Sezione civile

a cura di Andrea Penta

SEZIONI UNITE

Nel procedimento disciplinare riguardante i magistrati sono pienamente utilizzabili le intercettazioni telefoniche o ambientali effettuate in un procedimento penale, purché siano state legittimamente disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali, non ostandovi i limiti di cui all’art. 270 c.p.p., riferibile al solo procedimento penale deputato all’accertamento delle responsabilità penali.

Con riferimento in particolare alle norme applicabili “ratione temporis”, l’art. 6 del d.lgs. n. 216 del 2017 – che ha parzialmente esteso ai procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni la disciplina delle intercettazioni prevista per i delitti di criminalità organizzata dall’art. 13 del d.l n. 152 del 1991, convertito con modif. in l. n. 203 del 1991 ed integrato con d.l. n. 306 del 1992, conv. con modif. in l. n. 356 del 1992 – è entrato in vigore il 26/1/2018, non essendo tale disposizione indicata tra quelle per le quali l’art. 9 del medesimo decreto legislativo ha disposto il differimento della loro entrata in vigore; la successiva modifica di tale norma, introdotta dall’art. 1, comma 3, della l. n. 3 del 2019 – la quale, abrogando il comma 2 dell’art. 6 del d.lgs. n. 216 cit. ha eliminato la restrizione dell’uso del captatore informatico nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p., così consentendo l’intercettazione in tali luoghi anche se non vi è motivo di ritenere che vi si stia svolgendo attività criminosa – è a sua volta entrata in vigore, a differenza di altre disposizioni della medesima legge per le quali il legislatore ha differito l’entrata in vigore all’1/1/2020, il decimoquinto giorno dalla pubblicazione della legge sulla G.U., avvenuta il 16 gennaio 2019. Pertanto, possono essere utilizzate nel procedimento disciplinare le intercettazioni effettuate con captatore informatico nella vigenza di tali norme ed in conformità della disciplina dalle stesse introdotta (Sez. Un. civ., sentenza n. 741 del 15 gennaio 2020, Pres. P. Curzio, Rel. M. G. Sambito).

La medesima pronuncia ha affermato che, in tema di composizione della Sezione disciplinare del CSM, nell’ipotesi in cui, per effetto di astensioni e dimissioni di consiglieri appartenenti alla categoria dei magistrati requirenti, il collegio non possa essere integrato da un supplente avente pari funzioni  e sia necessario procedere a nuove elezioni con i relativi tempi tecnici ed il conseguente blocco dell’attività disciplinare cui il Consiglio è tenuto ex art. 105 Cost., deve darsi un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 6 della l.  n. 195 del 1958, intendendo estensivamente il concetto di “supplente corrispondente”, in modo da salvaguardare l’indefettibilità e la continuità della funzione disciplinare attribuita dalla Costituzione direttamente al Consiglio superiore. Ne consegue che, in tale situazione, legittimamente il CSM può procedere, come avvenuto nella specie, alla sostituzione di un componente requirente che sia stato ricusato con un componente giudicante, atteso che l’unico limite va ravvisato nel fatto che la sostituzione non può avvenire con un componente laico se il ricusato è un togato, o viceversa, perché la Costituzione impone una determinata proporzione tra laici e togati e tale equilibrio non può essere alterato.

Decidendo su questione di massima di particolare importanza, hanno enunciato i seguenti principi di diritto: “In tema di notificazioni di atti processuali, posto che nel quadro giuridico novellato dalla direttiva n. 2008/6/CE del Parlamento e del Consiglio del 20 febbraio 2008 è prevista la possibilità per tutti gli operatori postali di notificare atti giudiziari, a meno che lo Stato non evidenzi e dimostri la giustificazione oggettiva ostativa, è nulla e non inesistente la notificazione di atto giudiziario eseguita dall’operatore di posta privata senza relativo titolo abilitativo nel periodo intercorrente fra l’entrata in vigore della suddetta direttiva ed il regime introdotto dalla legge n. 124 del 2017.

La sanatoria della nullità della notificazione di atto giudiziario eseguita dall’operatore di poste private per raggiungimento dello scopo dovuto alla costituzione della controparte non rileva ai fini della tempestività del ricorso, a fronte della mancanza di certezza legale della data di consegna del ricorso medesimo all’operatore, dovuta all’assenza di poteri certificativi dell’operatore, perché sprovvisto di titolo abilitativo” (Sez. Un. civ., sentenza n. 299 del 10 gennaio 2020, Pres. G. Mammone, Rel. A.M. Perrino).

Decidendo su questione di massima di particolare importanza, in tema di rapporto di lavoro giornalistico, hanno affermato che l’attività svolta dal collaboratore fisso espletata con continuità, vincolo di dipendenza e responsabilità di un servizio rientra nel concetto di “professione giornalistica”. Ai fini della legittimità del suo esercizio è condizione necessaria e sufficiente la iscrizione del collaboratore fisso nell’albo dei giornalisti, sia esso elenco dei pubblicisti o dei giornalisti professionisti: conseguentemente, non è affetto da nullità per violazione della norma imperativa contenuta nell’art. 45 della l. n. 69 del 1963  il contratto di lavoro subordinato del collaboratore fisso iscritto nell’elenco dei pubblicisti, anche nel caso in cui svolga l’attività giornalistica in modo esclusivo (Sez. Un. civ., sentenza n. 1867 del 28 gennaio 2020, Pres. G. Mammone, Rel. A Doronzo).

SEZIONE I

In tema di giudizio di opposizione alla stima per la determinazione dell’indennità di espropriazione, ha affermato che la locuzione «se del caso», di cui all’art. 54, comma 3, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità. (Testo A)» (vigente prima della modifica introdotta dal d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150), dev’essere interpretata nel senso che essa impone l’evocazione in giudizio anche del beneficiario dell’espropriazione, quale litisconsorte necessario, ove quest’ultimo sia soggetto diverso dall’espropriante e dal promotore, non essendo consentito rimettere alla valutazione dell’espropriato, secondo il suo interesse, la citazione in giudizio del beneficiario, in contrasto con la finalità deflattiva del contenzioso ispiratrice della nuova normativa (Prima Sezione civile, ordinanza n. 1090 del 20 gennaio 2020, Pres. P. Campanile, est. C. Parise).  

Decidendo sulla domanda di revisione dell’assegno divorzile determinato anteriormente all’evoluzione giurisprudenziale recata da Sez. 1, 10 maggio 2017, n. 11504, e Sez. U, 11 luglio 2018, n. 18287, in ordine alla sua natura e funzione, ha affermato che tale mutamento dell’orientamento della S.C. non integra, ex se, i giustificati motivi sopravvenuti richiesti dall’art. 9, comma 1, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 per la revisione dell’assegno, atteso che – in forza della formazione rebus sic stantibus del giudicato sulle statuizioni cd. determinative e del carattere meramente ricognitivo dell’esistenza e del contenuto della regulaiuris proprio della funzione nomofilattica, che non soggiace al principio di irretroattività–il mutamento sopravvenuto delle condizioni patrimoniali degli ex coniugiattiene agli elementi di fatto e deve essere accertato dal giudice ai fini del giudizio di revisione, da rendersi, poi, al lume del diritto vivente (Prima Sezione civile, sentenza n. 1119 del20gennaio 2020, Pres.M.C. Giancola, est. M.G.C. Sambito).

Ha enunciato i seguenti principi di diritto: a) «Nel caso di mora del socio nell’esecuzione dei versamenti, dovuti alla società a titolo di conferimento per il debito da sottoscrizione dell’aumento del capitale sociale deliberato dall’assemblea nel corso della vita della società, il socio non può essere escluso, essendo egli titolare della partecipazione sociale sin dalla costituzione della società; pertanto, ferma la permanenza del socio in società per la quota già posseduta, l’assemblea deve deliberare la riduzione del capitale sociale solo per la misura corrispondente al debito di sottoscrizione derivante dall’aumento non onorato, fatto salvo solo il caso in cui lo statuto preveda l’indivisibilità della quota»; b) «Il socio moroso di s.r.l. non è ammesso, secondo il disposto dell’art. 2466 c.c., ad esprimere il proprio voto nelle decisioni e deliberazioni assembleari, ma non perde anche il diritto di controllo sugli affari sociali, ai sensi dell’art. 2476, comma 2, c.c., sino a che egli resti parte della compagine societaria in esito al procedimento intrapreso dagli amministratori» (Prima Sezione civile, sentenza n. 1185 del 21 gennaio 2020, Pres. G. Bisogni, est. L. Nazzicone).

SEZIONE II

Ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite delle questioni di massima, di particolare importanza, concernenti (a) l’individuazione dell’ordinamento cui fare riferimento per qualificare istituti e materie in ambito successorio, ai fini dell’operatività degli artt. 13, comma 1, 15 e 46 della l. n. 218 del 1995, (b) l’applicabilità o meno del rinvio ex art. 13, comma 1, l. n. 218 cit., allorché la legge straniera richiamata sia in contrasto con il principio di unitarietà della successione fissato dal successivo art. 46 della medesima legge, (c) i limiti di operatività della legge straniera richiamata, ove la stessa contempli il cd. principio della scissione, nonché i suoi riflessi sulla validità del titolo successorio e, infine, (d) le conseguenze – sulla regolamentazione del fenomeno successorio – del rinvio alla “lex rei sitae” contenuto nella norma straniera richiamata (Sezione Seconda civile, ord. inter. 3.1.2020, n. 18, Pres. P. D’Ascola, Rel. M. Criscuolo).

Ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione, oggetto di contrasto, concernente la natura, i limiti e l’opponibilità del diritto d’uso esclusivo sui beni comuni (Sezione Seconda civile, ord. 2.12.2019, n. 31420, Pres. L.G. Lombardo, Rel. A. Scarpa).

Ha affermato che, nel processo civile, l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato è esclusa se il richiedente è assistito da più di un difensore; del pari, ove tale ammissione sia stata già concessa, i suoi effetti cessano dal momento in cui il beneficiario nomina un secondo difensore di fiducia (Sezione Seconda civile, sentenza 27.1.2020, n. 1736, Pres. L.G. Lombardo, Rel. C. Besso Marcheis).

Ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c., la questione di massima di particolare importanza relativa alla natura del rapporto di lavoro  del direttore generale di una ASL ed al suo assoggettamento alla disciplina prevista per i dipendenti pubblici, con particolare riferimento ai limiti di applicabilità della normativa sulle incompatibilità di cui all’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, ponendo la conseguente questione se la violazione del carattere di esclusività del rapporto  previsto dall’art. 3 bis, comma 8, del d.lgs. n. 502 del 1992, possa costituire, non solo, motivo di risoluzione del contratto con la Regione, ma determinare anche l’irrogazione di una sanzione pecuniaria non prevista dall’ordinamento. (Sezione 2, Ord. interlocutoria, n. 24083/2019, Pres. L. Orilia, Est. M. Falaschi).

Ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite in ordine alla risoluzione della questione di massima, di particolare importanza, concernente la compatibilità o meno tra l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato e la richiesta del difensore di distrazione, in proprio favore, delle spese legali ex art. 93 c.p.c. (Sezione Seconda civile, ord. int. 29.1.2020, nn. 1988 e 1989, Pres. A. Scalisi, Rel. C. Besso Marcheis).

Ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite in ordine alla risoluzione della questione di massima, di particolare importanza, relativa alla possibilità o meno di contestare gli esiti della consulenza tecnica d’ufficio, per la prima volta, in comparsa conclusionale, nonché alle conseguenze processuali, anche di carattere intertemporale, discendenti dalla soluzione prescelta (Sezione Seconda civile, ord. int. 29.1.2020, n. 1990, Pres. A. Scalisi, Rel. C. Besso Marcheis).

Ha affermato che, ove i coniugi raggiungano, in sede di negoziazione assistita, un accordo di separazione consensuale ex art. 6 del d.l. n. 132 del 2014, conv. dalla l. n. 162 del 2014, comprensivo del trasferimento di diritti immobiliari, la trascrizione di tale accordo richiede, ai sensi dell’art. 5, comma 3, del medesimo d.l. n. 132, l’autenticazione del relativo verbale da parte di un pubblico ufficiale a ciò autorizzato (Sezione Seconda civile, sentenza 21.1.2020, n. 1202, Pres. S. Petitti, Rel. L. Varrone).

Ha chiarito, in tema di vendita di beni di consumo affetti da vizio di conformità, che, ove la riparazione o la sostituzione risultino, rispettivamente, impossibile ovvero eccessivamente onerosa, va riconosciuto al consumatore, benché non espressamente contemplato dall’art. 130, comma 2, cod. consumo, ed al fine di garantire al medesimo uno standard di tutela più elevato rispetto a quello realizzato dalla Direttiva n. 44 del 1999, il diritto di agire per il solo risarcimento del danno, quale diritto attribuitogli da altre norme dell’ordinamento, secondo quanto disposto dall’art. 135, comma 2, del cod. consumo (Sezione Seconda civile, sentenza 20.1.2020, n. 1082, Pres. F. Manna, Rel. G. Tedesco).

SEZIONE III

L’art. 8 sexies, comma 2, d.l. n. 208 del 2008, conv. con modif. dalla l. n. 13 del 2009, nel prescrivere la restituzione della quota non dovuta di tariffa da parte dei gestori del servizio idrico integrato entro il termine di cinque anni decorrente dal 1° ottobre 2009, fatta salva la deduzione degli oneri derivanti dalle attività di progettazione, realizzazione o completamento già avviate, non ha introdotto una condizione di procedibilità della relativa domanda di rimborso proposta dall’utente, ma, in assenza di una espressa previsione legislativa di tale contenuto, deve essere interpretato, in un’ottica costituzionalmente orientata, nel senso che i gestori possono dilazionare fino a cinque anni il pagamento, non solo erogando l’importo in forma rateale, ma anche compensandolo con la somma comunque spettante per il complessivo servizio assicurato; in particolare, qualora detta dilazione consegua alla necessità di dedurre i summenzionati oneri, il credito dell’utente diviene illiquido e, quindi, non può essere azionato, gravando, peraltro, sul debitore convenuto l’onere di provare la ricorrenza del fatto impeditivo dell’immediato adempimento, ai sensi dell’art. 2697, comma 2, c.c.  (Sezione 3, Sentenza 11 febbraio 2020, n. 3314, Presidente A. Amendola, Relatore S.G. Guizzi).

Con la medesima pronuncia, ha precisato che alla mancanza ed alla temporanea inattività degli impianti di depurazione, che giustificano il diritto dell’utente di chiedere ai gestori del servizio idrico integrato la restituzione della quota non dovuta di tariffa, va equiparata la “assoluta insufficienza” di detti impianti poiché, alla luce delle sentenze della Corte costituzionale n. 39 del 2010 e n. 335 del 2008, il pagamento di un servizio di depurazione del quale non si è comunque potuto usufruire per fatto non imputabile è da ritenere, in ogni caso, indebito (Sezione 3, Sentenza 11 febbraio 2020, n. 3314, Presidente A. Amendola, Relatore S.G. Guizzi).

Ha rimesso all’esame del Primo Presidente, per la valutazione dell’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della S.C., la seguente questione di massima di particolare importanza:

– se l’art. 122 del codice delle assicurazioni private debba interpretarsi, alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, nel senso che la nozione di circolazione su aree equiparate alle strade di uso pubblico comprenda e sia riferita a quella su ogni spazio in cui il veicolo possa essere utilizzato in modo conforme alla sua funzione abituale (Sezione III, Ordinanza interlocutoria 18 dicembre 2019, n. 33675, Presidente A. Amendola, Relatore P. Porreca).

Ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 62 ss. d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, nella parte in cui istituiscono i giudici ausiliari d’appello e prevedono l’assegnazione di tali giudici onorari all’esercizio di funzioni giurisdizionali in organi collegiali, per contrasto con gli artt. 106, comma 2, Cost. («La legge sull’ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli.») e 102 Cost. (Terza Sezione civile, ordinanze interlocutorie n. 32032 del 9 dicembre 2019, Pres. A. Amendola, est. S. Olivieri, e n. 32033 del 9 dicembre 2019, Pres. A. Amendola, est. C. Graziosi).

Ha rimesso all’esame del Primo Presidente, per la valutazione dell’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della S.C., le seguenti questioni, oggetto di contrasto nella giurisprudenza di legittimità:

– se, in materia di assicurazione sulla vita in favore di un terzo, l’espressione “legittimi eredi”, ove presente nel contratto, sia meramente descrittiva di coloro che, in astratto, rivestono la qualità di eredi legittimi o si riferisca, invece, agli effettivi destinatari dell’eredità;

– se la designazione degli eredi in sede testamentaria possa interferire, in sede di liquidazione dell’indennizzo, con la individuazione astratta dei legittimi eredi;

– se, in quest’ultima ipotesi, il beneficio indennitario debba ricalcare la misura delle quote ereditarie spettanti per legge o se la natura di diritto proprio, sancita dall’art. 1920, ultimo comma, c.c., imponga una divisione di tale indennizzo fra gli aventi diritto in parti eguali (Sezione III, Ordinanza interlocutoria 16 dicembre 2019, n. 33195, Presidente R. Vivaldi, Relatore A. Di Florio).

Ha affermato, in tema di testimoni di giustizia, che le “misure di assistenza” ex art. 16 ter, comma 1, lett. b), d.l. n. 8 del 1991, conv. con modif. dalla l. n. 82 del 1991, e la “capitalizzazione” prevista in alternativa al costo dell’assistenza ai sensi dell’art. 16 ter, comma 1, lett. c), del medesimo d.l. hanno natura indennitaria e non risarcitoria, come si desume dal fatto che sono erogate discrezionalmente dall’autorità competente e che non presuppongono la commissione di un illecito, ma solo la sottoposizione dell’interessato ad un programma di protezione; ne consegue che il relativo credito non è sottratto alla cd. comunione “de residuo” di cui all’art. 179, comma 1, lett. e), c.c. (Sezione 3, Sentenza 11 febbraio 2020, n. 3313, Presidente A. Amendola, Relatore S.G. Guizzi).

Ha rimesso all’esame del Primo Presidente, per la valutazione dell’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, le seguenti questioni, oggetto di contrasto nella giurisprudenza e, comunque, ritenute di massima importanza:

– se, in caso di ritardo, da parte delle Aziende sanitarie, nel pagamento delle prestazioni farmaceutiche, gli interessi dovuti al creditore vadano determinati al tasso legale ex art. 1284 c.c. od a quello speciale di cui all’art. 5 d.lgs. n. 231 del 2002;

– se l’esistenza dell’Accordo nazionale, previsto dall’art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 502 del 1992, relativo ai rapporti fra SSN e farmacie, recepito con d.P.R. n. 371 del 1998 e destinato a regolare, quindi, pure quelli intercorrenti fra le stesse farmacie e le Aziende sanitarie, renda inapplicabile la disciplina successivamente introdotta dal d.lgs. n. 231 del 2002 alle prestazioni farmaceutiche, ancorché effettuate dopo l’8 agosto 2002, rappresentando esse adempimento parziale dell’unico rapporto obbligatorio sorto in precedenza tra Aziende sanitarie e farmacie e disciplinato dal citato Accordo nazionale;

– se la conclusione di tale Accordo nazionale impedisca di ravvisare la fonte del rapporto in esame in un negozio, essendo costituita dal regolamento che ha dato esecuzione al medesimo Accordo nazionale, con la conseguenza che le operazioni “de quibus” non potrebbero essere qualificate come transazioni commerciali ai sensi dell’art. 8 d.lgs. n. 231 del 2002;

– se non debba escludersi che l’attività di erogazione dell’assistenza farmaceutica per conto delle AA.SS.LL. sia una transazione commerciale ai fini del d.lgs. n. 231 del 2002, essendo di natura pubblicistica perché dipendente da un rapporto concessorio ed intesa a realizzare l’interesse pubblico alla tutela della salute collettiva (Sezione III, Ordinanza interlocutoria 18 dicembre 2019, n. 33674, Presidente A. Spirito, Relatore L.A. Scarano).

Ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite delleseguenti questioni, già oggetto di contrasti giurisprudenziali:

a) «se sia idonea a far decorrere il termine di cui all’art. 325 c.p.c. la notifica della sentenza di primo grado effettuata ad una pubblica amministrazione nella sua sede, quando tale luogo sia contemporaneamente, oltre che sede dell’ente, anche sede dell’avvocatura interna e domicilio eletto per il giudizio»;

b) «se, nell’ipotesi (a), l’omessa indicazione nell’atto notificato del difensore che ha assistito l’amministrazione sia surrogata dalla circostanza che il nominativo del difensore risulti dall’epigrafe della sentenza notificata» (Terza Sezione civile, ordinanza interlocutoria n. 31868 del5 dicembre 2019, Pres. U. Armano, est. M. Rossetti).

SEZIONE LAVORO

Ha affermato che, nel settore scolastico, la disciplina di diritto interno sul riconoscimento dell’anzianità di servizio dei docenti a tempo determinato poi definitivamente immessi nei ruoli, viola la clausola 4 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE e va disapplicata nei casi in cui l’anzianità effettiva di servizio – non quella virtuale ex art. 489 del d.lgs. n. 297 del 1994 – prestata con rapporti a termine risulti superiore a quella riconoscibile ex art. 485 dello stesso decreto (Sez. L sentenza n. 33138 del 16 dicembre 2019, Pres. G. Napoletano, Rel. A. Di Paolantonio).

Ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite in ordine alla questione – ritenuta anche di massima di particolare importanza – sulla portata dell’estensione temporale del principio che ha condotto a riconoscere l’obbligo risarcitorio da mancato o tardivo recepimento della direttiva per le posizioni dei medici specializzandi a cavallo del 1982-1983, per il periodo successivo al 1° gennaio 1983, anche in favore dei medici specializzandi che abbiano iniziato il corso antecedentemente al 1982, sempre relativamente alla frazione temporale successiva al 1982 (Sez. L ordinanza interlocutoria n. 821 del 16 gennaio 2020, Pres. U. Berrino, Rel. R. Arienzo).

Ha chiarito che ai rapporti di collaborazione di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015, pur non riconducibili ad un “tertium genus” intermedio tra lavoro autonomo e subordinazione, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato, senza necessità di ulteriori indagini, tutte le volte in cui, integrandosi il requisito della etero-organizzazione nella fase funzionale di esecuzione del rapporto, le modalità di coordinamento della prestazione, personale e continuativa, del collaboratore, siano imposte dal committente (Sezione Lavoro, Sentenza 24 gennaio 2020, n. 1663, Presidente V. Di Cerbo, Relatore G. Raimondi).

Ha precisato che nel settore scolastico, nelle ipotesi di reiterazione illegittima dei contratti a termine stipulati per la copertura di posti vacanti e disponibili entro la data del 31 dicembre, e che rimangano prevedibilmente tali per l’intero anno scolastico, deve essere qualificata misura proporzionata, effettiva, sufficientemente energica ed idonea a sanzionare debitamente l’abuso ed a cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’UE, secondo l’interpretazione resa dalla Corte di giustizia UE nella sentenza dell’8 maggio 2019 (causa C494/17, Rossato), l’immissione in ruolo acquisita da docenti e personale ATA attraverso l’operare degli strumenti selettivi-concorsuali pregressi alla l. n. 107 del 2015, senza preclusione per il risarcimento di eventuali danni ulteriori e diversi, con oneri di allegazione e prova a carico del lavoratore che, in tal caso, non beneficia di alcuna agevolazione probatoria da danno presunto (Sez. L sentenza n. 3472 del 12 febbraio 2020, Pres. G. Napoletano, Rel. A. Torrice).

Ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione, ritenuta di massima di particolare importanza, relativa alla natura o meno di controversie di lavoro ex art 409 c.p.c. delle cause di opposizione avverso le ordinanze-ingiunzioni in materia di sanzioni lavoristiche, cui si applica il rito del lavoro ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. n. 150 del 2011, anche, e non solo, ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile in tema di sospensione feriale dei termini (Sezione Sesta Lavoro, Ordinanza interlocutoria 29 gennaio 2020, n. 02034, Presidente P. Curzio, Relatore R. Riverso).

Ha chiarito che il regime del cd. “contratto a tutele crescenti” si applica, ai sensi dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, ai contratti a tempo determinato stipulati anteriormente al 7 marzo 2015 solo ove gli effetti della conversione del rapporto – a seguito di novazione ovvero in ragione del tipo di vizio accertato –  si producano in epoca successiva alla predetta data, restando irrilevante la data della pronuncia giudiziale dichiarativa dell’accertata nullità del termine (Sez. L sentenza n. 823 del 16 gennaio 2020, Pres. V. Di Cerbo, Rel. A.P. Patti).

SEZIONE TRIBUTARIA

In tema di imposte sui redditi, ha rimesso alle Sezioni Unite civili (Sez. Tributaria, ordinanza interlocutoria n. 32571 del 19 settembre 2019, dep. 12 dicembre 2019, Presidente E. Cirillo, Estensore P. Di Marzio), ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c., la risoluzione della questione di massima di particolare importanza –  in ordine alla quale non si registrano precedenti specifici di legittimità – relativa alla natura giuridica del contributo di solidarietà erogato a favore dei Senatori della Repubblica e, in particolare, se lo stesso abbia natura indennitaria assimilabile al trattamento di fine rapporto ai sensi dell’art. 17, comma 1, lett. a), del TUIR (che dispone l’assoggettabilità a tassazione separata sia del TFR sia delle “indennità equipollenti” comunque denominate), oppure se lo stesso abbia natura sostanziale di retribuzione differita, corrisposta in conseguenza della cessazione dell’incarico di parlamentare (che, non essendo stata assoggettata ad imposizione all’atto dell’accantonamento, deve esservi sottoposta quando viene erogata, essendo manifestativa di capacità contributiva ex art. 53 Cost.).

In tema di procedimento notificatorio dell’accertamento tributario, ha ritenuto invalida la notifica eseguita dall’Agenzia delle entrate in un comune diverso rispetto a quello del domicilio fiscale del contribuente, presso l’indirizzo indicato da Poste italiane individuato mediante il servizio “seguimi”, qualificando detto servizio (di natura contrattuale e finalizzato a far pervenire la corrispondenza – diversa dagli atti giudiziari – all’indirizzo indicato dal richiedente) non equiparabile all’elezione di domicilio di cui all’art. 60, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973 (Sez. Tributaria, ordinanza n. 31479 del 25 giugno 2019, dep. 3 dicembre 2019, Presidente C. Magda, Relatore G. Fanticini).

[CLASSIFICAZIONE]

PROCEDIMENTO CIVILE – NOTIFICAZIONE DEGLI ATTI PROCESSUALI – A MEZZO POSTA

AFFIDAMENTO DELL’ATTO AD IMPRESA PRIVATA – VALIDITÀ – CONDIZIONI E LIMITI

IMPUGNAZIONI CIVILI – IN GENERALE – NOTIFICAZIONE DELL’ATTO DI IMPUGNAZIONE

[RIFERIMENTI NORMATIVI]

Codice di procedura civile, artt. 149, 156, 157, 160, 161

Legge 20/11/1982, n. 890

Decreto legislativo 31/12/1992, n. 546, art. 16, comma 2

Decreto legislativo 22/07/1999, n. 261, artt. 20, 21 e 22

Decreto legislativo 31/03/2011, n. 58

Legge 04/08/2017, n. 124, art. 1, comma 57

Direttiva 97/67/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 dicembre 1997, concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e il miglioramento della qualità del servizio, come modificata dalla direttiva 2008/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 febbraio 2008,

Sentenza Corte di Giustizia dell’Unione Europea 27 marzo 2019, n. 957, in causa n. C-545/17, Pawlak

[SENTENZA SEGNALATA]

Cass., Sez. U, n. 299, del 10/01/2020

Abstract

La sentenza affronta il problema della validità della notifica di un atto giudiziario effettuata nel 2008 da un operatore postale privato, in quanto in quel momento esisteva una discrasia tra normativa nazionale e sovranazionale, in particolare eurounitaria. Infatti, la notifica di atto giudiziario compiuta da operatore privato non era conforme al diritto interno, che prevedeva una riserva in favore del fornitore universale, ma rispondeva, per contro, allo spirito della normativa eurounitaria – peraltro non direttamente applicabile e, a quella data, non ancora recepita nel nostro sistema -, che non prevedeva riserve in favore di singoli operatori. La sentenza si pronuncia sulla sorte dell’atto alla luce della suddetta situazione normativa, ravvisando non l’inesistenza della notifica, ma la mera nullità sanabile con la costituzione della controparte.

L’effetto sanante, però, non si estende al potere dell’operatore di certificare, con effetto fidefaciente, la tempestività della notifica, non prevalendo le ragioni eurounitarie di tutela della libertà di concorrenza sulle esigenze pubblicistiche connesse al riconoscimento di ulteriori requisiti dell’operatore indispensabili per l’attribuzione della pubblica fede agli atti che documentano la sua attività

Introduzione

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione affrontano in questa sentenza l’importante tema della sorte della notificazione degli atti processuali eseguita a mezzo di posta privata quando la disciplina applicable era rappresentata, a livello nazionale, dall’art. 4 del d. lgs 261 del 1999, mentre a livello sovranazionale era entrata in vigore la direttiva dell’Unione n. 2008/6/CE, non ancora recepita nel nostro sistema (come sarebbe avvenuto successivamente con l’emanazione del d.lgs. 31 marzo 2011, n. 58).

Nella specie, si discute di un ricorso in materia tributaria, effettuato dal contribuente ricorrente non tramite Poste Italiane, ma un operatore privato. In sede di appello l’Agenzia aveva eccepito l’inammissibilità del ricorso, per il fatto che la notifica era stata effettuata appunto da un operatore ritenuto non abilitato; questo non solo perchè lo stesso non era legittimato dalla normativa a compierla, ma anche perchè, in ogni caso, non aveva il potere di certificare la tempestività della consegna a sé del ricorso. La CTR aveva rigettato l’eccezione. L’Agenzia ricorre allora alla Corte di Cassazione per sentir cassare sul punto la sentenza di appello.

La sezione Quinta della Corte ha rimesso gli atti alle Sezioni Unite per l’importanza della questione.

Questa è complessa anche per l’intreccio di normativa nazionale ed euro-unitaria e le Sezioni Unite compiono, in primo luogo, un notevole sforzo ricostruttivo delle norme che vengono in rilievo.

Estremamente interessante è, in particolare, l’analisi dell’incidenza del diritto sovranazionale nella materia, ed in particolare del diritto dell’Unione. Si può anticipare infatti fin d’ora che viene evidenziato in materia un contrasto tra normativa euro-unitaria e nazionale che si è protratto per alcuni anni, e la questione rileva per le circostanze del caso concreto, dove il momento del compimento della notifica oggetto del caso specifico, come evidenzia la sentenza (sia nella parte “fatti di causa” che al par. 7), è il 2008.

La normativa nazionale

Premesso che anche nel processo tributario le notifiche sono possibili tramite il servizio postale (in quanto anche nel giudizio tributario è applicabile l’art. 149 c.p.c., che consente la notificazione con il suddetto mezzo, in base alle regole dettate dalla I. 20 novembre 1982, n. 890) la sentenza evidenzia che l’art. 4 del d.lgs. n. 261 del 1999, applicabile all’epoca dei fatti di causa, riservava al fornitore del servizio universale, cioè Poste Italiane, «gli invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie».

Non vi è quindi dubbio – afferma la sentenza – che le notificazioni dirette a mezzo raccomandata postale dei ricorsi in materia tributaria rientrassero nell’ambito della riserva al fornitore del servizio universale contemplata dall’art. 4 del d.lgs. n. 261 del 1999 (e, si ritiene di poter aggiungere, implicitamente non fossero possibili per servizi di posta privata).

Essendo la normativa nazionale vigente al momento della notifica in questione (anno 2008) quella di cui al citato d. lgs n. 261 del 1999, secondo la normativa interna non si sarebbe potuto dubitare che (solo) la notifica in materia tributaria effettuata a mezzo posta dal concessionario del servizio universale (Poste Italiane) fosse perfettamente regolare.

La normativa sovranazionale

Su queste considerazioni si innesta, però, il diritto dell’Unione. Come chiarito dalla sentenza, il motivo per cui il diritto dell’Unione si è interessato a questa materia non attiene alla procedura civile, ma al settore della concorrenza.

Nello spirito dei Trattati dell’Unione e dei principi di cui essi sono portatori, infatti, la riserva da parte dello Stato di un settore di interesse pubblico, come il servizio postale, ad un unico soggetto pone interrogativi in termini di tutela del libero mercato.

Così l’Unione iniziò ad emettere atti normativi per regolare la materia nel servizio postale.

Un primo atto fu la direttiva n. 97/67/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 dicembre 1997, la quale, come ricorda la sentenza, pur avviando la graduale liberalizzazione del mercato dei servizi postali, riconosceva agli Stati membri la possibilità di riservare al fornitore o ai fornitori del servizio, “…la raccolta, il trasporto, lo smistamento e la distribuzione di invii di corrispondenza interna” e non escludeva il mantenimento della riserva in favore del fornitore universale del servizio per gli invii relativi alle procedure giudiziarie.

Infatti, proprio in attuazione di tale direttiva lo Stato Italiano adottò il d. lgs. n. 261 del 1999 sopra citato, che poteva così mantenere la riserva in favore del fornitore universale, anche come mezzo di finanziamento dello stesso.

Tale direttiva fu, però, modificata nel 2008, con la direttiva n. 2008/6/CE (in parte anticipata dalla direttiva n. 2002/39/CE), che conteneva un radicale mutamento in materia poiché il legislatore dell’Unione, cambiando prospettiva, ha ritenuto «opportuno porre fine al ricorso al settore riservato e ai diritti speciali come modo per garantire il finanziamento del servizio universale» (considerando 25). Sicché, con l’art. 7 della direttiva n. 97/67/CE, radicalmente novellato, il legislatore dell’Unione ha stabilito che «Gli Stati membri non concedono né mantengono in vigore diritti esclusivi o speciali per l’instaurazione e la fornitura di servizi postali…». Il principio emergente dalla direttiva è stato confermato anche dalla Corte di Giustizia nella sentenza Pawlak (caso C-545/17) del 27 marzo 2019.

Il legislatore italiano si dovette, quindi, adeguare a tale mutamento, ma ciò non avvenne immediatamente. Per quanto la direttiva fosse del 2008, infatti, solo con la legge delega 4 giugno 2010, n. 96 il legislatore nazionale stabilì che, nel contesto di piena apertura al mercato, «…a far data dal 31 dicembre 2010 non siano concessi né mantenuti in vigore diritti esclusivi o speciali per l’esercizio e la fornitura di servizi postali». Peraltro, anche a fronte della normativa delegata, il d. lgs 31 marzo 2011, n. 58, mantenne in realtà la riserva esclusiva in favore di Poste Italiane per le notifiche degli atti giudiziari a mezzo posta.

Tale riserva fu abrogata solo con  l’art. 1, comma 57, della I. 4 agosto 2017, n. 124, a decorrere dal 10 settembre 2017 .

La sorte della notifica alla luce dei suddetti atti normativi

Tale quadro normativo pone, allora, una fondamentale questione: quale è la sorte della notifica in questione, avvenuta nel 2008 da parte di un operatore postale privato, in un regime in cui la direttiva 2008/6/CE, che escludeva il diritto a riserve, era già in vigore ma non era ancora stata attuata in Italia, mentre la normativa nazionale prevedeva ancora la riserva esclusiva in favore di Poste Italiane, e si poneva quindi in contrasto con la normativa dell’Unione.

Tale domanda di carattere generale può, in realtà, scindersi in domande più articolate, ognuna delle quali riguarda i temi affrontati nella sentenza. Queste domande, semplificando, possono porsi nei seguenti termini:

ammesso che la notifica non sia valida, deve considerarsi inesistente o semplicemente nulla?

se è nulla, è sanabile con la costituzione del controricorrente?

se è sanabile, può la sanatoria incidere sulla certezza della data della notifica?

La risposta a queste domande rappresenta il cuore della sentenza.

Come emerge dalla serie di questioni sopra esposta, peraltro, per avere un quadro completo di tutti gli elementi che hanno determinato la decisione va ancora affrontato un altro tema, assolutamente non irrilevante: la necessità di fidefacienza degli atti compiuti dall’operatore postale. Si tratta, come si comprende facilmente, di un requisito essenziale nella materia delle notifiche, perchè da esso dipendono le sorti di un ricorso giudiziario.

Ora, secondo la normativa italiana vigente all’epoca, l’operatore di posta privata non rivestiva, a differenza del fornitore del servizio postale universale, la qualità di pubblico ufficiale, sicché gli atti da lui redatti non godevano di alcuna presunzione di veridicità fino a querela di falso.

Questo problema ha importanza fondamentale nell’economia di una controversia.

Ad esso non si può ovviare cercando di scindere il segmento della spedizione rispetto a quello del recapito, perchè la nozione di “invio postale” è unitaria, né ipotizzando opzioni quali il fatto che l’operatore privato, ricevuto il plico, lo potrebbe consegnare a Poste Italiane o viceversa, permettendo così all’attività di acquisire un signficato “ufficiale” riconosciuto dalla legge, come alcune decisioni, citate in sentenza, hanno cercato di fare.

Venedo, quindi, alla soluzione dei problemi posti dalle domande sopra indicate, la prima questione attiene alla validità della notifica effettuata nel 2008 dall’operatore privato, e cioè se essa debba intendersi come inesistente o meno.

Esisteva, infatti, un rilevante filone giurisprudenziale che in tal caso ravvisava l’inesistenza della notifica.

Al riguardo, è interessante la conclusione della sentenza secondo cui “al momento dell’esecuzione della notificazione della quale si discute, la vigente direttiva n. 2008/6/CE imponeva già al legislatore italiano l’abolizione di qualsiasi riconoscimento, salvo il ricorrere di determinate, restrittive e rigorose condizioni, di diritti speciali o esclusivi a taluni operatori del servizio postale” che però non sono stati ravvisati nella specie.

Sulla base, quindi, essenzialmente della normativa sovranazionale che, sebbene non direttamente applicabile e sebbene non recepita in quel momento nell’ordinamento italiano, era però portatrice di un obbligo che “era già incluso nel sistema nazionale”, la notifica in questione, sebbene non conforme al diritto nazionale, non può però ritenersi radicalmente inesistente (sul concetto di inesistenza si vedano, tra le altre, Cass., sez. un., 20 luglio 2016, nn. 14916 e 14917), cioè compiuta da soggetto radicalmente non titolato a compierla. La normativa sovranazionale, infatti, conteneva già in sé il principio dell’apertura del servizio a soggetti diversi dal fornitore universale.

Piuttosto, la non conformità alla legislazione nazionale vigente in quel momento la rende affetta da mera nullità.

In quanto nulla, poi, la notificazione è sanabile e nel caso in esame è stata sanata per effetto della costituzione dell’Agenzia sin dal primo grado.

Resta, però, il problema della fidefacienza dell’atto, su cui la sanatoria non ha effetto, perchè la sanatoria della nullità dovuta a motivi soggettivi non incide sulla tempestività o meno del ricorso.

In altri termini, il soggetto che la ha compiuta non aveva però il potere di certificare la tempestività della consegna del ricorso per la notifica; questo è un aspetto sul quale il ricorso alla normativa sovranazionale non soccorre.

Per questo, pur essendo stata sanata la nullità, la decisione cassa senza rinvio la sentenza impugnata, in accoglimento del ricorso dell’Agenzia delle Entrate, dichiarando inammissibile il ricorso introduttivo del contribuente per mancanza di data certa sulla data di proposizione dello stesso.

Conclusione

A conclusione dell’analisi di tutte le questioni sintetizzate sopra, le Sezioni Unite hanno, quindi, pronunciato i seguenti principi di diritto:

“In tema di notificazione di atti processuali, posto che nel quadro giuridico nove/lato dalla direttiva n. 2008/6/CE del Parlamento e del Consiglio del 20 febbraio 2008 è prevista la possibilità per tutti gli operatori postali di notificare atti giudiziari, a meno che lo Stato non evidenzi e dimostri la giustificazione oggettiva ostativa, è nulla e non inesistente la notificazione di atto giudiziario eseguita dall’operatore di posta privata senza relativo titolo abilitativo nel periodo intercorrente fra l’entrata in vigore della suddetta direttiva e il regime introdotto dalla legge n. 124 del 2017”.

“La sanatoria della nullità della notificazione di atto giudiziario, eseguita dall’operatore di poste private per raggiungimento dello scopo dovuto alla costituzione della controparte, non rileva ai fini della tempestività del ricorso, a fronte della mancanza di certezza legale della data di consegna del ricorso medesimo all’operatore, dovuta all’assenza di poteri certificativi dell’operatore, perché sprovvisto di titolo abilitativo”.

a cura di Andrea Penta

Nell’arco dell’ultimo bimestre numerose pronunce delle Sezioni Unite meritano di essere segnalate.

Decidendo su questione di massima di particolare importanza, hanno enunciato il seguente principio di diritto: “in tema di successione di leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria, il diritto alla protezione, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta  a ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile; ne consegue che la normativa introdotta con d.l. n. 113 del 2018, convertito con la l. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina contemplata dall’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998 e dalle altre disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione, ma, in tale ipotesi, l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, convertito nella l. n. 132 del 2018 comporterà il rilascio del permesso di soggiorno per “casi speciali” previsto dall’art. 1, comma 9, del suddetto decreto legge” (Sez. Un. civ., sentenza n. 29459 del 13 novembre 2019, Pres. G. Mammone, Rel. A.M. Perrino).

Con la stessa sentenza hanno enunciato il seguente ulteriore principio di diritto: “In tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza”.

Decidendo su questione di massima di particolare importanza, hanno enunciato il seguente ulteriore principio di diritto: “in tema di riparto fallimentare, ai sensi dell’art. 110 l.fall. (nel testo applicabile ratione temporis come modificato dal d.lgs. n. 169 del 2007), sia il reclamo ex art. 36 l.fall. avverso il progetto – predisposto dal curatore – di riparto, anche parziale, delle somme disponibili, sia quello ex art. 26 l.fall. contro il decreto del giudice delegato che abbia deciso il primo reclamo, possono essere proposti da qualunque controinteressato, inteso quale creditore che, in qualche modo, sarebbe potenzialmente pregiudicato dalla diversa ripartizione auspicata dal reclamante, ed in entrambe le impugnazioni il ricorso va notificato a tutti i restanti creditori ammessi al riparto anche parziale” (Sez. Un. civ., sentenza n. 24068 del 26 settembre 2019, Pres. V. Di Cerbo, Rel. F.A. Genovese).

Con la medesima sentenza hanno enunciato l’ulteriore seguente principio di diritto: “il decreto del Tribunale che dichiara esecutivo il piano di riparto parziale, pronunciato sul reclamo avente ad oggetto il provvedimento del giudice delegato, nella parte in cui decide la controversia concernente, da un lato, il diritto del creditore concorrente a partecipare al riparto dell’attivo fino a quel momento disponibile e, dall’altro, il diritto degli ulteriori interessati ad ottenere gli accantonamenti delle somme necessarie al soddisfacimento dei propri crediti, nei casi previsti dall’art. 113 l.fall, si connota per i caratteri della decisorietà e della definitività e, pertanto, avverso di esso, è ammissibile il ricorso straordinarioper cassazione, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost.” (Sez. Un. civ., sentenza n. 24068 del 26 settembre 2019, Pres. V. Di Cerbo, Rel. F.A. Genovese).

Molto attesa era la decisione con la quale, decidendo su questione di massima di particolare importanza, hanno enunciato il seguente principio di diritto: «Quando sia proposta domanda di scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria che sia), il giudice non può disporre la divisione che abbia ad oggetto un fabbricato abusivo o parti di esso, in assenza della dichiarazione circa gli estremi della concessione edilizia e degli atti ad essa equipollenti, come richiesti dall’art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dall’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985, costituendo la regolarità edilizia del fabbricato condizione dell’azione ex art. 713 c.c., sotto il profilo della “possibilità giuridica”, e non potendo la pronuncia del giudice realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che è consentito alle parti nell’ambito della loro autonomia negoziale. La mancanza della documentazione attestante la regolarità edilizia dell’edificio e il mancato esame di essa da parte del giudice sono rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio» (Sez. Un. civ., sentenza n. 25021 del 7 ottobre 2019, Pres. S. Petitti, Rel. G. Bisogni).

Con la stessa pronuncia hanno altresì enunciato il seguente principio di diritto: «In forza delle disposizioni eccettuative di cui all’art. 46, comma 5 del d.P.R. n. 380 del 2001 e all’art. 40, commi 5 e 6, della legge n. 47 del 1985, lo scioglimento della comunione (ordinaria o ereditaria) relativa ad un edificio abusivo che si renda necessaria nell’ambito dell’espropriazione di beni indivisi (divisione cd. endoesecutiva) o nell’ambito del fallimento (ora, liquidazione giudiziale) e delle altre procedure concorsuali (divisione cd. endoconcorsuale) è sottratta alla comminatoria di nullità prevista, per gli atti di scioglimento della comunione aventi ad oggetto edifici abusivi, dall’art. 46, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 e dall’art. 40, comma 2, della legge n. 47del 1985».

Decidendo su questione di massima di particolare importanza, hanno enunciato il seguente principio di diritto: «La nullità del contratto quadro finanziario per difetto di forma scritta, contenuta nell’art. 23, comma 3, del d.lgs. n. 58 del 1998, può essere fatta valere esclusivamente dall’investitore, con la conseguenza che gli effetti processuali e sostanziali dell’accertamento operano soltanto a suo vantaggio. L’intermediario, tuttavia, ove la domanda sia diretta a colpire soltanto alcuni ordini di acquisto, può opporre l’eccezione di buona fede, se la selezione della nullità determini un ingiustificato sacrificio economico a suo danno, alla luce della complessiva esecuzione degli ordini, conseguiti alla conclusione del contratto quadro» (Sez. Un. civ., sentenza n. 28314 del 4 novembre 2019, Pres. G. Mammone, Rel. M. Acierno).

Il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, sotto il profilo dell’eccesso di potere giurisdizionale, non è ammissibile avverso la sentenza resa, nell’esercizio della propria funzione nomofilattica, dall’Adunanza plenaria che, a norma dell’art. 99, comma 4, c.p.c., abbia enunciato uno o più principi di diritto e restituito per il resto il giudizio alla sezione remittente, non avendo detta statuizione carattere decisorio e definitorio, neppure parzialmente, del giudizio di appello, il quale implica una operazione di riconduzione della regula iuris  al caso concreto, che è rimessa alla sezione remittente (Sez. Un. civ., sentenza n. 27842 del 30 ottobre 2019, Pres. G. Mammone, Rel. A.P. Lamorgese).

