va intesa come relazione che si fondi su una relazione affettiva, tipica del “rapporto familiare”, nell’ambito della platea dei valori solidaristici postulati dalle “aggregazioni” cui fa riferimento l’art. 2 Cost.: la distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale non esclude la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’art. 3 Cost.  In questo caso l’elemento unificante tra le due situazioni è dato proprio dall’esigenza di tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile grave, nella sua accezione più ampia, collocabile tra i diritti inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost.

Sulla intervenuta abrogazione della vicedirigenza

Corte Cost., sentenza 3 ottobre 2016 n. 214 (Pres. Grossi, est. Sciarra)

Impiego pubblico – Abrogazione dell’art. 17-bis del d.lgs. n. 165/2001 con il quale era stata istituita, previa mediazione della contrattazione collettiva, la Vicedirigenza (art. 17-bis, dlgs 165 del 2001)

Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 13, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 101, 102, primo comma, 103, primo comma, 111, primo e secondo comma, 113 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 – atti entrambi ratificati e resi esecutivi con la legge 4 agosto 1955, n. 848. Lo scopo del citato art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, è stato quello di ridurre, nel contesto di necessità e urgenza determinato dalla grave crisi finanziaria che ha colpito l’Italia tra la fine del 2011 e la prima metà del 2012, le spese delle amministrazioni pubbliche. Inoltre, la disposizione in parola, dettando la regola – che non incide direttamente sul giudicato della sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007 – secondo cui la vicedirigenza non è (più) prevista nell’organizzazione del lavoro pubblico, ha operato sul solo piano delle fonti generali e astratte, costruendo il modello normativo cui la decisione del giudice deve riferirsi, senza quindi vulnerare le attribuzioni riservate alla funzione giurisdizionale dagli invocati artt. 102, primo comma, e 103, primo comma, Cost.

Commissione Centrale per gli esercenti le professioni sanitarie

Corte Cost., sentenza 7 ottobre 2016 n. 215 (Pres. Grossi, est. Barbera)

Sanità pubblica – Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie – Composizione – Previsione che della stessa facciano parte due componenti designati dal Ministero della Salute, un dirigente amministrativo del Ministero ed un dirigente di seconda fascia medico [o, a seconda dei casi, veterinario o farmacista] (art. 17, dlgs C.p.S. n. 233 del 1946)

E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 17, primo e secondo comma, lettera e), del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 13 settembre 1946, n. 233 (Ricostituzione degli Ordini delle professioni sanitarie e per la disciplina dell’esercizio delle professioni stesse), nelle parti in cui si fa riferimento alla nomina dei componenti di derivazione ministeriale; in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, è costituzionalmente illegittimo l’art. 17, primo e secondo comma, lettere a), b), c) e d) del citato d.lgs. C.p.S. n. 233 del 1946, nelle parti in cui si fa riferimento alla nomina dei componenti di derivazione ministeriale. La nomina dei componenti di matrice ministeriale appare sganciata da ogni riferimento normativo che valga preventivamente a determinarne l’ambito attitudinale e le competenze, indicazioni non validamente surrogate dal generico riferimento alla qualifica che gli stessi devono rivestire. La discrezionalità lasciata sul tema all’autorità governativa finisce, dunque, con l’assumere un rilievo non indifferente. La possibile conferma del mandato, anche questa lasciata alla mera discrezionalità dell’autorità designante, costituisce ulteriore e ancor più decisivo fattore di disvalore nell’ottica della autonomia garantita al designato nel corso del mandato. Emergono, inoltre, i vincoli di soggezione con una delle parti del procedimento destinati a porsi in aperto contrasto, già sul piano della mera apparenza esterna, con i caratteri di indipendenza e imparzialità che devono colorare l’azione giurisdizionale. Tanto mette definitivamente in discussione il tema dell’indipendenza, prerogativa posta ancora di più in crisi se si considera che l’azione disciplinare si potrebbe prestare a manovre di allontanamento del soggetto interessato destinate a concretare una revoca del mandato tanto implicita quanto indebita.

Esclusione del responsabile civile dal giudizio abbreviato

Corte Cost., sentenza 7 ottobre 2016 n. 216 (Pres., est. Grossi)

Processo penale – Giudizio abbreviato – Accoglimento della richiesta – Esclusione del responsabile civile (art. 87 c.p.p.)

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 87, comma 3, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione: l’esclusione del responsabile civile dal giudizio abbreviato si connota come una scelta non irragionevole – proprio perché anch’essa coerente con gli immutati obiettivi di fondo del rito speciale – effettuata dal legislatore nell’esercizio dell’ampia discrezionalità di cui fruisce nella disciplina degli istituti processuali. Nessun pregiudizio al diritto di azione della parte civile deriva, d’altronde, dalla soluzione legislativa censurata. Per espresso disposto dell’art. 88, comma 2, cod. proc. pen., infatti, l’esclusione del responsabile civile non pregiudica l’esercizio in sede civile dell’azione risarcitoria. Inoltre, ove la parte civile non accetti il giudizio abbreviato – com’è in sua facoltà – essa non subisce neppure la sospensione del processo civile fino alla pronuncia della sentenza penale non più soggetta a impugnazione, prevista dall’art. 75, comma 3, cod. proc. pen. (art. 441, comma 5, cod. proc. pen.).

Sentenze di condanna CEDU e oneri statali, rivalsa su Regioni o altri enti pubblici

Corte Cost., sentenza 12 ottobre 2016 n. 219 (Pres. Grossi, est. Amato)

Unione europea – Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo – Sentenze di condanna rese dalla Corte EDU – Oneri finanziari a carico dello Stato – Previsto diritto di rivalsa dello Stato nei confronti delle Regioni o di altri enti pubblici responsabili delle violazioni (art. 16-bis, comma V, l. 11 del 2005)

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16-bis, comma 5, della legge n. 11 del 2005. Secondo l’espresso dettato della disposizione in esame, l’esercizio del diritto statale di rivalsa presuppone che gli enti locali «si siano resi responsabili di violazioni delle disposizioni della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali». Il fondamento della rivalsa statale nei confronti degli enti locali viene, quindi, esplicitamente individuato nella responsabilità per condotte, imputabili agli stessi enti, poste in essere in violazione della CEDU.  L’esame del dato letterale porta, perciò, ad escludere, tra i possibili contenuti precettivi della disposizione, l’esistenza di un automatismo nella condanna dell’amministrazione locale in sede di rivalsa e, conseguentemente, di una deroga al principio dell’imputabilità.  Il requisito dell’imputabilità risulta, invero, immanente al concetto stesso di responsabilità ed è coerente con la ratio dell’intera normativa sull’esercizio della rivalsa per violazioni del diritto europeo, con riferimento sia alle condanne della Corte di giustizia, sia a quelle della Corte EDU, in quanto volta alla prevenzione di tali violazioni attraverso la responsabilizzazione dei diversi livelli di governo coinvolti nell’attuazione del diritto europeo.

Esecuzione forzata su somme dovute a titolo di salario

Corte Cost.,ordinanza12 ottobre 2016 n. 222 (Pres. Grossi, est. Carosi)

Esecuzione forzata – Somme dovute dai privati a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento – Prevista possibilità di pignoramento, nella misura di un quinto, per i tributi dovuti allo Stato, alle Province ed ai Comuni, ed in eguale misura per ogni altro credito – Mancata previsione di un minimo impignorabile necessario a garantire al lavoratore mezzi adeguati alle sue esigenze di vita e ad una retribuzione “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. In subordine: Mancata previsione che le soglie di pignorabilità siano le stesse di quelle indicate dalla legge in materia di tributi [d.l. 02/03/2012, n. 16, convertito in legge 26/04/2012, n. 44] e che quindi debbano essere graduate a seconda della retribuzione, come indicato dall’art. 72-ter del d.P.R. 29/09/1973, n. 602, in misura pari ad 1/10 per importi fino a 2.500,00 euro; in misura pari ad 1/7 per importi da 2.500,00 a 5.000,00 euro e che resta ferma la misura di cui all’art. 545, comma 4, c.p.c. se le somme dovute a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, superano i cinquemila euro (art. 545 c.p.c.)

E’ manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 1, 2 e 4 della Costituzione: la questione sollevata risulta analoga a quella di cui è stata dichiarata la non fondatezza in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, con sentenza di questa Corte n. 248 del 2015; tale sentenza precisava, tra l’altro, che «la tutela della certezza dei rapporti giuridici, in quanto collegata agli strumenti di protezione del credito personale, non consente di negare in radice la pignorabilità degli emolumenti ma di attenuarla per particolari situazioni la cui individuazione è riservata alla discrezionalità del legislatore», mentre, con riguardo alla questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., sia in relazione al regime di impignorabilità delle pensioni, sia – in via subordinata – all’art. 72-ter del d.P.R. n. 602 del 1973, le argomentazioni del giudice rimettente non sono state condivise «in ragione della eterogeneità dei tertia comparationis rispetto alla disposizione impugnata».

“Genitore sociale” tutelabile ex art. 333 codice civile

Corte Cost., sentenza 5 ottobre 2016 n. 225 (Pres. Grossi, est. Morelli)

Unione formata da persone dello stesso sesso – Figlio biologico di uno dei partner – Rottura della relazione – Diritto del minore a continuare ad avere rapporti significativi con il cd. “genitore sociale” – Art. 337-ter c.c. – Esclusione – Art. 333 c.c. – Sussiste (artt. 333, 337-ter c.c.)

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 337-ter del codice civile sollevata – in riferimento agli articoli 2, 3, 30 e 31 della Costituzione, ed all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. L’intervento del giudice a tutela del diritto del figlio minore a «conservare rapporti significativi» con persone diverse dai genitori, quale previsto e disciplinato dall’art. 337-ter cod. civ., ha esclusivo riguardo a soggetti comunque legati al minore da un vincolo parentale – all’interno, quindi, di un contesto propriamente familiare – non creandosi, tuttavia, in tal modo, un “vuoto di tutela” quanto all’interesse del minore a mantenere rapporti, non meno significativi, eventualmente intrattenuti con adulti di riferimento che non siano suoi parenti. E, infatti, l’interruzione ingiustificata, da parte di uno o di entrambi i genitori, in contrasto con l’interesse del minore, di un rapporto significativo, da quest’ultimo instaurato e intrattenuto con soggetti che non siano parenti, è riconducibile alla ipotesi di condotta del genitore “comunque pregiudizievole al figlio”, in relazione alla quale l’art. 333 dello stesso codice già consente al giudice di adottare “i provvedimenti convenienti” nel caso concreto. E ciò su ricorso del pubblico ministero (a tanto legittimato dall’art. 336 cod. civ.), anche su sollecitazione dell’adulto (non parente) coinvolto nel rapporto in questione.

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8 marzo 2019

STUPEFACENTI: SPROPORZIONATA LA PENA MINIMA DI OTTO ANNI 

DI RECLUSIONE 

È sproporzionata la pena minima di otto anni prevista per i reati non lievi in materia di stupefacenti. Lo ha stabilito la Corte costituzionale che, con la sentenza n. 40 depositata oggi (relatrice Marta Cartabia), ha dichiarato illegittimo l’articolo 73, primo comma, del Testo unico sugli stupefacenti (d.P.R. n. 309 del 1990) là dove prevede come pena minima edittale la reclusione di otto anni invece che di sei. Rimane inalterata la misura massima della pena, fissata dal legislatore in venti anni di reclusione, applicabile ai fatti più gravi.