Decidendo su questione di massima di particolare importanza, hanno enunciato il seguente principio di diritto nell’interesse della legge, ex art. 363, comma 3, c.p.c.: “Impregiudicata la generale facoltà di avvalersi anche di propri dipendenti delegati davanti al tribunale ed al giudice di pace, per la rappresentanza e la difesa in giudizio l’Agenzia delle Entrate-Riscossione si avvale: – dell’Avvocatura dello Stato nei casi previsti come ad essa riservati dalla convenzione con la stessa intervenuta (fatte salve le ipotesi di conflitto e, ai sensi dell’art. 43, comma 4, r.d. n. 1933 del 1933, di apposita motivata delibera da adottare in casi speciali e da sottoporre all’organo di vigilanza), oppure ove vengano in rilievo questioni di massima o aventi notevoli riflessi economici, ovvero, in alternativa e senza bisogno di formalità, né della delibera prevista dal richiamato art. 43, comma 4, r.d. cit., – di avvocati del libero foro (nel rispetto degli artt. 4 e 17 del d.lgs. n. 50 del 2016 e dei criteri di cui agli atti di carattere generale adottati ai sensi del comma 5 del medesimo art. 1 del d.l. n. 193 del 2016) in tutti gli altri casi ed in quelli in cui, pure riservati convenzionalmente all’Avvocatura erariale, questa non sia disponibile ad assumere il patrocinio; quando la scelta tra il patrocinio dell’avvocatura erariale e quello di un avvocato del libero foro discende dalla riconduzione della fattispecie alle ipotesi previste dalla Convenzione tra l’Agenzia e l’Avvocatura o di indisponibilità di questa ad assumere il patrocinio, la costituzione dell’Agenzia a mezzo dell’uno o dell’altro postula necessariamente ed implicitamente la sussistenza del relativo presupposto di legge, senza necessità di allegazione e di prova al riguardo, nemmeno nel giudizio di legittimità” (Sez. Un. civ., sentenza n. 30008 del 19 novembre 2019, Pres. G. Mammone, Rel. F. De Stefano).

La Prima Sezione civile ha rimesso alle Sezioni Unite civili, ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c., la risoluzione della seguente questione di massima di particolare importanza:

«se sia contrario all’ordine pubblico e quindi non trascrivibile nei registri dello stato civile italiano il provvedimento dell’autorità giudiziaria straniera, che abbia disposto l’adozione di un minore in favore di una coppia dello stesso sesso, ove nessuno degli adottanti risulti legato da vincoli genitoriali biologici con l’adottato» (Prima Sezione Civile, Ordinanza interlocutoria 11 novembre 2019, n. 29071, Pres. M.C. Giancola, Est. A. Fidanzia).

Era auspicabile l’ordinanza con la quale la Prima Sezione civile ha altresì rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale rimessione della causa alle Sezioni Unite ai fini dell’ulteriore approfondimento della seguente questione di massima di particolare importanza: se la disciplina antiusura sia riferibile anche agli interessi moratori, dovendosi in particolare valutare, anche alla stregua del tenore letterale dell’art. 644 c.p. e dell’art. 2 della legge n. 108 del 1996, se il principio di simmetria consenta o meno di escludere l’assoggettamento degli interessi di mora alla predetta disciplina, in quanto non costituenti oggetto di rilevazione ai fini della determinazione del tasso effettivo globale medio; qualora si opti per la soluzione contraria, se, ai fini della verifica in ordine al carattere usurario degli interessi, sia sufficiente la comparazione con il tasso soglia determinato in base alla rilevazione del tasso effettivo globale medio di cui al comma 1 dell’art. 2 cit., o se, viceversa,la mera rilevazione del relativo tasso medio, sia pure a fini dichiaratamente conoscitivi, imponga di verificarne l’avvenuto superamento nel caso concreto, e con quali modalità debba aver luogo tale riscontro, alla luce della segnalata irregolarità nella rilevazione (Prima Sezione civile, ordinanza interlocutoria n. 26946 del22 ottobre 2019, Pres.C. De Chiara, est. G. Mercolino).

Nel periodo in esame numerosi provvedimenti di rilievi sono stati adottati dalla Seconda Sezione.

Ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione, oggetto di contrasto, concernente l’ammissibilità della notifica all’estero, a mezzo posta e non tramite l’Autorità  centrale dello Stato del destinatario, come consentito dall’art. 16 del Reg. UE n. 1393 del 2007, del verbale di accertamento di infrazione al codice della strada, quale atto organicamente inserito nella procedura per l’irrogazione di una sanzione amministrativa (Sezione Seconda civile, ord. interlocutoria 30.9.2019, n. 24382, Pres. S. Petitti, Rel. S. Gorjan).

Tre pronunce riguardano aspetti di diritto transitorio relativi alla cd. legge Pinto.

Con la prima è stato chiarito che, in assenza di norme che dispongano diversamente ed in forza dell’art. 11 disp. att. c.c., l’art. 2, comma 2-sexies, della l. n. 89 del 2001, introdotto dalla l. n. 208 del 2015, dettando una nuova disciplina della formazione e valutazione della prova nel processo di equa riparazione e dando, dunque, luogo ad uno “ius superveniens”, che opera sugli effetti della domanda e, al contempo, implica un mutamento dei presupposti legali cui è condizionata la disciplina di ogni singolo caso concreto, trova applicazione nei soli giudizi introdotti dopo l’1 gennaio 2016 (Sezione Seconda Civile, Sentenza 10 ottobre 2019, n. 25542, Presidente F. Manna, Relatore. A. Scarpa).

Al contempo, l’art. 2, comma 2-quinquies, della l. n. 89 del 2001, come modificato dalla l. n. 208 del 2015, che esclude l’indennizzo in favore della parte che ha agito o resistito in giudizio consapevole dell’infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande, trova applicazione nei soli giudizi introdotti dopo l’1 gennaio 2016, per effetto dell’art. 11 disp. att. c.c., in quanto, pur realizzando la recezione di un principio costituente  “diritto vivente”, rientra tra le disposizioni che incidono sulla disciplina giuridica del fatto generatore del diritto all’equa riparazione  (Sezione Seconda Civile, Sentenza 14 ottobre 2019, n. 25826, Presidente S. Petitti, Relatore A. Cosentino).

Con la terza è stato precisato che, in assenza di norme che dispongano diversamente ed in forza dell’art. 11 disp. att. c.c., l’art. 2 bis, commi 1  e 1 ter, della l. n. 89 del 2001, introdotti dalla l. n. 208 del 2015, dettando una nuova disciplina che prevede l’applicabilità dell’abbassamento a 400 euro del minimo annuo, nonché la riducibilità ulteriore di un terzo in caso di rigetto della domanda nel procedimento cui l’azione per l’equa riparazione si riferisce, costituiscono uno “ius superveniens”, che trova applicazione nei soli giudizi introdotti dopo l’1 gennaio 2016 (Sezione Seconda Civile, Sentenza 19 giugno 2019, n. 25837, Presidente F. Manna, Relatore. A. Scarpa).

Ha, inoltre, trasmesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite di tre questioni, oggetto di contrasto e di frequente verificazione nelle aule giudiziarie, e precisamente: a) quale sia il regime dell’invalidità afferente la delibera con cui l’assemblea ripartisca gli oneri condominiali in violazione dei criteri normativi o regolamentari di suddivisione delle spese; b) se, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di oneri condominiali, il limite alla rilevabilità, anche d’ufficio, dell’invalidità delle sottostanti delibere debba, o meno, operare, allorché si tratti di vizi implicanti la loro nullità; c) se il rigetto dell’opposizione a decreto ingiuntivo per la riscossione di contributi condominiali sia idoneo alla formazione del giudicato implicito sull’assenza di cause di nullità delibera sottostante (Sezione Seconda civile, ord. interlocutoria 1.10.2019, n. 24476, Pres. F Manna, Rel. A. Scarpa).

Sempre in ambito condominiale è stato chiarito che le spese del riscaldamento centralizzato di un edificio in condominio, ove sia stato adottato un sistema di contabilizzazione del calore, vanno ripartite in base al consumo effettivamente registrato, risultando perciò illegittima una suddivisione di tali oneri – sia pure solamente parziale – alla stregua dei valori millesimali delle singole unità immobiliari, né potendo a tal fine rilevare i diversi criteri di riparto dettati da una delibera di giunta regionale, che pur richiami specifiche tecniche a base volontaria, in quanto atto amministrativo comunque inidoneo ad incidere sul rapporto civilistico tra condomini e condominio (Sezione Seconda civile, ord. 4.11.2019, n. 28282, Pres. A. Carrato, Rel. A. Scarpa).

La Sezione ha altresì rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 TFUE, la risoluzione della seguente questione pregiudiziale: se, nell’ipotesi del conducente di automezzo, l’art. 15, comma 7, del Regolamento CEE n. 3281 del 1985, ove delimita l’ambito del lasso temporale tra la “giornata in corso ed i 28 giorni precedenti”, possa essere interpretato come norma che prescriva un’unica complessiva condotta con conseguente commissione di un’unica infrazione ed irrogazione di una sola sanzione ovvero possa dare luogo, con applicazione del cumulo materiale, a tante violazioni e sanzioni per quanti sono  i giorni in relazione ai quali non sono stati esibiti i fogli di registrazione del cronotachigrafo (Seconda Sezione Civile, Ordinanza interlocutoria 13 novembre 2019, n. 29469, Pres. S. Petitti, Est. A. Oricchio).

Di estremo interesse, per le sue ricadute sul piano processuale, è l’ordinanza con la quale ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite ponendo la questione se in una transazione o anche, più in generale, in un contratto per il quale sia richiesta la forma scritta “ad probationem”, sia operativo il divieto della prova per testi e se l’eventuale inammissibilità possa essere rilevata d’ufficio o debba, invece, essere eccepita dalla parte interessata entro il termine di cui all’art. 157, comma 2, c.p.c., nella prima istanza o difesa successiva alla sua articolazione; il quesito è stato posto all’interno della più ampia questione riguardante l’esistenza o meno di un unitario regime processuale relativo all’inammissibilità della prova testimoniale, derivante dal combinato disposto di cui agli artt. 2725 c. e 2729 c.c., applicabile indifferentemente sia ai contratti per i quali sia richiesta la forma scritta “ad probationem”, sia a quelli per cui la forma è richiesta “ad substantiam” (Seconda Sezione Civile, Ordinanza interlocutoria 20 novembre 2019, n. 30244, Pres. L. Orilia, Est. M. Falaschi).

Infine, ha precisato che la presentazione di un’istanza volta a sollecitare il potere della Corte di cassazione di emendare, d’ufficio, gli errori materiali, ex art. 391-bis c.p.c., non equivale al deposito di un ricorso; sicché, per effetto del rinvio all’art. 380-bis, commi 1 e 2, c.p.c., contenuto nell’art. 391-bis cit., nonché della disciplina generale della correzione dell’errore materiale ex art. 288 c.p.c., a fronte della fissazione dell’udienza camerale, le parti hanno la possibilità di depositare memorie e non anche di proporre controricorso (Sezione Sesta-2 civile, ord. 25.112019, n. 30651, Pres. L.G. Lombardo, Rel. M. Criscuolo).

Anche la Terza Sezione si segnala per significative pronunce.

In tema di locazione di immobile ad uso non abitativo, ha affermato che la clausola del contratto contenente una rinuncia preventiva, da parte del conduttore, all’indennità di avviamento a fronte della riduzione del canone, è, in virtù dell’art. 79 della legge 27 luglio 1978, n. 392, nulla, non essendo precluso al conduttore di rinunciare alla detta indennità successivamente alla conclusione del contratto, quando può escludersi che si trovi in quella posizione di debolezza alla cui tutela la richiamata disciplina è preordinata (Sezione 3, Sentenza 30 settembre 2019, n. 24221, Pres. A. Amendola, Rel. C. Graziosi).

Sempre in tema di locazione di immobili urbani ad uso non abitativo, ha chiarito che gli istituti della prelazione e quello del riscatto, contemplati dall’art. 38 della legge 27 luglio 1978, n. 392, non si applicano al caso in cui una società di persona abbia ceduto in via agevolata, ai sensi dell’art. 1, commi 115-120, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, ai propri soci l’immobile concesso in locazione, avendo il legislatore plasmato l’atto di trasferimento oneroso per renderlo idoneo ad una vera e propria causa tributaria (parziale sgravio fiscale) che viene affiancata, quale specialità del negozio, alla ordinaria causa di compravendita (Sezione 3, Sentenza 30 settembre 2019, n. 24223, Pres. A. Amendola, Rel. C. Graziosi).

Nel medesimo ambito della locazione immobiliare, nel caso in cui il contratto sia stato stipulato dall’usufruttario il quale, nel corso del rapporto, abbia indebitamente percepito somme eccedenti quelle dovute a titolo di canone, ha precisato che alla morte del concedente la domanda del conduttore volta a conseguire la ripetizione delle somme deve essere proposta nei confronti degli eredi dell’usufruttuario, e non già del nudo proprietario divenuto “medio tempore” pieno proprietario (Sezione 3, Sentenza 30 settembre 2019, n. 24222, Pres. A. Amendola, Rel. C. Graziosi).

Ha enunciato, ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c., il principio secondo il quale in tema di opposizione all’esecuzione, pur dopo l’abrogazione, ad opera della legge n. 69 del 2009, del divieto di appellabilità – introdotto, modificando l’art. 616 c.p.c., dalla legge n. 52 del 2006 – le sentenze del giudice di pace pronunciate, in ragione del valore della lite, secondo equità necessaria sono appellabili solo per le ragioni indicate dall’art. 339, comma 3, c.p.c., ossia con motivi limitati (Sezione 3, Sentenza, 24 settembre 2019, n. 23623, Pres. F. De Stefano, Est. C. D’Arrigo).

LA Sezione ha, inoltre, rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c., la questione di massima di particolare importanza relativa alla natura, privatistica o tributaria, della tariffa di cui all’art. 238 del d.lgs. n. 152 del 2006 (“Tariffa per la gestione dei rifiuti urbani”, poi denominata “Tariffa Integrata Ambientale”, cd. TIA2) e all’assoggettabilità della stessa ad IVA ai sensi degli artt. 1, 3, 4, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 633 del 1972 (Sezione 3, Ord. interlocutoria, 25 settembre 2019, n. 23949/2019, Pres. A. Amendola, Est. G. Positano), in relazione alla quale vi era stata già una pronuncia molto articolata della Sezione Tributaria.

Infine, ha rimesso all’esame del Presidente Titolare, per la valutazione dell’eventuale assegnazione al Collegio previsto dal punto 46.2 delle tabelle 2016/2019 della Corte di cassazione, le seguenti questioni di massima di particolare importanza: a) se, in seguito all’entrata in vigore del d.l. n. 193 del 2016, conv. con modif. in l. n. 225 del 2016, sia rituale l’instaurazione del contraddittorio per il giudizio di legittimità mediante notifica del ricorso al procuratore o difensore costituito per conto di una ormai estinta società di riscossione del gruppo Equitalia nel grado concluso con la sentenza impugnata, anziché alla neoistituita Agenzia delle Entrate – Riscossione;  b) in particolare, se, nella specie, possa considerarsi validamente ultrattivo il mandato conferito nei gradi precedenti al professionista, oppure se debba ritenersi che sia stata chiamata in giudizio una parte non correttamente individuata, trattandosi di soggetto formalmente e notoriamente estinto;  c) se sia poi legittima l’attività difensiva comunque svolta nel giudizio di legittimità dalla citata Agenzia delle Entrate – Riscossione detta Agenzia mediante notifica di controricorso a seguito della notifica del ricorso alla società di riscossione del gruppo Equitalia sopra menzionata (Sezione VI-3, Ordinanza interlocutoria 26 novembre 2019, n. 30885, Pres. R. Frasca, Relatore F. De Stefano).

La Sezione lavoro ha stabilito che il regime indennitario istituito dall’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, si applica anche al contratto di collaborazione a progetto illegittimo, quale fattispecie in cui ricorrono le condizioni della natura a tempo determinato del contratto di lavoro e della presenza di un fenomeno di conversione (Sez. L sentenza n. 24100 del 26 settembre 2019, Pres. U. Berrino, Rel. A.P. Patti).

Ha altresì sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della l. n. 210 del 1992, in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost., nella parte in cui non prevede che il diritto all’indennizzo, istituito e regolato dalla stessa legge ed alle condizioni ivi previste, spetti anche ai soggetti che abbiano subito lesioni e/o infermità, da cui siano derivati danni irreversibili all’integrità psico-fisica, per essere stati sottoposti a vaccinazione non obbligatoria, ma raccomandata, antiepatite A (Sezione Lavoro, Ordinanza interlocutoria 11 ottobre 2019, n. 25697, Presidente A. Manna, Relatore E. D’Antonio).

Infine, nel settore scolastico, ha chiarito che l’art. 485 del d.lgs. n. 297 del 1994, nei casi in cui determina il riconoscimento al personale docente assunto con contratti a termine, e definitivamente immesso in ruolo, di un’anzianità inferiore a quella riconoscibile al docente comparabile assunto a tempo indeterminato, si pone in contrasto con la clausola 4 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva n. 99/70/CEE e va pertanto disapplicato; ai fini di tale verifica non vanno presi in considerazione gli intervalli non lavorati, né va applicato il criterio dell’equivalenza di cui all’art. 489 dello stesso decreto (Sezione Lavoro, Sentenza 28 novembre 2019, n. 31149, Presidente G. Napoletano, Relatore A. Di Paolantonio).

Anche la Sezione Tributaria si è distinta nel periodo in esame per alcune pronunce di rilievo.

Ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 53 e 3 Cost., dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, nella formulazione risultante a seguito degli interventi operati dall’art. 1, comma 87, della l. n. 205 del 2017 e dall’art. 1, comma 1084, della l. n. 145 del 2018, nella parte in cui dispone che, nell’applicare l’imposta di registro secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, si debbano prendere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati (Sez. T, ordinanza n.  23549, del 23 settembre 2019, Pres. De Masi O., Est. Stalla G.M.).

In tema di ICI, ha rimesso alle Sezioni Unite civili, ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c., la risoluzione della seguente questione di massima di particolare importanza: se un’area, prima edificabile e poi assoggettata con legge regionale ad un vincolo di inedificabilità assoluta, sia da considerare «area edificabile» ai fini ICI ove inserita in un programma di cd. “compensazione urbanistica”adottato dal Comune, ancorché il relativo procedimento compensatorio non sia ancora concluso, essendo il diritto edificatorio “in volo”, cioè non essendo stata ancora specificamente individuata – ed assegnata al proprietario – la cd. area di “atterraggio”, ossia l’area su cui deve essere trasferita l’edificabilità già cessata sull’area cd. “di decollo” (Sez. Tributaria, ordinanza interlocutoria 15 ottobre 2019, n. 26016, Presidente C. Di Iasi, Estensore P. D’Ovidio).

In tema di sospensione del processo tributario ai sensi dell’art. 6, comma 10, del d.l. n. 119 del 2018, conv., con modif., in l. n. 136 del 2018, per ottenere l’effetto sospensivo fino al 31 dicembre 2020, doveva essere depositata in cancelleria copia della domanda e del versamento degli importi dovuti o della prima rata entro il termine perentorio del 10 giugno 2019 e, ove la parte si fosse affidata alla spedizione a mezzo servizio postale di tale documentazione, non trova applicazione il principio della dissociazione degli effetti della notifica per notificante e notificato (Corte Cost. n. 28 del 2004), sia in quanto non si tratta di notifica alla parte processualmente codificata, sia in quanto la legge fa riferimento espresso al momento del suo deposito e, dunque, alla ricezione della spedizione come documentata dalla cancelleria con timbro del pervenuto e registrazione sul SIC (Sez. 6-Tributaria, ordinanza n. 28493 del 9 luglio 2019, dep. il 6 novembre 2019, Presidente A. Greco, estensore P. Gori).

A cura di Andrea Penta

Numerose e significative sono state, nell’ultimo bimestre in esame, le pronunce delle Sezioni Unite, sia in ambito processuale che in ambito sostanziale.

Quanto al primo si segnalano le seguenti.

Decisione su istanza di sospensione cd. preesecutiva avanzata ex art. 615, comma 1, c.p.c. – Impugnazione – Modalità.

Le Sezioni Unite, enunciando nell’interesse della legge, su richiesta del Procuratore Generale presso la Corte di cassazione ai sensi dell’art. 363 c.p.c., il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi, hanno affermato che il provvedimento con cui il giudice dell’opposizione all’esecuzione, proposta prima che questa sia iniziata ed ai sensi dell’art. 615, comma 1, c.p.c., decide sull’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo è impugnabile col rimedio del reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. al Collegio del tribunale di appartenenza del giudice monocratico – o nel cui circondario ha sede il giudice di pace – che ha emesso il provvedimento (Sezioni Unite, Sentenza n. 19889 del 23 luglio 2019, Pres. G. Mammone, Est. F. De Stefano).

Rapporto fra sezione ordinaria e sezione specializzata per l’impresa – Questione di competenza – Condizioni – Conseguenze.

Le Sezioni Unite, risolvendo un contrasto giurisprudenziale, hanno affermato che il rapporto tra sezione ordinaria e sezione specializzata in materia di impresa, nello specifico caso in cui entrambe le sezioni facciano parte del medesimo ufficio giudiziario, non attiene alla competenza, ma rientra nella mera ripartizione degli affari interni dell’ufficio giudiziario, da cui l’inammissibilità del regolamento di competenza, richiesto d’ufficio ex art. 45 c.p.c.; deve, di contro, ritenersi che rientri nell’ambito della competenza in senso proprio la relazione tra la sezione specializzata in materia di impresa e l’ufficio giudiziario, diverso da quello ove la prima sia istituita (Sezioni Unite, Sentenza n. 19882 del 23 luglio 2019, Pres. G. Mammone, Est. R.M. Di Virgilio).

Giudice della revocazione – Istanza di sospensione del termine per proporre ricorso per cassazione – Accoglimento – Momento di decorrenza dell’effetto sospensivo – Individuazione.

Le Sezioni Unite, risolvendo un contrasto giurisprudenziale, hanno affermato che l’art. 398, comma 4, inciso 2, c.p.c. deve interpretarsi nel senso che l’accoglimento, da parte del giudice della revocazione, dell’istanza di sospensione del termine per proporre ricorso per cassazione determina l’effetto sospensivo (come, del resto, l’eventuale sospensione del corso del giudizio di cassazione, se frattanto introdotto) soltanto dal momento della comunicazione del relativo provvedimento, non avendo la proposizione della citata istanza alcun immediato effetto sospensivo sebbene condizionato al provvedimento positivo del giudice (Sezioni Unite, Sentenza n. 21874 del 30 agosto 2019, Pres. G. Mammone, Est. R. Frasca).

Assegni vitalizi degli ex parlamentari – Controversie relative – Giurisdizione degli organi di autodichia – Sussistenza – Fondamento – Regolamento preventivo di giurisdizione – Ammissibilità – Limiti.

Le controversie relative alle condizioni di attribuzione ed alla misura dell’indennità parlamentare e degli assegni vitalizi per gli ex parlamentari – istituti entrambi riconducibili alla normativa di “diritto singolare” che si riferisce al Parlamento o ai suoi membri a presidio della peculiare posizione costituzionale loro riconosciuta dagli artt. 64 comma 1, 66 e 68 Cost. –  spettano alla cognizione degli organi di autodichia, la cui previsione risponde alla medesima finalità di garantire la particolare autonomia del Parlamento e, quindi, rientra nell’ambito della suddetta normativa di “diritto singolare”; ciò non dà luogo ad una ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, dato il carattere sostanzialmente giurisdizionale riconosciuto dalla Corte costituzionale agli organi di autodichia nell’esame delle controversie loro attribuite nonchè l’utilizzabilità del regolamento preventivo di giurisdizione, sia pure nei limiti in cui si profili l’eventualità che l’organo di autodichia, alla stregua della natura della controversia e delle deduzioni del convenuto, possa declinare la giurisdizione con conseguente inutilità dell’attività processuale già svolta (S.U., ordinanza n. 18265 dell’8 luglio 2019, Pres. G. Mammone, Est. L. Tria).

In ambito di diritto sostanziale, meritano senz’altro di essere segnalate le seguenti.

Azione di garanzia per i vizi – Manifestazioni extragiudiziali di volontà del compratore espresse nelle forme di cui all’art. 1219, comma 1, c.c. – Efficacia interruttiva della prescrizione – Sussistenza.

Le Sez. U., su questione di massima di particolare importanza, hanno affermato il seguente principio di diritto: “Nel contratto di compravendita costituiscono – ai sensi dell’art. 2943, comma 4, c.c. – idonei atti interruttivi della prescrizione dell’azione di garanzia per i vizi, prevista dall’art. 1495, comma 3 c.c., le manifestazioni extragiudiziali di volontà del compratore compiute nelle forme di cui all’art. 1219, comma 1, c.c., con la produzione dell’effetto generale contemplato dall’art. 2945, comma 1, c.c.” (S.U., n. 18672 del 11 luglio 2019, Pres. G. Mammone, Est. A. Carrato).

Rapporto fra diritto all’oblio ed alla rievocazione storica – Valutazione del giudice di merito – Criteri – Menzione degli elementi identificativi delle persone coinvolte in una vicenda passata – Liceità – Presupposti.

Le Sezioni Unite, a risoluzione di questione di massima di particolare importanza, hanno affermato che, in tema di rapporti tra il diritto alla riservatezza (nella sua particolare connotazione del cd. diritto all’oblio) e quello alla rievocazione storica di fatti e vicende concernenti eventi del passato, il giudice di merito – ferma restando la libertà della scelta editoriale in ordine a detta rievocazione, che è espressione della libertà di stampa protetta e garantita dall’art. 21 Cost. – ha il compito di valutare l’interesse pubblico, concreto ed attuale alla menzione degli elementi identificativi delle persone che di quei fatti e di quelle vicende furono protagonisti. Tale menzione deve ritenersi lecita solo ove si riferisca a personaggi che destino nel momento presente l’interesse della collettività, sia per ragioni di notorietà sia per il ruolo pubblico rivestito; in caso contrario, prevale il diritto degli interessati alla riservatezza rispetto ad avvenimenti del passato che li feriscano nella dignità e nell’onore e dei quali si sia ormai spenta la memoria collettiva (Sezioni Unite, Sentenza n. 19681 del 22 luglio 2019, Pres. G. Mammone, Est. F.M. Cirillo).

Servizio di mensa scolastica – Autorefezione individuale – Diritto soggettivo perfetto ed incondizionato – Configurabilità – Esclusione.

Le Sezioni Unite, a risoluzione di questione di massima di particolare importanza, hanno affermato che non è configurabile, né può costituire oggetto di accertamento da parte del giudice ordinario, un diritto soggettivo perfetto ed incondizionato all’autorefezione individuale, nell’orario della mensa e nei locali scolastici, degli alunni della scuola primaria e secondaria di primo grado, che possono esercitare diritti procedimentali, al fine di influire sulle scelte riguardanti le modalità di gestione del servizio mensa, rimesse all’autonomia organizzativa delle istituzioni scolastiche, in attuazione dei principi di buon andamento dell’amministrazione pubblica (Sezioni Unite, sentenza 30 luglio 2019, n. 20504, Presidente G. Mammone, Relatore A.P. Lamorgese).

Da ultimo, di particolare rilievo sono due pronunce concernenti, rispettivamente, l’ambito tributario e la ragionevole durata del processo.

Decreto ingiuntivo ottenuto dal garante escusso nei confronti del debitore principale – Tassa di registro – Misura proporzionale – Fondamento.

Le Sez. U., a risoluzione di contrasto, hanno affermato che, in tema di imposta di registro, il decreto ingiuntivo ottenuto nei confronti del debitore dal garante che abbia stipulato una polizza fideiussoria e che sia stato escusso dal creditore è soggetto all’imposta con aliquota proporzionale al valore della condanna, in quanto il garante non fa valere corrispettivi o prestazioni soggetti all’imposta sul valore aggiunto, ma esercita un’azione di rimborso di quanto versato (S.U., sentenza n. 18520 del 10 luglio 2019, Pres. G. Mammone, Est. A.M. Perrino).

Equa riparazione – indennizzo da irragionevole durata del processo – notifica del titolo costituito da una sentenza di condanna ex legge Pinto – ritardo da parte dello Stato nel pagamento delle somme ivi liquidate – conseguenze – successiva instaurazione del processo esecutivo – durata del processo esecutivo – equiparazione del processo di ottemperanza alla procedura esecutiva – questione di massima di particolare importanza sollevata dalla II Sezione civile con ordinanze interlocutorie n. 796 del 2019, n. 802 del 2019, n. 806 del 2019, n. 807 del 2019, n. 808 del 2019.

SU – risolvendo questione di massima di particolare importanza – hanno enunciato i seguenti principi di diritto:

  1. Ai fini della decorrenza del termine di decadenza per la proposizione del ricorso ai sensi dell’art. 4 della legge n. 89/2001, nel testo modificato dall’art. 55 d.l. n. 83/2012, conv. nella l. n. 134/2012 risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 88/2018, la fase di cognizione del processo che ha accertato il diritto all’indennizzo a carico dello Stato- debitore va considerata unitariamente rispetto alla fase esecutiva eventualmente intrapresa nei confronti dello Stato, senza la necessità che essa venga iniziata nel termine di sei mesi dalla definitività del giudizio di cognizione, decorrendo detto termine dalla definitività della fase esecutiva.
  2. Ai fini dell’individuazione della ragionevole durata del processo rilevante per la quantificazione dell’indennizzo previsto dall’art. 2 della l. n. 89/2001, la fase esecutiva eventualmente intrapresa dal creditore nei confronti dello Stato-debitore inizia con la notifica dell’atto di pignoramento e termina allorché diventa definitiva la soddisfazione del credito indennitario.
  3. Nel computo della durata del processo di cognizione ed esecutivo, da considerare unitariamente ai fini del riconoscimento del diritto all’indennizzo ex art. 2 l. n. 89/2001, non va considerato come “tempo del processo” quello intercorso fra la definitività della fase di cognizione e l’inizio della fase esecutiva, quest’ultimo invece potendo eventualmente rilevare ai fini del ritardo nell’esecuzione come autonomo pregiudizio, allo stato indennizzabile in via diretta ed esclusiva, in assenza di rimedio interno, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
  4. Il termine di 120 giorni di cui all’art. 14 del d.l. n. 669 del 31 dicembre 1996, conv. dalla legge n. 30 del 28 febbraio 1997, non produce alcun effetto ai fini della ragionevole durata del processo esecutivo.
  5. Il giudizio di ottemperanza promosso all’esito della decisione di condanna dello Stato al pagamento dell’indennizzo di cui alla l. n. 89/2001 deve considerarsi sul piano funzionale e strutturale pienamente equiparabile al procedimento esecutivo, dovendosi considerare unitariamente rispetto al giudizio che ha riconosciuto il diritto all’indennizzo (Sezioni Unite, Sentenza n. 19883 del 23 luglio 2019, Pres. V. Di Cerbo, Est. R.G. Conti).

La Sezione I si segnala per un’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite.

Assegno – Responsabilità della banca negoziatrice – Invio del titolo per posta – Pagamento a soggetto non legittimato – Concorso di colpa del danneggiato ex art. 1227, comma 1, c.c. – Configurabilità – Questione di massima di particolare importanza.

La Prima Sezione civile della Cassazione ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c., la seguente questione di massima di particolare importanza: se possa ravvisarsi un concorso del danneggiato, ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c., nella spedizione di un assegno a mezzo posta – sia essa ordinaria, raccomandata o assicurata – con riguardo al pregiudizio patito dal debitore che non sia liberato dal pagamento, in quanto il titolo venga trafugato e pagato a soggetto non legittimato in base alla legge cartolare di circolazione (Sezione 1, ordinanza interlocutoria n. 20900 del 5 agosto 2019, Pres. C. De Chiara, est. L. Solaini; Prima Sezione civile, ordinanze interlocutorie nn. 22015 e 22016 del 3 settembre 2019, Pres. C. De Chiara, est. L. Nazzicone).

Numerosi sono i provvedimenti adottati nel bimestre in esame dalla Sezione II che meritano di essere posti in rilievo.

intermediazione finanziaria – abuso di informazioni privilegiate commesso da “insider” secondari – carattere maggiormente afflittivo del trattamento sanzionatorio previsto dalla l. n. 62 del 2005 rispetto a quello previgente – conseguenze.

A seguito della sentenza n. 223 del 2018 della Corte Costituzionale, la misura sanzionatoria della confisca per equivalente, prevista dall’art. 187-bis del T.U.F., come novellato dalla l. n. 62 del 2005, per l’abuso di informazioni privilegiate ad opera degli “insider” secondari, non può trovare applicazione relativamente ai fatti commessi prima della l. n. 62 cit., versandosi in presenza di trattamento sanzionatorio più sfavorevole per l’interessato (Sezione Seconda Civile, Sentenza 5 luglio 2019, n. 18201, Presidente A. Giusti, Relatore. A. Scarpa).

CONSOB – Ricezione delle risultanze delle ispezioni della Banca d’Italia – Utilizzabilità di queste al fine di irrogare sanzioni – Ammissibilità – Necessità di nuovi accertamenti – Esclusione – Fondamento.

La CONSOB, nell’infliggere una sanzione di sua competenza, può avvalersi degli esiti, ad essa comunicati, della verifica ispettiva svolta dalla Banca d’Italia, non essendo necessario che allo scambio di informazioni faccia seguito, da parte dell’Autorità ricevente, l’espletamento in via autonoma di nuovi accertamenti, atteso che, alla luce del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, vanno evitate duplicazioni di attività e ridotti al minimo gli oneri dei soggetti vigilati (Sezione 2, Sentenza n. 21017 del 6 agosto 2019, Pres. S. Petitti, Rel. A. Giusti).

Termine semestrale ex Art. 327 c.p.c. introdotto dalla l. n. 69 del 2009 – Evento interruttivo verificatosi dopo il decorso di metà di tale termine – Conseguenze – Proroga del termine lungo di impugnazione di tre mesi dal giorno dell’evento.

Nei processi soggetti alla riduzione a sei mesi del termine ex art. 327 c.p.c., come riformulato ad opera della l. n. 69 del 2009, l’art. 328, comma 3, c.p.c. va interpretato nel senso che, ove dopo il decorso della metà del termine di cui al cit. art. 327 c.p.c. si verifichi uno degli accadimenti previsti dall’art. 299 c.p.c., il termine lungo di impugnazione è prorogato, per tutte le parti, di tre mesi dal giorno di tale evento (Sezione Seconda Civile, Sentenza 30 luglio 2019, n. 20529, Presidente F. Manna, Relatore. R. Sabato).

Patto fiduciario – Diritti reali immobiliari – Dichiarazione unilaterale del fiduciario – Rilevanza – Presupposti. 

La Seconda Sezione civile della Cassazione ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, ai fini della composizione di un rilevato contrasto e della soluzione di questione di massima di particolare importanza, in ordine al fatto se il patto fiduciario concernente diritti reali immobiliari non possa risultare da una dichiarazione unilaterale del fiduciario e, in questa ultima ipotesi, in presenza di quali requisiti tale dichiarazione unilaterale possa integrare gli estremi dell’atto scritto in presenza della volontà del fiduciante di avvalersene anche in giudizio (Sezione 2, ordinanza interlocutoria n. 20934 del 5 agosto 2019, Pres. F. Manna, Rel. Giu. Grasso).

Conflitto di competenza ex articolo 45 c.p.c. – Termine ultimo per l’elevazione – Individuazione – Applicabilità o meno dell’art. 38 c.p.c. con riferimento al grado di appello.

La Sesta Sezione Civile, sottosezione seconda, di questa Corte ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c., le seguenti questioni di massima di particolare importanza: a) se il conflitto di competenza ai sensi dell’articolo 45 c.p.c. debba essere sollevato anche dal giudice di appello (al pari di quello di primo grado) in limine litis a pena di preclusione; b) se, in tal caso, o, più in generale, con riferimento all’articolo 341 c.p.c., sia applicabile l’articolo 38, comma 1, c.p.c. (attuale comma 3 del medesimo articolo a seguito delle modifiche introdotte dalla l. n. 69 del 2009) alla luce delle specificità del giudizio di impugnazione e alla stregua del giudizio di compatibilità richiesto dall’articolo 359 c.p.c. (Sesta Sezione Civile, Ord. interlocutoria, 28 giugno 2019, n. 17609, Pres. P. D’Ascola, Est. G. Fortunato).

C.t.u. – Attività ultimate dopo la scadenza del termine concesso dal giudice – Compenso – Decurtazione degli onorari ex art. 52, del d.P.R. n. 115 del 2002 – Potere di graduazione del giudice di merito – Esclusione.

La decurtazione degli onorari prevista dall’art. 52 del d.P.R. n. 115 del 2002 per il caso in cui il consulente tecnico completi le attività delegategli oltre il termine, originario o prorogato, assegnatogli dal magistrato, non è suscettibile di graduazione con riferimento al “quantum”, né all’entità del ritardo in cui è incorso l’ausiliario nel deposito della relazione, trattandosi di sanzione finalizzata a prevenire comportamenti non virtuosi del consulente, nonché indebite dilatazioni dei tempi processuali (Sezione Seconda Civile, Ordinanza 10 settembre 2019, n. 22621, Presidente S. Gorjan, Relatore. S. Oliva).

processo amministrativo presupposto, pendente al 16 settembre 2010 e non soggetto all’art. 2, comma 1, della l. n. 89 del 2001, novellato dalla l. n. 208 del 2015 – sentenza n. 34 del 2019 della corte cost. – mancata presentazione dell’istanza di prelievo – conseguenze.

In relazione all’irragionevole durata dei processi amministrativi pendenti al 16 settembre 2010 e non soggetti all’art. 2, comma 1, della l. n. 89 del 2001, novellato dalla l. n. 208 del 2015, a seguito della sentenza n. 34 del 2019 della Corte Costituzionale, dichiarativa dell’illegittimità dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008, come novellato dal d. lgs. n. 104 del 2010, la presentazione dell’istanza di prelievo nel giudizio presupposto non rappresenta più una condizione di proponibilità della domanda di equa riparazione, ma può costituire elemento indiziante di una sopravvenuta carenza o di non serietà dell’interesse della parte alla decisione del ricorso, potendo assumere rilievo ai fini della quantificazione dell’indennizzo (Sezione Seconda Civile, Ordinanza 2 settembre 2019, n. 21959, Presidente S. Petitti, Relatore. M. Criscuolo). La Seconda Sezione Civile di questa Corte, pronunciandosi in seguito alla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008 e successive modifiche, intervenuta con la sentenza della Corte Costituzionale n. 34 del 2019, ha stabilito che, in relazione al procedimento amministrativo, la proponibilità della domanda di equo indennizzo non è subordinata alla presentazione dell’istanza di prelievo per contrasto con i parametri convenzionali CEDU (art. 6, par. 1; (Sezione 2, Sentenza, 26 agosto 2019, n. 21709, Pres. S. Petitti, Est. A. Casadonte).

Estensione della relativa domanda al periodo di ulteriore durata del processo presupposto – “Mutatio libelli” – Esclusione – Fondamento – Rito applicabile a tale estensione – Individuazione.

In tema di equa riparazione, la successiva estensione della domanda di indennizzo al periodo di ulteriore durata del processo presupposto non costituisce “mutatio libelli”, venendo in rilievo una protrazione della medesima violazione, oggetto di specifica integrazione dell’originaria domanda ed insuscettibile di ledere il principio del contraddittorio. Inoltre, il rito applicabile a tale estensione, pure ove essa sia stata richiesta dopo l’entrata in vigore della l. n. 134 del 2012, resta quello dell’epoca di introduzione del giudizio “ex lege” Pinto, in ragione del carattere unitario dello stesso, nonostante quest’ultimo sia stato instaurato nel sistema regolato dalla normativa antecedente la citata l. n. 134 (Sezione Seconda Civile, Ordinanza n. 22300 del 5 settembre 2019, Presidente S. Petitti, Relatore R. Giannaccari).

Patrocinio a spese dello Stato – Istanza di liquidazione presentata successivamente alla definizione del giudizio cui inerisce l’attività del difensore – Decadenza – Esclusione.

L’art. 83, comma 3-bis del d.P.R. n. 115 del 2002 non prevede alcuna decadenza a carico del difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato che abbia depositato l’istanza di liquidazione del compenso dopo la pronuncia del provvedimento che chiude la fase cui la richiesta stessa inerisce, né impedisce al giudice di potersi pronunziare su di essa dopo essersi pronunciato definitivamente sul merito (Sezione Seconda Civile, Sentenza 9 settembre 2019, n. 22448, Presidente S. Petitti, Relatore. M. Criscuolo),

Confisca per equivalente ex art. 187 sexies T.u.f. – Violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 62 del 2005 – Inapplicabilità – Fondamento.

La Seconda Sezione Civile di questa Corte, pronunciandosi in seguito alla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 9, comma 6, della l. n. 62 del 2005, intervenuta con la sentenza della Corte Costituzionale n. 223 del 2018, ha escluso l’applicazione retroattiva della sanzione accessoria della confisca per equivalente con riguardo agli illeciti commessi in data antecedente all’introduzione della suddetta misura (Sezione 2, Sentenza, 26 agosto 2019, n. 21700, Pres. A. Giusti, Est. L. Varrone).

Sequestro giudiziario di azienda composta da beni mobili ed immobili – Modalità di attuazione in caso di divergenza tra custode e detentore – Sufficienza della consegna all’ufficiale giudiziario dell’avviso ex art. 608 c.p.c. relativamente agli immobili.

Se il custode è persona diversa dal detentore e l’azienda è composta da beni mobili ed immobili, l’attuazione del sequestro è regolata dall’art. 677 c.p.c. e, pertanto, può compiersi con le formalità di cui agli artt. 605 c.p.c., per i mobili, e quelle di cui all’art. 608 c.p.c. per gli immobili. Relativamente a questi ultimi, in particolare, tenuto conto delle modifiche apportate all’art. 608 c.p.c. dal d.l. n. 35 del 2005, al fine di impedire l’inefficacia della misura è sufficiente, per ragioni di ordine sistematico, che il sequestrante consegni all’ufficiale giudiziario l’avviso ex art. 608, comma 1, c.p.c. entro il termine perentorio di trenta giorni dalla pronuncia, ai sensi dell’art. 675 c.p.c.  (Sezione Seconda Civile, Ordinanza 13 settembre 2019, n. 22945, Presidente F. Manna, Relatore. G. Fortunato).

La Sezione III si segnala per tre pronunce.

Giudizio di risarcimento danni da responsabilità civile automobilistica – Giudicato favorevole al danneggiato conseguito nei confronti del solo danneggiante assicurato – Opponibilità all’assicuratore obbligatorio – Esclusione – Fondamento – Efficacia probatoria del giudicato formatosi “inter alios”.

In tema di assicurazione obbligatoria sulla responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, il giudizio di condanna del danneggiante non può essere opposto dal danneggiante che agisca in giudizio nei confronti dell’assicuratore ed ha, in tale giudizio, esclusivamente efficacia di prova documentale, al pari delle prove acquisite nel processo in cui il giudicato si è formato (Sezione 3, n. 18325 del 9 luglio 2019, Pres. U. Armano, est. E. Scoditti).

115. Processo civile, Opposizione a decreto ingiuntivo – Onere di esperire il tentativo di mediazione – Individuazione della parte gravata – Parte opponente o parte opposta – Questione di massima di particolare importanza.

La Terza Sezione civile della Cassazione ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c., la seguente questione di massima di particolare importanza: se, in tema di opposizione a decreto ingiuntivo, l’onere di esperire il tentativo obbligatorio di mediazione ricada sul debitore opponente, in quanto parte interessata all’instaurazione e alla prosecuzione del processo ordinario di cognizione, posto che, in difetto, il decreto acquista esecutorietà e passa in giudicato, ovvero sulla parte opposta, che ha proposto la domanda di ingiunzione ed è attore in senso sostanziale, tenuto conto che l’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 onera dell’attivazione della condizione di procedibilità della domanda giudiziale “chi intende esercitare in giudizio una azione” (Sezione 3, ordinanza interlocutoria n. 18741 del 12 luglio 2019, Pres. R. Vivaldi, est. E. Scoditti).

Controversie tra organismi di telecomunicazione e utenti – Tentativo di conciliazione ex art. 11 l. n. 249 del 1997 – Procedimento monitorio – Obbligatorietà  – Questione – Conseguenze nella successiva fase di opposizione.

La Terza Sezione Civile di questa Corte ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c., le seguenti questioni di massima di particolare importanza: a) se, nella materia delle telecomunicazioni, il tentativo di conciliazione di cui all’art. 11 della legge n. 249 del 2007 sia o meno obbligatorio anche con riferimento al procedimento monitorio; b) nel caso in cui si ritenga obbligatorio il tentativo di conciliazione, se il mancato esperimento dello stesso determini l’improcedibilità ovvero l’improponibilità della domanda; c) nel caso in cui si reputi non obbligatorio il tentativo di conciliazione con riferimento al procedimento monitorio (come ritenuto da Sez. 3, n. 25611/2016, Rv. 64233401), quale sia, nella successiva fase dell’opposizione – ove si ritenga applicabile per estensione la disciplina di cui al d.lgs. n. 28 del 2010, con disapplicazione dell’art. 2, comma 2, della delibera AGCOM 173/07/CONS – la parte sulla quale grava l’onere dell’attivazione del tentativo di conciliazione e quali siano le conseguenze dell’eventuale inosservanza di tale onere sulla sorte del decreto ingiuntivo (Sezione 3, Ord. interlocutoria, 20 giugno 2019, n. 16594, Pres. G. Travaglino, Est. P. Gianniti).

Da ultimo, la Sezione Tributaria ha rimesso gli atti al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, di due questioni oggetto di contrasto nella giurisprudenza di legittimità.

IVA – Rimborso – Sospensione – Disciplina dell’art. 38-bis d.P.R. n. 633 del 1972 – Esaustività –Contrasto.

Sanzioni – Art. 23, comma 1, d.lgs. n. 472 del 1997 – Ambito applicativo – contrasto.

La prima questione è se, nell’ipotesi di richiesta di rimborso di un credito IVA, l’amministrazione finanziaria che abbia ottenuto dal contribuente una fideiussione ai sensi dell’art. 38-bis, comma 1, del d.P.R. n. 633 del 1972, ove contesti al creditore un controcredito derivante dall’irrogazione delle sanzioni, possa fare uso, oltre che della sospensione prevista da tale norma, anche di altri strumenti ed, in particolare, di quelli contemplati dagli artt. 23, comma 1, del d.lgs. n. 472 del 1997 e 69 del r.d. n. 2440 del 1963.

La seconda questione ha per oggetto, invece, l’ambito di applicazione dell’art. 23, comma 1, del d.lgs. n. 472 del 1997 ed, in particolare, circa l’operatività di tale disposizione nel caso di atto di irrogazione delle sanzioni non annullato definitivamente (Sez. T, ordinanza interlocutoria n.  16567, del 20 giugno 2019, Pres. Manzon E., Est. D’Aquino F.).