In particolare, la Corte ha rilevato che la differenza di ben quattro anni tra il minimo di pena previsto per la fattispecie ordinaria (otto anni) e il massimo della pena stabilito per quella di lieve entità (quattro anni) costituisce un’anomalia sanzionatoria in contrasto con i principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza (articolo 3 della Costituzione), oltre che con il principio della funzione rieducativa della pena (articolo 27 della Costituzione). 

La rimodulazione da otto a sei anni del minimo edittale per i fatti non lievi è stata ricavata dalla normativa in materia di stupefacenti. Questa misura, infatti, è stata ripetutamente considerata adeguata dal legislatore per i fatti “di confine”, posti al margine delle due categorie di reati.  

La dichiarazione di incostituzionalità arriva dopo che la Corte, con la sentenza n. 179 del 2017 aveva invitato in modo pressante il legislatore a risanare la frattura che separa le pene per i fatti lievi e per i fatti non lievi, previste, rispettivamente, dai commi 5 e 1 dell’articolo 73 del d.P.R.309 del 1990. Quell’invito è rimasto però inascoltato sicché la Corte ha ritenuto ormai indifferibile il proprio intervento per correggere l’irragionevole sproporzione, più volte segnalata dai giudici di merito e di legittimità. 

La soluzione sanzionatoria adottata non costituisce un’opzione costituzionalmente obbligata e quindi rimane possibile un diverso apprezzamento da parte del legislatore, nel rispetto del principio di proporzionalità. 

SENTENZA N. 40

ANNO 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testounico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati ditossicodipendenza), promosso dalla Corte d’appello di Trieste, nel procedimento penale a carico di J.F. C.M. con ordinanza del 17 marzo 2017,iscritta al n. 113 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2017.Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;udito nella camera di consiglio del 23 gennaio 2019 il Giudice relatore Marta Cartabia.

Ritenuto in fatto

1.- Con ordinanza del 17 marzo 2017 (reg. ord. n. 113 del 2017), la Corte d’appello di Trieste ha sollevato questioni di legittimitàcostituzionale dell’art. 73, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia didisciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), per contrasto congli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, nella parte in cui, per effetto della sentenza n. 32 del 2014 della Corte Costituzionale, prevede la penaminima edittale di otto anni anziché di quella di sei anni introdotta con l’art. 4-bis del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgentiper garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno.Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina deglistupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente dellaRepubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2006, n. 49.Le questioni sono state sollevate nell’ambito di un giudizio avente ad oggetto una fattispecie di detenzione di circa cento grammi dicocaina, occultati all’interno di tre condensatori per computer, contenuti all’interno di un pacco proveniente dall’Argentina. Il giudice di primecure ha ritenuto che la sostanza stupefacente fosse destinata in via prevalente alla cessione a terzi, così escludendo, tenuto conto della quantità di tale sostanza sequestrata e di altri elementi di contesto, la possibilità di inquadrare il fatto nell’ipotesi di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990. In esito a giudizio abbreviato, l’imputato è stato condannato alla pena di anni quattro di reclusione e 14.000 eurodi multa, previo riconoscimento delle attenuanti generiche e l’applicazione della diminuente per il rito.

1.1.- L’ordinanza precisa che il difensore dell’imputato, pur non contestando la responsabilità penale per il fatto ascritto, ne ha chiesto lariqualificazione, ai sensi del citato art. 73, comma 5. In via subordinata, permanendo la qualificazione giuridica del fatto di cui all’imputazione,ha posto in dubbio la legittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990. La difesa privata si duole del fatto che taledisposizione prevede oggi, all’esito di una tortuosa evoluzione normativa, un trattamento sanzionatorio con limite edittale minimo di otto annidi reclusione, pari al doppio del massimo previsto per il reato minore. Infatti, a seguito della sentenza n. 32 del 2014, che ha dichiaratol’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. n. 272 del 2005, comeconvertito, ha ripreso applicazione l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 nel testo anteriore alle modifiche apportate con le disposizioni dichiarateincostituzionali, così dando luogo a una grave incoerenza sistematica con i commi 5 e 5-bis.

1.2.- L’ordinanza, quindi, riferisce che il difensore dell’imputato, proprio sul presuppostoche detto trattamento edittale è «rivissuto pereffetto dell’intervento della Corte costituzionale in un contesto normativo affatto diverso», ha eccepito, sulla scorta di analoghi argomenti giàposti a sostegno della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Rovereto il 3 marzo 2016 (reg. ord. n. 100 del 2016),l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, chiedendo la sospensione del giudizio in attesa della decisionedella Corte costituzionale.

2.- Su tali basi, la Corte d’appello triestina ha ritenuto che sussistano i presupposti per sollevare le questioni di legittimità costituzionale,per contrasto con gli artt. 25, 3 e 27 Cost., dell’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, nella parte in cui detta disposizione prevede – aseguito della sentenza n. 32 del 2014 – la pena minima edittale di otto anni di reclusione.

3.- In punto di rilevanza, la Corte rimettente afferma di condividere la qualificazione giuridica del fatto-reato data dal giudice di primogrado corrispondente al delitto di cui all’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, ostando alla sua sussumibilità nell’ambito dellacosiddetta «lieve entità» una serie di elementi, quali la quantità di sostanza stupefacente (quasi cento grammi netti di cocaina), rivelatasi,all’analisi tossicologica, dotata di elevata percentuale di purezza (57%) e idonea al confezionamento di ben 375 dosi; le circostanze del traffico,involgente fornitori d’oltre oceano, con modalità di trasferimento pianificate per impedire il rinvenimento dello stupefacente; la condottadell’imputato, che, dopo essersi procurato, appena un mese prima, oltre cento grammi di cocaina (benché di peggiore qualità), accettava diricevere una nuova consistente fornitura; il rinvenimento nella sua abitazione di 3.700 euro in contanti, verosimilmente non riconducibili a guadagni e risparmi.

4.- In punto di non manifesta infondatezza, la Corte rimettente ha rilevato il contrasto della norma censurata in relazione a distintiparametri costituzionali.4.1.- In primo luogo, l’ordinanza denuncia una violazione del principio della riserva di legge in materia penale, di cui all’art. 25, secondocomma, Cost. A tal fine, richiamandosi all’ordinanza della Corte di cassazione, sezione sesta penale, del 12 gennaio 2017, con cui la SupremaCorte aveva a sua volta sollevato un’analoga questione di legittimità costituzionale (decisa da questa Corte con ordinanza n. 184 del 2017 nelsenso della manifesta inammissibilità), la Corte d’appello rimettente rileva che, proprio in virtù del citato principio della riserva di legge, gliinterventi in materia penale volti ad ampliare le fattispecie di reato o a inasprire le sanzioni appartengono al monopolio esclusivo dellegislatore, di modo che in tali casi non vi sarebbe spazio di azione per sentenze manipolative in malam partem della Corte costituzionale. Diqui la questione di legittimità costituzionale sul vigente art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, volta a ripristinare il più mite trattamentosanzionatorio, già introdotto nel 2006, da sei a venti anni di reclusione.

4.2.- In secondo luogo, la Corte rimettente evidenzia il difetto di ragionevolezza della dosimetria della pena prevista dal vigente art. 73,comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, che emergerebbe nel raffronto con il trattamento sanzionatorio previsto per il fatto di lieve entità (da seimesi a quattro anni di reclusione) dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 e con quello previsto per le cosiddette «droghe leggere» (dadue a sei anni di reclusione) dall’art. 73, comma 4, del d.P.R. n. 309 del 1990. Il giudice rimettente evidenzia che, nonostante la linea di demarcazione «naturalistica» tra le fattispecie «ordinaria» e «lieve» sia talvolta non netta, il «confine sanzionatorio» dell’una e dell’altraincriminazione è invece troppo e, quindi, irragionevolmente, distante (intercorrendo ben quattro anni di pena detentiva fra il minimo dell’una eil massimo dell’altra). Pertanto, il trattamento sanzionatorio sensibilmente diverso tra le fattispecie che si pongono sul confine tra l’ipotesi lievee l’ipotesi ordinaria determina un rapporto non ragionevole con il disvalore della condotta.Su tali basi è opinione del giudice rimettente che il riscontrato iato sanzionatorio fra le raffrontate fattispecie, «ordinaria» e «lieve», sia deltutto irragionevole e in quanto tale oggettivamente contrastante con l’art. 3 Cost., anche tenuto conto della sussistenza nell’ordinamento diulteriori norme, quale può essere la disposizione punitiva del fatto di lieve entità (art. 73, comma 5) o quella riguardante le droghe “leggere”(art. 73, comma 4), che possono offrire la grandezza predefinita che consente alla Corte costituzionale di rimediare all’irragionevolecommisurazione della pena.

4.3.- Connesso a quanto appena esposto è l’ultimo motivo denunciato dalla Corte rimettente, ossia il contrasto del trattamentosanzionatorio attualmente previsto dall’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990 «con il principio di proporzionalità e il principio dicolpevolezza e di necessaria finalizzazione rieducativa della pena, riconducibile al disposto degli artt. 3 e 27 Cost.».A tal fine, l’ordinanza richiama la sentenza di questa Corte n. 236 del 2016, secondo cui «l’art. 3 Cost. esige che la pena sia proporzionataal disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quelladi tutela delle posizioni individuali». L’ordinanza richiama anche le pronunce di questa Corte n. 251 del 2012 e n. 341 del 1994, onde sostenereche la pena per definirsi giusta e, così, svolgere la funzione rieducativa verso cui deve tendere in applicazione dell’art. 27 Cost., va adeguataall’effettiva responsabilità penale, in modo da assicurare la piena proporzionalità fra offesa, da una parte, e qualità e quantità della sanzione,dall’altra. Sicché una pena ingiustificatamente aspra tradirebbe, al contempo, il principio di proporzionalità della pena, sancito dall’art. 3 Cost.,e quello della finalità rieducativa della stessa, posto dal richiamato art. 27 Cost.

4.4.- Alla luce di quanto sin qui esposto, l’ordinanza di rimessione ribadisce che nell’ordinamento sono rinvenibili misure della pena checonsentono alla Corte di emendare i vizi della disposizione censurata senza sovrapporsi al ruolo del Parlamento e chiede di rispristinare iltrattamento sanzionatorio già introdotto nel 2006 in modo da ridurre il minimo edittale da otto a sei anni di reclusione.

5.- Con atto depositato il 26 settembre 2017, è intervenuto nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato edifeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, alla luce dei principi affermati da questaCorte nella sentenza n. 179 del 2017, secondo cui alla denunciata incongruenza normativa può porsi rimedio attraverso una pluralità disoluzioni tutte costituzionalmente legittime.A differenza di quanto opinato dal giudice a quo, l’interveniente ritiene che non possa ritenersi che l’unica soluzione all’uopo idonea siaquella di rispristinare il trattamento sanzionatorio già introdotto nel 2006, così riducendo il minimo edittale da otto a sei anni di reclusione.Pertanto, ravvisata la necessità di rispettare il primato delle valutazioni del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un finecostituzionalmente necessario, il Presidente del Consiglio dei ministri conclude chiedendo l’inammissibilità delle sollevate questioni dilegittimità costituzionale.