[classificazione]

CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO E DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI – EQUA RIPARAZIONE PER IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO – QUESTIONE DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE

[riferimenti normativi]

Convenzione EDU, artt. 6 e 13

Costituzione, artt. 111 e 117

Legge n. 89/2001, artt. 2 e 4

[sentenze segnalate]

Cass. civ., Sezioni  Unite, sentenze nn. 19883/2019, 19884/2019, 19885/2019, 19886/2019, 19887/2019, 19888/2019, ud. 18.6.2019, dep. 23.7.2019

Con le sei sentenze in rassegna – che fissano un nucleo compatto di principi di diritto sulla cui base i ricorsi per cassazione ivi esaminati vengono, alcuni, accolti e, altri, rigettati – le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione tornano  –  per la quarta volta in dieci anni, dopo gli interventi del 2009 (sentt. nn. 27348 e 27365), del 2014 (sentt.   dalla n.6312 alla n. 6318) e del 2016 (sent. n. 9142)  –  sulla vexata quaestio del rapporto tra giudizio di cognizione e giudizio di esecuzione ai fini del riconoscimento e della quantificazione dell’equa riparazione del danno da durata non ragionevole del processo, con particolare riferimento al processo avente ad oggetto, a propria volta, l’indennizzo di cui alla legge n. 89/2001 (c.d. “Pinto su Pinto”).

Nelle controversie definite con dette sentenze si discuteva infatti – sotto le diverse angolazioni derivanti dalle diversità dei casi concreti oggetto di giudizio – delle seguenti questioni:

  1. Se il termine di decadenza per la proposizione del ricorso per l’equa riparazione da durata non ragionevole di un procedimento Pinto decorra dalla definitività della fase esecutiva in tutti i casi o solamente nei casi in cui l’esecuzione venga iniziata entro sei mesi dalla definitività del giudizio di cognizione.
  2. Quando debba collocarsi,  ai fini dell’individuazione della ragionevole durata del processo, l’inizio e la fine della fase esecutiva eventualmente intrapresa dal creditore nei confronti dello Stato-debitore.
  3. Se il tempo intercorso fra la definitività della fase di cognizione e l’inizio della fase esecutiva vada considerato come “tempo del processo”, da ricomprendere nel computo della durata unitaria del processo di cognizione ed esecutivo; o se, invece, esso rilevi come mero ritardo nell’esecuzione, indennizzabile  – quale pregiudizio autonomo e diverso dal tempo del processo (di cognizione e) di esecuzione –  in via diretta ed esclusiva (in assenza di rimedio interno) dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
  4. Se il termine di 120 giorni di cui all’art. 14 del d.l. n. 669 del 31 dicembre 1996, conv. dalla legge n. 30 del 28 febbraio 1997,  produca effetti ai fini della ragionevole durata del processo esecutivo.
  5. Se il  giudizio di ottemperanza promosso all’esito della decisione di condanna dello Stato al pagamento dell’indennizzo di cui alla l. n. 89/2001 vada considerato pienamente equiparabile al procedimento esecutivo.

Le Sezioni Unite risolvono tali questioni enunciando i seguenti principi di diritto.

  1. Ai fini della decorrenza del termine di decadenza per la proposizione del ricorso ai sensi dell’art. 4 della legge n. 89/2001, nel  testo modificato dall’art. 55 d.l. n. 83/2012, conv. nella l. n. 134/2012,  risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 88/2018, la fase di cognizione del processo che ha accertato il diritto all’indennizzo a carico dello Stato-debitore va considerata unitariamente rispetto alla fase esecutiva eventualmente intrapresa nei confronti dello Stato, senza la necessità che essa venga iniziata nel termine di sei mesi dalla definitività del giudizio di cognizione, decorrendo detto termine dalla definitività della fase esecutiva.
  2. Ai fini dell’individuazione della ragionevole durata del processo rilevante per la quantificazione dell’indennizzo previsto dall’art. 2 della l. n. 89/2001, la fase esecutiva eventualmente intrapresa dal creditore nei confronti dello Stato-debitore inizia con la notifica dell’atto di pignoramento e termina allorché diventa definitiva la soddisfazione del credito indennitario.
  3. Nel computo della durata del processo di cognizione ed esecutivo, da considerare unitariamente ai fini del riconoscimento del diritto all’indennizzo ex art. 2 l. n. 89/2001, non va considerato come “tempo del processo” quello intercorso fra la definitività della fase di cognizione e l’inizio della fase esecutiva, quest’ultimo invece potendo eventualmente rilevare ai fini del ritardo nell’esecuzione come autonomo pregiudizio, allo stato indennizzabile in via diretta ed esclusiva, in assenza di rimedio interno, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
  4. Il termine di 120 giorni di cui all’art. 14 del d.l. n. 669 del 31 dicembre 1996, conv. dalla legge n. 30 del 28 febbraio 1997, non produce alcun effetto ai fini della ragionevole durata del processo esecutivo.
  5. Il giudizio di ottemperanza promosso all’esito della decisione di condanna dello Stato al pagamento dell’indennizzo di cui alla l. n. 89/2001 deve considerarsi sul piano funzionale e strutturale pienamente equiparabile al procedimento esecutivo, dovendosi considerare unitariamente rispetto al giudizio che ha riconosciuto il diritto all’indennizzo.

Particolarmente rilevante è il principio  sub 1),  al quale è strettamente correlato il principio  sub 3), che torna ad intervenire su una  questione su cui la giurisprudenza di legittimità ha, fino ad ora, stentato a trovare un approdo definitivo, vale a dire  la questione del rapporto fra durata del giudizio di cognizione e durata delle giudizio di esecuzione, ai fini della determinazione della durata del giudizio e, quindi del riconoscimento e della quantificazione dell’ indennizzo spettante per la durata eccedente il limite di ragionevolezza.

Nel  2009, come è noto, le Sezioni Unite  avevano predicato l’assoluta autonomia del giudizio di cognizione e del giudizio di esecuzione, con la duplice conseguenza che il tempo del primo e quello del secondo giudizio non potevano essere sommati, ai fini della verifica del superamento della durata ragionevole di cui alla legge 89/2001, e che il termine per azionare il diritto all’ equa riparazione per l’irragionevole durata del giudizio di cognizione decorreva dalla conclusione di tale giudizio, a prescindere dalla eventuale instaurazione di un procedimento di esecuzione.

Con le sentenze del 2014, specificamente rese con riferimento a giudizi Pinto,  le stesse Sezioni Unite  per contro, recependo le indicazioni provenienti dalla Corte di Strasburgo, qualificarono il giudizio di cognizione e quello di esecuzione (o di ottemperanza) come due fasi di un unico giudizio, volto a dare soddisfazione al diritto ivi azionato; donde la  cumulabilità della durata di entrambe le fasi, ai fini dell’accertamento dell’eventuale superamento dei limiti di ragionevole durata del processo,  e la possibilità di agire per l’ equa riparazione del giudizio di cognizione nel termine decadenza decorrente dalla conclusione del procedimento di esecuzione.

Con la sentenza del 2016, riferita ad un caso di durata non ragionevole di un giudizio civile “non Pinto”, le Sezioni Unite ritennero poi di dover circoscrivere l’ambito applicativo dell’orientamento enunciato nel 2014 e affermarono – al dichiarato scopo «di preservare la certezza delle situazioni giuridiche e di evitarne l’esercizio abusivo» – che la valutazione unitaria dei procedimenti di cognizione e di esecuzione, ai fini della verifica del rispetto dei limiti di ragionevole durata del processo, potesse essere operata solo nei casi in cui il giudizio di esecuzione era stato introdotto entro sei mesi dalla definizione del giudizio di cognizione.

Quest’ultimo orientamento è stato ora, ancora una volta, ribaltato con le sentenze in rassegna che, tornando sostanzialmente alle posizioni del 2014, hanno affermato che il giudizio di cognizione e quello di esecuzione costituiscono un unicum,  ai fini della tutela del diritto alla ragionevole durata del processo riconosciuto dall’articolo 6  CEDU, con la duplice conseguenza che, per un verso, le relative durate si sommano e, per altro verso, il termine di decadenza per l’esercizio dell’azione di equa riparazione (ossia per l’instaurazione del giudizio “Pinto su Pinto”) decorre dal momento della conclusione del giudizio di esecuzione (identificato in quello della definitiva soddisfazione del credito indennitario) anche nei casi in cui tale giudizio sia stato instaurato (con la notifica dell’atto di pignoramento) dopo il decorso di sei mesi dalla conclusione del giudizio di cognizione (vale a dire, dal passaggio in giudicato della sentenza che ha riconosciuto e quantificato l’equa riparazione).

Quanto al tempo intercorrente tra la definizione del giudizio di cognizione e l’instaurazione del giudizio di esecuzione, le pronunce del 2019 hanno affermato –  anche qui in sostanziale continuità con gli arresti del 2014 – che esso non può essere considerato “tempo del processo”  e, quindi, non può essere indennizzato secondo il rimedio interno di cui alla legge 89/2001; tale tempo, tuttavia – in quanto tempo di ritardo nell’esecuzione a cui lo Stato debitore è tenuto a provvedere, secondo la giurisprudenza convenzionale, anche in assenza di iniziative del creditore – può peraltro costituire fonte di un pregiudizio autonomo e distinto rispetto a quello derivante dall’irragionevole durata del processo; pregiudizio il cui indennizzo, in assenza di rimedio interno,  può essere richiesto direttamente ed esclusivamente indennizzabile alla Corte EDU.

A fondamento del revirement rispetto alla sentenza del 2016 le  Sezioni Unite del 2019 pongono proprio la necessità di ancorarsi saldamente  alla giurisprudenza della Corte EDU, teorizzando esplicitamente – con richiamo a SSUU n.33208/2018, C. cost. n.49/2015, C. cost. nn. 24 e 25 del 2019 – che la funzione del giudice nazionale è  «quella di cooperare attivamente, anche attraverso l’interpretazione convenzionalmente orientata, alla protezione dei diritti fondamentali, dialogando con la giurisprudenza delle Corti costituzionali e sovranazionali in modo da offrire un livello elevato di protezione dei diritti fondamentali».

In particolare, nelle sentenze in rassegna si fa leva, per un verso, sulla sentenza della Corte EDU Bozza c. Italia, del 14 settembre 2017 e, per altro verso, sulla vicenda della cancellazione dal ruolo della Corte EDU della causa Di Blasi e altri c. Italia (ríc. n. 42256/2012, dec.).

Nella  sentenza Bozza c. Italia (concernente una vicenda originata dalla illegittima durata di un processo “non Pinto”) la Corte EDU – dopo aver ricordato che, secondo la propria giurisprudenza, l’ esecuzione fa parte integrante del “processo”, ai sensi dell’articolo 6 CEDU (sentenze  Hornsby c. Grecia, del 19 marzo 1997, Silva Pontes c. Portogallo, del 23 marzo 1994, Di Pede e Zappia c. Italia del 26 settembre 1996, Bourdov c. Russia del 7 maggio 2002) – distingue nettamente tra debitore-privato e debitore-pubblica amministrazione, stabilendo che, nel primo caso, agli Stati contraenti spetta soltanto garantire l’assistenza necessaria affinché il diritto rivendicato trovi la sua effettiva realizzazione (potendo rispondere dei ritardi dell’esecuzione soltanto se le autorità pubbliche implicate nelle procedure non diano prova della diligenza richiesta o impediscono l’esecuzione stessa), mentre, nel secondo caso, lo Sato risponde per il fatto stesso della  ritardata soddisfazione del credito recata dal titolo esecutivo; si veda, in termini, Bozza c. Italia § 45: «quando viene pronunciata una sentenza contro lo Stato, il privato che ha ottenuto una sentenza contro quest’ultimo non deve di norma avviare un procedimento distinto per ottenerne l’esecuzione forzata (Metaxas, sopra citata, § 19). È sufficiente che sia regolarmente notificata all’autorità nazionale interessata (Akachev c. Russia, n. 30616/05, § 21, 12 giugno 2008) o che siano espletati alcuni adempimenti processuali di natura formale (Chvedov c. Russia, n. 69306/01, §§ 29-37, 20 ottobre 2005, e Kosmidis e Kosmidou c. Grecia, n. 32141/04, § 24, 8 novembre 2007). Il suo obbligo di cooperare non deve tuttavia eccedere quanto strettamente necessario all’esecuzione della decisione e, in ogni caso, non esonera l’amministrazione dall’obbligo di agire di propria iniziativa e nei termini previsti (Akachev, sopra citata, § 22, Bourdov, sopra citata, § 35, e Koukalo c. Russia, n. 63995/00, § 49, 3 novembre 2005), in particolare organizzando il proprio sistema giudiziario (si vedano, mutatis mutandis, Comingersoll S.A. c. Portogallo [GC], n. 35382/97, § 24, CEDU 2000 IV, e Frydlender c. Francia [GC], n. 30979/96, § 45, CEDU 2000 VII)».

Quanto alla causa Di Blasi e altri c. Italia – introdotta dai ricorrenti dopo che la loro domanda di equa riparazione,  presentata oltre sei mesi dopo la definizione della giudizio presupposto svoltosi dinanzi al Tar Lazio, era stata giudicata inammissibile nonostante l’ esperimento del giudizio di ottemperanza per l’esecuzione del giudicato amministrativo – la stessa fu cancellata dal ruolo dalla Corte EDU, ai sensi dell’art.37, § 1 lett. c), CEDU,  dopo che il Governo italiano aveva offerto ai ricorrenti una somma a titolo d’indennizzo, depositando la dichiarazione che «les requérants… ont subi la violation de l’article 6 § 1 della CEDU, selon les principes exprimés per la Cour EDH dans le affaires Di Pede c. Italie,…Hornsby c. Gréce.., Metaxas c. Grèce…et Burdov n.2 C. Russie».

 Va altresì sottolineato come le  sentenze in rassegna rimarchino la piena efficacia e vincolatività di una  decisione della Corte EDU che disponga  la cancellazione della causa dal ruolo sulla base della dichiarazione di riconoscimento della violazione di un diritto fondamentale, richiamando, sul punto, il precedente di Cass. pen., n. 50919/2018, Frascati, nonché la disposizione di cui all’articolo 1, comma 421, della legge 27 dicembre 2013 n. 147, introduttiva di  una norma di interpretazione autentica secondo la quale, ai fini del diritto di rivalsa dello Stato per gli oneri finanziari sostenuti per la definizione delle controversie dinanzi alla Corte EDU,  sono comprese anche le controversie concluse con decisione di radiazione o cancellazione della causa dal ruolo ai sensi degli articoli 37 e 39 CEDU.

Le sentenze in esame traggono quindi, dai convergenti segnali offerti dalla Corte EDU con la pronuncia della sentenza Bozza c. Italia e con la cancellazione dal ruolo della causa Di Blasi e altri c. Italia, la conclusione del definitivo assestamento della giurisprudenza convenzionale nel senso della non necessità di promuovere la fase esecutiva nei confronti del debitore quando questi (e soltanto quando questi)  coincida con lo Stato e, conseguentemente, affermano che, per poter considerare unitariamente il giudizio di cognizione ed il giudizio di opposizione aventi ad oggetto l’accertamento e la soddisfazione di un credito nei confronti dello Stato, non vi è alcuna necessità che il giudizio di esecuzione venga introdotto entro il termine di sei mesi dalla conclusione del giudizio di cognizione, essendo lo Stato «tenuto ad adempiere l’obbligazione pecuniaria senza che sia possibile individuare una condotta abusiva da parte del creditore che rimanga inerte, in attesa dell’adempimento spontaneo del debitore-Stato».

Nel bimestre in esame numerose e significative sono state le pronunce delle Sezioni Unite.

Decidendo su questione di massima di particolare importanza, hanno affermato che la grave violazione di legge, fonte di responsabilità ai sensi dell’art. 2, lett. a) della l. n. 117 del 1988, nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla l. n. 18 del 2015, va individuata nelle ipotesi in cui la decisione appaia non essere frutto di un consapevole processo interpretativo, ma contenga affermazioni ad esso non riconducibili perchè sconfinanti nel provvedimento abnorme o nel diritto libero, e pertanto caratterizzate da una negligenza inesplicabile, prima ancora che inescusabile, restando pertanto sottratta alla operatività della clausola di salvaguardia di cui all’art. 2, comma 2 della legge citata, ipotesi che può verificarsi in vari momenti dell’attività prodromica alla decisione, in cui la violazione non si sostanzia negli esiti del processo interpretativo, ma ne rimane concettualmente e logicamente distinta, ossia quando l’errore del giudice cada sulla individuazione, ovvero sulla applicazione o, infine, sul significato della disposizione, intesa quest’ultima come fatto, come elaborato linguistico preso in considerazione dal giudice che non ne comprende la portata semantica (Sez. Unite, sentenza n. 11747 del 3 maggio 2019, Presidente G. Mammone, Estensore L. Rubino).  

Con la stessa pronuncia, hanno affermato che, in tema di responsabilità civile dello Stato per danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, la presenza di una motivazione non è condizione necessaria e sufficiente ad escludere sempre la ammissibilità di un’azione di responsabilità per grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile, ma è di certo ausilio alla comprensibilità della decisione e quindi, di regola, è un elemento per escludere, alla luce del testo originario della l. n. 117 del 1988, la stessa sindacabilità della scelta decisionale, in quanto consapevole frutto del processo interpretativo; per contro, non tutti i casi di mancanza della motivazione, ancorchè la pronunzia si ponga in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, sono fonte di responsabilità, purchè la scelta interpretativa sia ugualmente riconoscibile.

Decidendo su altra questione di massima di particolare importanza, hanno affermato che il rifiuto di procedere alla trascrizione nei registri dello stato civile di un provvedimento giurisdizionale straniero con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero ed un cittadino italiano, se non determinato da vizi formali, dà luogo ad una controversia di stato, da risolversi mediante il procedimento disciplinato dall’art. 67 della legge n. 218 del 1995, in contraddittorio con il Sindaco, in qualità di ufficiale dello stato civile, ed eventualmente con il Ministero dell’interno, legittimato a spiegare intervento nel giudizio, in qualità di titolare della competenza in materia di tenuta dei registri dello stato civile, nonché ad impugnare la relativa decisione (Sez. Unite, sentenza n. 12193 dell’8 maggio 2019, Presidente G. Mammone, Estensore G. Mercolino).  

A risoluzione di contrasto, hanno affermato che l’onere di allegazione gravante sull’istituto di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l’eccezione di prescrizione al correntista che abbia esperito l’azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente assistito da un’apertura di credito, è soddisfatto con l’affermazione dell’inerzia del titolare del diritto e la dichiarazione di volerne profittare, senza che sia anche necessaria l’indicazione di specifiche rimesse solutorie (S.U., sentenza n. 15895, del 13 giugno 2019, Pres. F. Tirelli, Est. M.G. Sambito).

Decidendo su questione di massima di particolare importanza, hanno affermato che nel giudizio avente ad oggetto il riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero ed un cittadino italiano, il Pubblico Ministero riveste la qualità di litisconsorte necessario, ai sensi dell’art. 70, comma 1, n. 3 c.p.c., ma è privo della legittimazione ad impugnare la relativa decisione, non essendo titolare del potere di azione, neppure ai fini dell’osservanza delle leggi di ordine pubblico (Sez. Unite, sentenza n. 12193 dell’8 maggio 2019, Presidente G. Mammone, Estensore G. Mercolino).

Le Sez. U. hanno affermato che, ai fini del decorso degli interessi in ipotesi di ripetizione di indebito oggettivo, il termine “domanda” di cui all’art. 2033 c.c., non va inteso come riferito esclusivamente alla domanda giudiziale ma comprende, anche, gli atti stragiudiziali aventi valore di costituzione in mora, ai sensi dell’art. 1219 c.c. (S.U., sentenza n. 15895, del 13 giugno 2019, Pres. F. Tirelli, Est. M.G. Sambito).

Decidendo su questione di massima di particolare importanza, hanno affermato che, in tema di riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero, la compatibilità con l’ordine pubblico, richiesta dagli artt. 64 e ss. della legge n. 218 del 1995, deve essere valutata alla stregua non solo dei principi fondamentali della nostra Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui gli stessi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti, nonché dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale ed ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente dal quale non può prescindersi nella ricostruzione delle nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico (Sez. Unite, sentenza n. 12193 dell’8 maggio 2019, Presidente G. Mammone, Estensore G. Mercolino).

Con lo stesso provvedimento, hanno affermato che il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero con cui sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore d’intenzione munito della cittadinanza italiana trova ostacolo nel divieto della surrogazione di maternità previsto dall’art. 12, comma sesto, della legge n. 40 del 2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione; la tutela di tali valori, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull’interesse del minore, nell’ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, non esclude peraltro la possibilità di conferire rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l’adozione in casi particolari, prevista dall’art. 44, comma primo, lett. d), della legge n. 184 del 1983 (Sez. Unite, sentenza n. 12193 dell’8 maggio 2019, Presidente G. Mammone, Estensore G. Mercolino).

A risoluzione di contrasto, hanno affermato che, in materia di garanzia per i vizi della cosa venduta di cui all’art. 1490 c.c., il compratore che esercita le azioni di risoluzione del contratto o di riduzione del prezzo di cui all’art. 1492 c.c. è gravato dell’onere di offrire la prova dell’esistenza dei vizi  (Sez. Unite, sentenza n. 11748 del 3 maggio 2019, Presidente P. Curzio, Estensore A. Cosentino).

Su questione di massima di particolare importanza, hanno affermato che, in tema di rapporto tra giudizio penale e giudizio civile, i casi di sospensione necessaria previsti dall’art. 75, comma 3, c.p.p., che rispondono a finalità diverse da quella di preservare l’uniformità dei giudicati, e richiedono che la sentenza che definisca il processo penale influente sia destinata a produrre in quello civile il vincolo rispettivamente previsto dagli artt. 651, 651-bis, 652, e 654 c.p.p., vanno interpretati restrittivamente, di modo che la sospensione non si applica qualora il danneggiato proponga azione di danno nei confronti del danneggiante e dell’impresa assicuratrice della responsabilità civile dopo la pronuncia di primo grado nel processo penale nel quale il danneggiante sia imputato (S.U., sentenza n. 13661, del 21 maggio 2019, Pres. G. Mammone, Est. A.M. Perrino).

A risoluzione di contrasto, hanno affermato che lo Stato o l’ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle della amministrazione di appartenenza, purchè la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa – e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi – non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio contro fattuale riferito al tempo della condotta, senza l’esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo od illecito, non ne integrino uno sviluppo oggettivamente anomalo (Sez. Unite, sentenza n. 13246 del 16 maggio 2019, Presidente G. Mammone, Estensore F. De Stefano).

A risoluzione di contrasto su questione ritenuta anche di massima di particolare importanza, hanno affermato che, ai sensi dell’art. 111, comma 2, del d.P.R. n. 1124 del 1965, la prescrizione dell’azione per conseguire le prestazioni INAIL resta sospesa per tutta la durata della liquidazione amministrativa della prestazione e fino all’adozione di un provvedimento di accoglimento o di diniego da parte dell’Istituto, e che, con il decorso del termine di 150 gg. previsto dall’art. 104, o di 210 gg., di cui all’art. 83 dello stesso decreto, è rimossa la condizione di procedibilità dell’azione giudiziaria con facoltà per l’assicurato di agire in giudizio a tutela della posizione giuridica soggettiva rivendicata (Sezioni Unite, sentenza 7 maggio 2019, n. 11928, Presidente S. Petitti, Relatore F. Garri).

Su questione di massima di particolare importanza, in tema di autorizzazione all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare di minore straniero che si trova nel territorio italiano, hanno affermato che, ai sensi dell’art. 31, comma 3, T.U. immigrazione, approvato con il d.lgs. n. 286 del 1998, il diniego non può essere fatto derivare automaticamente dalla pronuncia di condanna per uno dei reati che lo stesso testo unico considera ostativi all’ingresso o al soggiorno dello straniero; nondimeno la detta condanna è destinata a rilevare, al pari delle attività incompatibili con la permanenza in Italia, in quanto suscettibile di costituire una minaccia concreta e attuale per l’ordine pubblico o la sicurezza nazionale, e può condurre al rigetto dell’istanza di autorizzazione all’esito  di un esame circostanziato del caso e di un bilanciamento con l’interesse del minore, al quale la detta norma, in presenza di gravi motivi connessi con il suo sviluppo psicofisico, attribuisce valore prioritario, ma non assoluto (S.U., sentenza n. 15750, del 12 giugno 2019, Pres. G. Mammone, Est. A. Giusti).

Molto prolifica è stata altresì, nel periodo, la Prima Sezione.

Ha affermato che, in caso di nascita mediante tecniche di procreazione medicalmente assistita, l’art. 8 della legge n. 40 del 2004 sullo status del nato con PMA si applica – a prescindere dalla presunzione ex art. 234 c.c. – anche all’ipotesi di fecondazione omologa post mortem avvenuta utilizzando il seme crioconservato del padre, deceduto prima della formazione dell’embrione, che in vita abbia prestato, congiuntamente alla moglie o alla convivente, il consenso, non successivamente revocato, all’accesso a tali tecniche ed autorizzato la moglie o la convivente al detto utilizzo dopo la propria morte (Prima Sezione civile, sentenza n. 13000 del 15 maggio 2019, Pres. M. Acierno, est. E. Campese).

Ha, inoltre, rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c., le seguenti questioni in tema di protezione internazionale e di immigrazione: a) se la normativa introdotta con il d.l. n. 113 del 2018, convertito nella l. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998 e delle altre disposizioni consequenziali, sostituendola con la previsione di casi speciali di permessi di soggiorno, trovi applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5/10/2018) della nuova legge o se, per converso – come ritenuto da Sez. 1, ord. 19 gennaio 2019, n. 4890 –  le domande in parola debbano essere scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione; b) se il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui al su richiamato art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, debba o meno fondarsi – come ritenuto da Sez. 1 ord. 23 febbraio 2018, n. 4455 –  su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Sezione 1, Ord. 3 maggio 2019, n. 11749, Pres. A Genovese, Est. A. Lamorgese).

Ha, ancora, affermato il seguente principio di diritto: «L’art. 31 della Convenzione di New York, che prevede la non espellibilità di un apolide se non nei casi di documentata sussistenza dei motivi di sicurezza nazionale e di ordine pubblico, si estende in via analogica anche alle situazioni di apolidia di fatto e/o nelle more del procedimento per accertare lo stato di apolidia, quando la situazione del soggetto emerge chiaramente dalle informazioni o dalla documentazione delle autorità pubbliche competenti dello Stato italiano, di quello di origine o di quello verso il quale può ravvisarsi un collegamento significativo con il soggetto interessato» (Prima Sezione civile, sentenza n. 16489 del 19 giugno 2019, Pres. F.A. Genovese, est. G. Bisogni).

In tema di amministrazione di sostegno, dopo aver ribadito che la procedura di nomina dell’amministratore non presuppone che la persona interessata versi in uno stato d’incapacità d’intendere o di volere, essendo sufficiente che sia priva, in tutto o in parte, di autonomia per una qualsiasi “infermità” o “menomazione fisica”, anche parziale o temporanea e non necessariamente mentale, che la ponga nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi, ha stabilito che la designazione anticipata dell’amministratore di sostegno da parte dello stesso interessato, in vista della propria eventuale futura incapacità, prevista dall’art. 408, comma 1, c.c., non ha esclusivamente la funzione di scegliere il soggetto che, ove si presenti la necessità, il giudice tutelare deve nominare, ma ha altresì la finalità di consentire al designante, che si trovi ancora nella pienezza delle proprie facoltà cognitive e volitive, di impartire delle direttive vincolanti sulle decisioni sanitarie o terapeutiche da far assumere in futuro all’amministratore designato; tali direttive possono anche prevedere il rifiuto di determinate cure, in quanto il diritto fondamentale della persona all’autodeterminazione, in cui si realizza il valore fondamentale della dignità umana, sancito dall’art. 32 Cost., dagli art. 2, 3 e 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dalle convenzioni internazionali, include il diritto di rifiutare la terapia, come nell’ipotesi di aderente alla confessione religiosa dei Testimoni di Geova, che in sede di designazione anticipata abbia preventivamente manifestato la sua irrevocabile volontà di non essere sottoposto, neanche in ipotesi di morte certa ed imminente, a trasfusioni a base di emoderivati (Sezione Lavoro, 15/5/2019, n. 12998 – Presidente A. Valitutti, estensore R. Caiazzo).

Ha, infine, affermato – ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c. – il seguente principio di diritto: «le prescrizioni presuntive di cui agli artt. 2954 ss. c.c. sono fenomeni di natura probatoria, sostanziandosi in presunzioni di “avvenuto pagamento”; non dà perciò luogo a prescrizione presuntiva la fattispecie in cui una frazione del tempo stabilito dalla norma di legge fondante la stessa sia decorsa dopo la dichiarazione di fallimento del debitore, pur se prima che il creditore abbia presentato domanda di insinuazione nel relativo passivo» (Prima Sezione civile, sentenza n. 16123 del 14 giugno 2019, Pres. A. Didone, est. A.A. Dolmetta).

Alla Seconda Sezione si deve la pronuncia con la quale, in tema di compensi professionali, sono stati rimessi gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, profilando la questione di massima di particolare importanza, se, nell’attuale quadro normativo, esclusa la possibilità di proporre la domanda in via ordinaria o ai sensi degli artt. 702 bis e ss. c.p.c., resti tuttora impregiudicata la possibilità di chiedere i compensi per attività svolte in più gradi in un unico processo innanzi al giudice che abbia conosciuto per ultimo della controversia, ovvero, se residui la sola alternativa di proporre più domande autonome dinanzi ai singoli giudici aditi per il processo o di cumularle davanti al tribunale competente ex art. 637 c.p.c., con salvezza del foro del consumatore (Sesta Sezione civile, Sottosezione Seconda, ordinanza n. 16212 del 17 giugno 2019, Pres. P. D’Ascola, est. G. Fortunato).

La Terza Sezione si segnala per tre pronunce.

Con la prima ha chiarito che, nel giudizio civile di rinvio innanzi alla Corte d’appello civile ex art. 622 c.p.p., a seguito di annullamento (su impugnazione della parte civile) di sentenza di assoluzione disposto dalla Corte di cassazione penale ai soli effetti civili, la Corte d’appello competente per valore deve applicare le regole, processuali e probatorie, proprie del processo civile e, conseguentemente, adottare, in tema di nesso eziologico tra condotta ed evento di danno, il criterio causale del “più probabile che non”, e non quello penalistico dell’alto grado di probabilità logica e di credenza razionale (Sezione 3, Sentenza 12 giugno 2019, n. 15859, Pres. coest. G. Travaglino, Rel. coest. A. Tatangelo).

Con la seconda ha affermato che il creditore del condominio che disponga di un titolo esecutivo nei confronti del condominio stesso ha facoltà di procedere all’espropriazione di tutti i beni condominiali, ai sensi degli artt. 2740 e 2910 c.c., ivi inclusi i crediti vantati dal condominio nei confronti dei singoli condomini per i contributi dagli stessi dovuti in base a stati di ripartizione approvati dall’assemblea, in tal caso nelle forme dell’espropriazione dei crediti presso terzi di cui agli artt. 543 ss. c.p.c. e senza che entri in gioco il principio di parziarietà delle obbligazioni condominiali (Sezione 3, Sentenza 14 maggio 2019, n. 12715, Pres. F. De Stefano, Rel. A. Tatangelo).

Infine, ha sollevato innanzi alla CGUE, ex art. 267 del TFUE, le seguenti questioni pregiudiziali:

1)         se osti agli artt. 14 TFUE (già art. 7D Trattato, poi art. 16 TCE) e 106 paragr. 2, TFUE (già art. 90 Trattato, poi art. 86, paragr. 2, TCE) ed all’inquadramento nello schema del servizio di interesse economico generale (SIEG) una normativa come quella prevista dal combinato disposto dell’art. 10, comma 3, del d.lgs. n. 504 del 1992 con l’art. 2, commi 18-20, della l. n. 662 del 1996, alla stregua della quale viene istituita e mantenuta – anche successivamente alla privatizzazione dei servizi di  “bancoposta” erogati da Poste Italiane s.p.a. – una riserva di attività (regime di monopolio legale) a favore di Poste Italiane s.p.a. avente ad oggetto la gestione del servizio di conto corrente postale dedicato alla raccolta del tributo locale ICI, tenuto conto dell’evoluzione della normativa statale in materia di riscossione delle imposte, che almeno a far data dall’anno 1997, consente al contribuente ed anche agli enti locali impositori, di avvalersi liberamente di modalità di pagamento e riscossione dei tributi (anche locali) attraverso il sistema bancario;

2)         qualora l’istituzione del monopolio legale dovesse essere riconosciuta rispondente alle caratteristiche del SIEG, se osti agli artt. 106, paragr. 2, TUEF (già art. 90 Trattato, poi art. 86, paragr. 2, TCE) e 107, paragr. 1, TUEF (già art. 92 Trattato, poi art. 87 TCE), secondo l’interpretazione di tali norme fornita dalla Corte di Giustizia con riferimento ai requisiti intesi a distinguere una misura legittima – compensatoria degli obblighi di servizio pubblico – da un aiuto di Stato illegittimo, una normativa come quella risultante dal combinato disposto degli artt. 10, comma 3, del d.lgs. n. 504 del 1992, 2, commi 18-20, della l. n. 662 del 1996 e 3, comma 1, del d.P.R. n. 144/2001, che attribuisce a Poste Italiane s.p.a. il potere di determinazione unilaterale dell’importo della “commissione” dovuta dal Concessionario (Agente) della riscossione del tributo ICI, ed applicata su ciascuna operazione di gestione effettuata sul conto corrente postale intestato al Concessionario/Agente, tenuto conto che Poste Italiane s.p.a. con delibera del consiglio di amministrazione n. 57/1996 ha stabilito detta commissione in Lire 100 per il periodo 1.4.1997-31.5.2001 ed in Euro 0,23 per il periodo successivo all’1.6.2001;

3)         se osti all’art. 102, paragr. 1, TUEF (già art. 86 Trattato, poi art. 82, paragr. 1, TCE), come interpretato dalla Corte di Giustizia, un complesso normativo quale quello costituito dall’art. 2, commi 18-20, della l. n. 662 del 1996, dall’art. 3, comma 1, del d.P.R. n. 144 del 2001 e dall’art. 10, comma 3, del d.lgs. n. 504 del 1992, dovendo necessariamente assoggettarsi il Concessionario (Agente) al pagamento della “commissione”, così come unilateralmente determinata e/o variata da Poste Italiane s.p.a., non potendo altrimenti recedere dal contratto di conto corrente postale, se non incorrendo nella violazione dell’obbligo prescritto dal citato art. 10, comma 3, e nel conseguente inadempimento all’obbligazione di riscossione dell’ICI assunta nei confronti dell’ente locale impositore (Terza Sezione Civile, ordinanza 23 maggio 2019 n. 14080, Presidente A. Amendola, Relatore S. Olivieri).

La Sezione Lavoro ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite in ordine alla risoluzione del potenziale contrasto con l’interpretazione resa dalla medesima Sezione con la sentenza n. 3177 del 2019 in ordine all’inquadramento del collaboratore fisso che svolga attività giornalistica in modo esclusivo, ai fini dell’iscrizione nell’elenco dei giornalisti, con conseguente nullità del contratto in caso di iscrizione al solo elenco dei pubblicisti (Sez. L, ordinanza interlocutoria n. 14262 del 24 maggio 2019, Pres. F. Balestrieri, Rel. C. Ponterio).

Ha, inoltre, sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 74 del d.lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui richiede ai cittadini extracomunitari, ai fini dell’erogazione dell’indennità di maternità, anche la titolarità del permesso unico di soggiorno, anziché la titolarità del permesso di soggiorno e di lavoro per almeno un anno, ai sensi dell’art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998, con riferimento ai parametri di cui agli artt. 3, 31 e 117, comma 1, Cost. in relazione agli artt. 20, 21, 24, 31 e 34 della CFDUE (Sez. L ordinanza interlocutoria n. 16163 del 17 giugno 2019, Pres. A. Manna, Rel. E. D’Antonio).

Infine, nello stesso solco, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 125, della l. n. 190 del 2014, nella parte in cui richiede ai cittadini extracomunitari, ai fini dell’erogazione dell’assegno di natalità, anche la titolarità del permesso unico di soggiorno, anziché la titolarità del permesso di soggiorno e di lavoro per almeno un anno, ai sensi dell’art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998, con riferimento ai parametri di cui agli artt. 3, 31 e 117, comma 1, Cost. in relazione agli artt. 20, 21, 24, 31 e 34 della CFDUE (Sez. L ordinanza interlocutoria n. 16164 del 17 giugno 2019, Pres. A. Manna, Rel. E. D’Antonio).

La Sezione Tributaria merita di essere segnalata per tre pronunce.

In tema di aiuti di Stato illegittimi – nella specie costituito dal credito d’imposta introdotto dall’art. 8 della l. n. 388 del 2000 (poi modificato dall’art. 1, comma 1223 l. n. 296 del 2006), riconosciuto in automatico, in dichiarazione mediante compensazione, alle imprese che avessero effettuato nuovi investimenti in aree svantaggiate – con tre coeve ordinanze interlocutorie, ha sollevato rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del TFUE sull’interpretazione del comma 1223 dell’articolo unico della l. n. 296 del 2006, oggi trasfuso nell’art. 16-bis, comma 11, della l. n. 11 del 2005 (che impone all’impresa una dichiarazione sostitutiva di atto notorio di non rientrare tra coloro che hanno ricevuto e successivamente non rimborsato precedenti aiuti “bocciati” dalla Commissione) e dell’art. 4, comma 1, del Dpcm 23 maggio 2007 (laddove preclude tour court l’accesso al beneficio all’impresa che abbia ricevuto l’aiuto, anziché limitarsi a sospenderne l’erogazione), con riferimento all’art. 108, comma 3, TFUE – come interpretato dalla giurisprudenza unionale (cd. impegno Deggendorf) – alla decisione C (2008)380 della Commissione europea (che sospende la fruizione dell’agevolazione ai beneficiari di un ordine di recupero) ed al principio comunitario di proporzionalità (secondo cui gli atti delle istituzioni comunitarie non debbono superare i limiti di ciò che è idoneo e necessario al conseguimento degli scopi legittimamente perseguiti dalla normativa di che trattasi). (Sez. Tributaria, ordinanza interlocutoria n. 13342 del 4 dicembre 2018, dep. il 17 maggio 2019, Presidente M. Cristiano, Estensore M. Cirese)  

In tema di imposte ipotecarie e catastali, quale organo di ultima istanza, con due coeve ordinanze interlocutorie, ha sollevato rinvio pregiudiziale ai sensi degli artt. 234 e 267 del TFUE domandando alla Corte di giustizia UE se le disposizioni del Trattato in materia di libertà di stabilimento e di libera circolazione dei capitali ostino all’applicazione della disciplina agevolativa soggettiva di cui all’art. 35, comma 10-ter, del d.l. n. 223 del 2006 (conv., con modif., in l. n. 248 del 2006) – di stretta interpretazione (e, quindi, insuscettibile di applicazione analogica) – nella parte in cui limita ai fondi di investimento immobiliare “chiusi” (caratterizzati da un numero di quote prestabilito ed invariabile nel tempo) la riduzione delle imposte ipo-catastali, precludendo l’estensione del beneficio anche a quelli aperti (caratterizzati dalla variabilità del patrimonio e sottoscrivibili in ogni momento). (Sez. Tributaria, ordinanza interlocutoria n. 15432 del 6-21 dicembre 2018, dep. il 7 giugno 2019, Presidente C. Di Iasi, Estensore A. Penta)  

Infine, in tema di debiti tributari, dando applicazione, in plurime cause, al disposto dell’art. 4, comma 1, del d.l. n. 119 del 2018, conv., con modif., in l. n. 136 del 2018 – che prevede l’annullamento dei singoli carichi entro i mille euro (cd. “saldo e stralcio”) – ha affermato l’operatività ipso iure dello stralcio, senza necessità del consequenziale provvedimento di sgravio da parte dell’agente della riscossione, con conseguente nullità iure superveniente delle cartelle impugnate e declaratoria di estinzione del processo (Sez. Tributaria, ordinanza n. 15471 del 17 aprile 2019, dep. il 7 giugno 2019, Presidente D. Chindemi, Estensore M. Vecchio).

a cura di Andrea Penta

R.g. 15678/2013

Ud. 12.05.2015 – P.U. – Pubbl. 03.06.2015 – Racc. Gen. 11377/2015 – Rel. Giusti

– Contratti in genere – contratto concluso dal falsus procurator- effetti – prima della ratifica – inefficacia del negozio – rilevabilità soltanto su eccezione dello pseudo-rappresentato o anche d’ ufficio – eccezione in senso stretto o in senso lato – questione di massima di particolare importanza rimessa alle Sezioni Unite con ordinanza interlocutoria n. 14688 del 2014 dalla II Sezione civile – ricorso – (RGN 15678/2013 – Rel. 157/2014

SU – a risoluzione di questione di massima – hanno enunciato il seguente principio di diritto: “poiché la sussistenza del potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui è elemento costitutivo della pretesa che il terzo contraente intenda far valere in giudizio sulla base del negozio, non costituisce eccezione, e pertanto non ricade nelle preclusioni previste dagli artt. 167 e 345 cod. proc. civ., la deduzione della inefficacia per lo pseudo rappresentato del contratto concluso dalfalsus procurator; ne consegue che, ove il difetto di rappresentanza risulti dagli atti, di esso il giudice deve tener conto anche in mancanza di specifica richiesta della parte interessata, alla quale, a maggior ragione, non è preclusa la possibilità di far valere la mancanza del potere rappresentativo come mera difesa”.

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a cura di Andrea Penta

70. IMPUGNAZIONI CIVILI

Ricorso per decreto ingiuntivo – Produzione solo in appello dei documenti posti a fondamento della richiesta monitoria – Ammissibilità – Fondamento.

I documenti allegati alla richiesta di decreto ingiuntivo non possono essere considerati nuovi, sicché, pur non prodotti nella fase di opposizione, ne è ammissibile l’allegazione con l’atto di appello, senza che operino i limiti di cui all’art. 345, comma 3, nel testo introdotto dall’art. 52 della legge 26 novembre 1990, n. 353.

(Sezioni Unite Civili, Sentenza 10 luglio 2015, n. 14475, Presidente L. A. Rovelli,  Relatore P. Curzio)

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a cura di Andrea Penta

Cass. civ., Sez. Un., sentenza 26 maggio 2015 n. 10798 (Pres. Santacroce, rel. Ambrosio)

Pubblica Amministrazione – Azione ex art. 2041 c.c. – Requisiti – Riconoscimento dell’utilità – Necessità – Esclusione  (art. 2041 c.c.)

Il riconoscimento dell’utilità non costituisce requisito dell’azione ex art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A., sicché, ove il depauperato provi l’oggettivo arricchimento dell’ente pubblico, questo non può opporre semplicemente di non averlo riconosciuto, ma deve provare di non averlo voluto o di non esserne stato consapevole.

La regola di carattere generale secondo cui non sono ammessi arricchimenti ingiustificati né spostamenti patrimoniali ingiustificabili trova applicazione paritaria nei confronti del soggetto privato come dell’ente pubblico; e poiché il riconoscimento dell’utilità non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, il privato attore ex art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A. deve provare – e il giudice accertare – il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’amministrazione possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, potendo essa, piuttosto, eccepire e dimostrare che l’arricchimento non fu voluto o non fu consapevole.

Cass. civ., Sez. Un., sentenza 26 maggio 2015 n. 10798 (Pres. Santacroce, rel. Ambrosio)

Pubblica Amministrazione – Azione ex art. 2041 c.c. – Prestazioni anteriori alla entrata in vigore del DL 66 del 1989 – Regime giuridico (art. 191 dlgs 267 del 2000)

La normativa di cui D.L. n. 66 del 1989, art. 23 (conv. in L. 24 aprile 1989, n. 144, abrogato dall’art. 123, comma primo, lett. n, del d.lgs. 25 febbraio 1995, n. 77, ma riprodotto senza sostanziali modifiche dall’art. 35 del medesimo decreto e infine rifluito nell’art. 191 del D.Lgs. n. 267 del 2000), per i casi di richiesta di prestazioni o servizi, non rientranti nello schema procedimentale di spesa tipizzato dalla stessa normativa, ha previsto la costituzione di un rapporto obbligatorio diretto con l’amministratore o funzionario responsabile, correlativamente rimettendo all’ente pubblico la valutazione esclusiva circa l’opportunità o meno di attivare il procedimento del riconoscimento del debito fuori bilancio nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente stesso (cfr. lett. e) art. 194 D. Lgs. n. 267 del 2000). Tuttavia, non potendosi, in difetto di espressa previsione normativa, affermare la retroattività del cit. d.l. n. 66 del 1989 art. 23, deve ritenersi l’esperibilità dell’azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A. per tutte le prestazioni e i servizi resi alla stessa anteriormente all’entrata in vigore di tale normativa (ex plurimis, tra le più recenti: Cass. 26 giugno 2012, n. 10636; Cass. 11 maggio 2007, n. 19572).

Svolgimento del processo

Nel gennaio 1995 P.M. , vedova ed erede di R.D. , convenne in giudizio il Comune di Reggio Calabria chiedendone la condanna al pagamento di L. 23.967.034, oltre accessori, a titolo di arricchimento senza causa. Espose che il marito, cui nel 1986 era stata contrattualmente affidata l’esecuzione di lavori (poi regolarmente retribuiti) di manutenzione ordinaria degli edifici scolastici della zona sud di (omissis) , aveva eseguito anche ulteriori lavori non previsti in contratto e per questo mai pagati, che l’Ufficio tecnico comunale gli aveva, tuttavia, richiesto in base a una perizia di variante, ritenendoli “indispensabili per assicurare la funzionalità degli edifici scolastici”.

Il Comune resistette e l’adito Tribunale di Reggio Calabria, con sentenza n. 383/2003, rigettò la domanda.

L’appello dell’originaria attrice è stato respinto dalla Corte d’appello reggina con sentenza n. 131/2010 sull’assorbente rilievo che, in difetto di deliberazioni da parte del Consiglio o della Giunta, difettava il necessario requisito del riconoscimento dell’utilità della prestazione da parte del Sindaco, organo rappresentativo del Comune.

Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione P.M. affidandosi a due motivi, cui il Comune di Reggio Calabria ha resistito con controricorso illustrato anche da memoria.

All’esito della pubblica udienza innanzi alla terza sezione di questa Corte, con ordinanza interlocutoria del 23 settembre 2014 è stata rilevata la sussistenza di un contrasto di giurisprudenza sulla questione di cui si dirà in parte motiva, per cui gli atti sono stati rimessi al Primo Presidente, che ha assegnato il giudizio a queste Sezioni unite.

Il resistente Comune ha depositato ulteriore memoria.

Motivi della decisione

1. La domanda attrice, intesa – come si legge nella decisione impugnata – ad “accertare e dichiarare l’utilitas delle opere indiscutibilmente eseguite dalla ditta R. “, nonché alla condanna del Comune di Reggio Calabria al pagamento, a tale titolo, della somma di L. 23.967.034, risulta qualificata, in termini non più in discussione, come azione di indebito arricchimento ex art. 2041 cod. civ.. Essa è stata rigettata, con doppia decisione conforme, per il difetto di prova in ordine al riconoscimento dell’utilitas da parte dell’ente pubblico e, segnatamente, da parte dei suoi organi rappresentativi.

In particolare la Corte di appello – premesso in fatto che i lavori di cui trattasi (riparazione dei servizi igienici, impermeabilizzazione dei solai e coloritura), riguardanti alcune scuole della parte sud della città, erano stati disposti dall’Ufficio tecnico del Comune di Reggio Calabria, verosimilmente su segnalazione dei dirigenti degli uffici scolastici e precisato, altresì, che la delibera in sanatoria, pur predisposta, non risultava mai deliberata dalla Giunta – è pervenuta alla conferma della statuizione di rigetto della domanda di arricchimento, in forza della dichiarata adesione alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il riconoscimento dell’utilitas costituisce requisito speciale di ammissibilità dell’azione di cui all’art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A., segnalando che, nella specie, il riconoscimento, sia pure implicito, avrebbe dovuto provenire dal sindaco ovvero da un atto deliberativo della giunta o del consiglio comunale.

2. Col primo motivo (il secondo è al primo correlato, in quanto attiene alla mancata ammissione della prova articolata sul punto della conoscenza da parte degli “amministratori” dei lavori di cui trattasi), la ricorrente si duole, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 2041 cod. civ., che la Corte d’appello abbia disatteso il principio, patrocinato da alcune decisioni di questa Corte di legittimità, secondo il quale il giudizio di utilità può essere compiuto anche dal giudice, che ha il potere di accertare se ed in quale misura l’opera o la prestazione siano state effettivamente utilizzate dalla pubblica amministrazione.

2.1. Il ricorso richiama un orientamento minoritario di questa Corte, stigmatizzando il mancato accertamento giudiziale della fruizione delle opere di manutenzione da parte dell’ente pubblico nella piena consapevolezza della relativa esecuzione, sebbene nell’assenza di un riconoscimento implicito o esplicito dei suoi organi rappresentativi.

La sezione terza, assegnataria del ricorso, ne ha, dunque, promosso la devoluzione alle Sezioni unite, rilevando nell’ordinanza interlocutoria che sussiste un contrasto interno alla giurisprudenza di legittimità, “tra l’orientamento (prevalente) che assume come assolutamente ineludibile la necessità che il riconoscimento anche implicito dell’utilitas provenga da organi quanto meno rappresentativi dell’ente pubblico e quello (minoritario, ma significativo e fondato su solide argomentazioni) che offre invece spazi all’apprezzamento diretto da parte del giudice”.

2.2. Non è, invece, in discussione la sussistenza del requisito della sussidiarietà dell’azione imposto dall’art. 2042 cod. civ., non essendo qui applicabile ratione temporis la normativa di cui D.L. n. 66 del 1989, art. 23 (conv. in L. 24 aprile 1989, n. 144, abrogato dall’art. 123, comma primo, lett. n, del d.lgs. 25 febbraio 1995, n. 77, ma riprodotto senza sostanziali modifiche dall’art. 35 del medesimo decreto e infine rifluito nell’art. 191 del D.Lgs. n. 267 del 2000) che, per i casi di richiesta di prestazioni o servizi, non rientranti nello schema procedimentale di spesa tipizzato dalla stessa normativa, ha previsto la costituzione di un rapporto obbligatorio diretto con l’amministratore o funzionario responsabile, correlativamente rimettendo all’ente pubblico la valutazione esclusiva circa l’opportunità o meno di attivare il procedimento del riconoscimento del debito fuori bilancio nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente stesso (cfr. lett. e) art. 194 D. Lgs. n. 267 del 2000).

Invero, non potendosi, in difetto di espressa previsione normativa, affermare la retroattività del cit. d.l. n. 66 del 1989 art. 23, deve ritenersi l’esperibilità dell’azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A. per tutte le prestazioni e i servizi resi alla stessa anteriormente all’entrata in vigore di tale normativa (ex plurimis, tra le più recenti: Cass. 26 giugno 2012, n. 10636; Cass. 11 maggio 2007, n. 19572). E poiché i lavori in contestazione vennero eseguiti nell’anno 1986, è indubbio che il depauperato non aveva la possibilità di farsi indennizzare del pregiudizio subito agendo, ai sensi della normativa cit. direttamente nei confronti dell’amministratore o del funzionario che aveva consentito l’acquisizione.

2.3. Il punto nodale della controversia si rinviene sulla necessità o meno di un requisito ulteriore – quello del riconoscimento dell’utilità dell’opera o della prestazione – rispetto a quelli standards fissati dagli artt. 2041 e 2042 cod. civ., allorché l’azione venga proposta nei confronti della P.A..

Strettamente connessa a detta questione si rivela, poi, quella evidenziata nell’ordinanza interlocutoria del ruolo assegnato al giudice nell’accertamento dell’arricchimento; ciò in quanto individuare l’elemento qualificante dell’azione, in ragione della qualificazione pubblicistica dell’arricchito, in un atto di volontà o di autonomia dell’amministrazione interessata, significa confinare il ruolo giudiziale all’accertamento di un utile “soggettivo” e, cioè, riconosciuto come tale (esplicitamente o implicitamente) dagli organi rappresentativi dell’ente pubblico; all’inverso, consentire al giudice di sostituirsi alla pubblica amministrazione nella valutazione dell’utilitas finisce per spostare l’indagine sul fatto oggettivo dell’arricchimento, giacché solo questo dovrebbe essere l’elemento costitutivo della fattispecie, ove non si ammettano deroghe all’esercizio dell’azione in relazione alla qualificazione pubblicistica dell’arricchito.

3. Così definito l’ambito della questione all’esame delle Sezioni Unite, si impone una sintesi delle argomentazioni a sostegno dell’uno e dell’altro indirizzo di legittimità, come individuati dall’ordinanza interlocutoria, osservando sin da ora che nella giurisprudenza di questa Corte ricorre un ulteriore approccio intepretativo, più risalente nel tempo, che offre una sorta di tertium genus tra le soluzioni astrattamente praticabili in materia.

3.1. La tesi prevalente muove dalla considerazione delle specifiche condizioni e limitazioni, costituite dalle regole c.d. dell’evidenza pubblica che presidiano l’attività negoziale della P.A. e si radica sul rilievo che l’azione di arricchimento comporta, di fatto, il superamento della regola assoluta a tutela del buon andamento della pubblica amministrazione, secondo cui non si può dar luogo a spese non deliberate dall’ente nei modi previsti dalla legge e senza la previsione dell’apposita copertura finanziaria. Di qui l’esigenza – avvertita dalla giurisprudenza, ancor prima che il legislatore a partire dal già cit. D.L. n. 66 del 1989 segnasse drasticamente l’ambito di operatività dell’azione – di marcare di “specialità” la domanda di arricchimento proposta nei confronti della P.A., posto che il relativo oggetto è costituito quasi sempre da prestazioni o opere eseguite da privati in dipendenza di contratti irregolari, nulli o addirittura inesistenti.

È, dunque, ricorrente nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione che per l’utile esperimento dell’azione nei confronti della P.A. occorre la prova di un duplice requisito, e cioè, non solo il fatto materiale dell’esecuzione di un’opera o di una prestazione vantaggiosa per l’ente pubblico, ma anche il c.d. riconoscimento, espresso o tacito e, in sostanza, che l’amministrazione interessata abbia compiuto una cosciente e consapevole valutazione dell’utilità dell’opera, del servizio, o della prestazione, e che li abbia considerati rispondenti alle proprie finalità istituzionali.

In particolare – secondo l’orientamento giurisprudenziale all’esame – la configurazione del riconoscimento dell’utilità dell’opera o della prestazione come un atto di volontà o di autonomia della P.A. comporta che la stessa configurabilità di un arricchimento senza causa resti affidata alla valutazione discrezionale della sola amministrazione, unica legittimata a esprimere il relativo giudizio, che presuppone il doveroso apprezzamento circa la rispondenza diretta o indiretta della cosa o della prestazione al pubblico interesse (Cass. 18 aprile 2013, n. 9486; Cass. 11 maggio 2007, n.10884; Cass. 20 agosto 2004, n.16348; Cass. 23 aprile 2002, n. 5900); inoltre detta valutazione non solo non può essere sostituita da quella di amministrazioni terze, pur se interessate alla prestazione, ma neanche provenire da atti e comportamenti imputabili a qualsiasi soggetto che faccia parte della struttura dell’ente di esse destinatario (Cass. 18 aprile 2013 n. 9486), essendo necessariamente rimessa solo agli organi rappresentativi di detta amministrazione o a quelli cui è istituzionalmente devoluta la formazione della sua volontà (Cass. 27 luglio 2002, n. 11133; Cass. 17 luglio 2001, n. 9694). E sebbene non si richieda che il riconoscimento avvenga necessariamente in maniera esplicita – cioè con un atto formale (il quale, peraltro, può essere assistito dai crismi richiesti per farne un atto amministrativo valido ed efficace, ovvero può anche essere carente delle formalità e dei controlli richiesti, come nel caso in cui l’organo di controllo lo annulli) e si sia predicata la sufficienza del riconoscimento implicito – l’una e l’altra forma di riconoscimento sono ritenute soggette alle medesime regole dell’evidenza pubblica (sul riconoscimento come atto di volontà, cfr Cass. 24 ottobre 2011, n. 21962; Cass. 31 gennaio 2008 n. 2312; Cass. 24 settembre 2007 n. 19572), richiedendosi che l’utilizzazione dell’opera o della prestazione sia consapevolmente attuata dagli organi rappresentativi dell’ente (cfr. Cass. Sez. un. 25 febbraio 2009, n. 4463; Cass. 20 ottobre 2004, n. 16348; nonché Cass. 11133/2002 già cit.).

3.2. Secondo questa tesi, che esalta i limiti istituzionali della giurisdizione ordinaria, fissati dall’art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, a presidio della discrezionalità amministrativa, il giudice ordinario non può giudicare dell’utilitas, dal momento che la necessità del riconoscimento è tradizionalmente impostata sulla discrezionalità amministrativa che la valutazione del vantaggio comporta. L’utiliter versum non può essere altro che un utile soggettivo, cioè relativo all’interesse dell’accipiens e la valutazione dell’utilità dell’ente pubblico si risolve in una valutazione dell’interesse pubblico, come tale necessariamente affidata alla P.A..

La tesi si radica sull’evidente timore che – in specie nel caso assai frequente di indebito arricchimento derivante da rapporti negoziali instaurati da dipendenti pubblici privi dei necessari poteri – la pubblica amministrazione possa essere chiamata a rispondere ex art. 2041 cod. civ. di tutte le iniziative arbitrarie assunte al di fuori del controllo degli organi amministrativi responsabili della spesa, quando il riconoscimento dell’utilità sia ravvisato nella stessa utilizzazione dell’opera o del servizio acquisito, da parte di coloro che hanno abusivamente speso il nome dell’ente o dell’ufficio. Senonchè essa – oltre ad apparire espressiva di esigenze di tutela della P.A., di cui si è fatto carico, nel tempo, il legislatore, facendo leva, come si è visto, sul carattere sussidiario dell’azione – rivela la sua criticità sol che si consideri che, portata alle sue naturali conseguenze, essa comporta che il giudice, mentre dovrebbe condannare l’ente pubblico per un arricchimento riconosciuto, ancorché non provato, dovrebbe assolverlo per un arricchimento provato, ma non riconosciuto.

Soprattutto l’orientamento risulta fortemente penalizzante per il depauperato, allorquando l’arricchimento si risolva in un risparmio di spesa (come nel caso che qui ricorre di esecuzione di opere di manutenzione), dal momento che un riconoscimento implicito da parte degli organi rappresentativi dell’ente pubblico appare ravvisabile solo in relazione a opere e prestazioni comportanti un incremento patrimoniale, e quindi suscettibili di appropriazione; mentre, nel caso che l’opera risulti già esistente e già a disposizione della collettività, si è ritenuto che il perdurare – od il riprendere dopo gli interventi – della pubblica fruizione non possa costituire riconoscimento implicito dell’utilitas, perché non implica alcuna valutazione consapevole da parte dell’ente (Cass. 02 settembre 2005, n. 17703 in motivazione).

3.3. Non mancano tuttavia pronunce improntate a un approccio più duttile, nelle quali, in ragione del fondamento equitativo che permea tutta l’azione di ingiustificato arricchimento, si evidenzia che il riconoscimento, da parte di enti pubblici, dell’utilità di una prestazione professionale, con conseguente loro arricchimento, si realizza con la mera utilizzazione della stessa, indipendentemente dal fatto che i fini alla cui realizzazione la prestazione poteva essere diretta non fossero stati realizzati dall’ente cui il progetto era stato destinato (Cass. Sez. un. 10 febbraio 1996, n. 1025; e più di recente Cass. 18 giugno 2008, n. 16596). In tale prospettiva, l’utilità è stata ritenuta ravvisabile allorché la P.A., ad esempio, si sia servita della prestazione del privato per corredare pratiche amministrative, ovvero ne abbia ricavato un risparmio di spesa (v. Cass. 12 dicembre 2003, n. 19059; e ancora Cass. n. 10576 del 1997; Cass. n. 1025 del 1996; Cass. n. 12399 del 1992), ridimensionandosi la necessità della provenienza dagli organi formalmente qualificati della P.A. (cfr. Cass. 16 settembre 2005, n. 18329) e precisandosi che, seppure il giudizio sull’utilità per la P.A. dell’opera o della prestazione del privato è riservato in via esclusiva all’amministrazione e non può essere compiuto, in sostituzione di quella, del giudice, spetta pur sempre a quest’ultimo il compito di accertare se e in che misura l’opera o la prestazione siano state effettivamente utilizzate dalla pubblica amministrazione (cfr. Cass. 02 settembre 2005, n. 17703).

3.4. Si tratta di un orientamento minoritario, che non abbandona il tradizionale argomento, secondo cui l’esperimento dell’azione di arricchimento nei confronti della P.A. richiede un quid pluris, qual è il riconoscimento dell’utilitas, sebbene al fatto dell’utilizzazione venga attribuita una valenza probatoria di detto riconoscimento; in tal modo esso presta il fianco alla critica dell’incongruenza di legittimare soggetti diversi in ragione del fatto che il riconoscimento sia esplicito (per il quale si afferma la necessità che provenga dagli organi rappresentativi della pubblica amministrazione) o implicito (nel qual caso si ritiene che il riconoscimento può provenire da organi non qualificati dell’amministrazione), vale a dire in ragione della forma del riconoscimento, che dovrebbe essere un elemento neutro sotto questo profilo (così Cass. 07 marzo 2014, n. 5397 in motivazione).

In realtà l’avere svincolato il riconoscimento dalla provenienza dagli organi formalmente qualificati ad esprimere la volontà dell’ente pubblico ha finito per incrinare fortemente lo stesso principio della relatività soggettiva dell’utilitas, consentendo di recuperare la connotazione ordinaria dell’azione, giacché il baricentro dell’indagine risulta spostato sulla salutazione in fatto dell’arricchimento, che deve essere accertato con la regola paritaria di diritto comune, sia quando riguarda il privato che quando si riferisce alla pubblica amministrazione (così Cass. 16 maggio 2006, n. 11368), affidando al saggio apprezzamento del giudice lo scrutinio sull’intervenuto riconoscimento ovvero la vantazione, in fatto, dell’utilità dell’opus (così Cass. 21 aprile 2011, n. 9141).

3.5. Come evidenziato nell’ordinanza interlocutoria, soprattutto l’ultima delle sentenze citate si è fatta carico di rimarcare l’insufficienza dell’approccio ermeneutico che confina il ruolo giudiziale all’esterno della valutazione di utilità, ritenendo che il giudice non possa accertare se la prestazione del depauperato sia stata utile all’ente pubblico, ma solo se l’ente pubblico l’abbia riconosciuta come tale. In contrario senso si è osservato che il richiedere sempre e comunque comportamenti inequivocabilmente asseverativi dell’utilità dell’opera o della prestazione da parte degli organi rappresentativi dell’ente è scelta interpretativa che depotenzia fortemente il diritto del privato ad essere indennizzato dell’impoverimento subito, svuotando di fatto i poteri di accertamento del giudice, in vista della tutela delle posizioni soggettive in sofferenza; e si è, quindi, ritenuto che “il criterio idoneo a mediare tra tutti gli interessi in conflitto è l’affidamento al saggio apprezzamento del giudice dello scrutinio sull’intervenuto riconoscimento ovvero la valutazione, in fatto, dell’utilità dell’opus, utilità desunta dal contesto fattuale di riferimento, senza pretendere di imbrigliare l’ineliminabile discrezionalità del relativo giudizio in schemi predefiniti, ma solo esigendo che del suo convincimento il decidente dia adeguata e congrua motivazione” (cfr. Cass. n. 9141 del 2011 cit. in motivazione).

Occorre, tuttavia, rilevare che la pista interpretativa indicata dalla sentenza da ultima citata, tendente a marcare di autonomia il sindacato giudiziale e a spostare decisamente l’oggetto dell’indagine dalla qualificazione soggettiva dell’arricchito al fatto dell’arricchimento, non risulta seguita dalla successiva giurisprudenza di legittimità che, anche da recente, ha privilegiato una connotazione negoziale dell’istituto, contrapponendo alla regola paritaria di diritto comune nemo locupletari potest cum aliena iactura la normativa di diritto pubblico che regola la contabilità della pubblica amministrazione, con efficacia anche per i soggetti esterni che vengono in contatto con essa, e che si giustifica oltre che con vincoli di spesa imposti da norme di rango primario nell’impiego di denaro pubblico, anche con le dimensioni e la complessità dell’articolazione interna della pubblica amministrazione (così Cass. n. 5397 del 2014 sopra cit.).

3.6. Mette conto a questo punto evidenziare che la previsione di un’azione generale di arricchimento era ignota al codice del 1865; l’istituto venne, quindi, accolto dal progetto di codice delle obbligazioni del 1936 e, infine, codificato dal legislatore del 1942, accanto a numerosi altre fattispecie particolari di arricchimento (artt. 31 co. 3, 535, 821, co. 2, 935, 940, 1150, 1185, co. 2, 1190, 1443, 1769, 2037, co. 3, 2038 co. 3 cod. civ.), assolutamente eterogenee e, comunque, ispirate al medesimo principio e accomunate dall’obbligo di “restituire” all’impoverito esclusivamente perdite, esborsi, spese, prestazioni ed altri elementi, utilità o valori già sussistenti nel suo patrimonio “nei limiti dell’arricchimento”.

Orbene – mentre nel vigore del codice del 1865, la prefigurazione della specialità dell’azione nei confronti della P.A. si giustificava in considerazione dell’elaborazione giurisprudenziale dell’actio de in rem verso sugli schemi della gestione di affari e dell’attribuzione al riconoscimento dell’utilitas dello stesso fondamento dell’utiliter gestum – l’intervenuta codificazione dell’istituto ad opera del legislatore del 1942 ne ha privilegiato una connotazione oggettivistica, fatta palese dall’impiego dei concetti materiali di “arricchimento” e “diminuzione patrimoniale”, senza richiamo alcuno al parametro soggettivistico dell'”utilità”, ponendo così il problema se vi sia ancora spazio per postulare una valutazione discrezionale da parte dell’arricchito in ragione della sua qualificazione pubblicistica.

Orbene il terzo e più risalente orientamento giurisprudenziale di cui si è detto sub 3. muove proprio dalla considerazione della sopravvenuta inclusione della disciplina nel codice del 1942 per postulare la necessità di abbandonare “il remoto principio”, secondo cui l’azione è esperibile nei confronti della P.A. soltanto se questa ha riconosciuto la locupletazione, evidenziando non solo il superamento degli schemi su cui era stata costruita la fattispecie giurisprudenziale dell’actio de in rem verso, ma anche e soprattutto la necessità di una lettura costituzionalizzante dell’istituto, che assicurasse la piena tutela della garanzia di agire in giudizio contro l’amministrazione pubblica, assicurata a chiunque dagli artt. 24 e 113 Cost. (cfr. Cass. Sez. unite sentenze 28 maggio 1975, n. 2157; Cass. Sez. unite 19 luglio 1982, n. 4198). Sulla base di tali premesse si è esclusa, in radice, la tesi che all’ente pubblico possa essere riservato non solo di riconoscere il vantaggio in sé, ma anche la relativa entità economica: tesi ritenuta inaccettabile per la considerazione che essa pone il giudice nella condizione di dover unicamente prendere atto delle determinazioni del convenuto, contraddicendo alla stessa funzione dell’azione consistente nell’apprestare un rimedio “generale” per i casi in cui sia possibile risolvere sul piano economico il contrasto tra legalità e giustizia. In luogo della questione del riconoscimento dell’utilità, è stato evidenziato un problema di imputabilità dell’arricchimento, paventandosi il pericolo che l’ente pubblico possa subire iniziative che i terzi, pur presentandosi come ingiustamente depauperati, abbiano assunto conto il volere dell’ente o comunque senza che i suoi organi rappresentativi ne avessero contezza.

In tale prospettiva il problema risulta ridotto unicamente a quello dell'”attribuzione” del vantaggio all’ente pubblico e risolto nel senso che si debba indagare “non tanto se quest’ultimo abbia riconosciuto l’arricchimento, quanto se sia stato almeno consapevole della prestazione indebita e nulla abbia fatto per respingerla, sicché nell’avvenuta utilizzazione della prestazione è da ravvisare, invece che un atto di riconoscimento – difficilmente definibile nei suoi caratteri e soprattutto giuridicamente inammissibile, non potendo mai condizionarsi la proponibilità di un’azione ad una preventiva manifestazione di volontà del soggetto contro cui essa è diretta – un mero fatto dimostrativo dell’imputabilità giuridica a tale soggetto della situazione dedotta in giudizio” (così, Cass. n. 4198 del 1982 in motivazione).

4. Questi, in estrema sintesi, i principali argomenti a sostegno delle opzioni ermeneutiche a confronto, le Sezioni unite, nel risolvere il contrasto, intendono proseguire sulla strada tracciata nelle sentenze da ultime citate e, in parte, ripercorsa da quell’indirizzo minoritario (sub 3.4. e 3.5.) che ha rimarcato la connotazione ordinaria dell’azione anche nei confronti della P.A., predicando una valutazione oggettiva dell’arricchimento che prescinda dal riconoscimento esplicito o implicito dell’ente beneficiato. A questi risultati conduce una lettura dell’istituto più aderente ai principi costituzionali e a quelli specifici della materia che assegnano una dimensione fattuale di evento oggettivo all’arricchimento di cui all’art. 2041 cod. civ. e alla relativa azione una funzione di rimedio generale a situazioni giuridiche altrimenti ingiustamente private di tutela, tutte le volte che tale tutela non pregiudichi in alcun modo le posizioni, l’affidamento, la buona fede dei terzi (cfr. Cass. Sez. un. 08 dicembre 2008, n. 24772). In tale prospettiva il diritto fondamentale di azione del depauperato può adeguatamente coniugarsi con l’esigenza, altrettanto fondamentale, del buon andamento dell’attività amministrativa, affidando alla stessa pubblica amministrazione l’onere di eccepire e provare il rifiuto dell’arricchimento o l’impossibilità del rifiuto per la sua inconsapevolezza (c.d. arricchimento imposto).

Del resto sulla qualificazione dell’arricchimento come istituto civilistico che da luogo a situazioni di diritto soggettivo perfetto anche quando parte sia una P.A., salvo il limite interno del divieto di annullamento e di modificazione degli atti amministrativi, la giurisprudenza ha mostrato di non dubitare, allorché ha costantemente affermato la giurisdizione ordinaria in materia (Cass. Sez. un. 18 novembre 2010, n. 23284; Cass. Sez. un. 20 novembre 1999 n. 807).

4.1. Valga considerare che l’impostazione fondata sulla necessità di un riconoscimento esplicito o implicito degli organi rappresentativi è sostanzialmente ancorata ad una lettura dell’istituto in chiave contrattuale che è stata già stigmatizzata da queste Sezioni Unite in occasione della risoluzione di altro contrasto sul tema dell’arricchimento nei confronti della P.A., rilevandosi che se è indubbio che l’arricchimento che dipende da fatto dell’impoverito presenta punti di contatto con la responsabilità contrattuale, ciononostante non se ne giustifica l’assimilazione (cfr. sentenza 11 settembre 2008, n. 23385).

Invero il principio secondo cui “chi senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un’altra persona, è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale” è stato dettato dal legislatore del 1942, accanto ad altre fattispecie particolari di cui già si è dato conto, con la funzione di norma di chiusura onde coprire – come si legge nella Relazione al progetto del codice – anche i casi “che il legislatore non sarebbe in grado di prevedere tutti singolarmente”. L’istituto risulta, così, configurato come un rimedio unitario, idoneo a ricomprendere tutte le ipotesi di arricchimento di un soggetto e di correlativo impoverimento di un altro soggetto in mancanza di una giusta causa e, quindi, sia i casi di arricchimento conseguito appropriandosi di utilità insite nell’altrui situazione protetta, sia quelli che dipendono da comportamenti dell’impoverito. E sebbene la prima categoria presenti innegabili punti di contatto con la responsabilità civile e la seconda con il regime di esecuzione dei contratti, l’istituto non si presta ad essere letto né in una chiave, né nell’altra, avendo una precisa identità di autonoma fonte di obbligazione restitutoria e l’esclusiva finalità di indennizzare lo spostamento di ricchezza senza giusta causa dall’uno all’altro soggetto.

4.2. In particolare la lettera della norma, che – come sopra evidenziato – adopera un lessico oggettivistico nell’individuazione dei presupposti dell’azione, nonché la funzione dell’istituto che è quella di eliminare l’iniquità prodottasi mediante uno spostamento patrimoniale privo di giustificazione di fronte al diritto, sancendone la restituzione, riconducono l’arricchimento ad una dimensione fattuale di evento oggettivo, escludendo che la qualificazione pubblicistica del soggetto arricchito possa essere evocata a fondamento di una riserva di discrezionalità in punto di riconoscimento dell’arricchimento e/o del suo ammontare. Ne consegue che ciò che il privato attore ex art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A. deve provare è il fatto dell’arricchimento; e il relativo accertamento da parte del giudice non incorre nei limiti di cognizione ai sensi dell’art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, trattandosi di verificare un evento patrimoniale oggettivo, qual è l’arricchimento, senza che l’amministrazione possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, perché altrimenti si riconoscerebbe all’amministrazione una posizione di vantaggio che è priva di base normativa.

In tale prospettiva il riconoscimento da parte della P.A. dell’utilità della prestazione o dell’opera può rilevare non già in funzione di recupero sul piano del diritto di una fattispecie negoziale inesistente, invalida o comunque imperfetta – trattandosi di un elemento estraneo all’istituto – bensì in funzione probatoria e, precisamente, ai soli fini del riscontro dell'”imputabilità dell’arricchimento all’ente pubblico. Mentre le esigenze di tutela delle finanze pubbliche e la considerazione delle dimensioni e della complessità dell’articolazione interna della pubblica amministrazione, che l’espediente giurisprudenziale del riconoscimento dell’utilitas ha inteso perseguire, possono essere adeguatamente coniugate con la piena garanzia del diritto di azione del depauperato, nell’ambito del principio di diritto comune dell’arricchimento imposto, in ragione del quale l’indennizzo non è dovuto se l’arricchito ha rifiutato l’arricchimento o non abbia potuto rifiutarlo, perché inconsapevole dell’eventum utilitatis.

In definitiva va accolto il primo motivo, assorbito il secondo, avendo la Corte territoriale erroneamente ritenuto necessario ai fini dell’azione di arricchimento il riconoscimento dell’utilità dell’opera da parte dell’ente pubblico e, in specie, dei suoi organi rappresentativi; ciò comporta la cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e il rinvio alla Corte di appello di Reggio Calabria in diversa composizione, che dovrà fare applicazione del seguente principio:

la regola di carattere generale secondo cui non sono ammessi arricchimenti ingiustificati né spostamenti patrimoniali ingiustificabili trova applicazione paritaria nei confronti del soggetto privato come dell’ente pubblico; e poiché il riconoscimento dell’utilità non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, il privato attore ex art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A. deve provare – e il giudice accertare – il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’amministrazione possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, potendo essa, piuttosto, eccepire e dimostrare che l’arricchimento non fu voluto o non fu consapevole.

Il Giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte di appello di Reggio Calabria in diversa composizione.

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a cura di Andrea Penta

Nei tre mesi a cavallo delle vacanze estive le Sezioni Unite della Cassazione hanno pronunciato, nei settori civile e penale, numerose sentenze di ampio impatto pratico su controversie in relazione alle quali vi erano contrasti di vedute all’interno delle sezioni specializzate ratione materia.

La I Sezione civile (Cass. civ., sez. I, sentenza 20 luglio 2015 n. 15138; Pres. Forte, rel. Acierno) ha escluso, in tema di rettifica del sesso, la necessità di sottoporsi previamente all’intervento chirurgico.

In particolare, la Suprema Corte ha statuito che, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata e conforme alla giurisprudenza della CEDU degli artt. 1 della legge n. 164 del 1982, nonché del successivo art. 3 della medesima legge, attualmente confluito nell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, per ottenere la rettificazione del sesso nei registri dello stato civile, l’adeguamento dei caratteri sessuali non implica necessariamente l’intervento chirurgico demolitorio quando, all’esito di un’accurata indagine giudiziaria, venga accertata la serietà ed univocità del percorso scelto dall’individuo e la compiutezza dell’approdo finale.

In tema di unioni fra persone dello stesso sesso, è opportuno ricordare che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sez. IV, in data 21 luglio 2015 (Pres. Hirvelä; Oliari e Altri c/Italia) ha deciso che la mancanza di un riconoscimento legale di tali unioni configura una violazione dell’art. 8 CEDU.

Tra le righe della motivazione si legge che le coppie omosessuali sono capaci, come le coppie eterosessuali, di costituire relazioni stabili e impegnative e sono in una situazione assai simile a una coppia eterosessuale per quanto riguarda il loro bisogno di riconoscimento legale e di protezione della loro relazione (v. Schalk and Kopf, § 99, e Vallianatos, §§78 e 81). Ne segue che le coppie omosessuali necessitano di un riconoscimento legale e della protezione della loro relazione. Nell’assenza di un interesse prevalente della comunità allegato dal Governo italiano contro il quale equilibrare i fondamentali interessi delle coppie omosessuali, e alla luce delle conclusioni delle Corti nazionali italiane sulla materia, che sono rimaste inascoltate, il Governo italiano ha ecceduto il suo margine di apprezzamento ed ha mancato di adempiere il suo obbligo positivo di assicurare che alle coppie omoaffettive fosse disponibile uno specifico quadro legale che prevedesse il riconoscimento per la tutela delle loro unioni omosessuali. Vi è conseguentemente violazione dell’art. 8 CEDU.

Sempre in materia di famiglia, la Prima Sezione Civile (Sentenza 22 luglio 2015, n. 15367 Presidente F. Forte, Relatore A. Valitutti) ha delineato i confini della tutela dell’acquirente nell’ipotesi in cui, in presenza di una separazione o divorzio cui abbia fatto seguito l’assegnazione della casa coniugale al coniuge affidatario del figlio minorenne (o maggiorenne non autosufficiente), sia avvenuta la vendita di quel cespite ad un terzo. Ci si domandava se in siffatta evenienza si verificasse il successivo venir meno delle condizioni dell’assegnazione.

Ebbene, i giudici di legittimità hanno stabilito che il terzo acquirente della casa coniugale, già assegnata al coniuge affidatario del figlio minorenne o maggiorenne non economicamente autosufficiente, non è legittimato, venuti meno i presupposti per l’assegnazione, a chiedere la revisione ai sensi dell’art. 9 della legge n. 898 del 1970, ma può instaurare un ordinario giudizio di cognizione, chiedendo l’accertamento dell’insussistenza delle condizioni per il mantenimento del diritto personale di godimento a favore del coniuge assegnatario della casa coniugale, così conseguendo la declaratoria di inefficacia del titolo che legittima l’occupazione della casa coniugale.

Sullo specifico tema sempre la Prima Sezione (Sezione Prima Civile, Sentenza 11 settembre 2015, n. 17971, Presidente F. Forte – Relatore M. Acierno) sulle conseguenze della cessazione della convivenza di fatto sull’assegnazione della casa familiare al genitore collocatario dei figli minori.

La Prima Sezione Civile ha stabilito che, in caso di cessazione della convivenza di fatto, il genitore collocatario dei figli minori, nonché assegnatario della casa familiare, esercita sull’immobile un diritto di godimento assimilabile a quello del comodatario, la cui opponibilità infranovennale è garantita, pur in assenza di trascrizione del provvedimento giudiziale di assegnazione, anche nei confronti dei terzi acquirenti consapevoli della pregressa condizione di convivenza.

Molto attesa era, per gli specialisti del settore, la decisione sulla configurabilità o meno della facoltà del curatore dell’imprenditore promittente, poi fallito, di sciogliersi dal preliminare, allorquando sia stata trascritta, anteriormente al fallimento, la domanda ex art. 2932 cod. civ. da parte del promissario acquirente.

La questione, sollevata dalla I sezione civile con ordinanza interlocutoria n. 27111/2013, è stata risolta all’udienza del 13.01.2015 con sentenza pubblicata il 16.9.2015 (Sezioni Unite Civili, Sentenza 16 settembre 2015, n. 18131, Presidente L. A. Rovelli, Relatore R. Vivaldi).

Le Sezioni Unite, a composizione di contrasto, hanno enunciato il principio secondo cui, in ipotesi di domanda di esecuzione in forma specifica proposta anteriormente alla dichiarazione di fallimento del promittente venditore e riassunta nei confronti del curatore, il curatore mantiene la titolarità del potere di scioglimento del contratto ex art. 72 legge fall., ma se la domanda è stata trascritta prima del fallimento, l’esercizio del diritto di scioglimento non è opponibile nei confronti dell’attore promissario acquirente. Se poi la domanda trascritta non viene accolta, l’effetto prenotativo della trascrizione della domanda cessa, con la conseguente opponibilità all’attore della sentenza dichiarativa di fallimento, essendo, in tal modo, efficace, nei suoi confronti, la scelta del curatore di sciogliersi dal rapporto.

In definitiva, il curatore fallimentare del promittente venditore non può esercitare la facoltà di scioglimento del preliminare ex art. 72 l.f. nei confronti del promissario compratore il quale abbia trascritto prima della dichiarazione di fallimento una domanda ex art. 2932 c.c. successivamente accolta con sentenza trascritta.

In ambito processuale si segnala una pronuncia della VI Sezione (Sezione Sesta – Lavoro, Sentenza 11 settembre 2015, n. 18024, Pres. e Rel. P. Curzio), la quale, in tema di ordinanza di inammissibilità ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., ha chiarito che, secondo una interpretazione letterale, teleologica e sistematica degli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c., la comunicazione dell’ordinanza di inammissibilità ex art. 348 bis c.p.c. deve necessariamente precisare il tipo e la ragione del provvedimento, ossia che trattasi di ordinanza (e non sentenza) di inammissibilità dell’appello per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento del gravame (e non di inammissibilità per altre ragioni, di cui alla prima parte dell’art. 348 bis), dovendo la parte che riceve la comunicazione essere messa in grado di sapere che è stato emesso un provvedimento implicante un regime speciale d’impugnazione.

Nel medesimo ambito merita di essere riportata una pronuncia della Sesta-Terza Sezione Civile (Ordinanza 2 settembre 2015, n. 17480; Presidente M. Finocchiaro, Estensore R. Frasca) in ordine alla possibilità di individuare, in caso di controversia su contratto di utenza telefonica, il giudice competente per territorio per relationem rispetto all’organismo territorialmente competente per l’esperimento del tentativo di conciliazione dinanzi al CORECOM.

La Suprema Corte ha statuito che, nelle controversie relative ai contratti di utenza telefonica, dal combinato disposto dell’art. 1 della legge 31 luglio 1997, n. 249 – che sancisce l’obbligo di esperire il preventivo tentativo di conciliazione innanzi al Comitato regionale per le comunicazioni (cd. “CORECOM”) – e dell’art. 4 del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, secondo il quale la domanda di mediazione giudiziale va presentata presso un “organismo nel luogo del giudice territorialmente competente per la controversia”, non deriva la necessità di individuare il giudice avente competenza per territorio sulla controversia come necessariamente coincidente con quello del luogo in cui – a norma degli artt. 3 e seguenti del regolamento di attuazione della predetta l. n. 249 del 1997 – ha sede l’organismo territorialmente competente per il tentativo di conciliazione.   

La Cassazione ha affrontato e risolto la questione dei limiti della tutela assicurativa nell’ipotesi di infortunio in itinere in ipotesi di fatto doloso del terzo.

Le Sezioni Unite (Sezioni Unite Civili, sentenza 7 settembre 2015, n. 17685, Presidente L. A. Rovelli,  Relatore V. Nobile), a composizione di contrasto, hanno affermato che anche in seguito all’introduzione dell’art. 12 del d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, che ha espressamente ricondotto all’ambito dell’assicurazione obbligatoria l’ipotesi dell’infortunio in itinere, va esclusa dalla tutela la fattispecie nella quale, in caso di fatto doloso del terzo, venga a mancare la “occasione di lavoro”.

In particolare, la Sentenza n. 17685  del  7 settembre 2015 ha formulato il seguente principio di diritto: “La espressa introduzione dell’ipotesi legislativa dell’infortunio in itinere non ha derogato alla norma fondamentale che prevede la necessità non solo della causa violenta ma anche della occasione di lavoro, con la conseguenza che, in caso di fatto doloso del terzo, legittimamente va esclusa dalla tutela la fattispecie nella quale in sostanza venga a mancare la occasione di lavoro, in quanto il collegamento tra l’evento e il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro risulti assolutamente marginale e basato esclusivamente su una mera coincidenza cronologica e topografica (come nel caso in cui il fatto criminoso sia riconducibile a rapporti personali tra l’aggressore e la vittima del tutto estranei all’attività lavorativa ed a situazioni di pericolo individuali, alle quali la vittima è, di fatto, esposta ovunque si rechi o trovi, indipendentemente dal percorso seguito per recarsi al lavoro)”.

Le Sezioni Unitesono intervenute anche in tema di sanzioni amministrative tributarie, risolvendo l’annosa questione della natura giuridica del fermo amministrativo su beni mobili registrati, avallando la tesi della misura afflittiva e non esecutiva.

Le Sezioni Unite (Sezioni Unite Civili, Sentenza 22 luglio 2015, n. 15354, Presidente L. A. Rovelli, Relatore A. Amendola), a risoluzione di questione di massima di particolare importanza, hanno deciso che il fermo amministrativo ex art. 86 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, costituisce misura non alternativa all’esecuzione ma afflittiva, sicché la pretesa dell’esattore è impugnabile con un’azione di accertamento negativo, soggetta alle regole del rito ordinario di cognizione ed alle norme generali in tema di riparto di competenza per materia e per valore.

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a cura di Andrea Penta

In caso di concorso bandito dal Consiglio Superiore della Magistratura per l’attribuzione di un incarico giudiziario, il Consiglio di Stato travalica i limiti esterni della giurisdizione qualora, nel giudizio avente ad oggetto la legittimità della delibera del CSM, operi direttamente una valutazione di merito del contenuto del provvedimento e ne apprezzi la ragionevolezza e non si limiti a sindacarne la legittimità, anche a mezzo del vizio dell’eccesso di potere (Sezioni Unite Civili, Sentenza 5 ottobre 2015, n. 19787, Presidente L. A. Rovelli,  Relatore G. Amoroso).

Sempre le Sezioni Unite, risolvendo una questione di massima di particolare importanza, hanno affermato che, in tema di locazione finanziaria, ove i vizi della cosa siano emersi prima della consegna, il concedente deve sospendere il pagamento del prezzo in favore del fornitore, nei cui confronti può agire per la risoluzione del contratto di fornitura o la riduzione del corrispettivo, mentre, se si siano rivelati dopo la consegna, l’utilizzatore ha azione diretta verso il fornitore. In ogni caso, lo stesso utilizzatore può agire contro il fornitore per il risarcimento dei danni e la restituzione dei canoni già pagati al concedente (Sezioni Unite Civili, Sentenza 5 ottobre 2015, n. 19785, Presidente L. A. Rovelli, Relatore A Spirito).

In particolare, le Sezioni Unite hanno enunciato il seguente principio di diritto: “In tema di vizi della cosa concessa in locazione finanziaria che la rendano inidonea all’uso, occorre distinguere l’ipotesi in cui gli stessi siano emersi prima della consegna (rifiutata dall’utilizzatore) da quella in cui siano emersi successivamente alla stessa perché nascosti o taciuti in mala fede dal fornitore. Il primo caso va assimilato a quello della mancata consegna, con la conseguenza che il concedente, in forza del principio di buona fede, una volta informato della rifiutata consegna, ha il dovere di sospendere il pagamento del prezzo in favore del fornitore e, ricorrendone i presupposti, di agire verso quest’ultimo per la risoluzione del contratto di fornitura o per la riduzione del prezzo. Nel secondo caso, l’utilizzatore ha azione diretta verso il fornitore per l’eliminazione dei vizi o la sostituzione della cosa, mentre il concedente, una volta informato, ha i medesimi doveri di cui al precedente caso. In ogni ipotesi, l’utilizzatore può agire contro il fideiussore per il risarcimento dei danni, compresa la restituzione della somma corrispondente ai canoni già eventualmente pagati al concedente”. 
 

Il processo riassunto a norma dell’art. 50 c.p.c. continua davanti al giudice competente, sicché, ai fini dell’applicazione del criterio di prevenzione, di cui all’art. 39, comma 2, c.p.c., in caso di continenza di cause, il tempo di inizio è quello dell’atto introduttivo proposto davanti al giudice incompetente, senza che abbia rilievo la successiva data di notificazione della comparsa di riassunzione (Sezione Sesta-2 Civile, Ordinanza 2 ottobre 2015, n. 19773, Presidente S. Petitti, Relatore A. Giusti ).

Nel rito di cui all’art. 1, comma 48, della legge 29 giugno 2012, n. 92, è preclusa, così come nel rito generale del lavoro, la proposizione, nella fase di opposizione, di una domanda nuova (nella specie di nullità del licenziamento in quanto ritorsivo), essendo consentita la sola modificazione, previa autorizzazione del giudice, della domanda (Sezione Lavoro, Sentenza 28 settembre 2015, n.19142, Pres. ed Est. F. Roselli).

La Prima Sezione Civile della Corte ha ritenuto l’improponibilità , davanti al medesimo tribunale, del concordato cd. di gruppo, in assenza di una disciplina positiva del fenomeno che si occupi di regolarne la competenza, le forme del ricorso, la nomina degli organi, nonché la formazione delle classi e delle masse; invero, “de iure condito”, il concordato preventivo può essere proposto unicamente da ciascuna delle società appartenenti al gruppo davanti al tribunale territorialmente competente per ogni singola procedura, senza possibilità di confusione delle masse attive e passive (Sezione Prima Civile, Sentenza 13 ottobre 2015, n. 20559, Presidente Ceccherini – Relatore Nazzicone).

Sempre la Prima Sezione Civile della Corte, intervenendo in tema di incandidabilità degli amministratori pubblici dei comuni il cui consiglio sia stato sciolto per l’esistenza di ingerenze della criminalità organizzata, ha ritenuto che l’incandidabilità opera dal momento in cui sia dichiarata con provvedimento definitivo e riguarda il primo turno di ognuna delle tornate elettorali indicate dall’art. 143, comma 11, del d.lgs. n. 127 del 2000 e, quindi, tanto le elezioni regionali, quanto quelle provinciali, comunali e circoscrizionali (Sezione Prima Civile, Sentenza 22 settembre 2015, n. 18696, Presidente Salvago – Relatore Lamorgese).

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di Maria Casola

La recente sentenza delle Sezioni unite della Cassazione, n. 19787 del  5 ottobre 2015, merita una particolare attenzione non solo per lo specifico principio di diritto formulato,  ma soprattutto, e più in generale, per il raggiungimento di un nuovo, più maturo punto di equilibrio tra valori opposti: tradizione ed innovazione, diritto comune e diritto speciale, poteri pubblici e diritti privati, controllo ed autonomia.

La continua tensione dinamica tra questi poli opposti risente della necessaria storicizzazione delle categorie giuridiche di riferimento e le Sezioni unite della Cassazione si dimostrano interpreti avvedute e lungimiranti del sistema di check and balance, del quale esse stesse sono,  con piena consapevolezza, un perno essenziale.

Il caso concreto

Il contenzioso a base della sentenza riguarda il conferimento dell’ufficio direttivo di Procuratore Aggiunto presso la Cassazione.

L’originaria delibera di conferimento dell’incarico al dott. Vittoria è stata annullata in grado d’appello per difetto della motivazione. Il C.S.M., esaminati nuovamente i due candidati in concorso, ha conferito nuovamente l’incarico al medesimo magistrato, in particolare osservando, quanto al puntum dolens attinente all’esperienza “fuori dalla giurisdizione”  del dottor Vittoria, che l’attività di avvocato dello Stato, se non del tutto assimilabile a quella giurisdizionale, era equiparabile a quella svolta in una “magistratura speciale”, tanto da essere riconosciuta ai fini della riammissione nell’ordine giudiziario; il medesimo magistrato – osservava ancora il C.S.M. – aveva comunque esercitato le funzioni di legittimità da maggior tempo rispetto al dottor Cosentino.

Con sentenza n. 5903 del 2012, il ricorso per l’ottemperanza proposto dal soccombente è stato respinto dal Consiglio di Stato, mentre il concorrente giudizio ordinario per vizi di legittimità perveniva, in grado di appello, ad esito vittorioso per il dottor Cosentino (sentenza n. 3501 del 10 luglio 2014). In particolare, secondo il Consiglio di Stato, l’Avvocatura dello Stato non può rientrare nella nozione di “magistrature speciali” di cui all’art. 211, comma 2, r.d. n. 12 del 1941 e dunque una minore durata di 18 anni nell’esercizio dell’attività giurisdizionale del dott. Vittoria non poteva essere compensata dalla maggiore durata dell’esercizio delle funzioni di legittimità.

Le doglianze del C.S.M. dinanzi alle Sezioni Unite

Avverso la sentenza pronunciata dal Consiglio di Stato ha proposto ricorso alle Sezioni unite della cassazione il Consiglio Superiore della Magistratura, per motivi inerenti alla giurisdizione.

L’Organo di governo autonomo della magistratura ha lamentato l’eccesso di potere giurisdizionale, ponendo due temi essenziali.

Con la prima questione, si è chiesto di verificare se poteva, o no, il Consiglio di Stato, in sede di cognizione di legittimità, ordinare al C.S.M. di attribuire, ora per allora, l’incarico giudiziario ad uno dei due aspiranti, anche se, nelle more del giudizio, entrambi erano ormai in quiescenza.

La seconda questione posta si è focalizzata nel quesito se il Consiglio di Stato, nell’esercizio della giurisdizione di legittimità, abbia travalicato i limiti esterni della giurisdizione e abbia sconfinato nell’area della discrezionalità del C.S.M. col fatto, in particolare, di aver operatoex sela comparazione dei magistrati aspiranti al posto, intervenendo direttamente nella valutazione del periodo di attività svolta presso l’Avvocatura di Stato.