Considerato in diritto

1.- Con ordinanza iscritta al n. 113 del registro ordinanze 2017, la Corte d’appello di Trieste ha sollevato questioni di legittimitàcostituzionale dell’art. 73, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia didisciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), per contrasto congli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, nella parte in cui, per effetto della sentenza n. 32 del 2014 di questa Corte, prevede la pena minimaedittale di otto anni anziché di quella di sei anni introdotta con l’art. 4-bis del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti pergarantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno.Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina deglistupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente dellaRepubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2006, n. 49.

La disposizione censurata punisce con la pena edittale minima di otto anni di reclusione i casi “non lievi” di coltivazione, produzione,fabbricazione, estrazione, raffinazione, vendita, offerta o messa in vendita, cessione o ricezione, a qualsiasi titolo, distribuzione, commercio,acquisto, trasporto, esportazione, importazione, procacciamento ad altri, invio, passaggio o spedizione in transito, consegna per qualunquescopo o comunque di illecita detenzione, senza l’autorizzazione di cui all’art. 17 e fuori dalle ipotesi previste dall’art. 75 (si tratta dei casi didestinazione all’uso personale), di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle I e III previste dall’art. 14 (cosiddette droghe “pesanti”)dello stesso d.P.R. n. 309 del 1990 (d’ora in avanti anche: Testo unico sugli stupefacenti).1.1.- La Corte d’appello di Trieste ritiene che la previsione della pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni in luogo diquella di sei anni introdotta con l’art. 4-bis del d.l. n. 272 del 2005, come modificato, violi anzitutto l’art. 25 Cost., poiché il vigentetrattamento sanzionatorio sarebbe stato introdotto nell’ordinamento come conseguenza della sentenza n. 32 del 2014 di questa Corte, inviolazione del principio della riserva di legge in materia penale, in base al quale gli interventi volti a inasprire le sanzioni appartengono almonopolio esclusivo del legislatore, senza che in tale ambito vi sia margine di azione per le sentenze manipolative di questa Corte.

In secondo luogo, l’ordinanza denuncia una violazione dell’art. 3 Cost. in quanto la disposizione censurata delineerebbe un trattamentosanzionatorio irragionevole tenuto conto che, nonostante la linea di demarcazione «naturalistica» fra la fattispecie «ordinaria», di cui alladisposizione denunciata, e quella di «lieve entità», di cui all’art. 73, comma 5, del medesimo d.P.R. n. 309 del 1990, non sia sempre netta, il«confine sanzionatorio» dell’una e dell’altra incriminazione è invece eccessivamente e, quindi, irragionevolmente, distante (intercorrendo benquattro anni di pena detentiva fra il minimo dell’una e il massimo dell’altra).Infine, il giudice a quo sostiene che la predicata irragionevolezza contrasterebbe con gli artt. 3 e 27 Cost., poiché la previsione di una penaingiustificatamente aspra e sproporzionata rispetto alla gravità del fatto ne pregiudicherebbe la funzione rieducativa.

2.- La questione sollevata in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost. non è ammissibile.

L’ordinanza lamenta l’illegittimità dell’inasprimento della pena determinatosi in conseguenza della sentenza di questa Corte n. 32 del2014, in riferimento alle fattispecie ordinarie (non lievi) di traffico di stupefacenti, disciplinate dall’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del1990. Secondo il giudice rimettente, questa Corte, intervenendo in materia penale in malam partem, avrebbe violato la riserva di legge stabilitaall’art. 25 Cost.La questione così prospettata si risolve in una censura degli effetti della sentenza di questa Corte n. 32 del 2014, di cui costituisce unimproprio tentativo di impugnazione. In quanto tale, la questione è inammissibile dato che «[c]ontro le decisioni della Corte costituzionale nonè ammessa alcuna impugnazione» (art. 137, terzo comma, Cost.; ex multis, sentenza n. 29 del 1998, ordinanze n. 184 del 2017, n. 261 del2016, n. 108 del 2001, n. 461 del 1999, n. 220 del 1998, n. 7 del 1991, n. 203, n. 93 e n. 27 del 1990, n. 77 del 1981).Per altro verso, occorre evidenziare che non trova riscontro nella giurisprudenza costituzionale l’assunto da cui muove il giudice rimettenteper cui la riserva di legge di cui all’art. 25 Cost. precluderebbe in radice a questa Corte la possibilità di intervenire in materia penale con effettimeno favorevoli. Invero, la giurisprudenza di questa Corte, ribadita anche recentemente (sentenze n. 236 del 2018 e n. 143 del 2018), ammettein particolari situazioni interventi con possibili effetti in malam partem in materia penale (sentenze n. 32 e n. 5 del 2014, n. 28 del 2010, n. 394del 2006), restando semmai da verificare l’ampiezza e i limiti dell’ammissibilità di tali interventi nei singoli casi. Certamente il principio dellariserva di legge di cui all’art. 25 Cost. rimette al legislatore «la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni da applicare» (sentenza n. 5del 2014), ma non esclude che questa Corte possa assumere decisioni il cui effetto in malam partem non discende dall’introduzione di nuovenorme o dalla manipolazione di norme esistenti, ma dalla semplice rimozione di disposizioni costituzionalmente illegittime. In tal caso,l’effetto in malam partem è ammissibile in quanto esso è una mera conseguenza indiretta della reductio ad legitimitatem di una normacostituzionalmente illegittima, la cui caducazione determina l’automatica riespansione di altra norma dettata dallo stesso legislatore (sentenza n. 236 del 2018).