Entrambe le questioni poste ruotano quindi attorno alla nozione di eccesso di potere giurisdizionale ed all’individuazione dei limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo.

La risposta delle Sezioni Unite: 1. gli incarichi giudiziari dei magistrati pensionati

Quanto alla prima questione posta, la Suprema Corte ha statuito che, in caso di attribuzione di un incarico giudiziario, non travalica i limiti esterni della giurisdizione il Consiglio di Stato che si pronunci in grado di appello, pur quando il magistrato ricorrente sia stato collocato in quiescenza, anche se tale circostanza impedisce al giudice dell’ottemperanza di ordinare l’assegnazione del posto ora per allora al magistrato vittorioso.

In altri termini, se nel giudizio di ottemperanza è impedito al giudice amministrativo di ordinare al CSM di assegnare l’incarico ad un magistrato pensionato, non altrettanto è a dirsi per il giudizio di legittimità, che deve svolgersi normalmente anche verso magistrati in quiescenza.

Lasciare, dunque, fossilizzare una situazione giuridica non compiutamente scandagliata in sede processuale a causa del sopravvenire di una situazione d’impossibilità di attribuzione dell’incarico, contrasterebbe, secondo la sentenza, con la garanzia della tutela giurisdizionale ex art. 24 cost.

Questa impostazione va positivamente valutata, in quanto tende alla massima salvaguardia del diritto alla tutela giurisdizionale del singolo magistrato, garantendo la verifica di legittimità del provvedimento amministrativo, in quanto tale, anche se priva di possibili utili ricadute applicative rispetto all’ufficio giudiziario, ma solo ai fini dell’eventuale risarcimento per perdita di chance.

In senso critico, non può però sfuggire che, se è evidentemente un precipuo interesse del C.S.M. il riscontro di legittimità del suo proprio agire, non necessariamente ciò comporta un miglior soddisfacimento del canone del buon andamento dell’amministrazione consiliare e della giustizia.

Infatti, la necessità di procedere alla riedizione del potere ed alle successive verifiche e determinazioni pur quando l’incarico giudiziario non può più ab imis essere conferito al vincitore, perché pensionato (Cass. SU n. 23302/2011), crea un aggravamento amministrativo consistente di limitata utilità per l’ordine giudiziario. Senza contare gli effetti indiretti di possibile accanimento delle parti nella protrazione e moltiplicazione del contenzioso giudiziario.

2. Il nucleo insindacabile delle delibere consiliari

Quanto al secondo tema introdotto dal ricorso del CSM, inerente l’ampiezza del controllo giurisdizionale, la sentenza ribadisce il criterio discretivo tra “illogicità”vs. “non condivisibilità” della valutazione.

In altri termini, ad avviso delle Sezioni unite, il Giudice amministrativo potrebbe al più vagliare l’intrinseca tenuta logica della motivazione dell’atto impugnato, ma non la scelta operata dall’Amministrazione tra diverse opzioni possibili.

Peraltro, secondo l’arresto, il nucleo insindacabile sarebbe “particolarmente ampio” per due concorrenti aspetti che costituiscono il ius singulare: il primo di natura soggettiva, inerente la “discrezionalità del C.S.M., quale organo di rilievo costituzionale”; il secondo, di matrice oggettiva, riguardante la specificità della disciplina in tema di incarichi dirigenziali giudiziari, “espressione di alta amministrazione di rilievo costituzionale (art. 105 Cost.)”, come peraltro confermato dall’art. 2, comma 4, d.l. n. 114/2014.

Quando, dunque, il Giudice amministrativo eccede rispetto al sindacato esterno o parametrico ed entra a verificare la condivisibilità della scelta consiliare, esso supera i limiti esterni della giurisdizione.

Tale ultimo eccesso di potere, ad avviso della Cassazione, è stato consumato nel caso di specie, allorchè il Consiglio di Stato ha ritenuto di sostituirsi al C.S.M. in una “tipica valutazione di merito”, cioè quella di assimilabilità o meno dell’attività di avvocato dello Stato a quella di magistrato, ai soli fini dell’attitudine all’incarico giudiziario controverso.

Spetta, dunque, solo al Consiglio apprezzare quanto un’esperienza non giudiziaria prestata, in uno a tutti gli altri elementi curriculari, possa “valere” ai fini dell’ottenimento di un certo incarico giudiziario, in comparazione con altro magistrato, col limite della sola completezza e correttezza del percorso motivazionale di supporto.

Importanza dell’arresto

La sentenza qui commentata costituisce un importante momento di assestamento e razionalizzazione di una tematica cruciale, il conferimento degli incarichi giudiziari, un punto di snodo nel quale si vedono riflesse importanti esigenze ordinamentali, talvolta in tensione dinamica tra loro, se non addirittura in aperto contrasto.

Infatti, schematizzando al massimo, nelle procedure di attribuzione di questi incarichi dirigenziali, si confrontano l’interesse privato del singolo aspirante all’ottenimento dell’incarico e l’interesse pubblico del Consiglio e dell’amministrazione della giustizia all’individuazione del miglior candidato, secondo la normativa primaria e secondaria di riferimento.

Ora, il punto critico sta in ciò che le norme regolative della materia, per quanto puntigliose e rigide, non arrivano mai a preconfezionare un risultato univoco che consegua meccanicamente alla loro applicazione.

Né forse potrebbero farlo.

Invero, la stessa Corte Costituzionale, pur in coordinate di ragionamento più ampie, ha tenuto a precisare che la riserva di legge in materia di Ordinamento giudiziario non implica mai che “i criteri debbano essere predeterminati dal legislatore in termini così analitici e dettagliati da rendere strettamente esecutive e vincolate le scelte relative alle persone cui affidare la direzione degli stessi uffici, annullando di conseguenza ogni margine di apprezzamento e di valutazione discrezionale, assoluta o comparativa, dei requisiti dei diversi candidati” (Corte Costituzionale n. 72/1991).

La tenuta del sistema del governo autonomo, e dunque il presidio ultimo dell’autonomia ed indipendenza della magistratura, sta tutta in quel nocciolo duro, mai azzerabile del tutto, che sta al cuore delle scelte: la discrezionalità dell’Adunanza Plenaria del Consiglio.

La funzione integrativa e chiarificatrice che la delibera consiliare può e quasi deve avere, rispetto al precetto contenuto nella Circolare e nella legge, è in questo senso un perno essenziale di garanzia delle prerogative proprie dell’Organo di autogoverno. Infatti, la salvaguardia delle attribuzioni proprie del Consiglio rimane assicurata anche e proprio dalla prerogativa benefica, ad essa assegnata dall’Ordinamento, di godere sempre di un margine di scelta dei modi di concretizzazione del parametro generale predeterminato dalla legge o dalla normazione secondaria.

Il fondamento della discrezionalità consiliare sta, d’altra parte, proprio in ciò: che i valori di fondo dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura, nel sistema vigente, non sono assicurabili meccanicamente e rigidamente dalla legge o dalla Circolare, ma abbisognano sempre della mediazione valutativa consiliare. Gli stessi valori costituzionali dell’imparzialità e del buon andamento degli uffici giudiziari  trovano la loro primaria ed indefettibile espressione nella possibilità di scelta: nucleo della discrezionalità.

La sentenza delle Sezioni unite dovrebbe quindi valere ad evitare i casi di sovrapposizione netta della valutazione eteronoma del giudice amministrativo sulle competenze consiliari, scongiurando un eventuale spostamento ope iudicis dell’asse della politica giudiziaria, verso modelli dirigenziali non più propri dell’Organo di governo autonomo ma di altri o, addirittura, nella direzione di tutela di interessi non tipici rispetto alla causa nominata ed esclusiva del provvedimento amministrativo.

Questa chiara presa di posizione del Supremo consesso si coniuga con l’affermazione, altrettanto nitida, del pieno diritto del singolo magistrato all’effettività della tutela giurisdizionale, ai fini dell’accertamento della legittimità dell’azione consiliare, al di là del risultato concreto dell’ottenimento effettivo dell’incarico.

La materia del contendere, in questo tipo di controversia, cessa dunque solo quando sia raggiunta certezza giuridica sul corretto vincitore della gara, pur se questo potrà giovarsi alla fine solo di una tutela risarcitoria per perdita di chance. Si è già detto sopra, dei possibili corollari negativi che tuttavia possono derivare da un tal tipo di impostazione rispetto al buon andamento dell’amministrazione (consiliare e della giustizia).

In questo momento storico, ad ogni buon conto, avere ristabilito un giusto dosaggio della miscela tra autonomia e controllo vale anche a rinsaldare il buon convincimento che il giudice amministrativo, per il CSM, per i singoli magistrati e per l’ordine giudiziario, è, o meglio può essere,  una garanzia e non certo una minaccia.

Il Consiglio Superiore della magistratura, dal suo canto, con il recente varo del nuovo T.U. sulla dirigenza giudiziaria ha inteso definire in maniera più nitida i criteri di valutazione, le esperienze da valorizzare, i percorsi professionali, così da rendere anche più prevedibile e certa, e soprattutto verificabile, la valutazione comparativa tra gli aspiranti.

Dipenderà ora dalla giurisprudenza amministrativa dimostrare se il sistema, grazie anche all’intervento nomofilattico delle Sezioni unite, è in grado di funzionare fisiologicamente da solo, sulla base del diritto vivente. Il prossimo futuro ci dirà, insomma, se i poteri, i plessi giurisdizionali, il pubblico ed il privato  riusciranno da soli ad armonizzarsi, a collaborare lealmente, trovando dal proprio interno un giusto bilanciamento, che valga ad inverare, col suo tipico dinamismo storico, il sapiente disegno costituzionale.

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di Andrea Penta

Con sentenze pubblicate in data 17.11.2015, le Sezioni Unite (23460/15 e 23461/15), nel dichiarare il ricorso inammissibile, hanno statuito che, in materia di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, il controllo del rispetto del limite esterno della giurisdizione – che l’art. 111, ultimo comma, Cost. affida alla Corte di cassazione – non include anche una funzione di verifica finale della conformità di quelle decisioni al diritto dell’Unione europea, neppure sotto il profilo dell’osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ex art. 267, terzo comma, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, dovendosi tener conto, da un lato, che nel plesso della giurisdizione amministrativa spetta al Consiglio di Stato – quale giudice di ultima istanza – garantire, nello specifico ordinamento di settore, la conformità del diritto interno a quello dell’Unione, se del caso avvalendosi dello strumento del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, mentre, per contro, l’ordinamento nazionale contempla – per reagire ad una lesione del principio di effettività della tutela, conseguente ad una decisione del giudice amministrativo assunta in pregiudizio di situazioni giuridiche soggettive protette dal diritto dell’Unione – altri strumenti di tutela, attivabili a fronte di una violazione del diritto comunitario che sia grave e manifesta.

Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2400 del 2015, nel solco di Cass. sent. n. 4184 del 2012, che si è pronunciata in tema di trascrizione di un matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso, ha statuito l’importante principio per cui nel nostro sistema giuridico di diritto positivo il matrimonio tra persone dello stesso sesso è inidoneo a produrre effetti perché non previsto tra le ipotesi legislative di unione coniugale. Il nucleo affettivo relazionale che caratterizza l’unione omoaffettiva, invece, riceve un diretto riconoscimento costituzionale dall’art. 2 Cost., e mediante il processo di adeguamento e di equiparazione imposto dal rilievo costituzionale dei diritti in discussione può acquisire un grado di protezione e tutela equiparabile a quello matrimoniale in tutte le situazioni nelle quali la mancanza di una disciplina legislativa determina una lesione di diritti fondamentali scaturenti dalla relazione in questione. Per questa ragione la Corte di Cassazione ha escluso la contrarietà all’ordine pubblico del titolo matrimoniale estero, pur riconoscendone l’inidoneità a produrre nel nostro ordinamento gli effetti del vincolo matrimoniale. L’operazione di omogeneizzazione può essere svolta dal giudice comune, e non soltanto dalla Corte costituzionale, in quanto tenuto ad un’interpretazione delle norme non solo costituzionalmente orientata, ma anche convenzionalmente orientata (Corte Cost. sent. n. 150 del 2012).

A prescindere, quindi, dalla catalogazione squisitamente dogmatica del vizio che affligge il matrimonio celebrato (all’estero) tra persone dello stesso sesso (che si rivela, ai fini della soluzione della questione controversa, del tutto ininfluente), deve concludersi che, secondo il sistema regolatorio di riferimento (per come dianzi riassunto), un atto siffatto risulta sprovvisto di un elemento essenziale (nella specie la diversità di sesso dei nubendi) ai fini della sua idoneità a produrre effetti giuridici nel nostro ordinamento.

La Sezione Prima Civile, Sentenza 2 novembre 2015, n. 22352 (Presidente F. Forte – Relatore M. Ferro), in materia di impugnazione di sentenza dichiarativa di fallimento, ha stabilito che, per il perfezionamento della notificazione telematica, deve aversi riguardo unicamente alla sequenza procedimentale prevista dalla legge e, quindi, alla ricevuta di accettazione, che fornisce la prova dell’avvenuta spedizione di un messaggio di posta elettronica certificata, e alla ricevuta di avvenuta consegna, che fornisce la prova che un messaggio leggibile è giunto all’indirizzo dichiarato dal destinatario, mentre non ha rilievo l’annotazione con la quale il cancelliere abbia invitato il creditore istante – prima ancora che il sistema generasse la ricevuta di avvenuta consegna – ad attivare il meccanismo sostitutivo previsto dall’art. 15, comma 3, l.fall.

La Sezione Sesta (Sezione Sesta-Seconda Civile, Ordinanza interlocutoria 17 novembre 2015, n. 23527, Presidente S. Petitti, Relatore P. D’Ascola) ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite di un ricorso involgente la questione – oggetto di contrasto – se, ai fini della competenza territoriale, ove il contratto non predetermini l’importo del corrispettivo e questo sia autodeterminato dal creditore nell’atto introduttivo del giudizio, il “forum destinatae solutionis” sia presso il domicilio del creditore (art. 1182, comma 3, c.c.) o presso il domicilio del debitore (art. 1182, comma 4, c.c.).

Dal canto suo, La Sezione Lavoro (Sezione Lavoro, Ordinanza interlocutoria 23 ottobre 2015, n. 21654, Pres. P. Stile, Relatore A. Doronzo) ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione, su cui vi è contrasto, relativa al riconoscimento, anche in favore dei medici iscritti a corsi di specializzazione anteriormente al 31 dicembre 1982, del diritto al risarcimento del danno da inadempimento della direttiva comunitaria 26 gennaio 1982, n. 82/76/CEE.

Con sentenza del 22 ottobre 2015, n. 21528 la seconda Sezione civile della Corte di cassazione ritorna ad occuparsi della ricorrente questione dell’efficacia probatoria dei verbali di accertamento in tema di violazioni al codice della strada, distinguendo tra il caso in cui il suo contenuto è liberamente apprezzabile e quello in cui, invece, è confutabile solo con la querela di falso.

In altri termini, in sede di opposizione a provvedimento irrogativo della sanzione amministrativa e di opposizione diretta, in sede giurisdizionale, avverso il verbale di accertamento per violazioni al codice della strada, e con riferimento all’ammissibilità della contestazione e della prova nei relativi giudizi, non deve aversi riguardo alle circostanze di fatto della violazione attestate nel verbale come percepite direttamente ed immediatamente dal pubblico ufficiale ed alla possibilità o probabilità di un errore nella loro percezione (che devono essere necessariamente confutate, ove contestate, con l’apposito rimedio della querela di falso), ma esclusivamente a circostanze che esulano dall’accertamento, quali l’identificazione dell’autore della violazione e la sua capacità o la sussistenza dell’elemento soggettivo o di cause di esclusione della responsabilità, ovvero rispetto alle quali l’atto è insuscettibile di fede privilegiata per una sua irrisolvibile oggettiva contraddittorietà.

Alla stregua di tali principi, la Suprema Corte ha rigettato, nella fattispecie esaminata nella selezionata sentenza, il ricorso sul presupposto che, per confutare l’attestazione del pubblico ufficiale in ordine alla mancata esposizione della ricevuta di pagamento della sosta da parte dell’automobilista, occorreva che quest’ultimo proponesse querela di falso (che, invece, non era stata in concreto formulata).

In tema di art. 936 c.c.  (opere fatte da un terzo con materiali propri), nel decidere il ricorso n. 15916/2011, sempre la seconda Sezione (Pres. Oddo, Est. Migliucci) ha ritenuto che: il proprietario del fondo, che abbia optato a norma dell’art. 936, 1° co., c.c. per la ritenzione di una costruzione realizzata sul suo fondo dal terzo con materiali propri in difformità di concessione edilizia o di strumenti urbanistici, è tenuto alla corresponsione della indennità prevista dal 2° co., cit. art., nel caso in cui in pendenza del giudizio per la declaratoria della accessione della costruzione al suolo sia intervenuta sanatoria della illiceità dell’opera. Anche in tale caso l’indennità dovuta al terzo, sia che si determini in relazione all’incremento arrecato al fondo, sia che si abbia riguardo al valore dei materiali ed al prezzo della mano d’opera, va determinata con riferimento all’epoca dell’incorporazione.

Per la terza Sezione, è configurabile la responsabilità di un Comune ex art. 2049 c.c., con obbligo dello stesso di risarcire il danno cagionato ai genitori, allorché il Sindaco abbia disposto l’allontanamento di una minore dalla casa familiare, sulla base di una segnalazione (rivelatasi infondata) degli addetti ai servizi sociali, i quali avevano sollecitato l’immediata adozione del provvedimento, senza avvertire la necessità di ulteriori e più approfondite indagini da parte dei competenti organi giudiziari (Sentenza 16 ottobre 2015, n. 20928, Presidente G. Salmè, Estensore R. Lanzillo).

Sempre la terza Sezione ha chiarito che, in caso di immissioni che superino la soglia di tollerabilità, è dovuto il risarcimento del danno alla persona anche in assenza di un pregiudizio alla salute, a condizione che risulti leso il diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria casa di abitazione e alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, anche in ragione del rilievo che al diritto al rispetto della propria vita privata e familiare viene attribuito dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Sentenza 16 ottobre 2015, n. 20927, Presidente G. Salmè, Estensore L. Rubino).

La terza Sezione si è altresì segnalata in materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, affermando che l’osservanza da parte di un nosocomio – pubblico o privato – delle dotazioni ed istruzioni previste dalla normativa vigente per le prestazioni di emergenza non è sufficiente ad escludere la responsabilità per i danni subiti da un paziente in conseguenza della loro esecuzione, essendo comunque necessaria l’osservanza delle comuni regole di diligenza e prudenza (Sentenza 19 ottobre 2015, n. 21090, Presidente G. Salmè, Estensore F. De Stefano).

In tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo, ai fini dell’osservanza del termine di proponibilità della domanda è sufficiente il deposito del ricorso, giacché il deposito degli atti prescritto dall’art. 3, comma 3, della l. n. 89 del 2001, novellato dalla l. n. 134 del 2012, può sopravvenire fino alla decisione del giudice o nel termine da lui appositamente concesso (Sezione Sesta-Seconda Civile, Sentenza del 6 novembre 2015, n. 22763, Presidente S. Petitti, Relatore F. Manna).

La sentenza redatta in formato elettronico dal giudice e da questi sottoscritta con firma digitale, ai sensi dell’art. 15 del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44, non è affetta da nullità per difetto di sottoscrizione, attesa l’applicabilità al processo civile del cd. “Codice dell’amministrazione digitale” (Terza Sezione Civile, Sentenza 10 novembre 2015, n. 22871, Presidente G. Salmè, Estensore G.L. Barreca).

Nello stesso ambito, Cassazione civile, sez. VI, sentenza 10 novembre 2015, n. 22892, ha sostenuto che la posta elettronica certificata costituisce oggetto di una informazione di carattere aggiuntivo finalizzata alle comunicazioni di cancelleria e destinata a surrogarsi, anche agli effetti della notifica degli atti, ad una domiciliazione mancante.

La Suprema Corte ha specificato altresì che la PEC non è quindi destinata a prevalere sulla domiciliazione che il difensore abbia volontariamente effettuato presso la cancelleria del giudice adito in conformità dell’art. 82 del R.D. n. 37 del 1934. E ciò indipendentemente dalla circostanza che il difensore medesimo abbia specificato o meno a qual fine intendesse indicare la propria PEC, non avendo egli il potere di modificare gli effetti di tale indicazione.

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Chiarezza, sinteticità e tutela delle garanzie di difesa. Questi i principali obiettivi dei due protocolli per i ricorsi in cassazione (uno per la materia civile e tributaria e l’altro per quella penale) firmati lo scorso giovedì 17 dicembre dal Primo Presidente della Corte di Cassazione e dal Presidente del CNF.

Schema redazione dei ricorsi in materia civile e tributaria

Schema redazione dei ricorsi in materia penale

Sono stati firmati, il 17 dicembre scorso, dal Primo Presidente della Corte di Cassazione e dal Presidente del CNF due protocolli, uno per la materia civile e tributaria e l’altro per quella penale.

L’obiettivo è quello di «favorire la chiarezza e la sinteticità degli atti processuali e di formulare raccomandazioni per la redazione dei ricorsi funzionale a facilitarne la lettura e la comprensione da un lato e a dare maggiori certezze agli avvocati circa i criteri di autosufficienza e quindi di ammissibilità degli stessi dall’altro». E’ quanto si legge nel comunicato stampa diffuso lo scorso venerdì dal Consiglio Nazionale Forense.

Nei Protocolli viene indicato unoschema redazionale dei ricorsi, che ne definisce «i limiti di contenuto e ne agevola l’immediata comprensione da parte del giudicante, senza che l’eventuale mancato rispetto della regola sui limiti dimensionali comporti un’automatica sanzione di tipo processuale. Sono inoltre fornite alcune indicazioni per l’attività di difesa, l’osservanza delle quali ottempera al principio di autosufficienza».

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Protocollo d’intesa tra la Corte di Cassazione e il Consiglio Nazionale Forense in merito alle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia civile e tributaria Roma

17 dicembre 2015

La Corte di cassazione, in persona del Primo Presidente Giorgio Santacroce, e il Consiglio Nazionale Forense, in persona del Presidente, Andrea Mascherin, nella convinzione che i tempi siano maturi per una comune presa d’atto:

  1. delle difficoltà ingenerate nella gestione dei procedimenti innanzi alla Corte di cassazione: a) dal moltiplicarsi di ricorsi, controricorsi e memorie sovradimensionati nell’esposizione di motivi ed argomentazioni, da un lato, e b) dalla riscontrata difficoltà di definire in modo chiaro e stabile il senso e i limiti del c.d. principio di autosufficienza del ricorso affermata dalla giurisprudenza, dall’altro;
  2. considerato che il sovradimensionamento degli atti difensivi di parte possa essere di ostacolo alla effettiva comprensione del loro contenuto essenziale con effetti negativi sulla chiarezza e celerità della decisione;
  3. considerato altresì che il suddetto sovradimensionamento possa essere, almeno in parte, frutto della ragionevole preoccupazione dei difensori di non incorrere nelle censure di inammissibilità per difetto di autosufficienza, con la conseguente necessità che di tale principio meglio si definiscano i precisi limiti alla luce di effettivi e concreti dati normativi;
  4. ritenuto che una significativa semplificazione possa derivare dall’adozione di un modulo redazionale dei ricorsi, che ne definisca i limiti di contenuto e ne agevoli l’immediata comprensione da parte del giudicante, senza che l’eventuale mancato rispetto della regola sui limiti dimensionali comporti un’automatica sanzione di tipo processuale;

stipulano la presente intesa sulle seguenti raccomandazioni:

REDAZIONE DEI RICORSI IN MATERIA CIVILE E TRIBUTARIA

I ricorsi dovranno essere redatti secondo il seguente:

SCHEMA

utilizzare fogli A4, mediante caratteri di tipo corrente (ad es. Times New Roman, Courier, Arial o simili) e di dimensioni di almeno 12 pt nel testo, con un’interlinea di 1,5 e margini orizzontali e verticali di almeno cm. 2,5 (in alto, in basso, a sinistra e a destra della pagina: queste indicazioni valgono anche per la redazione di controricorsi e memorie).

PARTE RICORRENTE:

Cognome e Nome / Denominazione sociale

Data e luogo di nascita / Legale rappresentante

Luogo di residenza / Sede sociale

Codice fiscale

Dati del difensore (Cognome e Nome, Codice fiscale, PEC e fax)

Domicilio eletto

Dati del domiciliatario (Cognome e Nome, Codice fiscale, PEC e fax)

PARTE INTIMATA: Gli stessi dati indicati per la parte ricorrente, nel limite in cui essi siano noti alla medesima parte ricorrente

SENTENZA IMPUGNATA:

Indicare gli estremi del provvedimento impugnato (Autorità giudiziaria che lo ha emesso, Sezione, numero del provvedimento, data della decisione, data della pubblicazione, data della notifica (se notificato)

OGGETTO DEL GIUDIZIO:

Indicare un massimo di 10 (dieci) parole chiave, tra le quali debbono essere quelle riportate nella nota di iscrizione a ruolo, che descrivano sinteticamente la materia oggetto del giudizio.

VALORE DELLA CONTROVERSIA:

Indicare il valore della controversia ai fini della determinazione del contributo unificato

SINTESI DEI MOTIVI:

Enunciare sinteticamente i motivi del ricorso (in non più di alcune righe per ciascuno di essi e contrassegnandoli numericamente), mediante la specifica indicazione, per ciascun motivo, delle norme di legge che la parte ricorrente ritenga siano state violate dal provvedimento impugnato e dei temi trattati. Nella sintesi dovrà essere indicato per ciascun motivo anche il numero della pagina ove inizia lo svolgimento delle relative argomentazioni a sostegno nel prosieguo del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L’esposizione del fatto deve essere sommaria, in osservanza della regola stabilita dall’art. 366, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., e deve essere funzionale alla percepibilità delle ragioni poste a fondamento delle censure poi sviluppate nella parte motiva. L’esposizione deve essere contenuta nel limite massimo di 5 pagine.

MOTIVI DI IMPUGNAZIONE

In questa parte trova spazio l’esposizione delle argomentazioni a sostegno delle censure già sinteticamente indicate nella parte denominata “sintesi dei motivi”. L’esposizione deve rispondere al criterio di specificità e di concentrazione dei motivi e deve essere contenuta nel limite massimo di 30 pagine.

CONCLUSIONI

In questa parte trova spazio l’indicazione del provvedimento in ultimo richiesto (e con richiesta comunque non vincolante). Ad esempio: cassazione con rinvio, cassazione senza rinvio con decisione di merito, ecc..

DOCUMENTI ALLEGATI

Elencare secondo un ordine numerico progressivo gli atti e i documenti prodotti ai sensi dell’art. 369, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ.

Note:

  1. Tutte le indicazioni contenute nel modulo sopra riportato, comprese quelle sulle misure dimensionali, si estendono, per quanto compatibili, ai controricorsi e alle memorie previste dall’art. 378 cod. proc. civ. Qualora il controricorso contenga anche un ricorso incidentale, all’esposizione dei relativi motivi si applica la previsione di cui al successivo punto n. 3), ultimo periodo.
  2. Il mancato rispetto dei limiti dimensionali indicati nel modulo e delle ulteriori indicazioni ivi previste non comporta l’inammissibilità o l’improcedibilità del ricorso (e degli altri atti difensivi or ora citati), salvo che ciò non sia espressamente previsto dalla legge; il mancato rispetto dei limiti dimensionali, salvo quanto in appresso indicato, è valutabile ai fini della liquidazione delle spese del giudizio.
  3. Nel caso che per la particolare complessità del caso le questioni da trattare non appaiano ragionevolmente comprimibili negli spazi dimensionali indicati, dovranno essere esposte specificamente, nell’ambito del medesimo ricorso (o atto difensivo), le motivate ragioni per le quali sia ritenuto necessario eccedere dai limiti previsti. La presentazione di un ricorso incidentale, nel contesto del controricorso, costituisce di per sé ragione giustificatrice di un ragionevole superamento dei limiti dimensionali fissati.
  4. La eventuale riscontrata e motivata infondatezza delle motivazioni addotte per il superamento dei limiti dimensionali indicati, pur non comportando inammissibilità del ricorso (o atto difensivo) che la contiene, può essere valutata ai fini della liquidazione delle spese.
  5. Nei limiti dimensionali complessivi sono da intendersi come esclusi, oltre all’intestazione e all’indicazione delle parti processuali, del provvedimento impugnato, dell’oggetto del giudizio, del valore della controversia, della sintesi dei motivi e delle conclusioni, l’elenco degli atti, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali si fonda il ricorso, la procura in calce e la relazione di notificazione.

IL PRINCIPIO DI AUTOSUFFICIENZA

Il rispetto del principio di autosufficienza non comporta un onere di trascrizione integrale nel ricorso e nel controricorso di atti o documenti ai quali negli stessi venga fatto riferimento. Il sunnominato principio deve ritenersi rispettato, anche per i ricorsi di competenza della Sezione tributaria, quando:

  1. ciascun motivo articolato nel ricorso risponda ai criteri di specificità imposti dal codice di rito;
  2. nel testo di ciascun motivo che lo richieda sia indicato l’atto, il documento, il contratto o l’accordo collettivo su cui si fonda il motivo stesso (art. 366, c. 1, n. 6), cod. proc. civ.), con la specifica indicazione del luogo (punto) dell’atto, del documento, del contratto o dell’accordo collettivo al quale ci si riferisce;
  3. nel testo di ciascun motivo che lo richieda siano indicati il tempo (atto di citazione o ricorso originario, costituzione in giudizio, memorie difensive, ecc.) del deposito dell’atto, del documento, del contratto o dell’accordo collettivo e la fase (primo grado, secondo grado, ecc.) in cui esso è avvenuto;
  4. siano allegati al ricorso (in apposito fascicoletto, che va pertanto ad aggiungersi all’allegazione del fascicolo di parte relativo ai precedenti gradi del giudizio) ai sensi dell’art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., gli atti, i documenti, il contratto o l’accordo collettivo ai quali si sia fatto riferimento nel ricorso e nel controricorso.

Redatto in due originali in Roma il giorno 17 dicembre 2015

Il Primo Presidente della Corte di Cassazione
Giorgio Santacroce

Il Presidente del Consiglio Nazionale Forense
Andrea Mascherin

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a cura di Andrea Penta

Attesa era la pronuncia delle Sezioni Unite sul terzo comma dell’art. 360 c.p.c., le quali hanno affermato che la sentenza, con cui il giudice d’appello riforma o annulla la decisione di primo grado e rimette la causa al giudice a quo ex artt. 353 o 354 c.p.c., è immediatamente impugnabile con ricorso per cassazione, trattandosi di sentenza definitiva che non ricade nel divieto, dettato dall’art. 360, comma 3, c.p.c. novellato, d’immediata impugnazione in cassazione delle sentenze non definitive su mere questioni, per tali intendendosi solo quelle che non chiudono il processo dinanzi al giudice che le ha pronunciate (Sezioni Unite, Sentenza 22 dicembre 2015, n. 25774, Presidente L.A. Rovelli, Relatore A. Giusti).

Di grande impatto, non solo giuridico ma anche umano, è la sentenza delle Sezioni Unite Civili le quali, a risoluzione di contrasto, sulla responsabilità medica per nascita indesiderata, hanno affermato che: a) la madre è onerata dalla prova controfattuale della volontà abortiva, ma può assolvere l’onere mediante presunzioni semplici; b) il nato con disabilità non è legittimato ad agire per il danno da “vita ingiusta”, poiché l’ordinamento ignora il “diritto a non nascere se non sano” (Sezioni Unite Civili, Sentenza 22 dicembre 2015, n. 25767, Presidente L. A. Rovelli, Relatore A. Spirito, Estensore R. Bernabai).

Di notevole rilevanza sul piano pratico è l’altra pronuncia delle Sezioni Unite che, a soluzione di una questione di massima di particolare importanza, hanno affermato il principio secondo cui, ove il diritto non si possa far valere se non con un atto processuale, la prescrizione è interrotta dall’atto di esercizio del diritto, ovvero dalla consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario per la notifica, mentre in ogni altro caso opera la soluzione opposta (Sezioni Unite, Sentenza 9 dicembre 2015, n. 24822, Presidente L.A. Rovelli, Estensore R. Vivaldi).

Le stesse Sezioni Unite, a soluzione di una questione di massima di particolare importanza, hanno affermato il principio secondo il quale l’impugnazione del garante riguardo al rapporto principale, tanto nel caso in cui la chiamata si sia esaurita nella sola richiesta di estensione soggettiva dell’accertamento sul rapporto principale al garante, quanto nel caso in cui ad essa sia stata cumulata la domanda di garanzia, è idonea ad investire il giudice dell’impugnazione anche a favore del garantito, attesa la struttura necessaria del litisconsorzio sul piano processuale e considerato che è stato lo stesso garantito a realizzare l’estensione soggettiva della legittimazione sul rapporto principale (Sezioni Unite, Sentenza 4 dicembre 2015, n. 24707, Presidente L.A. Rovelli, Estensore R. Frasca).

Da ultimo, sul piano sostanziale, le Sezioni Unite, a risoluzione di contrasto, hanno affermato che, ove gli elementi costitutivi della pensione di inabilità prevista dall’art. 12 della legge n. 118 del 1974  siano maturati prima del compimento del sessantacinquesimo anno di età e la relativa domanda amministrativa sia stata proposta prima di tale data, la sostituzione con l’assegno sociale opera dal primo giorno del mese successivo a quello del compimento del sessantacinquesimo anno, anche se ciò comporta che non venga pagato neanche un rateo della pensione di inabilità e si debba corrispondere direttamente l’assegno sociale (Sezioni Unite, Sentenza 15 dicembre 2015, n. 25204, Presidente F. Roselli, Estensore V. Nobile).

La Prima Sezione Civile, andando di contrario avviso ad un proprio precedente specifico, ma muovendosi nel solco di un orientamento generale ormai prevalente in materia di incompatibilità , ha escluso che la partecipazione del giudice delegato che abbia deciso sulla domanda di insinuazione al passivo fallimentare al collegio giudicante chiamato a pronunciarsi sulla conseguente opposizione allo stato passivo possa determinare la nullità della decisione, in quanto l’incompatibilità prevista dalla legge può dar luogo soltanto all’esercizio del potere di ricusazione, che la parte interessata ha l’onere di far valere, in caso di mancata astensione del giudice, nelle forme e nei termini di cui all’art. 52 c.p.c. (Sezione Prima Civile, Sentenza 4 dicembre 2015, n. 24718, Presidente Ceccherini, Relatore Didone).

In tema di notificazioni, Cass. Sez. Prima, 2 novembre 2015, n. 22352, ha statuito che la fattispecie della notifica telematica, effettuata a cura della cancelleria, evidenzia una sequenza caratterizzata dalla ricevuta telematica e dalla ricevuta di avvenuta consegna, relativamente alle quali gli artt. 6 del d.P.R. n. 68 del 2005 e l’art. 45 del d.lgs. n. 82 del 2005 fissano i presupposti del rispettivo perfezionamento: dal lato del mittente, la fornitura del gestore di posta elettronica certificata utilizzato della ricevuta di accettazione, contenente i dati di certificazione che costituiscono la prova dell’avvenuta spedizione di un messaggio di PEC, mentre dal lato del destinatario la fornitura della ricevuta di avvenuta consegna, che a sua volta dà al mittente la prova che il suo messaggio di PEC è effettivamente pervenuto all’indirizzo elettronico dichiarato dal destinatario e certifica il momento della consegna tramite un testo, leggibile dal mittente, contenente i dati di certificazione. La ricevuta di avvenuta consegna è rilasciata contestualmente alla consegna del messaggio di posta elettronica certificata nella casella di posta elettronica messa a disposizione del destinatario dal gestore, indipendentemente dall’avvenuta lettura da parte del soggetto destinatario. Trattasi di un assetto normativo espressione del processo di digitalizzazione del processo, finalizzato a conseguire l’obiettivo stabilito dall’art. 16 del d.l. n. 179 del 2012, a norma del quale è stabilito che nei procedimenti civili le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria devono essere effettuate esclusivamente per via telematica all’indirizzo di posta elettronica certificata.

La Sezione Seconda ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite di un ricorso sulla questione dell‘iscrizione a ruolo delle cause d’appello “con velina”: se ne derivi l’improcedibilità o una nullità sanabile; se per l’eventuale sanatoria basti la costituzione dell’appellato o necessiti il deposito dell’atto originale; se il deposito debba avvenire entro la prima udienza o possa seguire nel corso del giudizio (Sezione Seconda Civile, Ordinanza interlocutoria 18 dicembre 2015, n. 25529, Presidente E. Bucciante, Relatore E. Picaroni).

La medesima Sezione ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite di ricorso su questioni oggetto di contrasto: a) se la notifica di copia del ricorso per cassazione incomprensibile perché priva di alcune pagine determini inammissibilità dell’impugnazione o vizio sanabile con notifica integrale; b) se l’appello proposto a giudice incompetente per territorio sia inammissibile o suscettibile di translatio iudicii (Sezione Seconda Civile, Ordinanza interlocutoria 9 dicembre 2015, n. 24856, Presidente M. Oddo, Relatore A. Giusti).

Ha ingenerato numerose polemiche Cass. Civ., sez. III, sentenza 3 dicembre 2015 n. 24629 (Pres., rel. Vivaldi), la quale ha statuito che. nel procedimento per decreto ingiuntivo cui segue l’opposizione, la parte su cui grava l’onere di introdurre il percorso obbligatorio di mediazione, ai sensi del d.lgs. 28 del 2010, è la parte opponente: infatti, è proprio l’opponente che ha il potere e l’interesse ad introdurre il giudizio di merito, cioè la soluzione più dispendiosa, osteggiata dal legislatore. E’, dunque, sull’opponente che deve gravare l’onere della mediazione obbligatoria, perché è l’opponente che intendere precludere la via breve per percorrere la via lunga. La diversa soluzione sarebbe palesemente irrazionale, in quanto premierebbe la passività dell’opponente e accrescerebbe gli oneri della parte creditrice. Del resto, non si vede a quale logica di efficienza risponda una interpretazione che accolli al creditore del decreto ingiuntivo l’onere di effettuare il tentativo di mediazione, quando ancora non si sa se ci sarà l’opposizione allo stesso decreto ingiuntivo.

Con la sentenza n. 22871 del 2015 la Suprema Corte ha affermato che la sentenza redatta in formato elettronico dal giudice e da questi sottoscritta con firma digitale ai sensi dell’art. 15, d.m. 21 febbraio 2011 n. 44, non è affetta da nullità per mancanza di sottoscrizione, sia perché sono garantite l’identificabilità dell’autore, l’integrità del documento e l’immodificabilità del provvedimento (se non dal suo autore), sia perché la firma digitale è equiparata, quanto agli effetti alla sottoscrizione autografa in forza dei principi contenuti del Codice dell’Amministrazione Digitale (d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 e succ. mod.) applicabili anche al processo civile, per quanto disposto dall’art. 4, d.l. 29 dicembre 2009 n. 193, convertito nella l. 22 febbraio 2010 n. 24. (Cass., Sez. III, 10 novembre 2015, n. 22871).

In materia di responsabilità civile dei magistrati, la Terza Sezione (Sez. III, Sentenza 15 dicembre 2015, n. 25216, Presidente G. Salmè, Estensore G.L. Barreca) ha precisato che la sopravvenuta abrogazione dell’art. 5 della legge 13 aprile 1988, n. 117 – ad opera dell’art. 3, comma 2, della legge 27 febbraio 2015, n. 18 – non esplica efficacia retroattiva, sicché l’ammissibilità della domanda di risarcimento danni cagionati nell’esercizio di funzioni giudiziarie, proposta sotto il vigore della norma abrogata, deve essere delibata alla stregua della disciplina previgente.

Per Cass. Civ., Sez. VI, Ord., 4 novembre 2015, n. 224, ai sensi del combinato disposto degli artt. 167, comma 1, e 115, comma 1, c.p.c., l’onere di contestazione specifica dei fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, si pone unicamente per il convenuto costituito e nell’ambito del solo giudizio di primo grado, nel quale soltanto si definisce -irretrattabilmente- il thema decidendum(cioè i fatti pacifici) ed ilthema probandum (vale a dire i fatti controversi). Pertanto, il giudice d’appello nel decidere la causa deve aver riguardo ai suddetti temi così come si sono formati nel giudizio di primo grado, non rilevando a tal fine la condotta processuale tenuta dalle parti nel giudizio svoltosi innanzi a lui.

In caso di licenziamento intimato al pubblico impiegato in violazione di norme imperative, quali l’art. 55-bis, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, si applica la tutela reintegratoria di cui all’art. 18 st. lav., come modificato dalla l. n. 92 del 2012, trattandosi di nullità prevista dalla legge (Sezione Lavoro,. Sentenza 26 novembre 2015, n. 24157, Pres. P. Stile, Relatore A. Manna).

Sempre in materia di lavoro e previdenza, nel caso di pubblicazione in udienza della sentenza completa di motivazione e dispositivo, con contestuale emanazione di provvedimento per l’ulteriore corso del giudizio, la riserva d’appello non deve essere effettuata alla stessa udienza, bensì può essere ritualmente compiuta con atto successivo, nel rispetto del termine di cui all’art. 325 c.p.c. (Sezione Lavoro, Sentenza 7 dicembre 2015, n. 24805, Pres. G. Amoroso, Relatore P. Ghinoy).

Quanto al rito cd. Fornero, la Sezione Lavoro ha chiarito che, nel rito di cui all’art. 1, commi 48 e segg., della legge 29 giugno 2012, n. 92 l’eccezione di decadenza dall’impugnativa di licenziamentodi cui all’art. 6 della l. n. 604 del 1966, come modificato dall’art. 32 della l. n. 183 del 2010, può essere proposta, per la prima volta, anche nella sola fase di opposizione, in quanto in rapporto di prosecuzione con la prima fase a cognizione sommaria (Sez. L., Sentenza 11 dicembre 2015, n. 25046, Pres. F. Roselli, Est. n. De Marinis)

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a cura di Andrea Penta

Le Sezioni Unite sono intervenute nel corso dell’ultimo mese con tre importanti sentenze.

Con la prima (Sezioni Unite civili, Sentenza 31 maggio 2016, n. 11374, Presidente R. Rordorf, Relatore P. Curzio)  hanno affermato la legittimità dei contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione tra loro con le Poste Italiane s.p.a.  nel rispetto della disciplina dettata dal d.lgs. n. 368 del 2001, e successive integrazioni, applicabile ratione temporis; dovendosi ritenere la normativa interna (in ispecie, quella di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 368 del 2001, integrata dall’art. 1, commi 40 e 43, della legge n. 247 del 2007) conforme ai principi fissati dall’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato (Direttiva n. 1999/70/CE).

Con la seconda (Sezioni Unite civili, Sentenza 9 giugno 2016, n. 12084, Presidente R. Rordorf, Relatore P. D’Ascola) hanno statuito che la notifica di un primo atto di appello (o di ricorso per cassazione) determina il passaggio irretrattabile alla fase dell’impugnazione e dimostra conoscenza legale della sentenza da parte dell’impugnante, sicché l’eventuale ripetizione dell’atto, ammessa nei limiti ex art. 358 c.p.c., deve essere tempestiva in relazione al termine breve decorrente dalla data di proposizione della prima impugnazione.

Con la terza (Sezioni Unite civili, Sentenza 15 giugno 2016, n. 12324, Presidente G. Canzio, Relatore P. D’Ascola) hanno chiarito, in tema di sanzioni amministrative, che, in caso di ritardato pagamento sono dovuti gli interessi moratori infrasemestrali nel periodo tra la scadenza dell’obbligo di pagare la sanzione e la data di effettivo pagamento, avvenuto prima della maturazione, al termine del primo semestre, della maggiorazione di cui all’art. 27, comma 6, della l. n. 689 del 1981.
 

Particolarmente significative sono state le pronunce della Prima Sezione.

Quest’ultima, pronunciandosi ex art. 363, comma 3, c.p.c., ha affermato che al socio di maggioranza di una s.r.l., titolare di almeno un terzo del capitale, va riconosciuto, nel silenzio della legge e dell’atto costitutivo, il potere di convocazione dell’assemblea in caso di inerzia dell’organo di gestione (Prima Sezione Civile, Sentenza 25 maggio 2016, n. 10821, Presidente F. Forte, Relatore R. Bernabai).

Di grande rilevanza sul piano pratico sarà la statuizione con la quale la Suprema Corte ha ritenuto che, nell’azione di responsabilità esercitata dal socio ex art. 2476 c.c., deve integrarsi il contraddittorio nei confronti della società , quale litisconsorte necessaria (Prima Sezione Civile, Sentenza 26 maggio 2016, n. 10936, Presidente F. Forte, Relatore R. Bernabai).

Infine, ha affermato che, anche con riferimento alla nuova disciplina introdotta dal d.P.R. n. 327 del 2001, la pronuncia del decreto di espropriazione costituisce una condizione dell’azione per la determinazione della corrispondente indennità , sicché il giudice può esaminare il merito della relativa controversia ove quel provvedimento sia esistente al momento della decisione (Prima Sezione Civile, Sentenza 31 maggio 2016, n. 11261, Presidente S. Salvago, Relatore M.G.C. Sambito).

La Sezione Lavoro ha escluso che ai rapporti di pubblico impiego contrattualizzato di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001 si applichino le modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012 (cd. legge Fornero) all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, sicché la tutela del dipendente pubblico nel caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all’entrata in vigore di tali modifiche resta quella prevista dall’art. 18 dello Statuto nel testo precedente alla riforma (Sezione Lavoro, sentenza 9 giugno 2016, n. 11868, Pres. L Macioce, Relatore A. Di Paolantonio).

A sua volta, la Sezione Tributaria ha precisato, in tema di plusvalenze da cessioni d’immobili o aziende, che l’art. 5, comma 3, della l. n. 147 del 2015 è norma d’interpretazione autentica e, quindi, retroattiva, per cui l’esistenza di un maggior corrispettivo non è più presumibile sulla base del valore anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro o ipotecaria e catastale neppure nelle controversie instaurate prima della sua introduzione (Sesta Sezione – Tributaria, Ordinanza 6 giugno 2016, n. 11543,Presidente M. Iacobellis, relatore G. Caracciolo).

Infine, va segnalato che la Terza Sezione Civile ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione, su cui sussiste contrasto, relativa all’operatività, o meno, della responsabilità ex art. 1669 c.c. anche in caso di lavori di ristrutturazione di edifici (Terza Sezione Civile, Ordinanza interlocutoria 10 giugno 2016, n. 12041, Presidente A. Spirito, Estensore D. Sestini).

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a cura di Andrea Penta

Nel mese di gennaio vanno segnalate due pronunce delle Sezioni Unite.

Con la prima, in tema di giurisdizione, le Sezioni Unite civili, muovendo dall’affermazione della pregiudizialità della questione di giurisdizione rispetto a quella di competenza, derogabile solo in forza di norme o principi della Costituzione o espressivi di interessi o di valori di rilievo costituzionale, hanno stabilito che, qualora sia stato proposto regolamento di competenza (facoltativo) avverso una sentenza di primo grado declinatoria della competenza, la Corte di cassazione, non essendosi formato il giudicato sulla giurisdizione, giusta l’art. 43, comma 3, primo periodo, c.p.c., può rilevarne d’ufficio l’eventuale difetto da parte del giudice ordinario adito ai sensi dell’art. 37 c.p.c. (Sez. Unite civili, sentenza 5 gennaio 2016, n. 29, Pres. L. A. Rovelli, Est. S. Di Palma).

Con la seconda, adottata nell’ambito del lavoro pubblico, hanno affermato, a risoluzione di questione di massima di particolare importanza, che l’art. 1, comma 49, della legge n. 311 del 2004, con possibilità di reinquadramento ed accesso alla dirigenza, non si applica ai segretari comunali o provinciali trasferiti ad una P.A. diversa da quella di provenienza per effetto di procedure di mobilità già esaurite alla data di entrata in vigore della legge (Sez. Unite civili, sentenza 19 gennaio 2016, n. 784, Pres. F. Roselli, Rel. P. Curzio).

Di particolare interesse pratico, per chi frequenta il “Palazzaccio”, è l’ordinanza interlocutoria conla quale la Prima Sezione ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite: a) ex art. 374, comma 3, c.p.c., la questione riguardante la procedibilità , o meno, del ricorso per cassazione quando la copia notificata della sentenza impugnata, non depositata dal ricorrente che pure abbia dichiarato l’esistenza di tale evento, sia stata prodotta da un’altra parte nel giudizio di legittimità; b) ex art. 374, comma 2, c.p.c., la questione concernente la validità, o meno, della procura conferita ad un difensore, ma con autenticazione della firma della parte ad opera di altro difensore che sia anche indicato nell’epigrafe dell’atto e che lo abbia sottoscritto (Sez. I, ordinanza interlocutoria 21 gennaio 2016, n. 1081, Pres. S. Di Palma, Est. L. Nazzicone).

Era molto attesa la pronuncia concernente la fallibilità , quale socia illimitatamente responsabile, di una società a responsabilità limitata partecipante ad società di persone, anche di fatto, in assenza della delibera di assunzione della partecipazione medesima. Orbene, è stato ritenuto ammissibile il fallimento in estensione di una società a responsabilità limitata partecipe di una società di persone, anche di fatto, trattandosi di attività che non esige il rispetto dell’art. 2361, comma 2, c.c., dettato per la società per azioni, e costituisce un atto gestorio dell’organo amministrativo, che non richiede – ove l’assunzione della partecipazione non comporti un significativo mutamento dell’oggetto sociale – la previa decisione autorizzativa dei soci ex art. 2479, comma 2, c.c. (Prima Sezione Civile, Sentenza 21 gennaio 2016, n. 1095, Presidente A. Ceccherini, Relatore L. Nazzicone).

La stessa Prima Sezione ha stabilito, sempre in ambito fallimentare, che il decreto di esecutività dello stato passivo  non preclude al giudice delegato, in sede di riparto, di escludere un credito già ammesso al concorso, ove il curatore faccia valere un fatto estintivo (nella specie, l’integrale soddisfazione del creditore da parte dei coobbligati in solido del fallito) sopravvenuto all’ammissione (Prima Sezione Civile, Sentenza 14 gennaio 2016, n. 525, Presidente F. Forte, Relatore R.M. Di Virgilio). 

Particolarmente prolifica è stata in questo mese la Terza Sezione, la quale ha, in primo luogo, in tema di prescrizione e decadenza, rimesso – sul presupposto dell’esistenza di un contrasto di giurisprudenza sul punto -al Primo Presidente della Corte, ai fini dell’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione relativa alla possibilità che l’eccezione di prescrizione sollevata dall’assicuratore della responsabilità civile estingua anche il credito vantato dal danneggiato verso l’assicurato  (Terza Sezione Civile, Ordinanza interlocutoria 23 dicembre 2015, n. 25967, Presidente G.B. Petti, Estensore M. Rossetti).

La stessa Sezione, in tema di locazione di immobile ad uso commerciale, ha statuito che, estinto il rapporto di locazione, il conduttore di immobile ad uso commerciale si libera dall’obbligo di corresponsione dei canoni mediante offerta formale di restituzione dell’immobile, ai sensi dell’art. 1216, comma 2, c.c., anche qualora condizioni la riconsegna al pagamento, da parte del locatore, dell’indennità di avviamento (Terza Sezione Civile,Sentenza n. 890 del 20/01/2016, Presidente R. Vivaldi, Estensore E. Vincenti).

Ancora la Terza Sezione ha chiarito che, nell’azione revocatoria ordinaria, l’impugnazione della sentenza per il solo vizio della integrità del contraddittorio richiede che l’impugnante manifesti quale sia il concreto interesse ad agire per il rispetto del litisconsorzio necessario (Terza Sezione Civile,Sentenza n. 895 del 20/01/2016, Presidente G. Travaglino, Estensore E. Vincenti).

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a cura di Andrea Penta

Nel corso del mese di febbraio le Sezioni Unite Civili della Suprema Corte hanno depositato due attese pronunce, entrambe in ambito processuale.

Con la prima, in tema di impugnazioni civili, a risoluzione di un contrasto, hanno affermato che l’ordinanza di inammissibilità dell’appello adottata ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c.è ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., limitatamente ai vizi propri della stessa costituenti violazioni della legge processuale, purché compatibili con la logica e la struttura del giudizio ad essa sotteso, compatibilità che non sussiste ove si denunci l’omessa pronuncia su un motivo d’appello attesa la natura complessiva del giudizio “prognostico”, ponendosi, eventualmente, solo un problema di motivazione (Sez. Unite civili, sentenza 2 febbraio 2016, n. 1914, Pres. L.A. Rovelli, Rel. C. Di Iasi).

Circa un mese e mezzo fa Sez. U, Sentenza n. 25208 del 15/12/2015 aveva statuito che, ai fini delladecorrenza del termine breve per l’impugnazione della sentenza di primo grado, ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., è idonea la comunicazione dell’ordinanza, sicché la Corte di cassazione, qualora verifichi che il termine stesso è scaduto in rapporto all’avvenuta comunicazione, dichiara inammissibile il ricorso, senza necessità di prospettare il tema alle parti, trattandosi di questione di diritto di natura esclusivamente processuale.

Avrà notevoli riflessi anche nei giudizi di meritola decisione con la quale si è statuito che latitolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicché la relativa allegazione e prova incombe sull’attore, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione, da parte del convenuto (Sezioni Unite civili, Sentenza 16 febbraio 2016, n. 2951, Presidente L.A. Rovelli, Relatore P. Curzio).

In particolare, le contestazioni da parte del convenuto della titolarità del rapporto controverso dedotta dall’attore hanno natura di mere difese, proponibili in ogni fase del giudizio, senza che l’eventuale contumacia o tardiva costituzione assuma valore di non contestazione o alteri la ripartizione degli oneri probatori, ferme le eventuali preclusioni maturate per l’allegazione e la prova di fatti impeditivi, modificativi od estintivi della titolarità del diritto non rilevabili dagli atti.

Nel corso del medesimo periodo la Prima Sezione si è distinta per due pronunce.

Con la prima, adottata in tema di intermediazione finanziaria, ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione, ritenuta di massima di particolare importanza, concernente l’ammissibilità dell’intervento ad adiuvandum di un’associazione esponenziale dei consumatori/risparmiatori in un giudizio individuale, promosso da una pluralità di essi per denunciare la lesione di diritti riconosciuti dalla legge in virtù dell’asimmetria informativa e contrattuale caratterizzante il loro rapporto con l’intermediario finanziario (Sezione Prima, ordinanza interlocutoria 19 febbraio 2016, n. 3323, Presidente S. Di Palma, Estensore M. Acierno).

Con la seconda, concernente il diritto alla riservatezza, ha ritenuto che, ai sensi dell’art. 132, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 196 del 2003 – nel testo, utilizzabile ratione temporis, risultante dalle modifiche apportategli dal d.l. n. 144 del 2005, conv., con modif. dalla l. n. 155 del 2005 – trascorso il primo termine di ventiquattro mesi, è precluso l’utilizzo dei dati del traffico telefonico, nonché l’accesso agli stessi, da parte dei privati, per finalità di repressione dei reati diversi da quelli di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p. (Prima Sezione Civile, Sentenza 28 gennaio 2016, n. 1625, Presidente S. Di Palma, Relatore A. P. Lamorgese).

Da ultimo, la Seconda Sezione ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione di particolare importanza, concernente i limiti di estensione del principio della “scissione” degli effetti della notificazione, nelle ipotesi di atti procedimentali quali la contestazione dell’incolpazione prevista nei procedimenti sanzionatori (Sezione seconda, ordinanza interlocutoria 8 febbraio 2016, n. 2448, Presidente E. Bucciante, Estensore L. Orilia).

Sul tema si ricorda che circa due mesi fa Sez. U, Sentenza n. 24822 del 09/12/2015 ha affermato che la regola della scissione degli effetti della notificazione per il notificante e per il destinatario, sancita dalla giurisprudenza costituzionale con riguardo agli atti processuali e non a quelli sostanziali, si estende anche agli effetti sostanziali dei primi ove il diritto non possa farsi valere se non con un atto processuale, sicché, in tal caso, la prescrizione è interrotta dall’atto di esercizio del diritto, ovvero dalla consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario per la notifica, mentre in ogni altra ipotesi tale effetto si produce solo dal momento in cui l’atto perviene all’indirizzo del destinatario.

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Sezione penale

a cura di Luigi Giordano

REATO – Cause di giustificazione – Difesa legittima – Modifiche introdotte dalla legge n. 36 del 2019 – Eccesso colposo – Causa di non punibilità ex art. 55, comma secondo, cod. pen. – Requisiti.

In tema di legittima difesa, la Terza sezione ha affermato che la causa di non punibilità prevista dall’art. 55, secondo comma, cod. pen., come integrato dalla legge n. 36 del 2019, per chi abbia agito in condizioni di minorata difesa o in stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto, non è configurabile quando l’azione difensiva illecita, ascritta a titolo di eccesso colposo, non sia determinata dall’intento di salvaguardare la propria o altrui incolumità, ma sia esclusivamente riferibile alla difesa dei beni propri o altrui, senza che sia ipotizzabile il pericolo di aggressione personale contemplato dall’art. 52, secondo comma, lett. b), cod. pen.

Sez. 3, sentenza n. 49883 del 10 ottobre 2019 (dep. 10 dicembre 2019) – Presidente E. Rosi – Estensore G.F. Reynaud.

REATO – ELEMENTO SOGGETTIVO – COLPA – IN GENERE – Colpa omissiva – Gestione di impianto sciistico – Valutazione preventiva dei rischi – Necessità – Sussistenza – Delegabilità – Esclusione – Fattispecie.

In tema di colpa omissiva, la Terza sezione ha affermato che il gestore della pista da sci, ai sensi dell’art. 3 della legge 24 dicembre 2003, n. 363, ha l’obbligo, non delegabile a terzi, di provvedere all’iniziale valutazione di tutti i rischi connessi all’esercizio della pista medesima con il massimo grado di specificità, essendo estendibile a detta materia, per identità di ratio, la regola espressa in tema di sicurezza sul lavoro dall’art. 17, comma 1, del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81. (Fattispecie in tema di omicidio colposo verificatosi durante una discesa in slittino lungo una pista da sci).

Sezione Terza, n. 50427 del 17 luglio 2019 (dep. 13 dicembre 2019) – Pres. F. Izzo – Est. S. Corbetta.

DELITTI CONTRO LA FAMIGLIA – VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI DI ASSISTENZA FAMILIARE –  Art. 570-bis cod. pen. – Divorzio – Obbligo di mantenimento – Successivo accordo transattivo modificativo delle statuizioni patrimoniali – Omessa omologazione in sede civile –  Rilevanza – Conseguenze.

La Sesta sezione ha affermato che non è configurabile il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio di cui all’art. 570-bis cod. pen. qualora l’agente si sia attenuto agli impegni assunti con l’ex coniuge per mezzo di un accordo transattivo modificativo delle statuizioni patrimoniali contenute nella sentenza di divorzio, ancorché non omologato dall’autorità giudiziaria.

Sez. 6, 11/12/2019 (dep. 7/2/2020), n.5236, Presidente G. Fidelbo, Estensore E. Aprile.

EDILIZIA – Reati edilizi – Sequestro preventivo finalizzato alla confisca di immobile abusivo – Facoltà d’uso residenziale del bene – Legittimità – Esclusione.

In tema di reati edilizi, la Terza sezione penale della Corte di cassazione ha affermato che la facoltà d’uso – nella specie, a scopo residenziale privato – di un bene sottoposto a sequestro preventivo finalizzato alla confisca, al pari di quanto avviene per il c.d. sequestro impeditivo, è preclusa in quanto incompatibile con la finalità della misura cautelare, diretta a salvaguardare la conservazione fisica del bene ed a sottrarne la disponibilità in capo al destinatario della stessa.

Sez. 3, 6 dicembre 2019, n. 2296 (dep. 22 gennaio 2020) – Pres. G. Sarno – Est. L. Ramacci.

FINANZE E TRIBUTI – Omesso versamento dell’iva ex art. 10-ter d. lgs. n. 74 del 2000 – Consolidato fiscale – Omessa corresponsione delle somme dovute da parte delle società controllate – Responsabilità della consolidante – Sussistenza – Ragioni.

In tema di omesso versamento dell’IVA, la Terza sezione ha affermato che, in regime di consolidato fiscale, la responsabilità della società consolidante per l’omesso versamento dell’IVA di gruppo si configura anche nell’ipotesi di mancata ricezione delle somme dovute, a tale titolo, dalle società controllate poiché, avuto riguardo al potere di controllo esercitabile dalla consolidante sulle altre società del gruppo, l’indisponibilità delle somme necessarie per provvedere al pagamento dell’imposta non può ascriversi a fattori estranei alla sfera di dominio della controllante o da questa non governabili. (In motivazione la Corte ha evidenziato che, ai fini del consolidato fiscale, s’individua come consolidante la società che detiene la maggioranza dei diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria di una società per azioni o una partecipazione agli utili superiore al 50%). 

Sezione 3, n. 5513 del 16/10/2019 (dep. 12/2/2020), Presidente F. Izzo, Relatore G. Liberati.

CONTRABBANDO DOGANALE – Liquidi per sigarette elettroniche – Disciplina penale in materia di contrabbando di tabacchi – Applicabilità – Sussistenza.

La Terza sezione ha affermato che la disciplina penale in materia di contrabbando di tabacchi lavorati esteri di cui all’art. 291-bis, comma 2, d.P.R. n. 43 del 1973 trova applicazione, in forza dell’art. 62-quater, commi 1-bis e 7-bis, d.P.R. n. 504 del 1995, anche ai liquidi per sigarette elettroniche, secondo i criteri di equivalenza tra liquido da inalazione e tabacco lavorato estero determinati con provvedimenti del Direttore dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, in forza dei quali 1 ml di prodotto liquido corrisponde a 5,63 sigarette convenzionali.

Sez. 3, n. 3465 del 3/10/2019 (dep. 28/1/2020) – Pres. E. Rosi – Est. A. Andronio.

PENA – Pene accessorie previste dall’art. 216, legge fall. – Sentenza Corte cost. n. 222 del 2018 – Rideterminazione della durata delle pene accessorie in applicazione della pronuncia di incostituzionalità in sede di esecuzione –  Ammissibilità.

La Prima sezione ha affermato che anche il giudice dell’esecuzione può procedere alla rideterminazione della durata delle pene accessorie previste dall’art. 216, ultimo comma, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, qualora siano state inflitte con sentenza irrevocabile in misura pari a 10 anni e sia richiesto di adeguarle al nuovo testo della norma, come risultante dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 222 del 2018, che prevede una durata variabile con il solo limite massimo insuperabile di dieci anni.

Sez. 1, udienza 03/12/2019 (dep. 27/01/2020), n. 3290 – Pres. A. P. Mazzei, Rel. M. Boni.

MISURE DI PREVENZIONE – Sequestro e confisca di una polizza assicurativa – Richiesta di liquidazione della stessa – Tentata elusione dell’amministrazione giudiziaria di beni personali – Configurabilità – Esclusione – Ragioni.

La Prima sezione ha affermato che non integra il delitto di tentata elusione dell’amministrazione giudiziaria di beni personali, di cui agli artt. 56 cod. pen. e 76, comma 5, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, la richiesta di liquidazione di una polizza assicurativa sottoposta a sequestro e a successiva confisca di prevenzione, trattandosi di bene che non è suscettibile di amministrazione giudiziaria, potendo soltanto essere, o meno, riscattata.

Sez. 1, n. 2030 del 10 ottobre 2019 (dep. 21 gennaio 2020) – Pres. A.P. Mazzei – Est. G. Rocchi

DIRITTO D’AUTORE MARCHI E BREVETTI – Abusiva riproduzione di opere letterarie tutelate dal diritto d’autore – Opera caduta in pubblico dominio – Onere della prova a carico dell’imputato – Sussistenza.

In tema di utilizzazione economica dell’opera dell’ingegno, la Terza sezione ha affermato che la caduta dell’opera in pubblico dominio, per il decorso del termine di settanta anni dalla morte dell’autore, costituisce un elemento negativo del fatto-reato previsto dall’art. 171- ter della legge n. 633 del 1941 e pertanto il relativo onere della prova grava sull’imputato che intende avvalersene.

Sez. 3, n. 2000 del 15/11/2019 (dep. 20/01/2020), Presidente V. Di Nicola, Relatore A. Scarcella.

ALIMENTI E BEVANDE – Alimenti deteriorabili – Analisi su campioni – Obbligo di comunicazione del risultato – Esclusione – Ragioni.

In tema di accertamento di reati in materia alimentare, la Terza sezione ha affermato che, in caso di alimenti sottoposti ad analisi che siano deteriorabili, è dovuto all’indagato solo l’avviso dell’inizio delle operazioni e non anche la comunicazione del risultato delle stesse non essendo prevista, proprio in ragione di detta deteriorabilità, la possibilità di richiedere l’analisi di revisione dei campioni.

Sezione 3, n. 1434 del 1/10/2019 (dep. 15/01/2020), Pres. V. Di Nicola, Rel. A. M. Socci.

REATO DI ABUSO DI INFORMAZIONI PRIVILEGIATE – Domanda della Consob di riparazione dai danni cagionati all’integrità del mercato – Liquidazione del “quantum” – Componente della riparazione costituente espressione della funzione sanzionatoria della stessa – Valutazione – Necessità.

In tema di abuso di informazioni privilegiate, la Quinta sezione ha affermato che, in caso di intervenuta sanzione amministrativa irrevocabile, il giudice chiamato a decidere sulla domanda della Consob di riparazione dei danni cagionati dal reato all’integrità del mercato, ai sensi dell’art. 187-undecies t.u.f., deve valutare la componente della riparazione costituente espressione della funzione sanzionatorio-punitiva della stessa alla luce del complessivo trattamento sanzionatorio (penale e “solo formalmente” amministrativo), onde assicurare la proporzionalità del “quantum” liquidato rispetto a detto trattamento, se del caso disapplicando la predetta norma “in parte qua” così da escludere la riparazione nella sua componente sanzionatorio-punitiva.

Sez. 5, 22 novembre 2019, n. 397 (dep. 9 gennaio 2020) – Pres. G. Sabeone – Est. A. Caputo.

COMPETENZA – Archiviazione del procedimento – Richiesta di liquidazione dei compensi avanzata dal custode giudiziario – Magistrato competente – Giudice per le indagini preliminari.

Le Sezioni Unite hanno affermato che la competenza a provvedere, ai sensi dell’art. 168 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, sulla istanza di liquidazione delle spese di custodia dei beni sequestrati presentata dopo l’archiviazione del procedimento spetta al giudice per le indagini preliminari in qualità di giudice dell’esecuzione.

Sez. U, n. 4535 del 18/4/2019 (dep. 3/2/2020) – Pres. D. Carcano – Est. F.M. Ciampi.

PROCEDIMENTO – Indagini preliminari – “Fumus” in ordine all’incapacità dell’indagato di partecipare coscientemente al procedimento – Richiesta di perizia nelle forme dell’incidente probatorio – Rigetto per difetto delle condizioni di cui all’art. 392, comma 2, cod. proc. pen. – Abnormità – Ragioni.

La Sesta Sezione ha affermato che è affetta da abnormità funzionale, in quanto tale da determinare una non rimediabile situazione di stasi, l’ordinanza con la quale il giudice per le indagini preliminari respinga, per difetto delle condizioni previste dall’art. 392, comma 2, cod. proc. pen., una richiesta di perizia sulla capacità dell’indagato di partecipare coscientemente al procedimento, atteso che l’art. 70, comma 3 cod. proc. pen. richiede l’osservanza delle forme dell’incidente probatorio ma non anche la ricorrenza dei casi previsti dal richiamato art. 392 cod. proc. pen.

Sez. 6, n. 51134 del 10 luglio 2019 (dep. 18 dicembre 2019) – Pres. M. Ricciarelli – Est. P. Silvestri.

PROCEDIMENTI SPECIALI – Applicazione della pena su richiesta – Mancanza di uno dei presupposti richiesti dalla legge – Illegalità della pena – Sussistenza – Ricorso per cassazione – Ammissibilità – Fattispecie.

In tema di patteggiamento, la Terza sezione della Corte di cassazione ha affermato che è illegale la pena determinata attraverso l’applicazione della relativa diminuente, non consentita per l’assenza di una delle condizioni richieste dalla legge per accedere al rito, con conseguente ammissibilità del ricorso per cassazione proposto ai sensi dell’art. 448, comma 2-bis cod. proc. pen. (Fattispecie in tema di reati tributari, in cui la Corte ha ritenuto la illegalità della pena applicata su richiesta nonostante la assenza di una delle condizioni previste dall’art. 13-bis, comma 2, d.lgs. n. 74/2000, per l’accesso a tale rito).

Sez. 3, n. 552 del 10/7/2019 (dep. 10/1/2020) – Pres. G. Lapalorcia – Est. G. Liberati.

PROVE Rito ordinario – Consenso all’acquisizione degli atti di indagine – Nullità di un atto acquisito – Sanatoria – Esclusione.  

La Quarta sezione ha affermato che la scelta della difesa di acconsentire all’acquisizione degli atti di indagine, finalizzata unicamente allo snellimento dell’attività processuale, non determina la sanatoria, ai sensi dell’art 183 cod. proc. pen., di eventuali nullità dell’atto e non fa venir meno il diritto di eccepirne l’inutilizzabilità.

Sez. 4, n. 4896 del 16 gennaio 2010 (dep. 5 febbraio 2020) – Pres. F.M. Ciampi – Est. V. Pezzella.

ESECUZIONEReati di competenza del giudice di pace – Esecuzione della permanenza domiciliare – Presofferto cautelare detentivo – Detrazione – Ammissibilità – Ragioni.

La Prima sezione ha affermato che, in tema di reati di competenza del giudice di pace, il cd. pre-sofferto di tipo detentivo può essere detratto dalla pena dell’obbligo di permanenza domiciliare da espiare, in quanto l’art. 58 del d. lgs. 28 aprile 2000, n. 274, equipara, ad ogni effetto giuridico, l’obbligo di permanenza domiciliare alla pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena originaria.

Sezione 1, n. 4103 del 21.01.2020 (dep. 30.01.2020), Presidente M. Di Tomassi – Estensore G. Santalucia.

ESECUZIONE – Misure alternative alla detenzione – Valutazione circa la intervenuta espiazione di pena ostativa – Momento rilevante – Presentazione della richiesta – Esclusione – Decisione – Sussistenza.

In tema di accesso alle misure alternative alla detenzione, la valutazione relativa alla ammissibilità della richiesta, in relazione alla pena da espiare in concreto rispetto ai reati ostativi alla concessione, deve far riferimento non al momento di presentazione della stessa ma a quello della decisione.

Sez. 1, n. 1787 del 30.10.19 (dep. 17.01.2020), Pres. M. Di Tomassi – Est. A. Minchella.

RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITA’ STRANIERE – Ordine d’indagine europeo  –  Sequestro probatorio – Opposizione al decreto di riconoscimento – Mancata fissazione dell’udienza in camera di consiglio – Nullità generale e assoluta – Sussistenza.

La Sesta sezione ha affermato che, in caso di opposizione ex art. 13, comma 7, d.lgs. 21 giugno 2017, n. 108, al decreto di riconoscimento dell’ordine d’indagine europeo avente ad oggetto un sequestro probatorio, è affetto da nullità di ordine generale e assoluta, ai sensi degli artt. 178, comma 1, lett. c) e 179, comma 1, cod. proc. pen., il provvedimento adottato de plano dal giudice senza fissazione dell’udienza in camera di consiglio.  

Sez. 6, n. 3520 del 22/1/2020 (dep. 28/1/2020) – Pres. A. Criscuolo – Est. G. De Amicis.

A cura di Luigi Giordano

STUPEFACENTI – Corte cost., sent. n. 40 del 2019 – Illegalità della pena – Conseguenze nel giudizio di legittimità – Pena inflitta a titolo di continuazione per reato diverso da quello oggetto della pronuncia di incostituzionalità – Rideterminazione della pena irrogata per il reato satellite – Necessità – Esclusione.

In tema di stupefacenti, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019 che ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, d.P.R. 09 ottobre 1990, n. 309, nella parte relativa al minimo edittale, in caso di ricorso per cassazione avverso sentenza di condanna per tale reato riconosciuto in continuazione con altro diverso non oggetto della pronuncia di costituzionalità, la pena detentiva irrogata per il reato base può essere rideterminata dalla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 620, comma 1, lett. l), cod. proc. pen., ove non occorra procedere ad attività valutative o che implichino l’esercizio di poteri discrezionali, mentre deve escludersi la necessità di rideterminazione dell’aumento di pena per il reato satellite (nella specie detenzione droghe leggere del tipo hashish).

Sez. 3, n. 43103 del 04.07.2019 (dep. 21.10.2019), Presidente V. Di Nicola – Estensore G. Liberati.

REATI CONTRO LA P.A. – Violazione di sigilli – Integrazione mediante condotta omissiva – Esclusione.

La Terza Sezione penale ha affermato che il reato di violazione di sigilli è integrabile unicamente mediante condotta attiva. (Fattispecie, di ritenuta inconfigurabilità del reato, di omessa demolizione, peraltro regolarmente autorizzata dal giudice, di opere edilizie).

Sez. 3, n. 47281 del 12/09/2019, dep. 21/11/2019, Pres. G. Liberati – Rel. A. Scarcella.

REATI CONTRO LA PERSONA  Reato ex art. 167 del d.lgs. n. 196 del 2003 – Illecito trattamento dei dati personali mediante diffusione – Natura permanente – Ragioni.

La Terza sezione ha affermato che il reato di illecito trattamento dei dati personali, realizzato in forma di diffusione dei dati protetti – ex art. 167 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 vigente ratione temporis -, resi ostensibili ai frequentatori di un social network attraverso il loro inserimento, previa creazione di un falso profilo, sul relativo sito, ha natura di reato permanente, caratterizzandosi per la continuità dell’offesa arrecata dalla condotta volontaria dell’agente, il quale ha la possibilità di far cessare in ogni momento la propagazione lesiva dell’altrui sfera personale mediante la rimozione dell’account.

Sezione Terza, n. 42565 del 28/05/2019 (dep. 17/10/2019), Pres. F. Izzo, Rel. G. De Marzo.

PROCEDIMENTO – Giudizio – Dibattimento – Mutamento del giudice – Conseguenze – Indicazione.

Le Sezioni unite hanno affermato che, fermo restando che il giudice che provvede alla deliberazione della sentenza deve coincidere con quello che ha disposto l’ammissione delle prove assunte alla sua presenza, in caso di mutamento del giudice, qualora non venga formalmente rinnovata l’ordinanza ammissiva, i provvedimenti in precedenza emessi conservano comunque efficacia se non espressamente modificati o revocati, ma le parti hanno la facoltà di formulare una richiesta specificamente motivata di ammissione di prove nuove o di rinnovazione di quelle in precedenza assunte, che il giudice deve valutare ai sensi degli artt. 190 e 495 cod. proc. pen., anche in punto di non manifesta superfluità; sicché, qualora la ripetizione delle prove non abbia avuto luogo, o perché non richiesta o perché, pur richiesta, non sia stata ammessa o non sia stata possibile, non è necessario il consenso delle parti alla lettura degli atti ex art. 511, comma 2, cod. proc. pen.

Sez. U, n. 41736 del 30 maggio 2019 (dep. 10 ottobre 2019) – Pres. D. Carcano – Est. S. Beltrani.

IMPUGNAZIONI – Effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019 – Sentenza emessa a seguito di concordato ex art. 599-bis cod. proc. pen. – Illegalità della pena – Annullamento senza rinvio.

La Sesta Sezione ha affermato che, in caso di sopravvenuta illegalità della pena concordata in appello, conseguente alla sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019, la sentenza gravata dev’essere annullata senza rinvio e gli atti devono essere trasmessi alla Corte d’appello, dinanzi alla quale le parti saranno chiamate a valutare ex novo la possibilità di un’applicazione della disciplina dell’art. 599-bis cod. proc. pen., in quanto l’anzidetta illegalità inficia tanto la richiesta formulata dalle parti quanto la connessa rinunzia, anche parziale, ai motivi d’appello, trattandosi di manifestazioni di volontà collegate sulle quali si è fondata l’emissione della sentenza.

Sezione Sesta, n. 41461 del 12.09.2019 (dep. 09.10.2019), Presidente Fidelbo G., Estensore Aprile E.

INDAGINI PRELIMINARI – Avvenuta iscrizione delle notizie di reato – Estratti del S.I.C.P. (Sistema Informativo della Cognizione Penale) – Valore probatorio – Sussistenza.

La Quinta sezione ha affermato che il S.I.C.P. (Sistema Informativo della Cognizione Penale) costituisce la banca informativa di tutti i dati fondamentali della fase di cognizione del processo penale in sostituzione dei registri cartacei non più esistenti, sicché i relativi estratti sono idonei a comprovare l’avvenuta iscrizione delle notizie di reato.

Sezione Quinta, n. 40500 del 24.09.2019 (dep. 03.10.2019), Presidente C. Zaza – Estensore A. Tudino.

PERSONA GIURIDICA – SOCIETÀ – REATI SOCIETARI

La Quinta sezione della Corte di cassazione, pronunciandosi in tema di reato di abuso di informazioni privilegiate (insider trading), ha affermato che:

–  il reato di cui all’art. 184 T.U.F. è di pericolo e di mera condotta, per cui è sufficiente ad integrarlo l’utilizzo dell’informazione privilegiata per compiere investimenti, sfruttando la conoscenza delle dinamiche finanziarie che stanno per coinvolgere la persona giuridica ed il suo patrimonio azionario, senza che siano necessari l’elisione del margine di rischio dell’investimento e la conseguente realizzazione di un vantaggio e causazione di corrispondente danno;

– nel concetto di “informazione privilegiata” rientrano anche le informazioni acquisite nelle tappe intermedie del processo che porta alla determinazione della circostanza o dell’evento futuro cui volge l’informazione stessa, tra cui rileva anche l’attività relativa ad un incarico di “due diligence” conferito ad una società di consulenza;

– la qualifica di insider primario, soggetto a responsabilità penale – a differenza dell’insider secondario, soggetto a sola responsabilità amministrativa – può ravvisarsi anche nel solo fatto di rivestire, all’interno della società di consulenza che tratta l’incarico relativo all’ente, un ruolo di spicco, quale quello di “socio senior”, che permetta, per sua natura, di divenire recettore e collettore delle informazioni relative alle singole attività di consulenza, pur non partecipandovi direttamente;

–  ai fini della valutazione della violazione del principio del ne bis in idem, nel caso di sanzione irrevocabile irrogata dalla Consob,la disapplicazione della norma penale, alla luce della giurisprudenza delle Corti europee, può avere luogo soltanto nell’ipotesi in cui la sanzione amministrativa assorba completamente il disvalore della condotta coprendo sia aspetti rilevanti a fini penali che a fini amministrativi, offrendo pienamente tutela all’interesse protetto dell’integrità dei mercati finanziari e della fiducia del pubblico negli strumenti finanziari.

Sezione Quinta, udienza 15/04/2019 (dep. 30/9/2019) n. 39999, Pres. M. Vessichelli, Rel. M. Brancaccio.

PARTE CIVILE – Banca in risoluzione – Cessione all’ente-ponte – Legittimazione a costituirsi parte civile della banca cedente – Sussistenza – Ammissione della costituzione di parte civile – Effetti preclusivi sull’accertamento della titolarità dell’azione civile – Esclusione.

La Quinta sezione ha affermato che:

– in tema di cessione di beni e rapporti giuridici della banca sottoposta a risoluzione in favore di ente – ponte, a norma del d. lgs. 16 novembre 2015, n.180 e della delibera della Banca d’Italia del 22 novembre 2015, n. 559, alla banca cedente deve essere riconosciuta la legittimazione a costituirsi parte civile nel processo nei confronti di ex esponenti per i fatti di bancarotta relativi alla sua gestione, sicchè la stessa banca cedente è titolare della facoltà di proporre domanda di applicazione della misura cautelare del sequestro conservativo;

– il provvedimento che ammette la costituzione di parte civile non determina preclusioni in ordine all’accertamento, ai fini dello scrutinio relativo alla sussistenza dei presupposti applicativi del sequestro conservativo, della titolarità dell’azione in capo alla parte civile che ha proposto la domanda cautelare.

Sez. 5, n. 47087 del 10 ottobre 2019 (dep. 20 novembre 2019) – Pres. G. Miccoli – Est. A. Caputo.

MISURE DI PREVENZIONE – Controllo giudiziario – Decisione del tribunale competente – Impugnazione – Ricorso alla corte d’appello – Ammissibilità – Ragioni.

Le Sezioni Unite hanno affermato che le decisioni del tribunale competente per le misure di prevenzione sulle richieste in tema di controllo giudiziario, compreso, pertanto, il provvedimento di rigetto dell’istanza di applicazione di tale misura, presentata a norma dell’art. 34-bis, comma 6, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, sono impugnabili mediante ricorso, anche nel merito, dinanzi alla corte d’appello, quale mezzo di impugnazione generale previsto dall’art. 10 del citato d.lgs. n. 159 del 2011.

Sez. U, n. 46898 del 26 settembre 2019 (dep. 19 novembre 2019) – Pres. D. Carcano – Est. M. Vessichelli.

FALLIMENTO – Sequestro preventivo a fini di confisca – Curatore fallimentare – Legittimazione alla revoca del sequestro ed all’impugnazione dei provvedimenti cautelari – Sussistenza – Momento di apposizione del vincolo penale rispetto alla dichiarazione di fallimento – Rilevanza – Esclusione.

Le Sezioni Unite hanno affermato che il curatore fallimentare è legittimato a chiedere la revoca del sequestro preventivo a fini di confisca di beni facenti parte del compendio fallimentare e ad impugnare i provvedimenti in materia cautelare reale concernenti tali beni, indipendentemente dal fatto che il vincolo sia stato disposto anteriormente o successivamente alla dichiarazione del fallimento.

Sez. U, n. 45936 del 26 settembre 2019 (dep. 13 novembre 2019) – Pres. D. Carcano – Est. C. Zaza.

PROCEDIMENTO PENALE – Richiesta di rinvio a giudizio – Provvedimento del G.I.P. di restituzione del fascicolo al P.M. perché mancante di adeguata fascicolazione – Abnormità – Sussistenza – Ragioni.

La Sesta Sezione ha affermato che è abnorme il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari restituisca al pubblico ministero il fascicolo trasmesso con richiesta di rinvio a giudizio in quanto privo della fascicolazione prevista dall’art. 3 reg. es. cod. proc. pen., giacché, dovendosi escludere che detta inosservanza sia sanzionata da nullità od inutilizzabilità, una tale decisione costituisce esercizio di un potere non previsto dal sistema processuale.

Sez. 6, n. 46139 del 29 ottobre 2019 (dep. 13 novembre 2019) – Pres. A. Petruzzellis – Est. E. Aprile.

ESECUZIONE – Ordine di carcerazione – Questione di legittimità costituzionale dell’art. 565, comma 9, cod. proc. pen. come modificato dalla legge n. 3 del 2019 – Sospensione dell’esecuzione – Possibilità – Esclusione – Ragioni.

La Sezione feriale ha affermato che l’intervenuta remissione della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lett. i), legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui modificando l’art. 4-bis, comma primo, ord. pen., richiamato dall’art. 565, comma 9, lett. a), cod. proc. pen., dispone che il divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione si applichi anche al delitto di cui all’art. 314, comma primo, cod. pen. commesso anteriormente alla citata legge, non consente al giudice a quo di procedere a detta sospensione, atteso il principio del sindacato accentrato di costituzionalità che impedisce al giudice di riappropriarsi del procedimento anche se soltanto ai fini cautelari.

Sez. Feriale, n. 45319 del 27/08/2019, dep. il 7/11/2019, Presidente V. Di Nicola – Estensore C. Renoldi.  

CONFISCA – Sequestro finalizzato alla confisca ex art. 240-bis cod. pen. – Art. 104-bis, comma 1-quinquies, disp. att. cod. proc. pen. – Giudizi di cognizione pendenti alla data di entrata in vigore della nuova disciplina – Obbligo di citazione dei terzi titolari di diritti reali o personali di godimento sui beni – Esclusione.

In tema di sequestro finalizzato alla confisca ex art. 240-bis cod. pen., la Seconda sezione ha affermato che, l’assenza di qualsiasi disposizione transitoria che preveda l’estensione dell’obbligo, previsto dall’art. 104-bis, comma 1-quinquies, disp. att. cod. proc. pen. (introdotto dall’art. 6, d.lgs. 01 marzo 2018, n. 21), di citazione dei terzi titolari di diritti reali o personali di godimento sui beni in sequestro nel giudizio di cognizione avente ad oggetto l’accertamento della responsabilità anche ai giudizi in corso di svolgimento alla data di entrata in vigore della disposizione, impedisce che nei giudizi di appello e di cassazione pendenti debbano essere citati soggetti che non abbiano partecipato al giudizio di primo grado.

Sez. 2, n. 45105 del 4/07/2019, dep. il 6/11/2019, Presidente U. De Crescienzo – Estensore I. Pardo.  

IMPUGNAZIONI – D.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11 – Inappellabilità delle sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa – Disciplina intertemporale – Individuazione.

In tema di impugnazioni, la Terza sezione ha affermato che la previsione dell’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa, di cui all’art. 593, comma 3, cod. proc. pen., come novellato dall’art. 2, comma 1, lett. b), d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, in assenza di una disciplina intertemporale, è applicabile alle sole sentenze emesse successivamente all’entrata in vigore della novella.

Sez. 3, del 12/06/2019 (dep. 28/10/2019), n. 43699, Presidente A. Aceto – Estensore A. Gentili.

SANITÀ PUBBLICA – Rifiuti – Attività organizzate per il traffico illecito –Organizzazione di una sola parte delle attività del ciclo di gestione dei rifiuti – Sufficienza.

In materia di rifiuti, la Terza sezione ha affermato che, ai fini dell’integrazione del reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen., è sufficiente che anche una sola delle fasi di gestione dei rifiuti avvenga in forma organizzata, in quanto la norma incriminatrice indica in forma alternativa le varie condotte che, nell’ambito del ciclo di gestione, possono assumere rilievo penale.

Sez. 3, del 23/05/2019 (dep. 28/10/2019), n. 43710, Presidente A. Aceto – Estensore G. Liberati.

SEQUESTRO PENALE – Perquisizione e sequestro di dispositivi informatici – Tribunale del riesame – Provvedimento che dispone la restituzione dei dispositivi previa estrazione di “copia forense” – Mancanza di una richiesta del pubblico ministero – Legittimità – Sussistenza – Ragioni.

La Quinta sezione della Corte di cassazione ha affermato che è legittimo il provvedimento con cui il tribunale del riesame, pur in mancanza di una richiesta del pubblico ministero, disponga la restituzione dei dispositivi informatici sequestrati previa estrazione di “copia forense”, trattandosi di provvedimento che non implica l’adozione di una nuova misura cautelare, ma il riconoscimento della legittimità di quella già eseguita.

Sez. 5, n. 42765 del 9/9/2019 (dep. 17/10/2019) – Pres. G. Miccoli – Est. A. Settembre.

di Cesare Marziali

Queste note sono un tentativo di esaminare a caldo la sentenza in oggetto, a distanza di pochi giorni dall’uscita della motivazione.

Disomogeneità, lacune e, verosimilmente, anche errori sono in un certo senso scontati in un lavoro del genere, e si spera semmai che rivesta qualche utilità l’avere messo in evidenza alcuni aspetti sui quali ci si dovrà confrontare d’ora in poi . I richiami di dottrina e giurisprudenza sono ridotti al minimo e la scelta di utilizzare materiale immediatamente reperibile sul Web, anche tramite la banale ricerca Google, è conseguenza diretta del criterio di cernita del materiale: appare evidente che il materiale importante sarebbe stato ben altrimenti sistematico e completo utilizzando le banche dati che sono a disposizione di ogni magistrato. In tal modo, tuttavia, la redazione non sarebbe stata compatibile con tempi rapidi e funzionali alla fruizione immediata. Peraltro la conferma di ciò si ha nella verifica che, al 16 ottobre 2019 l’unico specifico commento che risulta e che non sia la mera indicazione delle massime è Montagna “Il giudice cambia nel corso del processo: cosa si salva? La risposta delle Sezioni Unite”- in http://www.quotidianogiuridico.it/ ,articolo che, ad una prima affrettata lettura è lo stesso presente nella Banca dati Leggi d’Italia(dal 14 ottobre). Ho però fatto eccezione per un paio di contributi dottrinali che, sia pure a distanza di svariati anni fa, enucleavano in gran parte la stessa ragionevole soluzione prospettata dalla sentenza in commento: giusto omaggio, mi sembra, per una tesi in seguito non adeguatamente coltivata.

Premessa–La sentenza[1] apporta un mutamento, nell’ambito del diritto processuale penale, su alcuni punti essenziali rispetto ai quali, sicuramente, vi sono elementi di novità che,con un certo grado di semplificazione teorica, si possono indicare come una (nuova) interpretazionein malampartem .

Si pone pertanto il problema di una possibile applicazione dell’istituto dell’overruling in un campo che appare squisitamente quello del diritto processuale penale[2]in cui i punti di riferimento non sono moltissimi, a differenza che nel diritto penale sostanziale, in cui il panorama dei commenti e dei casi analizzati è piuttosto ricco[3],soprattutto per essere stato oggetto di attenzione della CEDU (si pensi al c.d. caso Contrada ed alla “novità” dell’interpretazione giurisprudenziale in malampartem).

Una conferma, peraltro molto debole, del richiamo a tale istituto potrebbe essere rinvenuta nello stesso testo della sentenza che qui si commenta, laddove si fa riferimento al fatto che  “….le parti…..sono certamente in grado, con quel minimum di diligenza che è legittimo richiedere, di rilevare il sopravvenuto mutamento della composizione del giudice ed attivarsi con la formulazione delle eventuali, conseguenti richieste, se ne abbiano, chiedendo altresì, ove necessario, la concessione di un breve termine (la cui fruizione può, ad esempio, rivelarsi ineludibile quando la necessità della rinnovazione del dibattimento non sia stata prevista ed anticipata, ma si sia palesata soltanto in udienza, senza preavviso alcuno, ed occorra quindi consentire l’eventuale presentazione di una nuova lista ai sensi dell’art. 468 cod. proc. pen., senz’altro legittima e, peraltro, necessaria ai fini della altrettanto legittima formulazione di nuove richieste di prova ex art. 493 cod. proc. Pen. …”.

Non si fa, peraltro, nessun esplicito riferimento all’istituto in parola e lo spunto non viene ulteriormente coltivato, sotto questo profilo, nel prosieguo del testo della sentenza. Più diffusamente, su tale termine (rimessione in…?, v. infra).

Cosicchè il riferimento a tale situazione appare più verosimilmente ricollegabile a vicende interne al processo, del tutto estranee al netto mutamento giurisprudenziale apportato dalla sentenza .

 Una parte processuale  accorta è possibile che invochi, in ogni caso,  tale sorta di “termine a difesa” da subito, nei prossimi giorni, proprio ricollegandolo al mutamento giurisprudenziale  e, allo stato, non è possibile prevedere quale possa essere la risposta che verrà data dalla prassi.

A ciò si aggiunga che “……………al diritto processuale penale è stato riservato un ruolo assai marginale nel dibattito sull’overruling. Non manca, in realtà, qualche esiguo precedente in materia, ove per esempio si è affermato che l’elemento di prova, raccolto nel “vigore” di un orientamento giurisprudenziale (meno rigoroso) non più condiviso, non può essere utilizzato ai fini della decisione sul merito dell’imputazione in base al tradizionale principio del tempusregitactum, che – invece – deve considerarsi recessivo rispetto a un mutamento interpretativo in bonampartem”[4][5].

Questa esigenza conferma la necessità sempre più sentita di “…. stabilire, una volta per tutte, se nei paesi di civil lawsenza vincolo del precedente la prevedibilità possa essere rivolta anche al diritto giurisprudenzialecontra legem o solo a quello praeter o secundumlegem ovvero se tale estensione possa determinare effetti in malampartem o soltanto in bonampartem: come si è visto, se il sistemaeuropeo è frutto della crasi tra ordinamenti di common law e quelli di civil law, vi è ormai nettaprevalenza, sotto questo profilo, delle caratteristiche tipiche del primo…”[6].

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Cercando di seguire progressivamente non il corso della motivazione della sentenza, bensì la scansione temporale attraverso la quale normalmente si svolge il processo, occorre innanzitutto dire che le ssuu richiamano  l’orientamento del noto precedente costituito da ssuu n. 2 del 15/01/1999, Iannasso, in cui veniva  precisato, a seguito del mutamento della persona del giudice monocratico o della composizione del giudice collegiale, quanto segue:

  1. il dibattimento va integralmente rinnovato
  2. Per rinnovazione deve intendersi la ripetizione della sequenza procedimentale costituita a)dalla dichiarazione di apertura del dibattimento (art. 492), b) dalle richieste di ammissione delle prove (art. 493), c)dai provvedimenti relativi all’ammissione (art. 495),d)dall’assunzione delle prove secondo le regole stabilite negli artt. 496 ss. cod. proc. pen.»[7].

Non si discosta da tale regola la prassi seguita in questo Tribunale, in cui anzi sussiste un modulo/stampato  specifico proprio per richiamare brevemente questi passaggi: di  fatto, viene menzionato in tale modulo che si procede alla rinnovazione degli atti, quindi  che le parti reiterano le loro richieste effettuate in limine, il giudice collegiale o monocratico le ammette come già disposto in precedenza. Seguono poi le ovvie problematiche pratiche conseguenti all’ultima delle annotazioni che tale modulo contiene, e cioè se le parti prestino (espressamente) o meno il consenso[8] alla utilizzazione dei verbali di prova assunti davanti a un giudice diverso, anche parzialmente, nel caso del collegio[9].