Analogamente, questa Corte, con la sentenza n. 32 del 2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l.n. 272 del 2005, come convertito, per vizi procedimentali relativi all’art. 77, secondo comma, Cost. In esito alla dichiarazione di illegittimitàcostituzionale del suddetto decreto-legge, ha ripreso applicazione l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, con effetti in parte più miti e in parte piùseveri. QQuesta Corte perciò si è limitata a rimuovere dall’ordinamento le disposizioni costituzionalmente illegittime sottoposte al suo esame,nello svolgimento del compito assegnatole dall’art. 134 Cost., mentre la conseguente configurazione del trattamento sanzionatorio dei reati inmateria di stupefacenti è frutto di precedenti scelte del legislatore che sono tornate ad avere applicazione dopo la declaratoria di illegittimitàcostituzionale di cui alla sentenza n. 32 del 2014 e che sono poi state modificate con il decreto-legge 20 marzo 2014, n. 36 (Disposizioniurgenti in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza,di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, nonché di impiego dei medicinali), convertito, con modificazioni, nellalegge 16 maggio 2014, n. 79, che ha ridotto il massimo edittale della pena prevista per i fatti lievi e ha apportato ulteriori moltepliciadattamenti alla normativa, conseguenti alla citata sentenza n. 32 del 2014.

3.- Le ulteriori censure, concernenti l’irragionevolezza e la sproporzione del trattamento sanzionatorio, sollevate con riferimento agli artt.3 e 27 Cost., meritano un esame congiunto perché fra loro strettamente interconnesse.

4.- L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce l’inammissibilità di tali questioni, in considerazione del fatto che alla denunciataincongruenza normativa può porsi rimedio attraverso una pluralità di soluzioni tutte costituzionalmente legittime, sicché spetterebbe soltanto allegislatore, e non a questa Corte, emendare i vizi della disposizione censurata.

4.1. – Vero è che questa Corte finora si è sempre pronunciata nel senso della inammissibilità delle questioni che sono state ripetutamentesollevate in riferimento all’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990 (sentenze n. 179 del 2017, n. 148 e n. 23 del 2016; ordinanza n. 184 del2017). Tuttavia le ragioni che hanno finora ostacolato l’esame nel merito non si ravvisano nel caso oggi in esame.

Nelle sentenze n. 148 e n. 23 del 2016 le questioni sono state dichiarate inammissibili per una pluralità di vizi delle ordinanze dirimessione, tra i quali l’indeterminatezza del petitum e la mancata individuazione di un trattamento sanzionatorio alternativo a quello in vigore,che consentisse a questa Corte di sanare i vizi di costituzionalità lamentati. Anche nell’ordinanza n. 184 del 2017 la Corte ha ravvisato negliatti introduttivi molteplici ragioni di inammissibilità connesse a vizi di rilevanza, a incompletezza della ricostruzione del quadro normativo, adaspetti di contraddittorietà della motivazione, al tentativo di impugnare una pronuncia di questa Corte in violazione dell’art. 137, terzo comma,Cost. e alla conseguente pretesa di far rivivere la disciplina sanzionatoria contenuta in una disposizione dichiarata costituzionalmenteillegittima, per vizi del procedimento legislativo ex art. 77 Cost.Diverse e, per alcuni aspetti più affini a quelle eccepite dall’Avvocatura nel presente giudizio, le ragioni sottese all’inammissibilitàpronunciata nella sentenza n. 179 del 2017. In tale decisione questa Corte ha ritenuto di non poter esaminare nel merito le questioni dilegittimità costituzionale sottoposte al suo esame, perché i giudici rimettenti non avevano individuato “soluzioni costituzionalmente obbligate”idonee a rimediare al vulnus costituzionale denunciato. In quel caso, si chiedeva alla Corte costituzionale di colmare il divario sanzionatorio trale due fattispecie di cui ai commi 1 e 5 dell’art. 73, parificando il minimo edittale previsto per il fatto non lieve al massimo edittale previsto peril fatto lieve. Questa Corte ha escluso che debba «ritenersi imposto, dal punto di vista costituzionale, che a continuità dell’offesa debbanecessariamente corrispondere una continuità di risposta sanzionatoria» (sentenza n. 179 del 2017), ben potendo sussistere «spazi didiscrezionalità discontinua» nel trattamento sanzionatorio. Sicché la richiesta di reductio ad legitimitatem del censurato comma 1 dell’art. 73del d.P.R. n. 309 del 1990 attraverso la parificazione del minimo edittale per il fatto non lieve da esso previsto al massimo edittale (quattro annidi reclusione ed euro 10329,00 di multa) comminato per il fatto lieve di cui al successivo comma 5, non poteva ritenersi costituzionalmenteobbligata.

4.2.- Anche l’eccezione di inammissibilità sollevata in questo giudizio si basa su ragioni connesse all’assenza di soluzionicostituzionalmente obbligate, ma si rivela infondata alla luce degli approdi cui è giunta la più recente giurisprudenza costituzionale relativaall’ampiezza e ai limiti dell’intervento di questa Corte sulla misura delle sanzioni penali stabilite dal legislatore, sviluppatasi segnatamente apartire dalla sentenza n. 236 del 2016.In particolare, con la recente sentenza n. 233 del 2018, questa Corte, dopo aver ribadito che le valutazioni discrezionali di dosimetria dellapena spettano anzitutto al legislatore, ha precisato che non sussistono ostacoli al suo intervento quando le scelte sanzionatorie adottate dallegislatore si siano rivelate manifestamente arbitrarie o irragionevoli e il sistema legislativo consenta l’individuazione di soluzioni, anche alternative tra loro, che siano tali da «ricondurre a coerenza le scelte già delineate a tutela di un determinato bene giuridico, procedendopuntualmente, ove possibile, all’eliminazione di ingiustificabili incongruenze» (in tal senso richiamando la sentenza n. 236 del 2016).Similmente, la sentenza n. 222 del 2018 di poco precedente aveva già ritenuto che al fine di consentire l’intervento correttivo di questa Corte non è necessario che esista, nel sistema, un’unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di sostituirsi a quella dichiarataillegittima, come quella prevista per una norma avente identica struttura e ratio, idonea a essere assunta come tertium comparationis, essendosufficiente che il «sistema nel suo complesso offra alla Corte “precisi punti di riferimento” e soluzioni “già esistenti” (sentenza n. 236 del2016)», ancorché non “costituzionalmente obbligate”, «che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima».In definitiva, fermo restando che non spetta alla Corte determinare autonomamente la misura della pena (sentenza n. 148 del 2016),l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale che riguardano l’entità della punizione risulta condizionata non tanto dalla presenzadi un’unica soluzione costituzionalmente obbligata, quanto dalla presenza nel sistema di previsioni sanzionatorie che, trasposte all’interno dellanorma censurata, garantiscano coerenza alla logica perseguita dal legislatore (sentenza n. 233 del 2018). Nel rispetto delle scelte di politicasanzionatoria delineate dal legislatore e ad esso riservate, occorre, infatti, evitare che l’ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacatodi legittimità costituzionale proprio in ambiti in cui è maggiormente impellente l’esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, tra cui massimamente la libertà personale, incisi dalle scelte sanzionatorie del legislatore.