Circa il punto c) sopra richiamato, vale a dire la necessaria rinnovazione  “dei provvedimenti relativi all’ammissione (art. 495)”,  la sentenza tiene a precisare come “…non è necessario che il giudice, nella diversa composizione sopravvenuta, rinnovi formalmente l’ordinanza ammissiva delle prove chieste dalle parti, perché i provvedimenti in precedenza emessi dal giudice diversamente composto e non espressamente revocati o modificati conservano efficacia“.

 Si assiste così, nel mentre si aderisce formalmente al precedente costituito dalla sentenza Iannasso, ad un sostanziale ridimensionamento della sua effettiva portata: “…La disposizione di cui all’art. 525, comma 2, prima parte, cod. proc. pen. non comporta, quindi, la necessità, a pena di nullità assoluta, di rinnovare formalmente tutte le attività previste dagli artt. 492, 493 e 495 cod. proc. pen., poiché i relativi provvedimenti in precedenza emessi dal giudice diversamente composto conservano efficacia se non espressamente modificati o revocati.…” . E dunque, in pratica, la “rinnovazione” di quanto sopra precisato ai punti a) -b) – c) rimane un mero dato formale (discorso ben diverso riguarda invece il punto d), sul quale ci soffermeremo a lungo).

Di conseguenza, perde quasi tutta la sua importanza pratica anche quanto  viene osservato, in altro passaggio della sentenza, circa la risposta da dare ad altro quesito che in precedenza era stato affrontato  dalle sezioni semplici, vale a dire se sia, o meno, rilevante, ai fini del rispetto del principio d’immutabilità del giudice, la diversità di composizione tra il giudice che si è limitato a disporre l’ammissione della prova dichiarativa e quello dinanzi al quale è avvenuta la sua assunzione.

È infatti evidente che, per assicurare l’identità tra questi due giudici, in ipotesi diversi, basterà che il secondo giudice, quello che procede all’assunzione della prova, si limiti a non revocare l’ordinanza missiva del giudice che lo ha preceduto.

Il problema, e la risposta che ne viene conseguentemente data (risposta che, in questo contesto, appare invece di  formale rigorosità, dal momento che nella sentenza si sposa la tesi della necessaria identità dei giudici che provvedono ai relativi incombenti), assume scarsa rilevanza pratica anche per due altri motivi: uno attinente appunto alla formulazione del modulo come sopra nel concreto utilizzato,e verosimilmente assai diffuso nel territorio nazionale; l’altro, invece di carattere generale, secondo cui è chiaro che il vero problema che paralizza  l’attività dei piccoli  tribunali, assoggettati a un’esasperatoturn- over, e così rende drammatico l’istituto della rinnovazione, non è tanto quello di far ripetere al giudice, ogni volta, il provvedimento di ammissione, quanto quello di assunzione della prova orale che ne consegue, con un numero di rinvii che non di rado assumono caratteristiche impressionanti.

Va ora posta la dovuta attenzione ad una regola, inespressa ma chiara, che è sottesa a tutto il corpo delle argomentazioni contenute nella sentenza in esame, che si potrebbe semplificare in tal modo:

 “la ripetizione, in concreto,  di attività che, entro certi limiti, la rinnovazione ex articolo 525 del codice di procedura penale necessariamente comporta, consiste in tutto ciò che, effettivamente, sia necessario al processo, in quanto riguardante qualcosa non ancora concretamente effettuato“.

In questo contesto, si innesta la problematica, che diviene centrale nell’ambito della sentenza in commento, circa la possibilità di depositare nuove liste testimoniali, con la conseguente necessità di concedere alla parte richiedente un “breve termine” al fine di depositare tali liste testimoniali ove esse siano necessarie[10].

Cerchiamo di rendere più concreta tale ipotesi,anche perché nessuna ulteriore spiegazione viene data nella sentenza, oltre al poco che viene  affermato sulla nozione di rinnovazione/ripetizione dell’atto, ove effettivamente necessario.

 Tale ipotesi, ossia quella di presentazione di liste testimoniali le quali darebbero luogo ad una ripetizione effettiva della prova orale –  e non già ad una mera “rinnovazione” dal mero punto di vista giuridico – potrebbe verificarsi

  1. innanzituttonel caso  in cui”… la necessità della rinnovazione del dibattimento non sia stata prevista ed anticipata, ma si sia palesata soltanto in udienza…”. E cioè possiamo immaginare che non si verifichi l’ipotesi in cui, come talora viene dichiarato dai difensori in un dato momento processuale, le parti stesse dichiarino “sin da ora” che  non si presterà il consenso all’utilizzazione della prova dichiarativa assunta innanzi a collegio diverso (ora per il futuro, insomma). In questo caso non si potrà sicuramente parlare di “rinnovazione del dibattimento che non sia stata prevista e anticipata”. Di conseguenza, “la concessione di un breve termine” non si rivelerà “ineludibile
  2. Ci si può e ci si deve domandare se vi siano ancora altre ipotesi in cuinon si potrà parlare di “rinnovazione del dibattimento che non sia stata prevista e anticipata”, e nelle quali, di conseguenza, “la concessione di un breve termine” non si rivelerà “ineludibile“. Appare evidente che un ruolo fondamentale per la specificazione dei vari casi sarà giocato dalla prassi. In ogni caso, ad esempio, una parte che si sia opposta all’utilizzazione e alla lettura dei verbali della prova dichiarativa innanzi al giudice Tizio e successivamente innanzi al giudice Caio configura una fattispecie in cui, innanzi al giudice Sempronio, è ragionevole dire come sia stata ” prevista ed anticipata la necessità della rinnovazione” e conseguentemente non sarà “ineludibile” la concessione di “un breve termine”.
  3. Ci si potrebbe spingere oltre-e qui, come in altri casi, sorgerebbero questioni difficili, in quanto inesplorate, sottese all’accennato problema dell’overruling in malampartem nel processo penale –  e chiedersi perché mai si dovrebbe parlare di “prevedibilità ed anticipazione” desumibile dal comportamento di una parte che si è limitata ad opporsi all’utilizzazione-mera lettura dei precedenti verbali di prova dichiarativa[11] senza prospettare nuovi temi di assunzione della prova[12] (come invece ora prevede la sentenza in esame, regola che, per l’indiscussa sua natura di novità, non poteva essere conosciuta, prima del 9 ottobre 2019, dalla parte che si è limitata  puramente e semplicemente ad opporsi) perché proprio non poteva porsi la questione
  4. Quanto detto al precedente punto risulta il nucleo essenziale del problema e merita pertanto che ci si  soffermi specificamente su di esso

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Factum infectum fieri nequit  (o anche) Factum infectum fieri non potest

Siano consentite allo scrivente alcune osservazioni personali, ma che derivano, in gran parte,  dall’altrettanto personale frustrazione nell’avere ripetutamente dato luogo ad attività di cui era difficile capire il senso.

La frase non deriva dal diritto romano, bensì dal teatro di Plauto[13], da cui è transitato sino a noi, anche nella sua valenza giuridica.

La rinnovazione è una nozione giuridica, essa cala concretamente nel processo mediate atti materiali.

Ed infatti, è semplice dire che non vale per una condanna (o un’assoluzione) pronunciata dal Giudice Caio la testimonianza assunta dal Giudice Tizio.

 E’ anche “abbastanza” semplice dire che “tutto si rinnova” vale a dire che il processo un tempo celebrato innanzi al giudice Caio ricomincia completamente da capo senza tenere in alcun conto quello che davanti all’altro Giudice è stato detto e che è stato fatto, e così pure gli effetti giuridici che ne derivano.

La questione è che, per come si è assestato il “diritto vivente” la rinnovazione dell’atto, con necessario passaggio per la ripetizione della prova dichiarativa, comporta il “recupero” della valenza giuridica delle precedenti dichiarazioni rese innanzi al giudice diverso. E “ripetizione” è termine concreto e pedestre ( laddove “rinnovazione” è termine più elegante, se non altro per le sue suggestioni di palingenesi o “vita nova”) e  significa che il teste deve ritornare, e deve ancora rispondere alle domande, cioè , a seconda delle varie sfumature (o pudori :quando un teste ritorna per la terza o quarta volta le scuse non sarebbero un fuor d’opera , e probabilmente impegnerebbero più tempo della deposizione).

Il termine “recupero” è usata non a caso ed esprime l’orientamento assolutamente dominante vigente, sino ad oggi, anche a livello di giudice di legittimità, circa l’utilizzazione mediante lettura dei verbali di prova precedentemente assunta. Anche se si affermava pacificamente che la vecchia prova dichiarativa, tramite i relativi verbali, continuava ad essere contenuta nel fascicolo del dibattimento, in realtà non era utilizzabile se non attraverso questo successivo passaggio. Questo assetto non è smentito dalla sentenza in commento, ma va sottolineato come la stessa tenda a precisare, con un certo puntiglio, che non si tratta già di “recupero” bensì di (effetto di) permanenza dell’atto[14].

Ora, si può immaginare che

  • un’atto materiale, che non si può cancellare dal corso degli eventi, può però vedersi annullati tutti i suoi effetti giuridici
  • un altro atto materiale, che deriva dalla necessità (per la parte interessata) di acquisire gli effetti giuridici, sia costituito dalla rinnovazione/ripetizione  della prova dichiarativa  possa, pertanto, esso solo, conseguire tali effetti

E’ ben più difficile concepire un atto materiale che vede quanto meno “paralizzati” i suoi effetti giuridici per il venir meno del giudice-persona fisica innanzi al quale è stato compiuto e che poi li riacquista in pieno a seguito di altro atto del tutto distinto.

Queste vecchie dichiarazioni “rimangono al fascicolo” in quanto (all’epoca) “legittimamente assunte”.

Epperò la sentenza che le prendesse per buone, puramente e semplicemente, sarebbe radicalmente viziata in rito.

Di fatto, nella prassi ormai consolidata dei tribunali, la rinnovazione era meramente ripetitiva, mentre, in precedenza, le forme della rinnovazione-ripetizione avevano formato oggetto di qualche contrasto, in quanto da un lato si era affermato che tale “ripetizione” poteva avere un senso solo nella misura in cui si chiedeva qualche cosa di nuovo. Dalla parte opposta, si era detto che il porre nuove domande non era possibile. La permanenza di tale secondo orientamento aveva dato vita a un rituale stucchevole ma che, dal punto di vista logico aveva una certa dignità, nel momento in cui si prendeva atto che si trattava dello stesso processo e che, non potendosi abrogare l’articolo 525 nella parte in cui prevedeva la nullità assoluta degli atti innanzi al giudice diverso, costituiva sufficiente omaggio al principio “superiore” sotteso alla norma, vale a dire quello dell’oralità e del diretto contatto tra giudice e prova il riconvocare il teste e “(ri)sentirlo”. Magari solo per guardarlo in faccia[15].

Ma a questo punto torniamo al punto di partenza: le modalità fisiche con cui il teste si è espresso restano confinate nel passato, oggi il teste nuovamente sentito si esprimerà con altre modalità, necessariamente diverse.

Alcune delle soluzioni prospettate, peraltro, non sono del tutto nuove ed hanno trovato oggetto di argomentata prospettazione anche in dottrina agli inizi dello scorso decennio, anche se nella prassi sono risultate recessive[16].

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La  rinnovazione/ripetizione della prova orale come eccezione e non regola

Appare evidente che la rinnovazione della prova orale trova una serie di limiti secondo il nuovo assetto datole dalla sentenza in commento, limiti diversi tra loro ma che, dovendosi tutti insieme osservare, concorrono a configurare, dal punto di vista statistico, la rinnovazione-ripetizione come eccezione e non come regola nel caso di mutamento del giudice.

Primo limite: a) esplicita e b) motivata richiesta

Come abbiamo visto, la rinnovazione della prova testimoniale dovrà, innanzitutto, essere esplicitamente contenuta in un’istanza di parte.

Come sopra accennato,rimane definitivamente assodato che il semplice silenzio, pur non essendo  equivalente a un consenso o acquiescenza su un atto nullo in senso assoluto (e quindi non sanabile), rappresenta nondimeno un  mancato impulso che deve specificamente esserci per la rinnovazione-ripetizione in questione[17].

Ma non basta. La richiesta deve contenere specifiche motivazioni che rendono aggiuntiva e diversa la sostanza della prova così “rinnovata”.

 Tale diversità dovrà trovare poi, come sembra, il necessario veicolo di specifiche liste testimoniali (che riguarderanno anche, eventualmente, testi non sentiti prima) mentre per quanto riguarda il “rinnovato” esame dell’imputato, ovviamente, non essendo consentito tale tipo di veicolo, residua però la specificità di nuovi punti su cui sentire lo stesso, mentre non vige la limitazione di seguito trattata, vale a dire l’impossibilità di chiedere la rinnovazione della prova oraleda parte di chi all’origine non l’ aveva richiesta: “…La facoltà di chiedere la rinnovazione degli esami testimoniali può, quindi, essere esercitata soltanto da chi aveva indicato il soggetto da riesaminare in lista ritualmente depositata ex art. 468.Ciò non vale, naturalmente, per gli esami dei soggetti (ad esempio l’imputato) che non vanno previamente indicati in lista…[18].

Secondo limite: impossibilità di chiedere la rinnovazione e dunque di sentire nuovamente il teste da parte di chi all’origine non lo aveva richiesto.

Nei casi, molto frequenti, in cui si è assunta una lunga schiera di testi (originariamente) della pubblica accusa, la quale ben raramente  chiederà la rinnovazione/ripetizione, la ricaduta pratica di notevole impatto è che il difensore delle altre parti non è legittimato a chiedere la rinnovazione.

 Potrebbe, è vero, presentare una lista testimoniale in cui chiede di assumere testi, per essa nuovi, che sono in tutto o in parte testi del PM già sentiti (ipotesi ben curiosa, ma la realtà ne ha viste anche di più bizzarre), ma dovrebbe, in questo caso, indicare specificamente i motivi e sarebbe in ogni caso sotto il sospetto di abuso del processo, laddove tali motivi non fossero più che specifici e quindi, statisticamente, residuali.

La presentazione della lista testimoniale è pertanto uno strumento necessario (ma non sufficiente) perché si proceda alla rinnovazione.

 Così la sentenza in commento: “… Trova, quindi, applicazione, anche a seguito della rinnovazione del dibattimento per mutamento della composizione del giudice, l’art. 468, comma 1, cod. proc. pen., a norma del quale «le parti che intendono chiedere l’esame di testimoni, periti o consulenti tecnici nonché delle persone indicate dall’art. 210 cod. proc. pen. devono, a pena di inammissibilità, depositare in cancelleria, almeno sette giorni prima della data fissata per il dibattimento, la lista con la indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame».”.

Terzo limite : eventuale  manifesta superfluità della reiterazione degli esami in precedenza svolti dinanzi al giudice diversamente composto

Si tratta, a ben vedere, di una prescrizione che va necessariamente coordinata con il concorrente obbligo di depositare le liste e indicare, oltre ai soggetti da sentire quali testimoni, “le circostanze su cui deve vertere l’esame“.

Alcuni esempi, forniti nella sentenza, di “non manifesta superfluità” di un nuovo esame del dichiarante:

  • nel caso in cui le parti si siano avvalse del potere, legittimamente esercitabile, di indicare circostanze (in precedenza riferite in modo insoddisfacente perché incompleto, od anche nuove, purché rilevanti ai fini della decisione) in ordine alle quali esaminare nuovamente il dichiarante
  • nel caso in cui le parti  abbiano allegato elementi dai quali desumere la sua inattendibilità (anche se limitatamente ad alcuni punti della deposizione resa), e la conseguente necessità che egli venga nuovamente esaminato

Alcuni esempi, forniti nella sentenza, di “manifesta superfluità” di un nuovo esame del dichiarante:

  • la richiesta di pedissequa reiterazione dell’esame già svolto dinanzi al diverso giudice, che, secondo la stessa prospettazione della parte richiedente, debba vertere sulle stesse circostanze già compiutamente oggetto del precedente esame;
  • la richiesta di reiterazione dell’esame di un verbalizzante che già nel corso del precedente esame aveva chiesto di consultare in aiuto alla memoria gli atti a sua firma, o di altro soggetto che già nel corso del precedente esame aveva palesato cattivo ricordo dei fatti, o che comunque debba essere riesaminato dopo ampio lasso di tempo[19] dal verificarsi dei fatti in ipotesi a sua conoscenza.

Conclusioni provvisorie: ripristino della ragionevolezza con argomentazioni logicamente corrette, e residui vizi logici

La sentenzafa tutto il possibile con gli strumenti a sua disposizione. Tra questi strumenti spicca la mancanza di attaccare ulteriormente e direttamente il disposto dell’articolo 525 del codice di procedura penale. Essa viene preceduta di poco dalla sentenza numero 142 del 2019 della Corte Costituzionale, senza la quale non si comprenderebbe molta parte di quanto affermato dalle sezioni unite e, probabilmente, neppure sarebbe stato possibile concepire la motivazione della sentenza così come invece è stata rassegnata.

 La stessa sentenza in commento cita varie volte proprio la predetta sentenza 142 del 2019, soprattutto sul punto dell’assoluta irragionevolezza delle conseguenze pratiche cui si era pervenuti applicando rigidamente una determinata interpretazione. A sua volta la Corte Costituzionale si era dovuta pronunciare su una specifica censura di violazione della ragionevole durata del processo, da parte del Trib. di Siracusa, ed aveva offerto spunti interessanti.

Anche gli stessi commentatori della sentenza della Corte Costituzionale avevano sottolineato come, più o meno esplicitamente, essa costituisse un segnale per un nuovo assetto del diritto positivo, preferibilmente percorso dal legislatore ma altrettanto prevedibilmente, invece, veicolato da orientamenti giurisprudenziali nuovi.

I quali orientamenti, appunto, sono venuti più presto del previsto.

 Era difficile, d’altro canto, spiegare a qualsiasi cittadino di buon senso riconvocato per 2,3 o anche 4 volte solo per dire che confermava quanto aveva detto innanzi ad altro giudice, quale senso avesse tale gioco dell’oca.

Nel perseguire questi criteri di ragionevolezza, le argomentazioni addotte sono anche convincenti dal punto di vista della tenuta logico-giuridica.

Residuano tuttavia incongruenze che non si possono non segnalare e che, soprattutto, si sposteranno dal profilo strettamente logico-giuridico all’applicazione concreta e, soprattutto, immediata, conseguente alla nuova interpretazione.

Un primo problema che può segnalarsi riguarda l’utilizzo delle liste e il contenuto specifico delle stesse. Strettamente collegato a questo problema è quello dei criteri di selezione, da parte del giudice che si troverà a dover ammettere o meno la prova orale da rinnovare-ripetere, secondo il principio della “non superfluità”.

Si tratta di problemi in parte distinti e in parte simili o uguali.

Il dato che li accomuna, dal punto di vista generale, risiede nella risposta da dare al quesito se, nella concreta applicazione della rinnovazione-ripetizione della prova orale venga a prevalere la continuità ovvero la discontinuità tra i segmenti processuali che appartengono alla gestione dei due (o più) giudici diversi che si susseguono.

Inoltre, in questo assetto, un atto processuale sicuramente valido ed efficace quando fu compiuto, ma i cui effetti vengono pur sempre subordinati alla “rinnovazione” dell’atto stesso, sia pure meramente giuridica, vale a dire non implicante alcuna altra attività di “ripetizione” (ove essa non verrà chiesta o verrà disattesa, come è prevedibile accada nella gran parte dei casi) da pietra di paragone proprio all’eventuale rinnovazione/ripetizione, cioè proprio quell’atto al cui compimento i suoi effetti giuridici sono subordinati.

In pratica :

  1. L’atto viene compiuto e entra nel processo innanzi al giudice Caio
  2. Al Giudice Caio subentra il Giudice Tizio che deve “rinnovare” l’atto
  3. Tale “rinnovazione” è puramente spesa nel mondo del diritto, non comporta alcuna altra attività materiale, nessuna ripetizione in tensione con la ragionevole durata del processo
  4. Vi sono casi residuali in cui la rinnovazione, invece, oltre che essere meramente giuridica, deve consistere in una ripetizione materiale dell’atto
  5. Non avrebbe senso una mera ripetizione materiale[20] di ciò che è stato detto, pedissequa
  6. La “rinnovazione” sub specie di “ripetizione”, non è propriamente una rinnovazione/ripetizione, poiché deve contenere un quid novi che la renda effettivamente utile ad aggiungere cognizioni al quadro precedente
  7. Il quid novi, va valutato, principalmente se non esclusivamente, alla stregua di quando è contenuto nell’atto non solo da “rinnovare”, ma da “ripetere”: la rinnovazione vi sarà sempre, e nel silenzio di tutte le parti processuali si produrrà ipso iure; la rinnovazione/ripetizione è eventuale e specifica

Da questo assetto, non è chi non veda che la prova dichiarativa “vecchia” dipende qualche volta dalla “nuova ripetuta”, ma la prova dichiarativa “nuova ripetuta” dipende sempre dalla vecchia. 

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A partire dalla corrente settimana i giudici si troveranno a gestire la prosecuzione di processi penali già incardinati, per i quali sono stati previsti vari incombenti secondo la vecchia interpretazione. Tra questi, l’audizione dei testi già sentiti.

Ciò, in pratica, a fronte del “mancato consenso” di tutte le parti all’utilizzazione dei verbali di prova assunti innanzi a collegio ovvero innanzi al giudice diverso.

 Ci si deve chiedere se da subito tali processi dovranno passare il vaglio della “resistenza” ai ben  piùrigidi criteri che si sono sopra evidenziati, parlando dei tre limiti alla rinnovazione-ripetizione. Se, come sembra, non si può applicare l’overruling in mancanza di riferimenti certi e se, soprattutto, tale istituto sarebbe, in ogni caso, male invocato perché tutti gli effetti andrebbero a ripercuotersi nella sentenza emananda e non già al momento dell’assunzione della prova[21] , la risposta è a rime obbligate e ne conseguirebbe, al più, un rinvio per la discussione, revocato ogni altro provvedimento di assunzione della prova, in omaggio alla vecchia prassi della rinnovazione/ripetizione.

In tema di rinnovazione-ripetizione esaminata dalla sentenza in commento, sicuramente una funzione del tutto nuova viene assunta dalla lista testimoniale.

Anche qui, da subito, potrà accadere che una parte chieda il “breve termine” per depositare la lista. Quanto possa essere breve tale termine, anche a fronte delle necessità di riorganizzare interi ruoli su prospettive di lavoro del tutto diverse per i vecchi processi (molte discussioni, poche assunzioni di prova, il contrario che in precedenza), è questione che esula da queste note, ma che pure nel concreto sarà di notevole rilievo.

Ci si può domandare se, a fronte di tale richiesta di termine, che sembra “ineludibile” da parte del giudice, come sopra visto, la parte debba da subito esplicitare o comunque fare cenno ai “presupposti di novità” che oggi si richiedono secondo quanto visto sopra oppure se la richiesta costituisca l’esercizio di una facoltà non subordinata a tale precisazione. Sembrerebbe che l’interpretazione dovrebbe essere in questo ultimo senso.

La funzione delle liste testimoniali, quanto al contenuto, vale a dire quanto all’indicazione delle circostanze dell’esame, come sappiamo, è stata ampiamente ridotta dall’interpretazione giurisprudenziale rispetto alla portata letteraria originale del codice del 1988.

Avremo invece, in questo caso, una specificazione necessaria che va ben oltre la finalità assegnata, tradizionalmente, all’istituto, che è quella della necessità di difendersi e quindi, di articolare prova contraria da parte degli altri soggetti processuali.

Come si sa, poi, l’articolazione della prova contraria costituisce elettivamente momento successivo e non riguardante la lista. Ciò nonostante, ben potrebbero esservi testi già sentiti su prova contraria dei quali si prospetta la rinnovazione-ripetizione dell’assunzione, sia pure nei limiti ammessi dalla sentenza in commento.

Il problema più rilevante, tuttavia, sia dal punto di vista pratico che da quello teorico, riguarda i rapporti tra il contenuto della prova orale già assunta innanzi ad altro giudice e l’elemento di novità che dovrà necessariamente essere contenuto nella “nuova” prova che si richiede. È evidente, infatti, che l’elemento di novità o di precisazione viene esaminato comparandolo proprio ad una prova orale che, allo stato, non è (ancora) utilizzabile per la decisione.

A questo punto però, troviamo un nuovo problema interpretativo.

Sembra di capire chiaramente, dal testo della sentenza in commento che la prova orale nuova può essere tale sia perché riferita a un fatto nuovo e sopravvenuto alla precedente escussione sia perché, più limitatamente, ci si trova di fronte agli stessi fatti (potenzialmente) già conoscibili al momento dell’assunzione della “vecchia” prova orale, ma sui quali vengono fatte domande nuove ed ulteriori. Le domande “nuove” lo possono essere in due sensi e cioè, riprendendo pari pari il passaggio relativo della sentenza in commento:

  1. in quanto in precedenza riferite in modo insoddisfacente perché incompleto
  2. od anche nuove, purché rilevanti ai fini della decisione

E’ ovvio che bisognerà stabilire perché mai tali circostanze sono state riferite “in modo insoddisfacente”, posto che diamo per scontato che la parte che chiede la rinnovazione-ripetizione sia “insoddisfatta” della precedente assunzione.

Ed ancora, è evidente che il semplice contrasto tra la prova che si vuole nuovamente assumere e di cui la parte fa esplicita richiesta è in re ipsa, perché, se tale contrasto fosse contro l’interesse della parte,  la parte non percorrerebbe l’opzione di ripetere la prova orale. Pertanto, è altrettanto evidente che tale contrasto non potrà, di per sé assumere il carattere di novità/precisazione che il nuovo orientamento richiede.

È altrettanto certo che la prova contraria riguardare fatti sopravvenuti all’escussione. Ciò è confermato indirettamente ma chiaramente anche dall’altro esempio fatto nella sentenza che qui si commenta, vale a dire in relazione all’altra ipotesi, quella di un riscontro dell’attendibilità di un teste. In questo caso, solo in presenza di nuovi elementi, nuovi nel senso di non presenti e non conoscibili al momento dell’assunzione del teste innanzi al giudice poi mutato,  che diano conto di tale possibile inattendibilità, la prova potrà essere ammessa in “rinnovazione”.

Ma, c’è da chiedersi:tali nuovi elementi potranno solo essere documentali ? Oppure dovranno a loro volta consistere in una prova, anche orale, della loro novità?

Per di più, nell’uno e nell’altro caso, dovranno precedere la fase di ammissione della prova, successivo alla presentazione delle liste.

 In questi casi, vale a dire nella richiesta di prova orale nuova in senso stretto, vale a dire nuova perché fondata sul contenuto di fatti sopravvenuti, non si può che immaginare una sorta di sub-procedimento, molto semplice oppure via via più complesso a seconda dei casi, che serva, successivamente, ove vi sia un vaglio positivo, prima alla formulazione del “contenuto dell’esame” nella lista e poi successivamente al vaglio “finale” nell’ammissione della prova.

 A ben vedere, l’esempio fatto è uno, ma non verosimilmente l’unico, di alcune torsioni logiche cui si è sottoposta la sentenza in commento, in ciò costrettavi non tanto da un deficit di qualità argomentativa quanto piuttosto dall’impossibilità di ricondurre tutto alla logica, evitando però nel contempo un non praticabile attacco diretto al disposto normativo dell’articolo 525 cpp, evitandone, nel contempo, uno svuotamento totale (quello già effettuato è già molto consistente) .

In estrema sintesi :non si può che essere d’accordo sul  principio di oralità ed immediatezza.

Nei processi che quotidianamente facciamo quasi sempre, e sempre nei processi più importanti, l’immediatezza scompare per fare posto al suo contrario, vale a dire la dilatazione dei tempi del processo.

Diviene mera derisione, di conseguenza, l’oralità, perché si fa riferimento sempre più alle letture. Per non parlare della  scomparsa, più o meno parziale,  di una serie di “soggetti vulnerabili” (non più i soli minori, ma quelli di recente oggetto di modifiche circa le modalità di assunzione) dall’orizzonte della prova testimoniale dibattimentale.

Se, di fatto, oralità ed immediatezza scompaiono, non possono neppure essere considerati parametri assoluti, a fronte di una serie di eccezioni che diventano, nel concreto ma anche nelle fattispecie di legge (teste vulnerabile ecc.), una regola.

Di qui anche il tramonto, di fatto, di una regola come quella dell’art. 525 cpp.

 Regola che sta o cade nell’ambito della ragionevole durata del processo, come osservato dal trib. di Siracusa.

Fermo 17.10.19                                Cesare Marziali


[1] I passaggi evidenziati in corsivo, la cui fonte non viene altrimenti specificata, devono intendersi riferiti alla sentenza in commento.

[2]  Si ritiene che, nel caso in esame vi sia quel ribaltamento   inopinato   e   repentino   di   giurisprudenza menzionato dalle ss.uu. nell’ordinanza   2067   dell’8   gennaio   2011, per cui appunto si può invocare l’istituto, laddove invece l’overruling   resta   escluso nell’ipotesi di semplice rilettura della norma processuale sviluppatasi nel tempo. Recentemente, v. Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione  12.02.2019 n. 4135, secondo cui Il rimedio dell’overruling è riconoscibile solo in presenza di stabili approdi interpretativi del giudice di legittimità, eventualmente a Sezioni Unite, se connotati dai caratteri della costanza e ripetizione, mentre non può essere invocato sulla base di alcune pronunce della giurisprudenza di merito, le quali non sono idonee ad integrare un “diritto vivente”.

[3]anche nel diritto penale sostanziale, tuttavia, si è prestata più attenzione al mutamento in bonampartem e del suo eventuale effetto retroattivo piuttosto che al mutamento in malampartem e (alla eventuale sterilizzazione) del suo effetto retroattivo. Nel diritto penale sostanziale, fra la minoranza dei casi di problematiche sottese al mutamento  inmalampartem, meritano di essere menzionati, oltre al caso Contrada,  il  caso Taricco in materia di prescrizione del reato tributario in tema di “Iva armonizzata”. Quest’ultimo caso, tuttavia, si pone a un livello a sua volta del tutto peculiare , in quanto  varca la soglia dell’interpretazione della norma, divenendo, francamente, un vero e proprio intervento normativo del Giudice (in questo caso, la Cedu), con complicazioni che esulano da queste note, anche se per altri versi assai rilevanti.

[4]Cass., sez. VI pen., 26 maggio 2008, n. 29684, Sorce, CedCass., rv. 240455. Citato da Condorelli-Pressacco – Overruling e prevedibilità della decisione, in QG –  Fascicolo 4/2018, i quali a proposito di tale ultimo arresto, osservano altresì  “che il principio affermato in tale pronuncia non sia del tutto corretto dal punto di vista sistematico, considerato che la prova – dopo essere stata ritualmente assunta in giudizio – viene utilizzata proprio al momento della decisione che definisce la controversia”. Da segnalare ancheMazzacuva “Mutamento giurisprudenziale e processo penale” in Treccani.it .

[5] I precedenti sono sempre meno esigui, peraltro, con particolare riferimento al versante dell’abolitiocriminis e intangibilità del giudicato, con questioni le quali, per vero, appartengono sia a problematiche di diritto  penale sia, nella misura in cui si vengano a prospettare concretamente i mezzi processuali da utilizzare per l’effettiva applicazione del “mutamento” nel diritto sostanziale, al processo penale.

V. Cass. Pen.  13 febbraio 2018 n. 6990, la quale  tratta della revoca in executivis di una sentenza passata in giudicato e dà peraltro risposta negativa, evidenziando come il chiaro tenore dell’art. 673 c.p.p. possa operare nel senso della revoca della sentenza di condanna o del decreto penale solo ove si versi al cospetto di un fenomeno di abolitiocriminis ovvero nel caso di pronuncia di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice fondante la sentenza di condanna, laddove in alcun modo l’overruling giurisprudenziale favorevole può giustificare un’estensione dell’operatività della norma processuale in parola.La sentenza è commentata da Di Clemente “L’overruling giurisprudenziale non autorizza la revoca della sentenza passata in giudicato” in www.camminodiritto.it. Sempre sul versante del problema del giudicato, non può non segnalarsi importanza del precedente costituito da Corte Costituzionale, sentenza n. 230 del 2012, anch’essa di segno negativo circa la possibilità di applicare il “jusnovum”. Si rinvia, su questa importante sentenza, ai commenti disponibili in rete : Ruggeri, “ Penelope alla Consulta: tesse e sfila la tela dei suoi rapporti con la Corte EDU, con significativi richiami ai tratti identificativi della struttura dell’ordine interno e distintivi rispetto alla struttura dell’ordine convenzionale (“a prima lettura” di Corte cost. n. 230 del 2012) in www.consultaonline ; id.  “Ancora a margine di Corte cost. n. 230 del 2012, post scriptum”; Napoleoni “Mutamento di giurisprudenza in bonampartem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo” in diritto penale contemporaneo 3-4/2012.

[6] De Blasis “Legalità penale e dintorni – New Dimensions of the ‘Nulla Poena’ Principle”, in diritto penale Contemporaneo 4/2017

[7]è importante invece richiamare che, al contrario: “… Il principio d’immutabilità del giudice non è, quindi, violato allorché il giudice diversamente composto si sia limitato al compimento di attività od all’emissione di provvedimenti destinati ad aver luogo prima del dibattimento, quali, ad esempio:

–              gli atti urgenti previsti dall’art. 467 cod. proc. pen.;

–              l’autorizzazione alla citazione di testimoni ex art. 468 cod. proc. pen.;

–              la verifica della regolare costituzione delle parti ex art. 484 cod. proc. pen., con connessa eventuale rinnovazione della citazione ex art. 143 disp. att. cod. proc. pen., oppure constatazione dell’assenza dell’imputato ex artt. 484, comma 2-bis, 420-ò/s, 420-quater e 420-quinquies cod. proc. pen., od infine rinvio del dibattimento nei casi di impedimento (riconosciuto legittimo) dell’imputato o del difensore ex artt. 484, comma 2-bis, e 420-rer cod. proc. pen.;

–              la decisione delle questioni preliminari ex art. 491 cod. proc. pen. Quanto a quest’ultimo profilo, questa Corte ha già evidenziato che, a seguitodel mutamento della composizione del collegio giudicante, il procedimento regredisce nella fase degli atti preliminari al dibattimento (che precede la nuova dichiarazione di apertura del dibattimento ex art. 492 cod. proc. pen.), e pertanto – ferma restando l’improponibilità di questioni preliminari in precedenza non sollevate (a norma dell’art. 491, comma 1, infatti, le questioni preliminari «sono precluse se non sono proposte subito dopo compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti») – il giudice, nella composizione sopravvenuta, ha il potere di valutare ex novo le questioni tempestivamente proposte dalle parti e decise dal giudice diversamente composto (cfr. Sez. 6, n. 3746 del 24/11/1998, dep. 1999, De Mita, Rv. 213343, e Sez. 1, n. 36032 del 05/07/2018, Conti, Rv. 274382, entrambe in tema di competenza per territorio).…”. Inoltre, la sentenza ha ancora cura di precisare che           “…nella nozione di “dibattimento” ex art. 525, comma 2, prima parte, rientra, pertanto, anche la dichiarazione della sua apertura ex art. 492 cod. proc. pen….”.

[8] Va subito detto che il “consenso” perde ogni rilievo nella prospettiva della sentenza in commento. Lo perde  sub specie di “acquiescenza” rispetto alla nullità, quest’ultima, in quanto assoluta, è insanabile. Né si dimentichi che la nullità colpisce non un’attività che, quando fu compiuta, era perfettamente regolare bensì, semmai, la successiva utilizzazione, in sentenza,  contralegem. Come sappiamo, dopo la sentenza Iannasso, l’attenzione si era spostata sull’articolo 511 Cpp, che  disciplina  le letture  consentite  nel  corso  dell’istruzione  dibattimentale. ll  secondo comma  dell’art.  511 Cppprescrive  che  “la  lettura dei verbali   di  dichiarazioni  e’  disposta  solo  dopo  l’esame  della persona che le ha rese, a meno che l’esame non abbia luogo”.L’ultimo  inciso  del  secondo  comma  dell’art.  511  Cpp, “a    meno    che  l’esame  non  abbia  luogo”,  postulava  infatti,  secondo le SS.UU., che  l’esame  non  si compisse 1) o  per volontà delle parti, espressamente manifestata ovvero  2) implicita  nella  mancata  richiesta  di riaudizione del dichiarante,    3) o per sopravvenuta impossibilità della ri-audizione. In questo quadro, il consenso espresso al verbale, di tutte le parti, alla”utilizzazione dei verbali di prova orale assunti innanzi al giudice in diversa composizione” (ovvero espressione equivalente) formalizzava appunto la fattispecie, appena richiamata al punto 1), di esame il quale “non abbia luogo” per la volontà delle parti espressamente manifestata.

 La sentenza in commento, invece, pone, al contrario, l’accento su un impulso processuale che, per definizione, va attivato dalla parte interessata con la conseguenza che, ove ciò non avvenga, non si pongono problemi di consenso espresso ovvero di interpretazione dell’inerzia o silenzio che dir si voglia.

[9] Non sarà inutile osservare, per la notevole frequenza in cui in concreto si verifica tale fattispecie, che la sentenza delle ss.uu. in commento non manca di citare la giurisprudenza della corte CEDU la quale non ritiene violato il principio dell’immutabilità del giudice al fatto che soltanto uno dei giudici fosse stato sostituito, e che il nuovo componente aveva comunque avuto modo di leggere le dichiarazioni rese dal teste decisivo delle quali si discuteva (Corte EDU, Terza Sezione, 2 dicembre 2014, caso Cutean contro Romania, § 61, e Seconda Sezione, 6 dicembre 2016, caso Skaro c. Croazia, §§ 28 ss.). Anche in tal caso si tratta, tuttavia, di riferimento non ulteriormente coltivato e pertanto non si ritiene che tale richiamo sia in grado di rendere possibile una mancata rinnovazione anche in tale specifico caso.

[10] l’importanza che assume tale questione ed una certa sbrigatività con la quale viene trattata nella sentenza rende opportuno richiamare ancora integralmente il passaggio relativo: “… la garanzia dell’immutabilità del giudice attribuisce alle parti il diritto, non di vedere inutilmente reiterati, pedissequamente e senza alcun beneficio processuale, attività già svolte e provvedimenti già emessi, con immotivata dilazione dei tempi di definizione del processo cui la parte può in astratto avere di fatto un interesse che, tuttavia, l’ordinamento non legittima e non tutela, bensì di poter nuovamente esercitare, a seguito del mutamento della composizione del giudice, le facoltà previste dalle predette disposizioni, ad esempio chiedendo di presentare nuove richieste di prova, che andranno ordinariamente valutate.

Resta ferma anche la possibilità che il giudice ritenga necessaria, d’ufficio, la ripetizione, anche pedissequa, delle predette attività.

Né può ritenersi che la rinnovazione del dibattimento debba essere espressamente disposta, poiché le parti, con l’insostituibile ausilio della difesa tecnica, sulla quale incombe il generale dovere di adempiere con diligenza il mandato professionale, sono certamente in grado, con quel minimum di diligenza che è legittimo richiedere, di rilevare il sopravvenuto mutamento della composizione del giudice ed attivarsi con la formulazione delle eventuali, conseguenti richieste, se ne abbiano, chiedendo altresì, ove necessario, la concessione di un breve termine (la cui fruizione può, ad esempio, rivelarsi ineludibile quando la necessità della rinnovazione del dibattimento non sia stata prevista ed anticipata, ma si sia palesata soltanto in udienza, senza preavviso alcuno, ed occorra quindi consentire l’eventuale presentazione di una nuova lista ai sensi dell’art. 468 cod. proc. pen., senz’altro legittima e, peraltro, necessaria ai fini della altrettanto legittima formulazione di nuove richieste di prova ex art. 493 cod. proc. pen., come sarà chiarito più ampiamente in seguito…”

[11]si badi che in ogni caso ciò potrà essere fatto, come si verrà a esaminare nel prosieguo, e nell’interpretazione senz’altro nuova data dalle ss.uu. , solo nel caso che la parte eserciti tale sua opposizione in relazione ai propri testiin quanto, di regola (vale a dire con le stringenti eccezioni che pure si andranno a richiamare ) ciò non potrà fare in relazione a testi precedentemente sentiti, ma richiesti da altre parti.

[12]Come invece ora prevede la sentenza in esame,con una  regola che, per l’indiscussa sua natura di novità, non poteva essere conosciuta, prima del 9 ottobre 2019

[13]il concetto enunciato da Plauto si ricollega ad un principio filosofico di carattere più generale, che è stato espresso così da san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae: nemmeno Dio, che è onnipotente, potrebbe fare sì che ciò che è stato non sia mai stato. Dio non può trasformarsi in eversore della logica. Sul versante opposto, in precedenza un altro pagano aveva chiuso il cerchio, escludendo rigorosamente la possibilità che in rerum natura vi possa essere una puntuale ripetizione : “non ci si bagna due volte nello stesso fiume”.

[14]sussiste un pizzico di polemica, nella sentenza in commento, laddove vengono riportati orientamenti della più volte citata ss.uu. Iannasso, ed al punto  9.1.si legge “ Appare, pertanto, di tutta evidenza che i verbali di dichiarazioni rese dai testimoni in dibattimento dinanzi a giudice in composizione successivamente mutata, fanno legittimamente parte del fascicolo del dibattimento (dove non “confluiscono”, bensì “permangono”).

[15] Così, pianamente, la sentenza in commento “deve considerarsi che, quando le dichiarazioni rese in dibattimento dai soggetti esaminati dal giudice diversamente composto siano state integralmente verbalizzate stenotipicamente, con contestuale registrazione fonografica – come oggi accade sostanzialmente nella stragrande maggioranza dei processi -, il problema della mediazione del primo giudice tra le effettive dichiarazioni e la relativa verbalizzazione si sdrammatizza, risultando le stesse invece completamente e genuinamente riportate, e come tali integralmente conoscibili dal nuovo giudicante. In presenza di tale ausilio tecnico, potràeventualmente ravvisarsi una giusta ragione per non disporre la pedissequa ripetizione dell’esame…”.

[16] V. Fanuli“ la prova dichiarativa del processo penale”, Torino 2007, pagg. 368-369 : “…Meritevole di attenzione è la tesi opposta [quella secondo cui i materiali utilizzati dal giudice per dichiarare la superfluità della prova possono essere anche i verbali delle dichiarazioni precedentemente rese] . Essa muove da importanti e condivisibili considerazioni in ordine ali natura concreta del giudizio di non manifesta superfluità e irrilevanza…….. Secondo tale posizione interpretativa la presenza dei verbali delle prove assunte dinanzi al precedente giudice potrà costituire elemento valutabile al fine di ritenere manifestamente superflua la rinnovazione della prova; ma la parte richiedente potrà comunque dimostrare l’ammissibilità della prova richiesta, approfittando (purché sia diligente e a ciò si attivi) del suddetto esiguo margine di discrezionalità concesso al giudice .In tale ragionevole compromesso, da un lato le ragioni della parte non sembrano essere sacrificate, dall’altro si pone il processo penale – la cui ragionevole durata rappresenta un valore costituzionalmente garantito……”. Nel predetto lavoro su fa richiamo a  Potetti“Corte Costituzionale e Sezioni Unite in tema di mutamento della persona del Giudice e rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale” in Cass. Penale. In Particolare “…. il giudizio di non manifesta superfluità o irrilevanza riguarda il mezzo istruttorio valutato non in astratto (cioè isolatamente, di per se stesso), ma in concreto, e cioè in relazione a tutti gli altri elementi conoscitivi dei quali il giudice legittimamente disponga……………Pertanto, non sarebbe possibile un giudizio sulla eventuale manifesta superfluità della (rinnovazione della) prova se non si valutassero tutti gli altri elementi dei quali il giudice possa validamente disporre (compreso il verbale di analoga prova già assunta dal giudice che lo ha preceduto)». (Potetti, cit. , 805)….”.

[17]Così, testualmente “ Ferma l’irrilevanza (ai sensi del combinato disposto degli artt. 525, comma 2, prima parte, e 179 cod. proc. pen.) del consenso eventualmente prestato alla violazione del principio d’immutabilità del giudice, sanzionata a pena di nullità assoluta, e quindi insanabile, è, infatti, legittimo, ed anzi doveroso, valorizzare l’inerzia delle parti che non si siano attivate nei modi di rito, ovvero che non abbiano formulato la richiesta ex art. 493 cod. proc. pen., oppure non abbiano compiuto le attività preliminari alla richiesta di ammissione/rinnovazione degli esami di testimoni, periti o consulenti tecnici, nonché delle persone indicate dall’art. 210 cod. proc. pen., non depositando la prescritta lista.

[18]Rimane salva la possibilità, per “… la parte che non abbia indicato il nominativo del dichiarante da esaminare nuovamente e le circostanze sulle quali il nuovo esame deve vertere in una lista tempestivamente depositata ex art. 468, non ha diritto all’ammissione, ma può soltanto sollecitare il giudice, all’esito dell’istruzione dibattimentale, a disporre la nuova assunzione delle prove già precedentemente assunte dal collegio diversamente composto ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen. (tutte, od anche una soltanto), sempre che ricorrano le condizioni di assolutanecessità ai fini dell’accertamento della verità richieste da quest’ultima disposizione…”.

[19] Viene citato ampiamente, nella sentenza in commento, l’antecedente  costituito da Corte cost. n. 132 del 2019: “…Nel caso in cui la nuova escussione si risolva nella mera conferma delle dichiarazioni rese tempo addietro dal testimone, quest’ultimo «avrà una memoria ormai assai meno vivida dei fatti sui quali, allora, aveva deposto: senza, dunque, che il nuovo giudice possa trarre dal contatto diretto con il testimone alcun beneficio addizionale, in termini di formazione del proprio convincimento, rispetto a quanto già emerge dalle trascrizioni delle sue precedenti dichiarazioni, comunque acquisibili al fascicolo dibattimentale ai sensi dell’art. 511, comma 2, cod. proc. pen. una volta che il testimone venga risentito»; risulta, pertanto, assai dubbia l’idoneità complessiva di tale meccanismo «a garantire, in maniera effettiva e non solo declamatoria, i diritti fondamentali dell’imputato, e in particolare quello a una decisione giudiziale corretta sull’imputazione che lo riguarda».

[20] A stretto rigore logico, una ripetizione materiale, strettamente intesa, non è possibile : nessuno si bagna due volte nello stesso fiume. A ben vedere, dunque, anche questa è una ripetizione che vale come finzione giuridica, tanto che, per non discostarsene troppo, si ricorre al formalismo giuridico più smaccato, in cui si rievocano i rituali degli atti del diritto romano antico, in cui se si sbagliava una parola, l’atto era totalmente invalido

[21]come più volte ripetuto e pacificamente ormai acquisito sino dal tempo in cui, a metà degli anni 2000, si pronunciò sul punto la corte costituzionale, dei verbali di prova orale assunti innanzi ad altro giudice permangono al verbale in quanto, al momento in cui furono compiuti, erano perfettamente legittimi

A cura di Luigi Giordano

PENA – PENE ACCESSORIE – Durata non fissa – Sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018 – Conseguenze – Fattispecie di pene accessorie per il reato di bancarotta fraudolenta.

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affermato, con riferimento alle pene accessorie previste dall’art. 216, ultimo comma, legge fall. per il reato di bancarotta fraudolenta come “riformulato” a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018, che le pene accessorie, per le quali la legge indichi un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice, escluso ogni automatismo, in base ai criteri commisurativi indicati dall’art. 133 cod. pen.

Sezioni Unite, n. 28910 del 28/02/2019 (dep. 3/7/2019) – Pres. D. Carcano – Est. M. Boni.

REO – CONCORSO DI PERSONE NEL REATO – IN GENERE – Concorso di persone in reati a dolo specifico – Ricettazione – Necessità che il dolo specifico ricorra in capo a tutti i concorrenti – Esclusione – Condizioni.

La Seconda sezione ha affermato che, per effetto dell’ampliamento della punibilità determinato dall’art. 110 cod. pen., è punibile a titolo di concorso in ricettazione anche il soggetto il cui contributo al reato non sia soggettivamente animato dal dolo specifico, a condizione che lo sia quello fornito da almeno uno dei concorrenti e che dell’altrui finalità il predetto sia consapevole.

Sezione Seconda, n. 38277 del 07.06.2019 (dep. 17.09.2019), Presidente De Crescienzo U., Estensore Beltrani S.

DELITTI CONTRO LA FEDE PUBBLICA – Formazione di copia di un atto inesistente – Reato di falsità materiale – Esclusione – Limiti.

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affermato che la formazione della copia di un atto inesistente non integra il reato di falsità materiale, salvo che la copia assuma l’apparenza di un atto originale.

Sezione Unite, sentenza n. 35814, u.p. 28/03/2019, dep. 07/08/2019, Pres. D. Carcano, Rel. G. De Amicis.

REATI CONTRO IL PATRIMONIO – Usura – Oggettiva usurarietà delle condizioni concordate – Sufficienza – Condotta induttiva dell’agente – Necessità – Esclusione – Volontaria accettazione di tali condizioni o assunzione dell’iniziativa della negoziazione da parte della persona offesa – Rilevanza – Esclusione.

La Seconda sezione ha affermato che, ai fini dell’integrazione del delitto di usura, è sufficiente l’oggettiva usurarietà delle condizioni economiche stabilite dalle parti, con la conseguenza che non è necessario che l’agente abbia posto in essere una condotta volta ad indurre la persona offesa a dargli o promettergli interessi o altri vantaggi usurari, né vale ad escludere il reato l’avere la persona offesa volontariamente accettato tali condizioni o assunto, essa medesima, l’iniziativa di avviare le negoziazioni.

Sez. 2, n. 38551 del 26 aprile 2019 (dep. 18 settembre 2019) – Pres. U. de Crescienzo – Est. S. Beltrani.

REATI FALLIMENTARI – BANCAROTTA FRAUDOLENTA – IN GENERE – Condotta del liquidatore – Compimento nel mandato di operazioni prive di collegamento con lo scopo liquidatorio – Bancarotta fraudolenta per dissipazione – Sussistenza – Condizioni.

La Quinta Sezione della Corte di cassazione, pronunciandosi in tema di bancarotta fraudolenta, ha affermato che la vendita, da parte del liquidatore della società poi fallita, di beni sociali, con modalità tali da configurarsi quale operazione priva, ex ante, di qualunque grado di ragionevolezza rispetto al raggiungimento dello scopo liquidatorio, con la consapevolezza da parte dell’autore di diminuire il patrimonio per scopi estranei al mandato liquidatorio, costituisce condotta dissipativa integrante il suddetto reato.

Sezione Quinta, udienza 20/05/2019 (dep. 30/07/2019) n. 34812, Pres. G. Sabeone, Rel. A. Tudino.

SANITÀ PUBBLICA – IN GENERE – Telemedicina – Autorizzazione di cui all’art. 193 TULS – Necessità – Condizioni.

La Terza sezione ha affermato che, nei casi di “telemedicina”, caratterizzati dalla mancata compresenza nel medesimo luogo del paziente e del sanitario che eroga la prestazione, non è necessaria l’autorizzazione di cui all’art. 193 del R.D. 27 luglio 1934, n. 1265, per l’operatore che si limiti a raccogliere il dato anamnestico attraverso esami strumentali privi di invasività fisica e, senza elaborarlo, lo trasmetta, attraverso canali informatici, al diverso operatore che lo esamina ed effettua la diagnosi, essendo questa l’unica attività di natura prettamente sanitaria.

Sezione Terza, n. 38485 del 20.06.2019 (dep. 17.09.2019), Presidente Andreazza G., Estensore Gentili A.

SANITA’ PUBBLICA – IN GENERE – Procreazione medicalmente assistita – Fecondazione di tipo eterologo – Sentenza Corte cost. n. 162 del 2014 – Art. 12, comma 6, l. n. 40 del 2004 – Ambito di applicazione – Indicazione.

La Terza Sezione della Corte di cassazione ha affermato che, anche a seguito della pronuncia della Corte costituzionale n. 162 del 2014, che ha riconosciuto la legittimità della fecondazione assistita di tipo eterologo, sono punibili ai sensi dell’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004,  tutte le condotte dirette a remunerare la produzione, il trasferimento, la circolazione e l’importazione di gameti in vista dell’immissione nel mercato, in violazione del principio di gratuità e volontarietà della donazione.

Sezione Terza, sentenza n. 36221/2019, c.c. 06/06/2019, dep. 19/08/2019, Pres. G.  Lapalorcia, Rel. E. Gai.

EDILIZIA – COSTRUZIONE EDILIZIAReati edilizi – Mutamento di destinazione d’ uso – Trasformazione di un magazzino in luogo di culto – Sussistenza.

In materia di reati edilizi, la Terza sezione ha affermato che integra il reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, il mutamento della destinazione d’uso di locali originariamente destinati a magazzino in luogo di culto.

Sez. Terza, 3/07/2019 (dep. 30/08/2019), n. 36689, Presidente G. Liberati, Estensore A. Scarcella.

SICUREZZA PUBBLICA – MISURE DI PREVENZIONE – REVOCA, MODIFICAZIONE O SOSPENSIONE – Confisca – Richiesta di revocazione – Rigetto – Ricorso per cassazione – Ammissibilità – Ragioni.

La Sesta sezione ha affermato che è ammissibile il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di revocazione della confisca di prevenzione trattandosi di un provvedimento avente carattere di definitività ed atteso che il rinvio operato dall’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011, così come modificato dalla legge n. 161 del 2017, alle forme “dell’art. 630 e seguenti cod. proc. pen.”, in tema di revisione delle sentenze di condanna, implica l’applicabilità anche dell’art. 640 cod. proc. pen. che prevede la ricorribilità per cassazione del provvedimento definitorio del giudizio di revisione.

Sezione Sesta, udienza 6/06/2019 (dep. 18/07/2019) n. 31937, Pres. G. Fidelbo, Rel. E. Aprile.

RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITA’ STRANIERE – ROGATORIE – DALL’ESTERO – ESECUZIONE- Competenza – Pubblico ministero del capoluogo del distretto – Misure cautelari reali – Riesame – Competenza – Tribunale del medesimo capoluogo.

In tema di rogatorie passive, la Sesta sezione ha affermato che, essendo competente per l’esecuzione, ai sensi dell’art. 724 cod. proc. pen., il procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto del luogo nel quale deve compiersi l’attività richiesta, la competenza per l’eventuale riesame dei provvedimenti di sequestro conseguenti appartiene territorialmente e funzionalmente al tribunale del medesimo capoluogo del distretto.

Sezione Sesta, udienza 19/06/2019 (dep. 18/07/2019) n. 31954, Pres. G. Paoloni, Rel. O. Villoni.

PROCEDIMENTO – IN GENERE – Revoca della costituzione di parte civile – Dichiarazione del sostituto processuale d’udienza del difensore della parte civile – Validità – Esclusione – Ragioni – Presenza della parte – Sanatoria del difetto di procura – Esclusione.

La Terza sezione ha affermato che la dichiarazione di revoca della costituzione di parte civile non può essere validamente effettuata dal sostituto processuale d’udienza del difensore della parte costituita, trattandosi di un atto che la legge riserva personalmente a quest’ultima o al suo procuratore speciale, senza che l’eventuale presenza in udienza della parte stessa comporti alcuna sanatoria del difetto di procura in capo a detto sostituto.

Sez. 3, n. 30388 del 9 aprile 2019 (dep. 10 luglio 2019) – Pres. G. Sarno – Est. L. Semeraro.

COMPETENZA PER MATERIA – INCOMPETENZA – RILEVABILITÀ – Reati di competenza del giudice di paceDeclinatoria di competenza da parte del giudice togato in ogni stato e grado del processo – Ammissibilità – Limiti – Riqualificazione di un reato di competenza del tribunale in un reato di competenza del giudice di pace – “Perpetuatio iurisdictionis” – Sussistenza – Condizioni.  

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affermato che l’incompetenza a conoscere dei reati appartenenti alla cognizione del giudice di pace deve essere dichiarata dal giudice togato in ogni stato e grado del processo, ai sensi dell’art. 48 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, disposizione che deroga al regime previsto dall’art. 23, comma 2, cod. proc. pen., che consente la rilevabilità dell’incompetenza per materia c.d. in eccesso entro precisi termini di decadenza; tuttavia, nel caso in cui il giudice togato riqualifichi il fatto in un reato di competenza del giudice di pace, resta ferma la sua competenza per effetto del principio della “perpetuatio iurisdictionis”, purché l’originario reato gli sia stato attribuito nel rispetto delle norme sulla competenza per materia e la riqualificazione sia un effetto determinato da acquisizioni probatorie sopravvenute nel corso del processo.

Sezioni Unite, n. 28908 del 27/09/2018 (dep. 03/07/2019), Pres. D. Carcano, Est. G. Fidelbo.

NOTIFICAZIONI ALL’IMPUTATO – DOMICILIO DICHIARATO O ELETTO – Modifica del “tempus” o del “locus commissi delicti” – Validità della dichiarazione o elezione di domicilio – Permanenza – Ragioni.

La Quinta sezione della Corte di cassazione ha affermato che la dichiarazione o elezione di domicilio effettuata dall’indagato in relazione ad un procedimento non perde di validità nel caso in cui, nel prosieguo delle indagini, intervengano modifiche relative alla esatta identificazione del “tempus” e del “locus commissi delicti”, in quanto l’elezione di domicilio risponde all’esigenza di semplificare i rapporti tra persona sottoposta alle indagini ed autorità procedente e non anche a quella di informare il soggetto sulla specifica imputazione elevata a suo carico.

Sez. 5, n. 38732 del 3 maggio 2019 (dep. 19 settembre 2019) – Pres. P. A. Bruno – Est. A. Settembre.

INDAGINI PRELIMINARI – ARRESTO IN FLAGRANZA – STATO DI FLAGRANZA – Quasi flagranza – Caratteri – Sorpresa del “reo” con cose o tracce del reato – Nozione – Coincidenza con il compendio del reato – Necessità –  Esclusione – Fattispecie.

In tema di arresto in flagranza, la Seconda sezione, ribadendo che ai fini dello stato di quasi flagranza è necessario che la polizia giudiziaria percepisca in modo diretto gli elementi indicativi del fatto, ha allo stesso tempo escluso che “le cose o tracce” dalle quali emerga che l’indiziato abbia commesso il reato, oggetto di tale diretta percezione, debbano necessariamente coincidere con il compendio del reato. (Nella fattispecie è stato ritenuto legittimo l’arresto dell’autore di una rapina, individuato dalla polizia grazie alla descrizione del vestiario operata dalla vittima congiuntamente al ritrovamento della borsa della persona offesa abbandonata sulla via di fuga). 

Sez. Seconda, 14/06/2019 (dep. 06/09/2019), n. 37303, Presidente D. Gallo, Estensore A. Mantovano.

MISURE CAUTELARI – PERSONALI – IMPUGNAZIONI – RIESAME – DECISIONE – TERMINE – Ordinanza applicativa di misura cautelare coercitiva – Annullamento con rinvio della Corte di cassazione – Riesame in sede di rinvio – Sostituzione della misura in parallelo procedimento incidentale – Deposito dell’ordinanza – Termine di cui all’art. 311, comma 5-bis, cod. proc. pen. – Applicazione – Sussistenza – Ragioni.

La Seconda sezione ha affermato che nel giudizio di rinvio a seguito di annullamento della ordinanza che ha disposto o confermato la misura coercitiva, il tribunale del riesame deve depositare il provvedimento nel termine di trenta giorni previsto dall’art. 311, comma 5-bis, cod. proc. pen., anche nel caso in cui la misura, nelle more del giudizio, sia stata sostituita con altra interdittiva a seguito di autonomo e parallelo incidente cautelare, attesa la ontologica diversità dei due procedimenti incidentali.

Sezione Seconda, n. 37811 del 26.06.2019 (dep. 12.09.2019), Presidente Verga G., Estensore Recchione S.

PENA – ESECUZIONE – PENE DETENTIVE – Sospensione dell’ordine di esecuzione – Condannato agli arresti domiciliari – Violazione delle prescrizioni – Magistrato di sorveglianza – Provvedimenti – Contenuto – Trasmissione degli atti al Tribunale di sorveglianza – Decisione nel termine di trenta giorni – Necessità – Esclusione.

La Prima Sezione penale ha affermato che il Tribunale di sorveglianza non è tenuto al rispetto del termine di cui all’art. 51 ter Ord. pen. nel caso in cui abbia ricevuto la trasmissione degli atti da parte del magistrato di sorveglianza a causa della violazione delle prescrizioni imposte al condannato agli arresti domiciliari che, intervenuta l’irrevocabilità della sentenza, si allontani poi dal luogo di custodia o tenga comportamenti incompatibili con la prosecuzione della misura, atteso lo stretto collegamento tra la previsione dell’art. 51 ter Ord. pen. e il procedimento di revoca della misura alternativa, mentre diverso è il fondamento relativo alla caducazione del regime degli arresti domiciliari “esecutivi”, ex art. 656, comma 10, cod. proc. pen., strettamente calibrato sui profili inerenti la pericolosità sociale della persona e il suo grado.

Sezione Prima, c.c. del 17/7/2019 (dep.13/8/2019), n. 36090/2019, Pres. A. Iasillo, Rel. F. Centofanti.

PROCEDIMENTI SPECIALI PROCEDIMENTO PER DECRETO – IN GENERE – Art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen. – Decreto emesso antecedentemente alla sua introduzione ma notificato successivamente – Applicabilità – Sussistenza – Ragioni. 

La Terza sezione ha affermato che il comma 1-bis dell’art. 459 cod. proc. pen., introdotto dalla legge 23 giugno 2017, n. 103, che, in relazione al decreto penale di condanna, ha previsto una deroga a quanto disposto dall’art. 135 cod. proc. pen. in ordine al ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive, è norma processuale con effetti sostanziali, poiché implica un trattamento sanzionatorio più favorevole rispetto al precedente, pur se collegato alla scelta del rito, e si applica, quindi, anche nelle ipotesi in cui il decreto penale sia stato emesso precedentemente ma notificato nel vigore della richiamata disposizione, ai sensi dell’art. 2, comma 4, cod. pen.

Sez. 3, n. 30691 del 23/5/2019 (dep. 12/7/2019) – Pres. A. Aceto – Est. L. Semeraro.

ISTITUTI DI PREVENZIONE E DI PENA (ORDINAMENTO PENITENZIARIO) – Richiesta di differimento dell’esecuzione di pena sostitutiva per ragioni di salute – Competenza – Giudice dell’esecuzione – Esclusione – Tribunale di sorveglianza – Sussistenza – Fondamento.

La Prima Sezione penale, ha affermato che la “richiesta di differimento dell’esecuzione di pena sostitutiva” per ragioni di salute non può essere ritenuta rientrante tra le “istanze di modifica delle modalità di esecuzione” della pena sostitutiva, poiché attiene alla verifica di un rinvio necessario ed opportuno per evitare una violazione del senso di umanità ed una applicazione degradante della pena, sicché la competenza a provvedere è da riferire al Tribunale di sorveglianza e non al giudice dell’esecuzione. 

Sezione Prima, c.c. del 27/6/2019 (dep.13/8/2019), n. 36054/2019, Pres. A. Iasillo, Rel. A. Minchella.

INDAGINI PRELIMINARI – ATTIVITA’ DELLA POLIZIA GIUDIZIARIA – SEQUESTRO – CONVALIDA – Omessa convalida – Inefficacia del sequestro – Obbligo di restituzione anche delle copie dei documenti sequestrati – Sussistenza.

La Seconda sezione ha affermato che l’inefficacia del sequestro probatorio, eseguito di iniziativa della polizia giudiziaria e non convalidato nel termine perentorio di quarantotto ore dal pubblico ministero, fa sorgere, in capo a quest’ultimo, l’obbligo di restituzione non solo degli originali dei documenti sequestrati, ma anche delle copie eventualmente estratte.

Sez. 2, n. 26606 del 12/3/2019 (dep. 17/06/2019) – Pres. M. Cammino – Est. S. Beltrani.

SANITÀ PUBBLICA – IN GENERE – Legge 22 maggio 2015, n. 68 – Delitti contro l’ambiente – Inquinamento ambientale ex art. 452-bis cod. pen. – Punibilità a titolo di dolo eventuale – Configurabilità.

La Terza sezione ha affermato che il delitto di inquinamento ambientale di cui all’art. 452-bis cod. pen., introdotto dalla legge n. 68 del 2015, giacché reato a dolo generico per la cui punibilità è richiesta la volontà di abusare del titolo amministrativo di cui si ha la disponibilità, con la consapevolezza di poter determinare un inquinamento ambientale, è punibile anche a titolo di dolo eventuale.

Sez. 3, n. 26007 del 05/04/2019 (dep. 12/06/2019) – Pres. F. Izzo – Est. A. Scarcella.

IMPUGNAZIONI – INTERESSE AD IMPUGNARE – Giudice di pace – Declaratoria di improcedibilità ex art. 34, d.lgs. n. 274 del 2000 – Ricorso per cassazione volto a far valere la remissione di querela – Interesse ad impugnare – Sussistenza – Ragioni.

In tema di procedimento dinanzi al giudice di pace, la Quinta sezione ha affermato che sussiste l’interesse dell’imputato a ricorrere avverso la sentenza di improcedibilità emessa per particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000, al fine di ottenere la declaratoria di estinzione del reato per intervenuta remissione di querela, atteso che tale pronuncia, escludendo l’illiceità penale del fatto, costituisce epilogo decisorio più favorevole rispetto a quello di cui all’ art. 34 del citato decreto che, avendo natura procedimentale, non riveste autorità di giudicato nel giudizio civile per le restituzioni o per il risarcimento del danno e non produce quindi alcun effetto pregiudizievole nei confronti della parte civile.

Sez. Quinta, n. 25786 del 05/04/2019 (dep. 11/06/2019), Presidente P. Micheli, Estensore A. Tudino.

SICUREZZA PUBBLICA – STRANIERIEspulsione dello straniero – Sentenza di non luogo a procedere ex art. 14, comma 5-septies d.lgs. n. 286 del 1998 – Possibilità di pronuncia nella fase del giudizio – Sussistenza.

La Prima sezione ha affermato che la previsione di cui all’art. 14, comma 5-septies, d.lgs.25 luglio 1998, n. 286, secondo cui, in caso di avvenuta espulsione dello straniero, deve essere pronunciata sentenza di non luogo a procedere relativamente ai reati di cui agli artt. 14, comma 5-ter e 14, comma 5-quater, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, lungi dal potere essere applicata in via esclusiva alla sola udienza preliminare, va riferita anche alla successiva fase del giudizio.

Sez. Prima, udienza 29/04/2019 (dep. 07/06/2019), n. 25358, Presidente M. Di Tomassi, Estensore M. Boni.

REO – CONCORSO DI PERSONE NEL REATO – MUTAMENTO DEL TITOLO DEL REATO PER TALUNO DEI CONCORRENTI – Reato proprio – Estensione al concorrente “extraneus” – Presupposti – Conoscibilità della qualifica soggettiva del concorrente “intraneus” – Necessità.

La Sesta sezione ha affermato che, in caso di mutamento del titolo del reato per taluno dei concorrenti, ai fini dell’estensione al concorrente “extraneus” della responsabilità a titolo di reato proprio, ai sensi dell’art. 117 cod. pen., è necessaria la conoscibilità della qualifica soggettiva del concorrente “intraneus”.

Sez. Sesta, udienza 31/01/2019 (dep. 07/06/2019), n. 25390, Presidente G. Paoloni, Estensore G. De Amicis.

SENTENZA – CORRELAZIONE TRA ACCUSA E SENTENZA – IN GENERE – Falso in atto pubblico – Aggravante di cui all’art. 476, comma 2, cod. pen. – Fidefacenza dell’atto non esplicitamente contestata – Possibilità per il giudice di ritenere l’aggravate in sentenza – Esclusione – Ragioni.

Le Sezioni Unite hanno affermato che non può essere ritenuta dal giudice in sentenza la fattispecie aggravata del reato di falso in atto pubblico di cui all’art. 476, comma secondo, cod. pen., qualora la natura fidefacente dell’atto considerato falso non sia stata esplicitamente contestata ed esposta nel capo d’imputazione mediante l’espressa indicazione di tale natura o l’impiego di formule equivalenti, ovvero attraverso il richiamo della predetta disposizione di legge, non essendo sufficiente il mero riferimento all’atto.

Sez. U, n. 24906 del 23 marzo 2019 (dep. 4 giugno 2019) – Pres. D. Carcano – Est. C. Zaza.

IMPUGNAZIONI – CASSAZIONE – CAUSE DI NON PUNIBILITA’, DI IMPROCEDIBILITA’, DI ESTINZIONE DEL REATO O DELLA PENA – In genere – Non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen. – Limite ostativo di pena – Computo – Criteri – Indicazione.

La Quinta Sezione ha affermato che, ai fini del computo del limite di pena ostativo al riconoscimento della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, deve aversi riguardo, non alla pena in concreto irrogata dal giudice, ma a quella edittale, tenendo conto delle sole circostanze ad effetto speciale, con esclusione delle diminuenti processuali a carattere premiale.

Sez. 5, n. 25103 del 23 marzo 2019 (dep. 5 giugno 2019) – Pres. M. Vessichelli – Est. L. Pistorelli.

REATI CONTRO L’ORDINE PUBBLICO – ASSOCIAZIONE PER DELINQUERE – Normale attività professionale svolta da avvocato – Ruolo funzionale allo scopo dell’associazione – Reato – Sussistenza.

In tema di associazione per delinquere, la Terza sezione ha affermato che è penalmente rilevante, ai sensi dell’art. 416 cod. pen., la condotta dell’avvocato che eserciti l’attività professionale, pur in formale aderenza ai canoni della professione, con il conclamato scopo di concorrere alla realizzazione del progetto criminoso perseguito dai consociati, trattandosi di reato a forma libera. (La stessa Terza sezione, con sentenza n. 24800 del 13/03/2019, dep. 4/06/2019, ha affermato il medesimo principio in relazione alla figura del commercialista).

 Sez. 3, n. 24799 del 13/03/2019 (dep. 4/06/2019) – Pres. G. Sarno – Est. A. Scarcella.

FINANZE E TRIBUTI – IN GENERE – Dichiarazione infedele – Momento consumativo – Presentazione della dichiarazione annuale – Successiva presentazione di dichiarazione integrativa – Rilevanza – Esclusione.

La Terza sezione ha affermato che il delitto di dichiarazione infedele si consuma con la presentazione della dichiarazione annuale, sì che non rileva l’eventuale presentazione di una dichiarazione integrativa mediante la quale il contribuente abbia emendato il contenuto di quella annuale originaria. (In motivazione la Corte ha disatteso, sulla base della espressa natura “annuale” della dichiarazione, l’assunto difensivo secondo cui nella nozione di “dichiarazione” dovrebbero farsi rientrare anche le eventuali dichiarazioni integrative presentate, nei tempi consentiti dalle norme tributarie, a rettifica della prima).

Sez. 3, n. 23810 dell’8 aprile 2019 (dep. 29 maggio 2019) – Pres. E. Rosi – Est. A. Scarcella

SICUREZZA PUBBLICA – MISURE DI PREVENZIONE – REVOCA, MODIFICAZIONE O SOSPENSIONE – Provvedimento definitivo di confisca – Proposto e terzo che abbia partecipato al procedimento – Revocazione ex art. 28 d.lgs. n. 159 del 2011 – Possibilità – Incidente di esecuzione – Ammissibilità – Esclusione – Ragioni.

La Sesta sezione ha affermato che, nel vigente sistema della prevenzione reale, il proposto ed il terzo che abbia partecipato al procedimento, qualora intendano ottenere la revoca del provvedimento definitivo di confisca, sono tenuti a presentare istanza di revocazione nei limiti ed alle condizioni di cui all’art. 28 del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, essendo invece loro preclusa, in ragione dell’inammissibilità di una rivalutazione dei medesimi fatti “sine die” e “ad nutum”, l’instaurazione di un incidente di esecuzione ex art. 666 cod. proc. pen., del quale può giovarsi unicamente il terzo che non abbia partecipato al procedimento per non essere stato messo nelle condizioni di farlo.

Sez. 6, n. 23839 del 26 aprile 2019 (dep. 29 maggio 2019) – Pres. G. Fidelbo – Est. R. Amoroso.

MISURE CAUTELARI – PERSONALI – MISURE COERCITIVE – IN GENERE – Divieto di avvicinamento alla persona offesa e ai luoghi da essa frequentati – Collocazione della persona offesa in una struttura protetta – Elemento ostativo all’applicabilità della misura – Esclusione – Ragioni.

In tema di misure cautelari, la Terza sezione ha affermato che la collocazione della persona offesa in una struttura protetta non è, di per sé, ostativa all’applicazione del divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla stessa, ex art. 282-ter cod. proc. pen., non valendo comunque tale collocazione ad escludere l’esigenza cautelare del pericolo di recidiva.

Terza Sezione, udienza 27/03/2019 (dep. 28/05/2019), n.23472 – Pres. E. Rosi, Rel. A. Scarcella.

Indagini preliminari – In genere – Ordine di allontanamento urgente dall’abitazione familiare ex art. 384-bis cod. pen. – Irreperibilità dell’indagato – Assenza del medesimo all’udienza di convalida ed impossibilità di assumerne l’interrogatorio – Convalida del provvedimento – Impedimento – Esclusione.

La Sesta Sezione ha affermato che, qualora l’indagato, raggiunto da un ordine di allontanamento urgente dall’abitazione familiare ai sensi dell’art. 384-bis cod. proc. pen., si renda irreperibile, ponendosi pertanto nella condizione di non essere raggiunto dall’avviso di fissazione dell’udienza di convalida e di non rendere l’interrogatorio di garanzia, si realizza una causa impeditiva che non esonera il giudice dal dovere di procedere comunque alla convalida, in presenza dei presupposti di legge.

Sez. 6, n. 22524 del 16 gennaio 2019 (dep. 22 maggio 2019) – Pres. A. Capozzi – Est. P. Silvestri

PROCEDIMENTO – Indagini preliminari – Ordine di allontanamento urgente dall’abitazione familiare ex art. 384-bis cod. pen. – Irreperibilità dell’indagato – Assenza del medesimo all’udienza di convalida ed impossibilità di assumerne l’interrogatorio – Convalida del provvedimento – Impedimento – Esclusione.

La Sesta Sezione ha affermato che, qualora l’indagato, raggiunto da un ordine di allontanamento urgente dall’abitazione familiare ai sensi dell’art. 384-bis cod. proc. pen., si renda irreperibile, ponendosi pertanto nella condizione di non essere raggiunto dall’avviso di fissazione dell’udienza di convalida e di non rendere l’interrogatorio di garanzia, si realizza una causa impeditiva di forza maggiore, che non esonera il giudice dal dovere di procedere comunque alla convalida, in presenza dei presupposti di legge.

Sez. 6, n. 22524 del 16 gennaio 2019 (dep. 22 maggio 2019) – Pres. A. Capozzi – Est. P. Silvestri

REATI CONTRO LA PERSONA – DELITTI CONTRO LA LIBERTA’ INDIVIDUALE – VIOLAZIONE DI DOMICILIO – IN GENERE – Delitto di cui all’art. 615-quater cod. pen. – Assorbimento nel delitto di cui all’art. 615-ter cod. pen. – Configurabilità – Condizioni.

In tema di tutela del domicilio informatico, la Seconda sezione ha affermato che il delitto di cui all’art. 615-quater cod. pen., non concorre bensì è assorbito nel più grave reato di cui all’art. 615-ter cod. pen., di cui costituisce un antecedente necessario, sempre che quest’ultimo sia contestato, procedibile e integrato nel medesimo contesto spazio-temporale, in danno della medesima persona fisica.

Seconda Sezione, udienza 14/01/2019 (dep. 20/05/2019), n. 21987 – Pres. U. De Crescienzo, Rel. S. Beltrani.

REATO – ESTINZIONE (CAUSE DI) – PRESCRIZIONE – Precedenti condanne – Esclusione delle attenuanti generiche – Riconoscimento implicito della recidiva – Esclusione – Conseguenze.

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affermato che la valorizzazione dei precedenti penali dell’imputato ai fini della negazione delle attenuanti generiche non implica il riconoscimento della recidiva in assenza di aumento della pena a tale titolo o di giudizio di comparazione tra le circostanze concorrenti eterogenee sicché, in tal caso, la recidiva non rileva ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato.

Sezioni Unite, udienza del 25/10/2018 R.g. 20808/19 (dep. 15/05/2019), Pres. D. Carcano, Estensore S. Dovere.

MISURE DI SICUREZZA – PERSONALI – Espulsione dello straniero titolare di permesso per “protezione sussidiaria” – Condizioni – Indicazione.

In tema di protezione internazionale, la Terza sezione della Corte di cassazione ha affermato che ai fini dell’espulsione ex art. 86, comma 2, d.P.R. n. 309 del 1990, dello straniero titolare di permesso di soggiorno per “protezione sussidiaria”, il giudice è tenuto a verificare, in concreto, alla luce delle allegazioni difensive, se l’esecuzione della misura di sicurezza possa esporre l’imputato a rischi per la sua incolumità.

Terza sezione, n. 19662 del 19/03/2019 (dep. 08/05/2019), Presidente E. Rosi, Relatore E. Gai.

IMPUGNAZIONI – INAMMISSIBILITÀ – IN GENERE – Inammissibilità del ricorso per cassazione – Manifesta infondatezza – Valutazione – Indicazioni.

In tema di declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione, la Seconda sezione della Corte di cassazione ha affermato che, ai fini della valutazione circa la manifesta infondatezza dei motivi, il giudice di legittimità deve valutare:

  • con riferimento ai motivi che deducano inosservanza o erronea applicazione di leggi, se essi risultino affetti da evidenti errori di interpretazione della norma posta a fondamento del ricorso, come nei casi in cui si invochi una norma inesistente, si disconosca il significato univoco di una disposizione di legge o si riproponga una questione costantemente decisa dal Supremo collegio senza addurre motivi nuovi o diversi;
  • con riferimento ai motivi che deducano vizi di motivazione, se essi muovano sul fatto, sul processo o sulla sentenza impugnata, censure o critiche vuote di significato in quanto manifestamente in contrasto con gli atti processuali.

Sezione seconda, n. 19411 del 12/03/2019 (dep. 08/05/2019), Presidente M. Cammino, Relatore S. Beltrani.

REATI CONTRO L’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA – IN GENERE – False informazioni al pubblico ministero – Sospensione del procedimento – Esercizio dell’azione penale – Condizioni – Indicazione.

In tema di false informazioni al pubblico ministero, la Sesta sezione della Corte di cassazione ha affermato che, a seguito della sospensione “ope legis” del procedimento ai sensi dell’art. 371-bis, comma secondo, cod. pen., l’azione penale non può essere esercitata fino all’intervenuta definizione, secondo le forme provvedimentali alternativamente tipizzate dal legislatore, proprio di “quel” procedimento nel cui ambito le false informazioni siano state rese, essendo irrilevante la eventuale definizione di un procedimento diverso, formato per separazione da quello principale ed iscritto solo relativamente ad una delle fattispecie di reato investite dall’ipotizzata realizzazione della condotta di mendacio.

Sesta sezione, n. 19775 del 07/02/2019 (dep. 08/05/2019), Presidente A. Petruzzellis, Estensore G. De Amicis.

DIFESA E DIFENSORI – IN GENERE – Astensione dalle udienze – Procedimenti per reati in relazione ad alcuni dei quali la prescrizione maturi nei termini previsti dal Codice di autoregolamentazione – Rinvio – Possibilità.

In tema di rinvio del processo per adesione del difensore all’astensione proclamata dalla categoria professionale, la Terza sezione della Corte di cassazione ha affermato che il divieto di astensione nei procedimenti e processi relativi a reati la cui prescrizione maturi entro i termini previsti dall’art. 4 del relativo Codice di autoregolamentazione, adottato il 4 aprile 2007, non opera nel caso in cui solo alcuni dei reati per cui si procede si prescrivano entro detto termine, essendo in tal caso rimessa alla discrezionalità del giudice procedente la valutazione in ordine all’accoglibilità o meno dell’istanza sulla base del necessario bilanciamento tra l’esercizio di un diritto costituzionalmente protetto del difensore e l’interesse dello Stato alla prosecuzione del giudizio.

Sezione Terza, u.p. 05/02/2019 (dep.06/05/2019), n. 18844, Presidente A. Aceto, Estensore  A. Scarcella.

“In tema di atti sessuali con minorenne, la Terza sezione della Corte di Cassazione ha affermato che le condotte poste in essere mediante comunicazione telematica non presentano – per il solo fatto di svolgersi in assenza di contatto fisico con la vittima – connotazioni di minore lesività sulla sfera psichica del minore tali da rendere applicabile, in ogni caso, l’attenuante prevista dall’art. 609-quater, quarto comma, cod. pen., per i casi di minore gravità.” (Cass., Sez. III,  Pres. Mannino, Rel. Pezzella, sentenza n. 16616, 25 marzo 2015 Up., dep. 21  aprile 2015, P.M. Baldi).

Procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 28 del 2015 – Rilevabilità nel giudizio di legittimità – Condizioni – Fattispecie.

La Corte di cassazione, pronunciandosi in relazione all’istituto della esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, previsto dall’art. 131- bis cod. pen., introdotto dal d.lgs. n. 28 del 2015, ha, in particolare, affermato che: il nuovo istituto ha natura sostanziale ed è, quindi, applicabile nei procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore, a norma dell’art. 2, quarto comma, cod. pen.; nei giudizi già pendenti in sede di legittimità alla data della entrata in vigore dell’art. 131-bis cod. pen., la questione della sua applicabilità è rilevabile di ufficio a norma dell’art. 609, comma 2, cod. proc. pen.; la Corte di cassazione, a tal fine, deve valutare la sussistenza, in astratto, delle condizioni di applicabilità del nuovo istituto, fondandosi sui dati emersi nel corso del giudizio di merito, in particolare tenendo conto di quanto emerge dalla motivazione della sentenza impugnata, e, in caso di valutazione positiva, annullare con rinvio al giudice di merito.(Nella specie, la Corte ha escluso l’esistenza dei presupposti per il riconoscimento della causa di non punibilità, rilevando dalla sentenza impugnata elementi indicativi della gravità dei fatti addebitati all’imputato, incompatibili con un giudizio di particolare tenuità degli stessi).
Sezione Terza Penale, Pres. Mannino, Rel. Ramacci, sentenza n. 15449, 8 aprile 2015 Up., dep. 15 aprile 2015, P.M. Salzano (concl. conf.)

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Con la sentenza n. 15232 depositata il 14 aprile 2015, le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione hanno affermato il seguente principio: “Nelle udienze penali, a partecipazione del difensore facoltativa, l’astensione del difensore della parte civile o della persona offesa, prevista dall’art. 3, comma 2, del codice di autoregolamentazione degli avvocati pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 4 gennaio 2008, non dà diritto al rinvio qualora il difensore dell’imputato o del dell’indagato non abbia espressamente o implicitamente manifestato analoga dichiarazione di astensione, così mostrando un proprio interesse ad una celere definizione del procedimento.
Con sentenza n. 11170 depositata il 17 marzo 2015, le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione hanno affermato i seguenti principi:- “il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione contro il provvedimento di sequestro adottato ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. n. 231 del 2001”; – “la verifica delle ragioni dei terzi al fine di accertarne la buona fede spetta al giudice penale e non al giudice fallimentare”.
Con sentenza n. 6240 depositata il 12 febbraio 2015, le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione hanno affermato il seguente principio: “L’applicazione di una pena accessoria extra o contra legem dal parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione purché essa sia determinata per legge (o determinabile, senza alcuna discrezionalità,) nella specie e nella durata, e non derivi da errore valutativo del giudice della cognizione”.

Nella medesima sentenza è, altresì, chiarito – dirimendo così il contrasto registratosi nella giurisprudenza di legittimità – che sono riconducibili al novero delle pene accessorie non espressamente determinate dalla legge quelle per le quali sia previsto un minimo e un massimo edittale ovvero uno soltanto dei suddetti limiti, ragione per la quale la loro durata deve essere dal giudice uniformata, ai sensi dell’art. 37 cod. pen., a quella della pena principale inflitta.

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Si riportano di seguito le massime relative alle prime pronunce della Corte di Cassazione sull’art. 275, comma 2 bis, c.p.p., , come sostituito dall’art. 8 del d.l. 26 giugno 2014, n. 92, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 117.
A) Sez. 2, Sentenza n. 4418 del 14/01/2015 Cc. (dep. 30/01/2015 ) Rv. 262377
 
MISURE CAUTELARI – PERSONALI – DISPOSIZIONI GENERALI – CONDIZIONI DI APPLICABILITÀ – IN GENERE – Misure cautelari diverse dalla custodia in carcere – Prevedibile inflizione di una pena non superiore a tre anni – Divieto di adozione della misura – Esclusione.
 Il divieto, ai sensi dell’art. 275, comma secondo bis, cod. proc. pen., di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere, nel caso in cui il giudice ritenga che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni, non si estende agli arresti domiciliari o alle altre più tenui misure coercitive, che, pertanto, possono essere applicate anche ove il giudice preveda l’inflizione di una pena detentiva non superiore a tre anni.
B) Sez. 6, Sentenza n. 1798 del 16/12/2014 Cc. (dep. 15/01/2015 ) Rv. 262059
 
MISURE CAUTELARI – PERSONALI – DISPOSIZIONI GENERALI – SCELTA DELLE MISURE (CRITERI) – D.L. n. 92 del 2014 – Testo anteriore alla legge di conversione n. 117 del 2014 – Modifica dell’art. 275, comma secondo bis, cod. proc. pen. – Applicazione della custodia cautelare in carcere – Presupposti – Limite di tre anni di pena detentiva – Operatività – Condizioni.
 In materia di misure cautelari personali, il limite di tre anni di pena detentiva necessario per l’applicazione della custodia in carcere, previsto dall’art. 275, comma secondo bis, cod. proc. pen., come novellato dal D.L. 26 giugno 2014, n. 92, nel testo anteriore alle modificazioni introdotte dalla legge di conversione 11 agosto 2014, n. 117, deve essere oggetto di valutazione prognostica solo al momento di applicazione della misura, ma non anche nel corso della protrazione della stessa, con la conseguenza che il presupposto assume rilievo non in termini di automatismo, ma solo ai fini del giudizio di perdurante adeguatezza del provvedimento coercitivo, a norma dell’art. 299, cod. proc. pen.
C) Sez. 1, Sentenza n. 53541 del 10/12/2014 Cc. (dep. 23/12/2014 ) Rv. 261609
 
MISURE CAUTELARI – PERSONALI – DISPOSIZIONI GENERALI – SCELTA DELLE MISURE (CRITERI) – D.L. n. 92 del 2014 convertito nella legge n. 117 del 2014 – Divieto di applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari – Presupposti.
In materia di misure cautelari personali, il divieto della applicazione della misura degli arresti domiciliari, previsto dall’art. 275 comma secondo bis cod.proc.pen., cosìcome novellato dal D.L. 26 giugno 2014 n.92, convertito con modificazioni nella Legge 11 agosto 2014, n. 117, consegue esclusivamente alla prognosi di prevedibile concessione della sospensione condizionale della pena e, non anche a quella di prevedibile irrogazione di una pena detentiva non superiore ai tre anni.
D) Sez. 6, Sentenza n. 41124 del 19/09/2014 Cc. (dep. 03/10/2014 ) Rv. 260336
 
MISURE CAUTELARI – PERSONALI – DISPOSIZIONI GENERALI – SCELTA DELLE MISURE (CRITERI) – D.L. n. 92 del 2014 convertito con modificazioni nella legge n. 117 del 2014 – Divieto di custodia cautelare in carcere in caso di previsione dell’irrogazione di una pena detentiva non superiore a tre anni – Incidenza dello “ius superveniens” sulle misure cautelari in corso di esecuzione – Sussistenza – Conseguenze – Esame da parte del giudice procedente sulla sussistenza dei “nuovi” presupposti applicativi della misura in atto – Necessità – Fattispecie.
 L’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 275, comma secondo bis, cod. proc. pen. (introdotto dalla L. 11 agosto 2014, n. 117, che ha convertito con modificazioni il D.L. 26 giugno 2014, n. 92), ai sensi del quale non può essere disposta l’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere ove si preveda l’irrogazione, all’esito del giudizio, di una pena superiore a tre anni, impone la verifica, da parte del giudice procedente, della sussistenza dei “nuovi” presupposti applicativi delle misure custodiali in corso di esecuzione, alla luce della specificità e gravità dell’addebito. (Fattispecie relativa ad illecita detenzione di marijuana, in cui la S.C. ha precisato che la verifica della concreta possibilità di applicare una pena detentiva superiore al limite triennale deve essere effettuata anche alla luce del più favorevole trattamento sanzionatorio tornato in vigore, per le droghe “leggere”, a seguito della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale).
E) Sez. 2, Sentenza n. 1411 del 12/03/2015 Cc. (dep. 8/04/2015)

MISURE CAUTELARI – PERSONALI – MISURE COERCITIVE – ARRESTI DOMICILIARI – Condanna per evasione – Divieto di concessione degli arresti domiciliari – Disposizione di cui all’art. 275, comma 2 bis, cod. proc. pen. – Pena da irrogarsi non superiore a tre anni di reclusione – Esclusione della applicabilità della misura cautelare carceraria – Prevalenza del divieto di concessione degli arresti domiciliari – Configurabilità.

Il divieto di concessione degli arresti domiciliari al condannato per evasione, previsto dall’art. 284, comma 5, cod. proc. pen., ha carattere assoluto e, pertanto, prevale sulla disposizione di cui all’art. 275, comma 2 bis, cod. proc. pen., in base alla quale non può essere applicata la misura cautelare della custodia in carcere quando il giudice ritiene che la pena irrogata non sarà superiore a tre anni.

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a cura di Andrea Penta

Cass. pen. Sez. Unite, Sent., (ud. 26‐02‐2015) 09‐07‐2015, n. 29316

REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:Dott. SANTACROCE Giorgio ‐ Presidente ‐Dott. CHIEFFI Severo ‐ Consigliere ‐Dott. FRANCO Amedeo ‐ Consigliere ‐Dott. CONTI Giovanni ‐ Consigliere ‐Dott. AMORESANO Silvio ‐ Consigliere ‐Dott. FUMO Maurizio ‐ Consigliere ‐Dott. BLAIOTTA Rocco Mar ‐ rel. Consigliere ‐Dott. PICCIALLI Patrizia ‐ Consigliere ‐Dott. FIDELBO Giorgio ‐ Consigliere ‐ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:D.C.S., nato a (OMISSIS);avverso la sentenza del 04/06/2013 della Corte di appello di Ancona;visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;udita la relazione svolta dal componente Rocco Marco Blaiotta;udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato generale Dott. STABILE Carmine, che ha conclusochiedendo l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata;udito il difensore dell’imputato, avv. Rocco Alessandro, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.

Svolgimento del processo

1. Il Tribunale di Pesaro ha affermato la responsabilità di D. C.S. in ordine ai reati seguenti, secondo la rubricazione riportata nell’imputazione originaria:
 A) art. 81 c.p., comma 2, e L. 14 dicembre 2000, n. 376, art. 9, comma 7, (ritenuti in esso assorbiti i reati di cui all’art. 81 c.p., comma 2, art. 648 c.p., e art. 81 c.p., comma 2, e art. 348 c.p., contestati ai capi B ed E dell’originaria imputazione), con riferimento all’acquisto ed al commercio di farmaci e di sostanze farmacologicamente e biologicamente attive come trenbolone, ossandrolone, drostanolone propionato, boldenone undecilenato, nandrolone, efedrina, ormone della crescita, testosterone, medicinalianabolizzanti in classe doping;
 C) art. 81 c.p., comma 2, e D.P.R. n. 309 1990, art. 73, commi 1 e 1 bis, lett. b), con riferimento alla commercializzazione e detenzione illecita di medicinali contenenti nandrolone, sostanza stupefacente e psicotropa indicata nella tabella 2^, sez. A;
 D) art. 81 c.p., comma 2, e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 70, in relazione alla illecita detenzione ed alla commercializzazione di efedrina, sostanza inserita nella categoria 1 dell’allegato 1^ del D.P.R. medesimo;
 G) art. 81 c.p., comma 2, D.Lgs. 24 aprile 2006, n. 219, art. 6, e art. 147, comma 2, con riferimento alla commercializzazione di medicinali di provenienza estera, in assenza di autorizzazione dell’Agenzia italiana per il farmaco.Fatti commessi in Fano sino al 22 agosto 2011.Il Tribunale ha pure disposto la confisca dei veicoli e dei documenti in sequestro nonchè, ai sensi del D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 12 sexies, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 1992, n. 356, la confisca dei beni immobili oggetto di sequestro preventivo disposto con decreto del G.i.p. del Tribunale di Pesaro del 26 gennaio 2012, tutti elencati nel dispositivo.La Corte di appello di Ancona ha assolto l’imputato dal reato di cui al capo D per insussistenza del fatto e, ritenuta la continuazione tra i restanti reati, ha rideterminato la pena; confermando nel resto la sentenza del Tribunale.2. Ricorre per cassazione l’imputato, deducendo diversi motivi.2.1. Nullità delle sentenze di primo e secondo grado per violazione dell’art. 179 c.p.p., art. 178 c.p.p., comma 1, lett. b), art. 33 septies c.p.p., perchè, dopo l’instaurazione del giudizio col rito immediato, e quindi senza udienza preliminare, il giudice monocratico, rilevata la competenza per materia del giudice collegiale, ha disposto la trasmissione degli atti al Tribunale in composizione collegiale e non al pubblico ministero, così violando le norme concernenti l’inizia