Alla luce di tali principi, le questioni prospettate dalla Corte d’appello di Trieste superano il vaglio di ammissibilità, avendo individuatonell’ordinamento quale soluzione costituzionalmente adeguata, benché non obbligata, l’abbassamento del minimo edittale per il fatto previstodal comma 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 da otto a sei anni, misura a suo tempo prevista dall’art. 4-bis del d.l. n. 272 del 2005 etuttora in vigore, come pena massima, ai sensi del comma 4 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 per la fattispecie ordinaria delle droghe”leggere” di cui alle tabelle II e IV previste dall’art. 14 del d.P.R. n. 309 del 1990, come sostituito dall’art. 1, comma 3, del citato d.l. n. 36 del2014, come convertito.4.3.- D’altra parte, l’intervento di questa Corte non è ulteriormente differibile, posto che è rimasto inascoltato il pressante invito rivolto allegislatore affinché procedesse «rapidamente a soddisfare il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio, risanando lafrattura che separa le pene previste per i fatti lievi e per i fatti non lievi dai commi 5 e 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990», anche inconsiderazione «dell’elevato numero dei giudizi, pendenti e definiti, aventi ad oggetto reati in materia di stupefacenti» (sentenza n. 179 del2017).Da ultimo, ma non per importanza, deve aggiungersi che la questione in esame attiene a diritti fondamentali, che non tollerano ulterioricompromissioni, ragion per cui reiterate sono state le richieste di intervento rivolte a questa Corte dai giudici di merito e di legittimità.

5.- Nel merito le questioni sono fondate.

Questa Corte ha già avuto modo di evidenziare che la divaricazione di ben quattro anni venutasi a creare tra il minimo edittale di penaprevisto dal comma 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e il massimo edittale della pena comminata dal comma 5 dello stesso articolo «haraggiunto un’ampiezza tale da determinare un’anomalia sanzionatoria» (sentenza n. 179 del 2017) all’esito di una articolata evoluzionelegislativa e giurisprudenziale che occorre richiamare per sommi capi.

5.1.- L’originario art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 differenziava il trattamento sanzionatorio dei reati aventi ad oggetto le droghe “pesanti”(puniti al comma 1 con la reclusione da otto a venti anni e con la multa) rispetto a quello dei reati aventi ad oggetto le droghe “leggere” (punitial comma 4 con la reclusione da due a sei anni e con la multa). La stessa distinzione tra droghe “pesanti” e “leggere” era riproposta anche per ifatti di lieve entità, in relazione ai quali il comma 5 del medesimo art. 73 stabiliva un’attenuante ad effetto speciale cosiddetta autonoma oindipendente, che puniva con la reclusione da uno a sei anni i fatti concernenti le droghe “pesanti” e da sei mesi a quattro anni quelli relativialle droghe “leggere”, oltre alle rispettive sanzioni pecuniarie.Il d.l. n. 272 del 2005, con l’art. 4-bis (poi dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 32 del 2014), aveva soppresso ladistinzione fondata sul tipo di sostanza stupefacente, comminando la pena della reclusione da sei a venti anni e la multa per i fatti non lievi,nonché la pena della reclusione da uno a sei anni e la multa per i casi in cui fosse applicabile l’attenuante del fatto di lieve entità.

Con l’art. 2, comma 1, lettera a), del successivo decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei dirittifondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2014,n. 10, è stato sostituito il comma 5 dell’art. 73, trasformando la circostanza attenuante del fatto di lieve entità in fattispecie autonoma di reato eriducendo il limite edittale massimo della pena detentiva da sei a cinque anni di reclusione. Tale modifica non è stata intaccata dalla sentenza n.32 del 2014, a seguito della quale hanno ripreso vigore le disposizioni dell’art. 73 nella originaria formulazione.Infine, il legislatore è tornato nuovamente sulla materia, con il d.l. n. 36 del 2014, convertito, con modificazioni, nella legge n. 79 del 2014,che tra l’altro, all’art. 1, comma 24-ter, lettera a), ha ulteriormente diminuito il massimo edittale della pena prevista per il fatto di lieve entità,fissandolo nella misura di anni quattro di reclusione oltre la multa.È a seguito di questa stratificazione di interventi legislativi e giurisprudenziali che si è progressivamente scavata la lamentata profondafrattura che separa il trattamento sanzionatorio del fatto di non lieve entità da quello del fatto lieve, senza che il legislatore abbia provveduto acolmarla nonostante i gravi inconvenienti applicativi che essa può determinare, come questa Corte ha rilevato nelle sue precedenti pronunce inmateria.

5.2.- Anche se il costante orientamento della Corte di cassazione è nel senso che la fattispecie di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5,può essere riconosciuta solo nella ipotesi di minima offensività penale della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, siadagli altri parametri richiamati dalla disposizione (ex multis, da ultimo, Corte di cassazione, sezione settima penale, ordinanza 24 gennaio-12febbraio 2019, n. 6621; Corte di cassazione, sezione settima penale, ordinanza 20 dicembre 2018-24 gennaio 2019, n. 3350; Corte dicassazione, sezione quarta penale, sentenza 13 dicembre 2018-18 gennaio 2019, n. 2312), indubitabilmente molti casi si collocano in una “zonagrigia”, al confine fra le due fattispecie di reato, il che rende non giustificabile l’ulteriore permanenza di un così vasto iato sanzionatorio,evidentemente sproporzionato sol che si consideri che il minimo edittale del fatto di non lieve entità è pari al doppio del massimo edittale delfatto lieve. L’ampiezza del divario sanzionatorio condiziona inevitabilmente la valutazione complessiva che il giudice di merito deve compiereal fine di accertare la lieve entità del fatto (ritenuta doverosa da Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 settembre-9 novembre 2018, n. 51063), con il rischio di dar luogo a sperequazioni punitive, in eccesso o in difetto, oltre che a irragionevoli difformità applicative inun numero rilevante di condotte.Ne deriva la violazione dei principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., oltre che del principio di rieducazione della pena di cui all’art. 27 Cost. Infatti, come questa Corte ha chiaramente affermato ancora di recente nella sentenza n. 222 del 2018, allorché le pene comminate appaiano manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto previsto quale reato, si profila un contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., giacché unapena non proporzionata alla gravità del fatto si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa (ex multis, sentenze n. 236 del 2016, n. 68del 2012 e n. 341 del 1994). I principi di cui agli artt. 3 e 27 Cost. «esigono di contenere la privazione della libertà e la sofferenza inflitta allapersona umana nella misura minima necessaria e sempre allo scopo di favorirne il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione ereinserimento sociale» (sentenza n. 179 del 2017) in vista del «progressivo reinserimento armonico della persona nella società, che costituiscel’essenza della finalità rieducativa» della pena (da ultimo, sentenza n. 149 del 2018). Al raggiungimento di tale impegnativo obiettivo posto daiprincipi costituzionali è di ostacolo l’espiazione di una pena oggettivamente non proporzionata alla gravità del fatto, quindi, soggettivamentepercepita come ingiusta e inutilmente vessatoria e, dunque, destinata a non realizzare lo scopo rieducativo verso cui obbligatoriamente devetendere.

5.3.- Alla stregua delle considerazioni che precedono, non può essere ulteriormente differito l’intervento di questa Corte, chiamata a porrerimedio alla violazione dei principi costituzionali evocati, con conseguente accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale dell’art.73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990 nei termini in cui sono prospettate dal giudice rimettente, il quale chiede che sia dichiaratal’illegittimità costituzionale di tale disposizione, nella parte in cui prevede un minimo edittale di otto anni, anziché di sei anni di reclusione.La misura della pena individuata dal rimettente, benché non costituzionalmente obbligata, non è tuttavia arbitraria: essa si ricava daprevisioni già rinvenibili nell’ordinamento, specificamente nel settore della disciplina sanzionatoria dei reati in materia di stupefacenti, e sicolloca in tale ambito in modo coerente alla logica perseguita dal legislatore.Il giudice rimettente, infatti, trae l’indicazione della misura della pena minima per i fatti non lievi anzitutto dalla previsione introdotta conl’art. 4-bis del d.l. n. 272 del 2005 per i medesimi fatti, che ancora conserva viva traccia applicativa nell’ordinamento in considerazione deglieffetti non retroattivi della sentenza n. 32 del 2014. Inoltre, sei anni è altresì la pena massima – a cui pure fa riferimento l’ordinanza dirimessione – prevista dal vigente comma 4 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 per i fatti di non lieve entità aventi ad oggetto le sostanze dicui alle tabelle II e IV previste dal richiamato art. 14 del d.P.R. n. 309 del 1990. Sempre in sei anni il legislatore aveva altresì individuato lapena massima per i fatti di lieve entità concernenti le droghe “pesanti”, vigente il testo originario del d.P.R. n. 309 del 1990, misura mantenutacome limite massimo della pena per i fatti lievi anche dal successivo d.l. n. 272 del 2005 che pure ha eliminato dal comma 5 la distinzione tradroghe “pesanti” e droghe “leggere”.

In una parola, la pena di sei anni è stata ripetutamente indicata dal legislatore come misura adeguata ai fatti “di confine”, che nell’articolatoe complesso sistema punitivo dei reati connessi al traffico di stupefacenti si pongono al margine inferiore delle categorie di reati più gravi o aquello superiore della categoria dei reati meno gravi. In tale contesto, è appropriata la richiesta di ridurre a sei anni di reclusione la penaminima per i fatti di non lieve entità di cui al comma 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, al fine di porre rimedio ai vizi di illegittimitàcostituzionale denunciati. Il giudice rimettente ha infatti individuato – secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza costituzionale più recente- una previsione sanzionatoria già rinvenibile nell’ordinamento che, trasposta all’interno della norma censurata, si situa coerentemente lungo ladorsale sanzionatoria prevista dai vari commi dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e rispetta la logica della disciplina voluta dal legislatore (sentenza n. 233 del 2018).

È appena il caso di osservare che la misura sanzionatoria indicata, non costituendo una opzione costituzionalmente obbligata, restasoggetta a un diverso apprezzamento da parte del legislatore sempre nel rispetto del principio di proporzionalità (sentenza n. 222 del 2018).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unicodelle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati ditossicodipendenza), nella parte in cui in cui prevede la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni.Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 gennaio 2019.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Marta CARTABIA, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l’8 marzo 2019.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA