CLASSIFICAZIONE
CAUSE DI NON PUNIBILITA’ – LEGITTIMA DIFESA DOMICILIARE – ECCESSO DI DIFESA – DIRITTO ALLA VITA – PROPORZIONE TRA OFFESA E DIFESA – ATTUALITA’ DEL PERICOLO – NECESSARIETA’ DELLA CONDOTTA

RIFERIMENTI NORMATIVI
Convenzione E.D.U., art. 2
Patto internazionale sui diritti civili e politici, art. 6, par. 1
Codice penale, artt. 52, 55, 59
Legge 13 febbraio 2006, n. 59, art. 1
Legge 6 aprile 2019 n. 36, art. 1, comma 1, lett. a) e lett. c)

RIFERIMENTI GIURISPRUDENZIALI

Corte E.D.U., 9 giugno 1998, ricorso n. 23413/94, L.C.B. v. U.K.; Corte E.D.U., 15 gennaio 2009, ricorso n. 46598/06, Branko Tomašić and others v. Croatia; Corte E.D.U., 25 agosto 2009, ricorso n. 23458/02, Giuliani and Gaggio v. Italia; Corte E.D.U., Grande Camera, 24 marzo 2011, ricorso n. 23458/02, Giuliani and Gaggio v. Italia; Corte E.D.U., 14 giugno 2011, ricorso n. 30812/07, Trévalec v. Belgium; Corte E.D.U., 19 luglio 2018, ricorso n. 58240/08, Sarishvili-Bolkvadze v. Georgia.

Corte cost., sent. n. 148 del 02/06/1983; Corte cost., sent. n. 225 del 03/06/1987; Corte cost., sent. n. 278 del 23/05/1990; Corte cost., sent. n. 140 del 04/05/2009.

PRONUNCIA SEGNALATA
Cass. pen., sez. 3, sent. n. 49883 del 10 ottobre 2019, Capozzo (depositata il 10 dicembre 2019)

Abstract

– La causa di giustificazione della legittima difesa prevista dall’art. 52, primo comma, cod. pen., postula tre elementi: il pericolo attuale di un’offesa ingiusta ad un diritto proprio o altrui; la necessità di reagire a scopo difensivo; la proporzione tra la difesa e l’offesa.

– L’art. 1 della L. 13 febbraio 2006 n. 59 ha aggiunto il secondo comma dell’art. 52, cod. pen., in base al quale nei casi previsti dall’art. 614, primo e secondo comma, sussiste sempre (avverbio inserito dall’art. 1, comma 1, lett. a), della L. 26 aprile 2019, n. 36) il rapporto di proporzione tra la difesa e l’offesa se taluno presente in uno dei luoghi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o altrui incolumità; b) i beni propri o altrui quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione.

– L’art. 1, comma 1, lett. c), della L. 26 aprile 2019, n. 36 ha aggiunto il quarto comma dell’art. 52 cod. pen., in base al quale, nei casi di cui al secondo e terzo comma, agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione, posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone.

– La Terza sezione penale ha delineato i confini di applicabilità della nuova fattispecie di legittima difesa domiciliare, introdotta con legge del 26 aprile 2019 n. 36 al fine di inasprire la reazione penale avverso le aggressioni domiciliari e guardare con indulgenza alle condotte di autodifesa del cittadino, superando la rigidità della presunzione di proporzione tra difesa e offesa introdotta dal legislatore mediante l’inserimento dell’avverbio “sempre” nel testo dell’art. 52, secondo comma, cod. pen., nel senso di ribadire l’ordine e il rapporto di rango tra i beni costituzionali anche alla luce delle norme di matrice internazionale.

LA SENTENZA DELLA 3^ SEZIONE PENALE (n. 49883 del 10/10/2019, Capozzo)

Il caso

1. L’imputato è stato condannato in primo grado per omicidio doloso e sottrazione e soppressione di cadavere, per avere sparato e, conseguentemente, ucciso un uomo che stava tentando di entrare in casa sua e, successivamente, trasportato e gettato il suo cadavere nel fiume Volturno. La Corte d’assise d’appello di Napoli, accogliendo parzialmente il gravame dell’imputato, ha riqualificato il primo reato in omicidio colposo per eccesso di reazione in legittima difesa, confermando la responsabilità per il delitto di cui all’art. 411 cod. pen.

2. Secondo la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di appello, l’imputato – svegliato da rumori sospetti – si era accorto della presenza di un uomo che stava tentando di accedere in casa sua dal balcone della camera da letto in cui dormivano i suoi tre figli. Accertata la presenza di complici, pur non visti dall’agente, costui, persuaso di dover difendere se stesso, la propria famiglia e i propri beni dall’altrui ingiusta aggressione, aveva affrontato i ladri armandosi con il fucile da caccia legalmente detenuto e sparando più colpi all’indirizzo dell’uomo. Il malintenzionato aveva desistito, momentaneamente, dall’azione illecita, allontanandosi dal balcone per posizionarsi nel cortile, sotto a un albero, onde verificare la possibilità di persistere nell’azione illecita intrapresa.

Nonostante la distanza che lo separava dal ladro, l’imputato, non considerando che il parziale allontanamento dell’aggressore non rendeva più necessaria la lesione fisica di costui, aveva sparato ad altezza d’uomo, cagionandone la morte. Tale condotta è stata considerata gravemente imprudente e non più proporzionata all’offesa effettivamente in essere nel momento in cui il colpo era stato esploso. Di qui il riconosciuto eccesso colposo in legittima difesa, non avendo il giudice d’appello ritenuto provato che la vittima impugnasse un’arma – o un oggetto che potesse essere scambiato per un’arma – nulla essendo stato rinvenuto nei pressi del cadavere, benché l’imputato fosse immediatamente sceso per accertarsi dell’accaduto e avesse caricato il cadavere sul proprio mezzo fuoristrada, trasportandolo su un ponte del vicino fiume Volturno e gettandolo in acqua.

3. Per quanto qui d’interesse, va rilevato che la difesa aveva dedotto, tra le altre doglianze, la violazione della legge sostanziale e processuale, quanto alla negata ricorrenza dei presupposti di operatività della scriminante della legittima difesa, al più putativa ai sensi dell’art. 59 cod. pen., lamentando la mancata applicazione della nuova, più favorevole disciplina introdotta dalla legge 26 aprile 2019, n. 36. La Terza sezione penale ha ritenuto tali motivi infondati e corretta, dunque, l’esclusione della sussistenza della causa di giustificazione della legittima difesa, sia reale, che putativa, nonostante la recente novella che ha riguardato l’art. 52 cod. pen., operando innanzitutto una ricognizione dell’articolo, all’esito degli interventi modificativi, prima ad opera della legge 13 febbraio 2006, n. 59, quindi, della legge n. 36 del 2019 citata. Modifiche che hanno entrambe attinto la valutazione delle reazioni difensive poste in essere contro coloro che commettono fatti di violazione del domicilio (o, ai sensi dell’art. 52 comma 3, cod. pen., di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale).

Esclusa l’operatività (invero neppure invocata dal ricorrente) della nuova previsione di cui all’ultimo capoverso della disposizione, inserito dall’art. 1, comma 1, lett. c) della legge 36/2019 («agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone»), per difetto del presupposto dell’introduzione armata, violenta o minacciosa, i giudici di legittimità hanno altresì escluso l’applicazione del primo capoverso della disposizione (già introdotto dall’art. 1 della legge 13 febbraio 2006, n. 59, a mente del quale, nei medesimi luoghi, «sussiste sempre» – e l’introduzione dell’avverbio costituisce l’unica modifica apportata dalla legge 36/2019 alla norma introdotta con la novella meno recente – «il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o altrui incolumità; b) i beni propri o altrui quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione»), affermando che l’inserimento dell’avverbio “sempre” ha un significato rafforzativo della sola presunzione di proporzionalità tra offesa e difesa.

Poiché tale presunzione riguarda solo uno degli elementi costitutivi della fattispecie scriminante (che, secondo consolidato orientamento interpretativo, postula anche il pericolo attuale di un’offesa ingiusta a un diritto proprio o altrui e la necessità di reagire a scopo difensivo), ai fini della verifica in esame andava scrutinata anche la necessità di reagire ad un’offesa in atto, distinguendosi il caso in cui il pericolo riguardi l’aggressione alla persona, da quello in cui esso riguardi i beni.

In quest’ottica, i giudici di legittimità hanno affermato che l’uso di un’arma – purché legittimamente detenuta – può dirsi reazione sempre proporzionata nei confronti di chi si sia illecitamente introdotto, o illecitamente si trattenga, all’interno del domicilio o dei luoghi a questo equiparati, nei quali il legislatore ha ritenuto maggiormente avvertita l’esigenza dell’autodifesa, a patto che, per l’appunto, il pericolo di offesa sia attuale e che l’impiego dell’arma quale in concreto avvenuto sia necessario a difendere l’incolumità propria o altrui, ovvero i beni, sempre che ricorra un pericolo di aggressione personale.

Nella specie, in base a una ricostruzione dei fatti non scalfita dalle doglianze difensive, i giudici della Terza sezione penale hanno ritenuto che la situazione di pericolo non fosse attuale al punto da giustificare l’uso preventivo della micidiale arma impiegata per far fuoco contro la persona e non potesse operare la presunzione di proporzione tra offesa in atto e difesa attuata poiché, quanto all’offesa alla persona, era insussistente una situazione di necessità della difesa posta da un pericolo attuale che l’art. 52, primo comma, cod. pen. continua a richiedere; quanto al pericolo di offesa ai beni, difettava – stante la distanza e la reciproca posizione dell’agente e della vittima – un pericolo di aggressione alla persona ai sensi dell’art. 52, secondo comma, lett. b), ultima parte, cod. pen.

4. Per completezza, pur restando il tema estraneo all’interpretazione convenzionalmente orientata dell’art. 52 cod. pen. che interessa in questa sede, va precisato che la Corte di cassazione ha escluso anche la putatività della scriminante invocata, ritenendo che la motivazione sul punto non prestasse il fianco a censure e fosse corretta in diritto alla luce dei principi già affermati dalla giurisprudenza di legittimità. Ha, tuttavia, accolto il secondo motivo di ricorso, ritenendo la violazione dell’art. 55 cod. pen. e annullando la sentenza con rinvio per nuovo giudizio in ordine alla configurabilità dell’eccesso colposo alla stregua della previsione contenuta nel secondo comma della norma, aggiunto dall’art. 2 della legge 26 aprile 2019, n. 36, con particolare riferimento alla ricostruzione della condizione psicologica del «grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto», tale da rendere inesigibile una razionale valutazione sull’eccesso di difesa, oggetto del rimprovero mosso a titolo di colpa.

La consistent interpretation dell’art. 52 cod. pen.

5. L’interpretazione dell’art. 52 cod. pen. novellato, nel senso di ritenere che la presunzione di sussistenza del rapporto di proporzione tra difesa e offesa nei casi descritti dalla disposizione non ha efficacia scriminante la condotta di colui che agisce contro l’aggressore che ha violato il domicilio in assenza della necessità di difendersi da un pericolo attuale, offerta dai giudici della Terza sezione penale, è stata ritenuta, innanzitutto, coerente con la previsione del secondo comma dell’art. 55 cod. pen., aggiunto dall’art. 2 della stessa legge n. 36 del 2019 («Nei casi di cui ai commi secondo, terzo e quarto dell’art. 52, la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o dell’altrui incolumità ha agito nelle condizioni  di cui all’art. 61, primo comma, n. 5) ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto»).

Inoltre, per quanto qui di maggiore interesse, la vicenda ha offerto alla Corte di legittimità lo spunto per operare un’ampia riflessione sulle cause scriminanti e sulla necessità di bilanciare ragionevolmente, in un’ottica costituzionalmente e convenzionalmente orientata, i beni in gioco.

6. In particolare, quanto ai parametri costituzionali, nella sentenza si è operato un rinvio alle decisioni del giudice delle leggi in materia di cause di non punibilità in generale, richiamato il principio costante per il quale, costituendo esse deroghe a norme penali generali, la loro valutazione comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra le diverse e confliggenti ragioni che sorreggono la norma generale e quelle che sorreggono la norma derogatoria. Tale giudizio costituisce sì appannaggio prioritario del legislatore (C. Cost. n. 140 del 04/05/2009), ma questi è tenuto a operare un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali in gioco (C. Cost. n. 148 del 02/06/1983). Alla stregua delle pronunce concernenti specificamente la scriminante della legittima difesa, poi, i giudici di legittimità hanno ribadito che essa postula necessariamente la reazione ad un’offesa in atto (il rinvio è alle sentenze della Corte Cost., sent. n. 225 del 03/06/1987 e n. 278 del 23/05/1990).

7. Hanno, inoltre, ritenuto l’interpretazione normativa adottata coerente con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia, vincolanti per il legislatore anche in forza del principio affermato dall’art. 117, primo comma, Cost., operando un rinvio all’art. 2 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, uno degli articoli fondamentali della Convenzione, non suscettibili di deroga, ai sensi dell’art. 15, in tempo di pace; e all’art. 6, par. 1, del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966 e ratificato con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, del pari fonte di obblighi internazionali.

Con specifico riferimento al parametro di cui all’art. 2 citato, si è affermato che esso, lungi dal tollerare presunzioni di necessità, impone, nel tutelare il diritto fondamentale alla vita, una puntuale e concreta verifica della necessità della condotta realizzata per la quale è invocata la scriminante della legittima difesa.

La disposizione, dopo aver sancito al par. 1 la protezione del diritto alla vita ed il divieto di provocare volontariamente la morte di alcuno, nel par. 2, lett. a), per quanto qui di specifico interesse, considera come non data in violazione di detto articolo la morte di una persona «determinata da un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario: a) per difendere ogni persona da una violenza illegittima».

A tale proposito, i giudici di legittimità hanno richiamato la giurisprudenza della Corte E.D.U. che conduce ad una riflessione giuridica – e non solo – sull’indiscussa valenza e sul necessario rispetto del diritto alla vita, inteso sotto un duplice profilo: sostanziale e/o procedurale. Il primo comporta che gli Stati sono obbligati a creare forme di legislazione dissuasive di comportamenti violenti (soprattutto da parte delle autorità che godono del potere di uso legittimo della forza); il secondo riguarda il dovere delle autorità di effettuare indagini effettive in grado di assicurare che le violazioni del diritto siano represse e sanzionate.

Benché nella casistica della giurisprudenza della Corte di Strasburgo la previsione sia stata di regola analizzata in vicende in cui il ricorso alla forza lesivo del diritto alla vita era stato attuato da organi pubblici, specialmente da forze di polizia – come avvenuto in alcuni dei casi richiamati in sentenza – purtuttavia i principi formulati con riferimento a quelle specifiche vicende sono stati ritenuti applicabili anche in un contesto di autodifesa tra privati, essi delineando la necessità del bilanciamento tra opposti beni e di una rigorosa valutazione delle circostanze alla stregua delle quali la privazione della vita può dirsi giustificata (il riferimento in sentenza è a Corte EDU, Grand Chambre, 24/03/2011, Giuliani e Gaggio v. Italia).

I giudici di Strasburgo, infatti, nell’affermare la primazia del diritto alla vita, quale sintesi dei diritti fondamentali, si sono più volte espressi a favore della restrizione delle circostanze in cui la privazione della vita può trovare giustificazione, sancendo, tra l’altro, l’obbligo per gli Stati di adottare misure atte a salvaguardare la vita di quanti si trovino sotto la loro giurisdizione.

Le sentenze CEDU richiamate

8. Nella sentenza L.C.B. c. Regno Unito del 9 giugno 1998, relativa alla correlazione tra l’esposizione a particolari forme di radiazione dei genitori e la leucemia contratta dai figli, la Corte E.D.U. ha affermato chiaramente il principio in virtù del quale l’art. 2 della Convenzione impone allo Stato il dovere di fare tutto il possibile per impedire che la vita delle persone soggette alla sua giurisdizione sia inutilmente posta a repentaglio, compreso fornire consulenza alle famiglie e monitorare la salute dei bambini.

Nella sentenza Branko Tomašić and others v. Croatia del 15 gennaio 2009, inoltre, i giudici sovranazionali, invocando l’art. 2 CEDU, hanno sancito la sussistenza di obblighi positivi a carico degli Stati, atti a proteggere un individuo la cui vita sia a rischio a causa di azioni criminose di un altro individuo. Tali obblighi positivi si sostanziano principalmente in una serie di doveri di protezione, consistenti nell’adozione di disposizioni di diritto penale efficaci a prevenire la commissione di crimini contro la persona accompagnati da un meccanismo di esecuzione delle leggi per la prevenzione, la soppressione e la punizione delle violazioni di tali disposizioni.

Più conosciuta è la vicenda che fa da sfondo alle sentenze Giuliani and Gaggio v. Italia.

Il caso com’è noto, ha riguardato le manifestazioni no-global svoltesi nel corso del G8 di Genova, durante il quale si scatenarono scontri di estrema violenza tra i manifestanti e le forze dell’ordine. I ricorrenti avevano lamentato che il decesso del figlio e fratello, Carlo GIULIANI, era ascrivibile a un ricorso eccessivo alla forza, accusando lo Stato convenuto di non avere adottato le disposizioni legislative, amministrative e regolamentari necessarie per limitare al massimo le conseguenze nefaste dell’uso della forza, di non avere organizzato e pianificato le operazioni di polizia in modo conforme all’obbligo di tutelare la vita e di non avere svolto un’inchiesta efficace sulle circostanze del decesso del loro familiare.

Con la sentenza del 25 agosto 2009, una camera della quarta sezione, con specifico riferimento al parametro di cui all’art. 2 CEDU, non ha riconosciuto la sua violazione sotto il profilo materiale quanto all’uso eccessivo della forza e neppure sotto il profilo materiale quanto agli obblighi positivi di tutelare la vita, ritenendone però la violazione sotto quello procedurale.

In quella sede, la CEDU ha ribadito l’importanza dell’art. 2 della Convenzione – che garantisce il diritto alla vita e indica le circostanze nelle quali può essere giustificato infliggere la morte – e la necessità che il ricorso alla forza sia “assolutamente necessario” e restrittivamente inteso in termini di stretta proporzione rispetto agli scopi permessi. Per i giudici sovranazionali, lo Stato ha il dovere fondamentale di assicurare il diritto alla vita predisponendo un quadro giuridico e amministrativo che possa dissuadere dal commettere azioni dannose per la persona, mediante un meccanismo d’applicazione concepito per prevenirne, reprimerne e sanzionarne le violazioni. Alla stregua di tali considerazioni, nella specie, la CEDU non ha constatato una violazione dell’art. 2 sotto il profilo della cagionata morte del Giuliani, giacché ha ritenuto applicabili le eccezioni di cui all’art. 2, comma 2, lett. a) (uso legittimo della forza); non ha constatato la violazione del parametro esaminato sotto il profilo degli obblighi di protezione, perché le modalità organizzative dell’evento del G8 non potevano essere considerate insufficienti per la tutela dell’incolumità e della vita dei manifestanti; ha, tuttavia, constatato la violazione dell’art. 2 sotto il profilo dell’adeguatezza dell’adempimento degli obblighi processuali, ritenendo non sufficiente la ricerca della verità svolta nell’inchiesta penale che ne era seguita.

Successivamente, il Governo e i ricorrenti hanno chiesto il rinvio della causa dinanzi alla Grand Chambre in virtù degli articoli 43 della Convenzione e 73 del regolamento.

Nella sentenza del 24 marzo 2011, la Corte ha precisato che il ricorso alla forza, per essere legittimo, deve essere “assolutamente necessario” per il conseguimento di uno degli obiettivi di cui all’art. 2, par. 2, lettere a) b) e c), oltre che strettamente proporzionato agli scopi permessi. Inoltre, le circostanze in cui la privazione della vita può trovare giustificazione devono essere interpretate in modo stretto. L’oggetto e lo scopo della Convenzione quale strumento di tutela dei diritti dei privati cittadini esigono anche che l’articolo 2 sia interpretato ed applicato in modo da rendere le sue garanzie concrete ed effettive.

Nel caso di specie, si è ritenuto che il ricorso alla forza omicida fosse assolutamente necessario «per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale», ai sensi dell’articolo 2 par. 2 lettera a) della Convenzione e riconosciuto che le autorità italiane non erano venute meno all’obbligo di fare tutto quanto ci si poteva ragionevolmente aspettare da loro per fornire il livello di protezione richiesto in occasione di operazioni che comportavano un potenziale rischio di ricorso alla forza letale. Contrariamente alle conclusioni cui era pervenuta la camera (che aveva deplorato che l’inchiesta interna fosse stata limitata all’esame della responsabilità dei singoli agenti, senza che fosse analizzato il «contesto generale» al fine di determinare se le autorità avessero pianificato e gestito le operazioni di mantenimento dell’ordine in modo da evitare il tipo di incidente che aveva causato il decesso di Carlo Giuliani),  infine, la Grand Chambre ha escluso anche la violazione dell’art. 2 della Convenzione sotto l’aspetto procedurale.

I medesimi principi sono stati riaffermati con la sentenza Trévalec c. Belgio del 14 giugno 2011, relativa alle gravi ferite causate a un reporter che aveva ottenuto l’autorizzazione a riprendere le attività di una squadra speciale di polizia (nucleo PAB). Durante l’operazione, due agenti di polizia sopravvenuti, non appartenenti al PAB, sparavano sette colpi di fuoco al sig. Trévalec, che si trovava a pochi metri di distanza da loro, perforandone la gamba destra. Nella specie, la Corte ha riscontrato una violazione dell’art. 2, atteso che le autorità PAB, uniche consce della presenza del Sig. Trévalec, nonché responsabili per la sua sicurezza in un contesto in cui era potenzialmente in pericolo la sua vita, non erano state sufficientemente attente. La mancanza di vigilanza degli agenti PAB era stata, invero, causa essenziale dell’uso di forza potenzialmente letale da parte degli agenti sopravvenuti, incorsi in un evidente errore circa il ruolo del ricorrente.

Ed ancora, recentemente, la Corte Europea nella sentenza Sarishvili-Bolkvadze c. Georgia del 19 luglio 2018, tornando sulla questione con riferimento ad un caso di colpa medica, ha ribadito che gli Stati, nel rispetto degli obblighi positivi loro riconosciuti ai sensi dell’art. 2 della Convenzione, anche in ambito di tutela della salute e di responsabilità per colpa medica, devono prevedere adeguate disposizioni finalizzate a garantire la protezione della vita dei pazienti e sono tenuti, pertanto, a garantire elevati standards professionali tra gli operatori sanitari.

Pratica num. 1/PA/2015 – Nota pervenuta in data 27 gennaio 2015 dal Ministro della Giustizia che trasmette, per il parere, il testo del disegno di legge concernente: “Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore contrasto al fenomeno corruttivo, oltre che all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena.”.

Comunico che il Consiglio Superiore della Magistratura, nella seduta del 20 maggio 2015, ha adottato la seguente delibera:

«Premessa.

Il disegno di legge n. 2798 intende riformare alcune parti significative del sistema penale con l’obiettivo di rafforzare le garanzie difensive, assicurare la ragionevole durata dei processi, intensificare il contrasto alla corruzione e incidere sull’ordinamento penitenziario per rendere effettivi percorsi di reinserimento sociale dei condannati e di accesso alle misure alternative alla detenzione.

La proposta di legge coinvolge anche l’istituto della prescrizione, limitatamente all’art. 159 c.p., e tradisce una nitida scelta di campo a fronte del ricco e vivace dibattito in argomento, su cui si sta cimentando la platea dei giuristi e la stessa opinione pubblica.

Nel complesso, il disegno di legge in esame viene a connotarsi per l’estrema varietà degli interventi di natura penal-sostanziale e processuale, alcuni dei quali effettuati attraverso disposizioni di immediata applicazione, altri nella forma dei progetti di legge-delega (ad es. in tema di intercettazioni).

Come più volte segnalato anche dal Consiglio superiore della magistratura, gli ambiziosi obiettivi indicati nella relazione a corredo del disegno di legge andrebbero perseguiti da interventi organici di ben altra intensità, data la crisi gravissima in cui versa la giustizia penale del nostro paese, crisi che attiene a differenti ambiti operativi, tra loro strettamente interconnessi.

A) Il diritto penale sostanziale

Il nostro diritto penale sostanziale, a causa del susseguirsi di interventi normativi spesso ispirati ad una logica emergenziale, nel tempo ha dilatato a dismisura il catalogo dei reati e l’ intensità della risposta repressiva. Ciò si è peraltro realizzato, in maniera prevalente, in settori interessati dalla c.d. criminalità di strada e dai fenomeni connessi all’uso di sostanze stupefacenti, piuttosto che nell’ambito della criminalità economica e contro la pubblica amministrazione, rispetto ai quali si constata una assoluta inadeguatezza della risposta repressiva, anche per la mancanza di adeguati interventi sul sistema economico, sulla pubblica amministrazione e sul relativo regime dei controlli, che dovrebbero essere preliminari ad ogni ipotesi di revisione dell’intervento penalistico.

Alla dilatazione dei dispositivi di controllo penale nei settori più sensibili alle sollecitazioni securitarie ha, per un verso, corrisposto un marcatissimo incremento del carico giudiziario, con effetti di sostanziale incapacità di smaltimento dello stesso da parte del sistema processuale e la conseguente attribuzione all’istituto della prescrizione di una patologica funzione di mantenimento degli equilibri del sistema penale, in specie per i reati in materia ambientale o contro la pubblica amministrazione, in relazione ai quali si è registrata una estrema difficoltà a pervenire ad un effettivo vaglio sulla responsabilità.

Sul versante del diritto sostanziale, a fronte di un catalogo di reati dal carattere ipertrofico, andrebbe effettuata, con assunzione di responsabilità del Parlamento, una selezione delle condotte realmente meritevoli di determinare la risposta penale, che secondo il dettato costituzionale, dovrebbe connotarsi come extrema ratio.

Allo stato, invece, questa operazione viene sostanzialmente affidata alla sola giurisprudenza mediante l’istituto della “particolare tenuità del fatto” introdotto dal decreto legislativo n.28 del 2015, che –  se costituisce un utile strumento di selezione delle condotte nel caso concreto meritevoli di punizione, in ossequio al principio di offensività  – non realizza quella necessaria assunzione di responsabilità del legislatore nelle scelte di valore sottese al sistema penale che, soltanto, può effettivamente incidere sugli indirizzi generali della giurisdizione, anche sotto il profilo deflattivo. E ciò, anche perché l’accertamento della tenuità del fatto nella singola fattispecie comporta comunque procedura laboriosa che difficilmente si tradurrà in una effettiva riduzione dell’impegno giudiziario e che, d’altro canto, potrebbe determinare trattamenti diversificati per condotte analoghe nei diversi ambiti nazionali.

Con riferimento poi al profilo più strettamente sanzionatorio, occorrerebbe superare la persistente centralità della pena carceraria, potenziando l’utilizzo di misure repressive di tipo ablativo, prescrittivo ed interdittivo quali pene principali, e con la previsione della possibilità di applicare sanzioni alternative al carcere da parte del giudice della cognizione. E bisognerebbe altresì addivenire alla implementazione di un sistema di restorative justice fondato sugli istituti tipici della giustizia riparativa e della mediazione penale, già esistenti nel processo minorile e nel rito del giudice di pace come solo in parte il disegno di legge in esame si propone di fare.

B) Il processo penale.

Sul piano processuale si attende una riforma in grado di effettuare una profonda revisione del codice di rito, attualmente connotato dalla presenza di adempimenti defatiganti, solo apparentemente rispondenti a finalità di garanzia ed in realtà prevalentemente formali, nonché alla riforma organica di un regime delle impugnazioni che – unitamente ai tempi di prescrizione assai brevi previsti per alcuni tipi di reati e ad un sistema del patrocinio a spese dello Stato divenuto sempre più centrale in tempi di grave e persistente generale crisi economica – incentiva la proliferazione dei ricorsi, contribuendo a comporre un carico processuale responsabile dei tempi inadeguati della giustizia penale.

Su questo versante le novità proposte dal disegno di legge n. 2798 rappresentano un primo promettente segnale con riguardo alle disposizioni in materia di riti speciali, udienza preliminare, archiviazione e regime delle impugnazioni, ma non decisive per la risoluzione delle suddette questioni.

Per coltivare concretamente il valore della durata ragionevole del processo,  probabilmente sono necessari interventi di dettaglio su istituti specifici fonte di criticità procedimentali che contribuiscono alla complessiva scarsa razionalità e funzionalità del sistema.

Così, sarebbe opportuno rivedere la disciplina delle notifiche penali, valorizzando gli strumenti informatici e semplificando gli oneri di comunicazione talvolta caratterizzati da un approccio di formalistica sovrabbondanza, rafforzando l’affermazione degli oneri di correttezza e di partecipazione leale dei privati.

Anche il processo a carico di imputati irreperibili, recentemente riformato, appare ancora caratterizzato da un eccesso di rigidità formale che rischia di frustrarne l’effetto deflattivo.

Bisognerebbe riconsiderare la regola che impone la rinnovazione delle prove già assunte in caso di mutamento della persona fisica del giudice che appare scarsamente coerente con un processo solo parzialmente orientato al rito accusatorio, è incompatibile con l’enorme numero di processi pendenti ed è fonte di gravi criticità in sedi giudiziarie caratterizzate da scoperture ed elevato ricambio di magistrati. A tal fine potrebbe generalizzarsi l’applicabilità della disciplina stabilita dall’art. 190 bis c.p.p. per i soli reati di più grave allarme sociale.

Andrebbe inoltre rivista la disciplina sul patrocinio a spese dello Stato.

Attualmente, l’elevatissimo numero di patrocinatori presenti nel nostro Paese, senza eguali rispetto ad altri stati europei ad esso assimilabili, costituisce un elemento moltiplicatore di alcune attività giudiziarie, in specie con riferimento alle impugnazioni.

Le concorrenti esigenze di assicurare adeguata difesa alle parti processuali sprovviste di idonei mezzi finanziari e patrimoniali e di evitare non necessari appesantimenti dell’attività processuale, oltre che di contenere gli esborsi per l’Erario, potrebbero essere tutelate mediante l’istituzione di un ruolo stabile di avvocati, dipendenti pubblici, cui affidare la cura delle parti prive di sufficienti risorse. La natura pubblica dell’organo e la previsione di meccanismi retributivi non esclusivamente parametrati alle prestazioni erogate dovrebbe impedire fenomeni di ingiustificata proliferazione del contenzioso, con un sicuro risparmio di risorse economiche e giudiziarie; a tal fine, potrebbe assumersi a modello l’esperienza nordamericana.

C) L’esecuzione penale

Per altro verso, andrebbe riscritto l’assetto dell’esecuzione penale, oggi ancora prevalentemente incentrato sulla costosa ed economicamente ormai insostenibile opzione carcero-centrica del Codice Rocco, con uno spazio ancora limitato per le sanzioni alternative alla pena carceraria. Su questo tema, in effetti, il disegno di legge in esame si limita a fissare una serie di principi e criteri direttivi (art. 26) per una risistemazione organica dell’ordinamento penitenziario, che sarà oggetto di approfondimento in una separata delibera.

Le disposizioni del disegno di legge.

1. La riparazione del danno

Il titolo I contiene proposte di modifica del diritto sostanziale, finalizzate a rendere il sistema penale più adeguato all’obbiettivo di una giustizia snella, funzionale ed efficace, con l’introduzione di misure orientate, da un lato, a selezionare le vicende che – dal punto di vista delle istanze di tutela dell’ordinamento, e delle finalità retributive e preventive della pena – richiedano effettivamente il dispiegamento integrale delle risorse processuali di accertamento e sanzione ordinarie e, dall’altro, ad offrire un apparato ordinamentale idoneo a rendere effettiva la sanzione delle condotte meritevoli di punizione.

Al primo obbiettivo sono dedicati gli artt. 1 e 2 che, operando sul piano sostanziale delle cause di estinzione del reato, individuano, in relazione a certe tipologie di reato, una nuova fattispecie di definizione della vicenda che garantisca l’eliminazione del disvalore sociale della condotta con modalità alternative alla sanzione penale, con i vantaggi di deflazione processuale conseguenti al venir meno della necessità del pieno accertamento. L’istituto pare ispirato dal dibattito, sempre più diffuso in dottrina e radicato nell’attenzione dei legislatori, sulle modalità alternative di definizione dei procedimenti penali, secondo i canoni della cd. “giustizia riparativa”.

Nell’ottica descritta, l’innovazione deve essere salutata con favore, affiancandosi, in un percorso omogeneo di revisione del sistema penale, all’istituto, di più ampia portata, della messa alla prova generalizzato con la recente legge n. 67 del 2014.

L’approccio culturale rimanda ai sistemi di Restorative Justice che attribuiscono a condotte riparative del reo l’effetto di attenuare o di escludere la responsabilità o, ancora, di incidere sulle modalità di espiazione della pena, in una prospettiva in cui l’intervento penale si giustifica quale extrema ratio che, indirettamente, favorisce obbiettivi ulteriori, quali l’economia processuale e, in ulteriore analisi, la riduzione della popolazione carceraria.

Il disegno di legge all’art. 1 propone, dunque, l’introduzione dell’art. 162-ter del codice penale, che prevede l’estinzione del reato quando l’imputato abbia riparato il danno dal medesimo cagionato, mediante le restituzioni o il risarcimento, ed abbia eliminato le sue conseguenze dannose o pericolose.

Il presupposto dogmatico generale, largamente condiviso, è quello che nessuna utilità sociale generale né individuale può essere riconosciuta alla sanzione penale quando, sul piano delle conseguenze obbiettive, ogni effetto pregiudizievole della condotta vietata sia stato rimosso, e sul piano soggettivo, il reo abbia dimostrato, per comportamenti concludenti, una seria volontà di riabilitazione. La giustificazione teorica, appena esposta, spiega la limitazione dell’istituto ai reati perseguibili a querela e con querela rimettibile, in cui, cioè, l’interesse protetto sia fortemente individualizzato nella persona offesa che è per legge arbitro della percorribilità processuale della sua punizione.

Proprio nell’ottica della verifica in concreto della ricorrenza delle ragioni sostanziali che giustificano la rinuncia alla punizione, la norma prescrive che prima di decidere il giudice senta le parti del processo. Naturalmente deve ritenersi che non sia necessario, per dare corso alla dichiarazione di estinzione del reato, l’esplicito assenso della persona offesa; ciò perché, se la volontà della vittima fosse condizione indispensabile per la pronuncia si finirebbe per non riconoscere al nuovo istituto un ambito di significativa applicazione ulteriore rispetto a quello consentito dalla remissione della querela, prevista come autonoma causa di estinzione dall’art. 152 c.p..

La formulazione letterale della norma sembra escludere ogni discrezionalità del giudice, tenuto adichiararel’estinzione del reato ogni qualvolta sia stata accertata l’intervenuta effettiva riparazione integrale.

E’ introdotto inoltre l’art. 649-bis del codice penale, che ammette la pronuncia dell’estinzione del reato per intervenuta riparazione del danno in alcune fattispecie di reato la cui procedibilità non dipende dalla querela della persona offesa. Si tratta di ipotesi di reato contro il patrimonio in cui, d’altra parte, per l’oggetto e le modalità della condotta, il legislatore ha ritenuto comunque una caratterizzazione fortemente individuale dell’interesse protetto[1].

2. Le misure di contrasto alla corruzione dal ddl n.2798 al ddl n.19

La proposta di legge in esame affronta pure il tema del contrasto alla corruzione, con l’obiettivo di superare le lacune e le incertezze interpretative dell’assetto normativo che scaturivano dalla legge n.190 del 2012.

Il disegno di legge n.2798, tuttavia, limitandosi a proporre l’aumento della pena edittale prevista per il reato di corruzione attraverso le disposizioni di cui all’art.3, appariva inidoneo a rendere più efficace la strategia complessiva di repressione di una delle principali emergenze di inquinamento del tessuto istituzionale e civile del Paese.

Come evidenziato da una pluralità di fonti sovranazionali, la materia del contrasto alla corruzione richiede interventi organici e di “sistema” su ciascuno degli inscindibili nessi tra il piano amministrativo, quello istituzionale, quello penale sostanziale, nonché sugli strumenti investigativi e sui modelli processuali. Mentre il ddl n.2798 rinuncia a nuove previsioni su pene accessorie, corruzione tra privati, premialità per chi collabora con l’autorità giudiziaria,testdi integrità, riti speciali, falso in bilancio ed evasione fiscale; versanti sui quali gli esperti del settore da anni auspicano una riforma della legislazione interna sulla scia delle direttive della Convenzione Europea per la lotta alla corruzione siglata a Strasburgo nel 1999, anche con la firma dell’Italia .

Viceversa sullo specifico tema del contrasto alla corruzione, si registra ora una concreta inversione di tendenza, rispetto anche al recente passato, nella più articolata proposta di legge recante il n. 19 (rubricata “Disposizioni in materia di corruzione, voto di scambio, falso in bilancio e riciclaggio”,in cui sono state riunite quelle nn. 657, 711, 810, 846, 847, 851 e 868), di cui si tiene conto in questa parte del parere.

Detta proposta, che non si limita ad inglobare la disposizione sugli aumenti di pena prevista dall’art.3 del d.d.l. n.2798 ma prevede positive novità su più fronti, è stata approvata in data 1 aprile 2015 dal Senato della Repubblica ed in atto è pendente pressola Cameradei Deputati.

Un primo significativo passo in avanti il d.d.l. n. 19  lo propone sul versante della  premialità da accordare a chi collabora con l’autorità giudiziaria laddove siano ravvisabili condotte che integrano la fattispecie di corruzione, attraverso l’introduzione di una attenuante ad effetto speciale.

Da anni si sostiene che sarebbe auspicabile l’elaborazione, anche sul piano penale, di un meccanismo di tutela per coloro che, non essendo pubblici ufficiali e prima che sia iniziato un procedimento penale, denuncino fatti di corruzione.  

In ogni caso, la premialità per chi denuncia in sede penale la corruzione, senza voler optare per soluzioni radicali di non punibilità – come pure previsto in altri Paesi -, può acquisire i connotati di un’attenuante speciale, significativa sul piano sanzionatorio, ancorandone il riconoscimento in modo specifico alla rilevanza e novità della collaborazione prestata.

Ebbene, proprio in tale prospettiva si muove opportunamente la proposta di legge 19, laddove  prevede che, per il reato di corruzione, chi collabora con l’autorità giudiziaria può ottenere uno sconto di pena variabile tra un terzo e la metà,  come stabilito da anni per la criminalità di stampo mafioso.

Un passo avanti lo si registra anche nell’intervento del ddl n. 19 sui reati “connessi” alla corruzione, in particolare il falso in bilancio, coltivando una prospettiva già presente nel nostro sistema penale in epoca antecedente alla riforma del 2002.

Come suggerito anche dalle fonti sovranazionali, è necessario aggredire le condotte di reato connesse al fenomeno corruttivo, quali il falso in bilancio e l’evasione fiscale – che consente di acquisire la provvista economica per l’attività di corruzione – orientando la normativa nel senso di perseguire la piena tracciabilità delle transazioni finanziarie.

Le disposizioni del ddl n.19 ripropongono la perseguibilità d’ufficio e un adeguato carico sanzionatorio (da tre a otto anni di reclusione) per il reato di falso in bilancio, ma solo per le società quotate in borsa. Mentre per le società non quotate in borsa la pena è prevista una pena da1 a5 anni di reclusione, con evidenti ripercussioni sul versante della ricerca della prova, dal momento che il massimo edittale non consente di esperire l’attività di intercettazione.

Va, poi, salutata con favore pure la disposizione, presente nel ddl n.19 S,  secondo la quale il corrotto per accedere al rito alternativo del patteggiamento e per godere della sospensione della pena deve necessariamente restituire il maltolto.

Tuttavia, nel perseguire una opzione strategica ancor più efficace nel contrasto alla corruzione e di maggiore organicità sistemica, i positivi passi avanti del ddl. n.19 andrebbero completati con ulteriori interventi del legislatore non solo sul piano delle pene accessorie, della disciplina della corruzione tra privati, della introduzione deltestdi integrità, ma anche sul piano amministrativo delle persone giuridiche e sulle misure relative al rientro dei capitali dall’estero.

Tornando al disegno di legge n. 19, votato al Senato il 1 aprile2015, inesso non si riscontra alcun intervento sull’attuale assetto normativo sulla voluntary disclosure  (rientro di capitali dall’estero, previsto dalla legge 15.12.2014 n. 186), che impedisce su tali fatti indagini anche per riciclaggio, per cui molte condotte (transazioni economiche legate a vicende corruttive) restano opache.

E anche sul piano amministrativo delle persone giuridiche, non si è dato seguito alle indicazioni del GRECO (Gruppo di Stati contro la corruzione), laddove ha fatto presente che il sistema contabile italiano non ottempera ai requisiti previsti dalla convenzione penale sulla corruzione e dalla convenzione civile sulla corruzione del Consiglio d’Europa. Questo si palesa, in particolare, con riguardo alle condizioni/soglie di responsabilità, alla copertura limitata dei requisiti in materia di revisione dei conti (circoscritta alle società quotate in Borsa, alle aziende statali e alle imprese di assicurazione), alla determinazione delle pene e alle disposizioni relative agli autori del reato di falso in bilancio.

Si aggiunga che il fenomeno corruttivo alligna maggiormente nelle procedure di gestione della spesa pubblica (autorizzazioni, concessioni, attività di pianificazione urbanistica, scelta del contraente in procedure di affidamento, erogazioni di sovvenzioni, finanziamenti, ecc.), in relazione alle quali, correttamente, la legge n. 190/2012 impone che i piani anticorruzione contengano specifiche misure preventive.

D’altra parte, il contrasto al fenomeno corruttivo è reso più difficile dal crescente ricorso a procedure di tipo privatistico che azzerano o rendono estremamente difficile ogni possibilità di controllo; e sotto questo profilo il ddl n. 19 non colma le lacune evidenziate a livello applicativo dalla legge n.190 del 2012.

Gli esperti della materia segnalano sul punto come sia ineludibile un pieno contrasto della corruzione in campo privato, proprio per garantire la trasparenza dei meccanismi di gestione di spesa per la realizzazione, da parte di privati, di servizi d’interesse pubblico. Tale questione si collega a quella dell’inidoneità delle categorie penalistiche a fronte della crescente privatizzazione dell’attività della Pubblica Amministrazione.

Le disposizioni di cui alla legge n. 190/2012 non definiscono in modo abbastanza ampio le cariche dirigenziali che possono mettere in gioco la responsabilità dell’impresa per reati di corruzione commessi dai relativi titolari, né prevedono la responsabilità nei casi di carenza di sorveglianza. Il regime sanzionatorio applicabile alle persone giuridiche non sembra essere sufficientemente dissuasivo,

Le attuali disposizioni sulla corruzione tra privati appaiono eccessivamente limitate e restringono il campo di applicazione alle categorie di dirigenti del settore privato cui il reato è imputabile. I procedimenti sono peraltro su querela della persona offesa e nonex officio, salvo se derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi.

A tal proposito, appare utile sottolineare l’importanza di un articolato intervento di riforma sulla fattispecie incriminatrice di corruzione tra privati che non si riscontra nel d.d.l. n. 19, che non contiene previsioni in grado di  trasformare il reato di corruzione tra privati in reato di pericolo e non di danno, con la conseguente eliminazione della punibilità a querela. Invero, solo con quella modifica normativa potrebbe estendersi la repressione della corruzione in campo privatistico venendo meno il requisito del “nocumento” alla società che oggi deve derivare dalla condotta corruttiva ed il reato in esame avrebbe come unico bene giuridico tutelato quello della concorrenza.

Inoltre, sul piano investigativo e processuale, il d.d.l. n. 19 non ha dato corso alle direttive della convenzione di Strasburgo in materia di contrasto alla corruzione del 1999 nella parte in cui  prevedono l’introduzione deltestdi integrità, ossia l’estensione dell’istituto dell’agente provocatore già previsto per reati di mafia e il traffico di stupefacenti alla materia dei reati contro la pubblica amministrazione, rinunciando ad un utile strumento di accertamento dei fatti peraltro approvato da anni in altri ordinamenti quale il sistema statunitense.

Infine, proprio sul piano strettamente sanzionatorio, andrebbe ripensato l’intero sistema delle pene accessorie, prevedendo come obbligatoria l’interdizione perpetua per ogni fattispecie corruttiva e introducendo una disposizione speciale che non consenta la sospensione quantomeno di questa peculiare ipotesi di pena accessoria. Anche su questo versante il ddl n.19 tace.

Conclusivamente, ad avviso del Consiglio superiore della magistratura, solo una determinazione senza riserve ed una azione coordinata di tutte le risorse dello Stato possono invertire una deteriore tendenza alla dissipazione della cosa pubblica che influisce in maniera pregiudizievole ed apparentemente ineluttabile sui meccanismi di funzionamento dello Stato fino a metterne in discussione gli stessi fondamenti di legittimazione democratica, rafforzando forme differenti di crimine organizzato e indebolendo radicalmente il tessuto di solidarietà indispensabile a mantenere i vincoli di cittadinanza enucleati nella Costituzione. In questa prospettiva il segnalati positivi interventi del d.d.l. 19 potrebbero essere opportunamente integrati da specifiche misure peraltro ampiamente indicate dalle fonti internazionali sopra menzionate.

3. Le innovazioni in materia di confisca allargata

Il testo di legge modifica la disciplina della confisca allargata prevista dall’art 12-sexies del D.L. 8 giugno 1992, allo scopo di ampliarne l’ambito di applicazione e la concreta effettività.

La misura viene estesa a tutti i reati contemplati dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., sì da ricomprendere taluni delitti fino ad ora esclusi, tra i quali i reati di associazione diretta a commettere reati sessuali in danni di minori, le attività organizzate per il traffico di rifiuti, l’associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri. Più in generale, il rinvio normativo induce a ritenere che qualsiasi futura modifica del catalogo contenuto nella norma richiamata automaticamente ope legis provocherà l’ampliamento dell’ambito di applicabilità della misura patrimoniale.

Sono poi oggetto di specifica precisazione aggiuntiva alcuni reati per i quali la misura patrimoniale non è prevista nella disciplina vigente, quali i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale.

Degna di attenzione è l’integrazione della norma con la previsione all’ultimo comma della preclusione per il condannato della possibilità di giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che le risorse siano provento o reimpiego di evasione fiscale.

La disposizione è evidentemente posta a definire una questione interpretativa specifica  oggetto di dibattito in dottrina e giurisprudenza, che finora ha visto emergere soluzioni differenziate in ragione anche della specificità della tipologia di confisca utilizzata[2].

Il legislatore ha ritenuto così di stabilire in via generale ed astratta la risposta interpretativa più rigorosa che finora, nell’ambito della confisca allargata, non aveva trovato il favore della giurisprudenza dominante, allo scopo di rendere l’applicazione dell’istituto più severa ed effettiva.

Meritevole di menzione è altresì l’integrazione del comma 2-ter dell’art. 12-sexies citato, con cui si precisa che la confisca per equivalente può estendersi anche alle utilità di legittima provenienza delle quali il condannato abbia la disponibilità.

Dopo alcune abrogazioni giustificate da motivi di coordinamento normativo e la previsione della garanzia della tutela dei terzi eventualmente titolari di diritti sui beni sequestrati attraverso la citazione nel processo di cognizione, l’art. 4  stabilisce, introducendo il comma 4-sexies dell’art. 12-sexies, che la confisca allargata, ad eccezione di quella per equivalente, può essere pronunciata anche quando il reato sia dichiarato estinto per prescrizione o per amnistia in sede di impugnazione, ove vi sia stata condanna in uno dei gradi di giudizio, purché il giudice del gravame, ai soli effetti della confisca, abbia accertato la responsabilità dell’imputato.

La norma intende adeguare il sistema normativo nazionale alla giurisprudenza nazionale e sovranazionale[3], che ha sancito l’illegittimità della sanzione patrimoniale consistente nella definitiva ablazione dei beni, ove non si sia pervenuti all’accertamento nel merito – nel rispetto dei diritti di difesa dell’imputato – della responsabilità per il reato contestato.

Nel caso in cui intervenga la morte del soggetto nei cui confronti sia stata disposta la confisca, solo nell’ipotesi in cui essa sia stata pronunciata con sentenza definitiva il procedimento può avere corso in sede esecutiva nei confronti degli eredi ed aventi causa (nuovo comma 4-septies dell’art. 12-sexies). Anche quest’ultima  disposizione serve a chiarire una questione interpretativa ed applicativa controversa in dottrina e oggetto di difformi soluzioni giurisprudenziali[4].

Giova, ancora, considerare che, nella persistenza di indirizzi interpretativi critici in relazione ad entrambe le questioni oggetto dell’intervento legislativo,[5] è da ultimo intervenutala Corte Costituzionale con la sentenza n. 49/2015 – depositata il 26 marzo 2015 – che ha sostanzialmente ratificato la correttezza della soluzione individuata dal legislatore.

4. La disciplina della prescrizione

Il disegno di legge propone inoltre una modifica dell’istituto della prescrizione, prevedendo una parentesi di sospensione onde consentire ai giudizi di impugnazione di potersi tenere, senza il rischio che medio tempore sopravvenga la causa di estinzione del reato per vano decorso del tempo. I periodi di sospensione sono commisurati in due anni per il giudizio di appello ed in un anno per quello di legittimità. E’, altresì, previsto che la parentesi di sospensione operi sempre che il relativo giudizio impugnatorio si concluda con una sentenza di condanna e non di assoluzione, con l’avvertenza, però, che, in caso in cui il giudice decida di assolvere l’imputato, non potrà prendere in considerazione l’opzione di dichiarare prescritto il reato, proprio perché, come leggesi nella relazione esplicativa, prima della pronuncia della sentenza di riforma o di annullamento quel computo è precluso.

Si tratta indubbiamente di un passo avanti significativo, iscrivendosi in unapiù generale rivisitazione dell’istituto della prescrizione, che, prescindendo da interventi settoriali volti all’allungamento dei termini per alcune figure di reato che toccano interessi particolarmente sensibili, giunga ad una sua riforma organica.

In questa ottica di riforma, tuttavia, ancora più convincente sarebbe una previsione di definitivo arresto del decorso del termine prescrizionale una volta che sia stata esercitata l’azione penale o, almeno, sia stata pronunciata la sentenza di primo grado.

Dal punto di vista dogmatico, infatti, la stessa giustificazione teorica dell’istituto – prolungato disinteresse dello Stato alla punizione della condotta vietata – appare inconciliabile con l’esistenza in fase avanzata di un procedimento o, addirittura, del processo finalizzato all’accertamento ed alla punizione.

Sotto il profilo pratico effettuale, poi, la circostanza che l’effettiva punizione di un reato che lo Stato abbia dimostrato di volere perseguire dipenda dai tempi in cui in concreto sia svolta la necessaria attività processuale – e quindi dalle condizioni materiali di lavoro dell’ufficio giudiziario nel suo complesso e del magistrato o dei magistrati coinvolti – introduce il rischio di obbiettiva ed ingiustificabile discriminazione per cui per il medesimo fatto può arrivarsi o meno ad un accertamento definitivo ed alla sanzione in dipendenza dei tempi tecnici possibili nel luogo in cui è stato commesso, e quindi della maggiore o minore dotazione organica, delle risorse materiali disponibili e dei carichi di lavoro degli uffici che se ne occupino.

Con il risultato, peraltro, ampiamente noto e numerose volte già denunciato, della dissipazione di enormi risorse umane e materiali a causa dell’impegno investigativo, procedimentale e processuale profuso dalla parte pubblica e dai privati coinvolti, per lo svolgimento di impegnative attività chea posteriorisi rivelino del tutto inutili per il sopravvenire della pronuncia di estinzione del reato.

Non sfugge che, nell’attuale stato di grave difficoltà della macchina giudiziaria, la sostanziale incapacità di smaltimento dell’enorme contenzioso da parte del sistema processuale finisce per assegnare alla prescrizione una patologica funzione di mantenimento degli equilibri del sistema in specie per i reati in cui l’accertamento delle responsabilità è particolarmente complesso (si pensi alla materia ambientale o a quella dei reati controla Pubblica Amministrazione).  E, in concreto, la tagliola della estinzione del reato costituisce un meccanismo di obbiettiva sollecitazione alla concentrazione dei tempi e degli atti processuali, nonché la garanzia di protezione dei cittadini coinvolti dal rischio di indeterminata ed indefinita pendenza del processo che rappresenta di per sé un grave pregiudizio alle prerogative individuali di onorabilità e certezza delle condizioni di vita personali.

D’altra parte, sotto i profili da ultimo indicati, deve osservarsi come l’attuale assetto normativo della prescrizione fornisca un formidabile incentivo a condotte processuali dilatorie ed ad impugnazioni pretestuose, presentate al solo scopo di lucrare la maturazione del termine estintivo. Senza dire che il venir meno della prospettiva di sfuggire alla punizione a seguito del trascorrere del tempo indurrebbe le persone sottoposte a processo a valutare seriamente i rilevanti benefici offerti dai riti alternativi che, fino ad ora, proprio in ragione della concreta possibilità di prescrizione, hanno avuto uno scarsissimo successo statistico.

In sostanza, la modifica auspicata avrebbe senz’altro un rilevante immediato effetto di deflazione del numero di processi penali in primo grado ed in sede di impugnazione, così offrendo spazi e risorse maggiori per la loro generalizzata più rapida e tempestiva definizione.

In ogni caso, la riforma proposta potrebbe essere accompagnata da misure – di natura risarcitoria ovvero orientate alla verifica dei doveri gravanti sui magistrati e sui dirigenti degli uffici giudiziari  – finalizzate a contenere i tempi complessivi del procedimento compatibili con il principio di ragionevole durata, per come declinato anche in sede sovranazionale.

Occorrerebbe, altresì, l’ampliamento dell’elenco dei reati imprescrittibili alla luce delle nuove esigenze general-preventive.

In ogni caso, nella consapevolezza che la suindicata opzione richiederebbe una decisa rottura epistemologica con quanto sino ad ora avvenuto, la soluzione proposta nel disegno di legge – che, si nota incidentalmente, va a sovrapporsi ad altra, ispirata alla medesima filosofia, contenuta in altra iniziativa legislativa (d.d.l. n. 1844 “Modifiche al codice penale in materia di prescrizione del reato”, approvato dalla Camera dei Deputati il 24 marzo 2015 ed in atto pendente innanzi al Senato della Repubblica) – presenta alcun aspetti positivi, pur con alcuni punti di criticità che vanno di seguito enucleati.

In particolare suscita più di qualche dubbio annettere un rilievo preminente ai fini del computo del termine prescrizionale alla pronuncia intermedia piuttosto che a quella definitiva. In effetti, così ragionando si consente a pronunce possibilmente non condivise dal giudice superiore di produrre effetti sul decorso del termine prescrizionale, sebbene, appunto, ciò che in ultima analisi conta è la pronuncia definitiva. Chiaro è, altresì, il rischio di imporre la definizione accelerata dei giudizi nei quali è incorsa una pronuncia intermedia assolutoria e la postergazione di quelli nei quali il giudice di secondo grado (od anche  di legittimità) si sia pronunciato in senso sfavorevole all’imputato.

Ulteriore aporia è quella di impedire al giudice che intenda assolvere l’imputato di dichiarare la prescrizione nel frattempo intervenuta, sull’apparente, ma non reale, presupposto che, durante il corso del giudizio di secondo grado o di legittimità, la prescrizione non sia decorsa: tanto più che il deconto retroattivo del periodo di sospensione ‘processuale’ di fase  impone lo svolgimento di un’ulteriore fase processuale davanti ad un altro giudice (la corte di cassazione o il giudice d’appello o di primo grado nel caso di rinvii dalla corte di cassazione) solo per dichiarare la prescrizione automaticamente conseguente alla deliberazione ‘provvisoria’ di non responsabilità.

5. Le disposizioni processuali

Il Titolo II, dedicato a “Modifiche al codice di procedura penale”, è suddiviso in tre capi, afferenti, rispettivamente, a “Modifiche in materia di incapacità dell’imputato di partecipare al processo, di indagini preliminari e di archiviazione”“Modifiche in materia di riti speciali, udienza preliminare, istruzione dibattimentale e struttura della sentenza di merito” e “Semplificazione delle impugnazioni”.

Le relative previsioni traggono spunto, almeno in parte, dalle proposte formulate dalle Commissioni ministeriali di studio istituite, nel 2006 e, poi, nel2013, invista della riforma del codice di procedura penale e presiedute, rispettivamente, dal dott. Giovanni Canzio e dal prof. Giuseppe Riccio.

Una lettura d’insieme dell’articolato consente di delinearne la filosofia di fondo, mirante ad accrescere il tasso di fluidità ed efficienza del procedimento senza intaccare i meccanismi di garanzia che, anzi, vengono in qualche caso rafforzati.

Si denota, sotto questo aspetto, il condivisibile ed ambizioso intento di discernere tra le garanzie effettive ed irrinunciabili e quelle solo apparenti che, piuttosto che soddisfare apprezzabili esigenze difensive, finiscono, nella prassi, per non realizzare altro scopo che quello di rallentare senza plausibile giustificazione  l’iterdell’accertamento giurisdizionale.

Un’altra linea di azione muove dal rilievo, divenuto ormai patrimonio comune agli operatori del diritto, che individua nell’attuale disciplina delle impugnazioni uno dei principali fattori di congestione del processo penale: alla previsione, agli artt. 24 e 25 del disegno di legge n. 2798, di apposita delega al Governo si aggiungono, al Capo III del Titolo II, non marginali innovazioni, per lo più finalizzate alla ridefinizione di compiti e modalità di intervento delle Corti di Appello e della Corte di Cassazione.

Il disegno di legge n. 2798 si propone, ancora, di ridare slancio ai riti alternativi attraverso alcune modifiche di dettaglio e, soprattutto, l’introduzione ex novo della condanna su richiesta dell’imputato e la reintroduzione del c.d. “patteggiamento in appello”.

Nel lodevole intento di trarre frutto da importanti approdi della giurisprudenza interna o sovranazionale, il testo in commento li traspone in altrettante norme di diritto positivo ovvero, comunque, mostra di volerne tener conto nell’ottica del più spedito ed efficiente andamento del processo.

Non mancano, infine, disposizioni espressive della confermata opzione per una sorta di doppio binario processuale, in forza del quale l’applicazione di istituti e norme è esclusa per i procedimenti relativi a reati di maggiore gravità ed allarme sociale.

L’art. 9 novella le disposizioni codicistiche relative alle ipotesi in cui venga accertato che l’imputato patisca una infermità mentale sopravvenuta al fatto contestato di gravità tale da impedirgli di partecipare coscientemente al procedimento.

Nell’attuale quadro normativo la protrazione di condizioni di incapacità dell’imputato per periodi assai consistenti, quantificabili in non pochi casi nell’ordine di più lustri, determina il parallelo mantenimento della pendenza a carico di soggetti sovente in stato di parziale o totale incoscienza e la necessità di eseguire, con frequenza biannuale, accertamenti peritali che comportano dispendio di risorse umane, strumentali ed economiche.

Opportunamente, il disegno di legge in commento differenzia i casi in cui lo stato di incapacità sia reversibile, per i quali viene mantenuto il regime esistente, e quelli in cui, al contrario, si pervenga ad una prognosi di segno opposto e stabilisce che, in questa seconda eventualità, il giudice revochi l’ordinanza di sospensione e pronunzi sentenza di non doversi procedere.

L’art. 10 contiene una pluralità di disposizioni, accomunate dall’incidenza sulla fase delle indagini preliminari e sul procedimento di archiviazione.

Il comma 1, ispirato alla logica del c.d. “doppio binario”, circoscrive alle ipotesi di reato più gravi l’ambito applicativo dell’istituto della dilazione dei colloqui tra il difensore e la persona sottoposta a misura detentiva cautelare o precautelare.

Volta ad evitare che l’esercizio delle prerogative difensive possa tradursi nell’ingiustificata paralisi dell’iter processuale è, invece, la disposizione contenuta nel comma 2 che stabilisce, opportunamente, che la riserva della parte privata ex comma 4 dell’art. 360 c.p.p. di promuovere incidente probatorio perda efficacia se non seguita, entro cinque giorni, dalla richiesta di incidente probatorio e che alla perdita di efficacia si accompagni la preclusione alla sua ulteriore proposizione.

Le disposizioni contenute nei commi 4, 5 e 6 concernono il procedimento di archiviazione.

Da un canto, vengono codificate le ipotesi di nullità del decreto di archiviazione individuate dalla giurisprudenza e richiamate, quanto all’ordinanza di archiviazione, le nullità già indicate dall’art. 127, comma 5, c.p.p.; dall’altro, viene introdotto uno specifico procedimento attraverso il quale la nullità dell’ordinanza può essere agilmente dedotta avanti alla Corte di Appello – anziché alla Cassazione, che viene così sgravata da compiti non connaturati alla funzione – mentre, nel caso di nullità del decreto, sarà lo stesso giudice delle indagini preliminari a rilevare il vizio con la spedita procedura ex art. 130 c.p.p..

Viene meno, in tal modo, la ricorribilità del provvedimento di archiviazione in sede di legittimità, ciò che, come chiarito dalla relazione introduttiva, non si pone in contrasto con l’art. 111, comma 7, Cost., giacché ci si trova al cospetto di atti diversi dalla sentenza e non incidenti sulla libertà personale.

L’art. 11 del D.D.L. introduce rilevanti modifiche alla disciplina dell’udienza preliminare, incidendo profondamente sulla latitudine dei poteri d’integrazione riconosciuti al giudice della fase dagli artt. 421-bis e 422 c.p.p.: in specie, è soppresso il potere del giudice dell’udienza preliminare di ordinare ulteriori indagini, ove ne ravvisi l’incompletezza, rimettendosi esclusivamente alle parti il potere di richiedere al giudice l’assunzione di prove ritenute decisive ai fini della sentenza di non luogo a procedere.

Evidente la finalità della norma, identificabile nell’apprezzabile obiettivo di restituire all’udienza preliminare il ruolo che le è proprio, ossia quello di «controllo sulla fondatezza dell’accusa nella prospettiva di una prognosi circa l’utilità del dibattimento», non può, per contro, sottacersi che l’eliminazione di ogni potere officioso del giudice dell’udienza preliminare potrebbe, in ipotesi, risultare controproducente rispetto all’auspicata finalità deflattiva. Va segnalato che il potere officioso attribuito dal vigente testo dell’art. 422 cod. proc. pen. al giudice dell’udienza preliminare consente il riequilibrio tra le posizione della parti nelle acquisizioni probatorie. L’attuale disposizione, quindi, appare fornire una maggiore tutela alle posizioni difensive, anche in considerazione del fatto che le prove da assumere sono finalizzate all’eventuale proscioglimento.

In ordine all’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere ex art. 428 c.p.p., viene attribuita al giudice di appello la competenza a decidere sul gravame; ciò, in quanto la verifica della sussistenza delle condizioni per il rinvio a giudizio dell’imputato attiene essenzialmente alla ricostruzione del fatto e al merito dell’accusa ed è tendenzialmente estranea all’ambito proprio del sindacato di legittimità.

La parte civile perde, ancora, la legittimazione a proporre impugnazione della sentenza ex art. 428 c.p.p., in dipendenza della quale «non soffre alcun pregiudizio dei propri interessi».

Infine, in caso di pronuncia di sentenza di non luogo a procedere anche in grado di appello, il ricorso per Cassazione è circoscritto alla sola violazione di legge.

Le modifiche apportate, all’art. 13,al giudizio abbreviato sono intese a coordinare l’articolazione del contraddittorio sulla richiesta di rito abbreviato con l’esercizio delle facoltà difensive.

In particolare, qualora, all’udienza preliminare, la difesa depositi i risultati delle espletate indagini difensive, si prevede che il giudice, al quale il pubblico ministero abbia chiesto un termine per svolgere indagini suppletive, posponga la decisione sino alla consumazione del concesso termine, al fine di evitare che la trasformazione del rito sia disposta senza che la pubblica accusa abbia potuto vagliare il materiale offerto dalla difesa e, eventualmente, fornire, a sua volta, ulteriori elementi di prova.

Specularmente, e coerentemente, si pone l’imputato in condizione di riconsiderare la già consacrata richiesta di giudizio abbreviato in funzione dell’integrazione probatoria effettuata dal pubblico ministero.

Sotto questo aspetto sarebbe, forse, auspicabile circoscrivere la facoltà di revoca della richiesta di giudizio abbreviato all’ipotesi in cui il pubblico ministero, dopo avere fruito del termine, abbia depositato i risultati di nuove indagini, laddove, invece, in caso contrario, non è dato apprezzarsi la sopravvenienza di elementi di novità idonei a giustificare un ripensamento dell’opzione originaria.

La seconda linea di intervento in materia di giudizio abbreviato concerne l’incidenza della richiesta di giudizio abbreviato sulla patologia dei singoli atti del processo.

Tra le altre, si segnala la questione che afferisce alla proposizione, in sede di giudizio abbreviato, di eccezione di incompetenza territoriale, in relazione alla quale viene adottata una soluzione radicale (nel senso che la richiesta di giudizio abbreviato preclude ogni questione sulla competenza per territorio del giudice), così superandosi, per espressa volontà del legislatore, il precedente indirizzo ermeneutico, che consentiva la riproposizione, in sede di giudizio abbreviato, dell’eccezione sollevata durante l’udienza preliminare ed ivi respinta.

L’art. 14 del progetto di riforma è dedicato al procedimento di applicazione della pena su richiesta delle parti ed all’istituto, di nuovo conio, della “sentenza di condanna su richiesta dell’imputato”.

Per quanto concerne il c.d. “patteggiamento”, viene, innanzitutto, delimitato il campo delle ipotesi che consentono di adire il giudice di legittimità a coloro che abbiano ottenuto l’emissione della sentenza a contenuto concordato, per impedire che i richiedenti formulino ricorsi destinati ad essere ritenuti inammissibili, all’unico e strumentale obbiettivo di posporre il passaggio in giudicato della sentenza e l’esecuzione della pena concordata.

In tal senso si prevede, da un canto, che gli errori che afferiscono alla denominazione o al computo della pena, possano essere rettificati dal giudice che ha emesso la sentenza di patteggiamento, e, dall’altro, che la sentenza sia censurabile in Cassazione solo “per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza”.

E’ poi eliminata la distinzione tra il patteggiamento c.d. “comune” e quello c.d. “allargato”, per il quale, in atto, non operano i benefici indicati dall’art. 445, commi 1 e 2, c.p.p..

L’intervento in itinere mantiene detti effetti ed indica in tre anni il limite massimo di pena, irrogata in concreto, che consente l’accesso al rito speciale.

Il “nuovo” patteggiamento non soffre l’esclusione in relazione a determinate categorie di reati che, per l’attuale patteggiamento allargato, è sancita dall’art. 444, comma 1-bis, c.p.p., del quale si propone l’abrogazione.

Una previsione speciale è dedicata ai procedimenti relativi a gravi reati controla Pubblica Amministrazione, prescrivendosi in specie, in adesione alle migliori prassi formatesi presso gli uffici giudiziari, che l’applicazione di pena concordata postuli necessariamente l’integrale restituzione del prezzo o del profitto del reato.

Se il patteggiamento subisce un robusto restyling, addirittura sconosciuto al nostro ordinamento è, invece, l’istituto della “sentenza di condanna su richiesta dell’imputato”, la cui genesi può farsi rinvenire nell’esigenza di sperimentare percorsi procedimentali che coniughino rapidità dell’accertamento, natura premiale e valenza di giudicato.

La richiesta di condanna, ammissibile nell’udienza preliminare, fino al momento della discussione, ovvero, in assenza di udienza preliminare, sino alla dichiarazione di apertura del dibattimento, muove dall’ammissione del fatto da parte dell’imputato, formalizzata nel corso di apposito ed immediato interrogatorio, ciò che lo abilita a chiedere di essere condannato a pena specificamente indicata in misura non superiore ad otto anni di reclusione.

Nella determinazione di tale pena, l’imputato terrà conto delle circostanze nonché della riduzione per il rito, commisurata tra un terzo e la metà della pena che sarebbe stata altrimenti fissata.

Espressione della già richiamata opzione per il c.d. “doppio binario” è l’esclusione dell’applicazione dell’istituto in un’ampia gamma di ipotesi, caratterizzate dalla gravità del reato in contestazione ovvero dalla caratura criminale dell’autore.

Al cospetto della richiesta dell’imputato e della sua confessione, il giudice è chiamato a raccogliere il pubblico ministero ed a delibare, secondo il consueto canone dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”,la sufficienza della prova in vista dell’emissione dell’invocata condanna.

Se detta verifica sortisce esito positivo e la pena indicata si palesa congrua, il giudice emette la sentenza nei termini di cui alla richiesta, statuendo, eventualmente, sull’azione civile; in caso di rigetto, il giudice dispone il giudizio abbreviato, salva la ricorrenza di una causa di immediato proscioglimento ex art. 129 c.p.p..

La sentenza sarà inappellabile per l’imputato, mentre il pubblico ministero potrà proporre gravame solo in ipotesi eccezionali.

Chiaro è l’intento di introdurre un rito in cui ad una spiccata connotazione premiale fanno dapendant, sul piano della prova, la confessione dell’imputato e, su quello processuale, la forza di giudicato e gli stringenti limiti all’appello.

Il legislatore proponente riprende, in sostanza, il sentiero già percorso con il c.d. “patteggiamento allargato”, istituto che viene contestualmente abrogato, e fa leva sulla disponibilità dell’imputato ad ammettere, anche a fronte della contestazione di crimini assai gravi, l’addebito in cambio di un altrimenti inaccessibile abbattimento della pena.

Prima facie distante rispetto alla cultura processuale oggi più diffusa, la condanna su richiesta dell’imputato è istituto la cui reale attitudine deflattiva costituisce, anche in ragione del circoscritto ambito applicativo, un’incognita.

Nel merito, non appare del tutto convincente il riconoscimento ad elemento discriminante della confessione che, in quanto incondizionato, sembra consentire il contenimento del trattamento sanzionatorio anche al cospetto di procedimenti già caratterizzati dalla assoluta solidità del quadro probatorio.

E se, in rapporto al giudizio abbreviato, tale effetto è compensato dall’inappellabilità, con riferimento, invece, al patteggiamento, il discrimine può ravvisarsi nella sola efficacia di giudicato.

Se pur appare convincente la modifica degli artt. 444 e segg. C.p.p., attraverso la ridefinizione del c.d. patteggiamento e la introduzione della nuova figura della “condanna su richiesta dell’imputato”, si rileva la opportunità di una migliore valutazione dei diritti delle persone offese, anche attraverso la previsione di un preliminare risarcimento del danno, ovvero della offerta di indonee garanzie, nella stessa logica con la quale si è provveduto in materia di corruzione laddove la applicabilità del rito alternativo presuppone la restituzione del prezzo o profitto del reato.

L’art. 15 interviene in materia di esposizione introduttiva ai fini della valutazione della prova, modificando l’art. 493 c.p.p. e proponendo un sistema simile a quello operante in epoca antecedente alla legge n. 479/1999 (c.d. legge Carotti).

La reintroduzione dell’esposizione introduttiva può essere positivamente valutata, trattandosi di attività processuale certamente utile per indirizzare l’esercizio dei poteri del giudice in relazione alla valutazione delle richieste istruttorie,exart. 190.1 e 495 c.p.p..

Con l’art. 16 si introduce, come messo in luce nella relazione di accompagnamento, «il modello legale della motivazione “in fatto” della decisione, nella quale risulti esplicito il ragionamento probatorio sull’intero spettro dell’oggetto della prova, che sia idoneo a giustificare razionalmente la decisione secondo il modello inferenziale indicato per la valutazione delle prove».

La disposizione si raccorda con la norma dell’art. 581 sulla forma dell’impugnazione ed appare idonea ad assicurare una più razionale semplificazione della procedura impugnatoria.

Il progetto di riforma dedica, poi, una serie di disposizioni alla modifica del complesso regime delle impugnazioni, che da strumento di garanzia si sono trasformate in un «percorso di ostacoli e preclusioni che compromettono l’efficienza del sistema ed assicurano impunità ».

L’art. 17 ritocca l’art. 571 c.p.p. escludendo la possibilità per l’imputato di proporre personalmente ricorso per Cassazione: evidente la finalità della norma, che opportunamente mira a riservare al solo difensore l’uso di uno strumento di gravame caratterizzato da un tasso di tecnicità particolarmente elevato scoraggiando, in funzione deflattiva, la presentazione di ricorsi meramente defatigatori e ad accelerare la formazione del giudicato.

Da analoghi fini deflattivi sono caratterizzate anche le novità introdotte dai commi 2 e 3 che modificano l’art. 591 c.p.p., disciplinando una procedura semplificata di declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, «anche d’ufficio e senza formalità», da parte del giudice a quo, in tutti i casi nei quali l’invalidità dell’atto emerga senza che siano necessarie specifiche valutazioni di tipo non oggettivo.

L’art. 18 è dedicato alla reintroduzione del “concordato anche con rinuncia ai motivi di appello”, istituto che è stato espunto dal sistema nel 2008: le disposizioni di nuovo conio ricalcano quelle originarie, fatta salva per l’esclusione, dall’ambito applicativo dell’istituto, dei “procedimenti” relativi a taluni gravi reati, oltre che di quelli contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, e per la previsione che assegna al Procuratore generale pressola Corte di Appello il compito di indicare, previa interlocuzione con i magistrati dell’ufficio ed i procuratori della Repubblica del distretto, i criteri idonei a orientare la valutazione dei magistrati del pubblico ministero nell’udienza, tenuto conto della tipologia dei reati e della complessità dei procedimenti.

L’esaltazione del ruolo del Procuratore generale in vista dell’enucleazione di criteri orientativi da applicare nella formazione dell’accordo va salutata con favore in quanto frutto di un razionale bilanciamento tra i valori in gioco, non ultimo quello dell’autonomia dei sostituti rispetto al dirigente, mentre le menzionate esclusioni oggettive e soggettive concretizzano una precisa e già segnalata opzione di fondo, suscettibile, va però rimarcato, di restringere, sul piano concreto, gli effetti benefici dell’istituto sulla mole di lavoro che grava sugli uffici di secondo grado.

L’ultimo comma dell’art. 18 recepisce, trasfondendole in puntuale dettato normativo, le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza EDU (4 giugno 2013, Hadu c. Romania) in ordine alla necessità che il giudice di appello, adito dal pubblico ministero che invochi il ribaltamento di una pronunzia assolutoria contestando la valutazione di attendibilità operata dal primo giudice con riferimento ad una prova dichiarativa, proceda, ove ritenga non manifestamente infondata l’impugnazione, alla nuova assunzione della prova orale.

Tangibile è la derivazione della regola di cui si propone l’introduzione dai principi del giusto processo, così come percepibile è, al contempo, la preoccupazione di evitare ogni anticipazione di giudizio, cui si riconnette l’ancoraggio della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale alla sussistenza di un mero fumus di fondatezza del gravame.

L’art. 19 incide profondamente sull’attuale disciplina del ricorso per Cassazione.

Con le modifiche introdotte all’art. 610 c.p.p. si intende valorizzare il contraddittorio cartolare, permettendo al ricorrente di essere meglio informato della ragione del rilievo d’inammissibilità del ricorso e di replicare con una memoria puntuale, mentre, nella prospettiva della deflazione processuale, si introduce una disciplina semplificata di dichiarazione di inammissibilità.

Coerentemente con l’analoga modifica dell’art. 571 c.p.p., si prevede che il ricorso per Cassazione sia predisposto solo da parte di un avvocato iscritto all’albo speciale; nell’intento di «scoraggiare i ricorsi meramente defatigatori» e «accelerare la formazione del giudicato», il novellato art. 616 co. 1 c.p.p. prevede la possibilità di aumentare fino al triplo l’attuale importo previsto a titolo di sanzione, per il caso di inammissibilità del ricorso.

All’art. 618 c.p.p. vengono aggiunti due commi, sì da rafforzare l’uniformità e la stabilità nomofilattica dei principi di diritto espressi dal giudice di legittimità, contribuendo a realizzare la legittima aspettativa, ormai da più parti avvertita in modo stringente, di una maggiore prevedibilità delle decisioni giudiziarie e, in ultima analisi, di una maggiore certezza del diritto, senza, al contempo, mortificare la dinamica evolutiva degli indirizzi ermeneutici, che trae linfe dai contributi delle sezioni semplici della Corte di Cassazione, oltre che, naturalmente, da quelli dei giudici di merito.

A ciò sia aggiunga che la previsione di cui al comma 1-terrisponde, altresì, ad un principio di economicità degli strumenti processuali, consentendo alle Sezioni Unite di enunciare il principio di diritto applicabile anche nell’ipotesi in cui il ricorso sia diventato inammissibile per cause sopravvenute, ovvero senza necessità di attendere l’eventuale successivo pertinente caso concreto.

Sono previste, ancora, norme di semplificazione e deflazione attraverso interventi ulteriori sul giudizio in cassazione, ampliando la possibilità di evitare il giudizio di rinvio in caso di annullamento quando esso possa essere ritenuto superfluo, di accedere al procedimento correttivo di errore materiale, anche in maniera officiosa.

L’art. 20 interviene sull’istituto della “rescissione del giudicato”, attivabile dal condannato (o sottoposto a misura di sicurezza) in absentia il quale provi che l’assenza è stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo ed introdotto dalla legge n. 67/2014.

L’innovazione che si propone, consistente nello spostamento della competenza dalla Corte di Cassazione alla Corte di Appello, appare in linea con il rilievo che la disamina della richiesta di rescissione comporta la cognizione di profili esclusivamente di merito.

Tra le norme del Titolo III merita menzione l’art. 23, rubricato “Modifiche al decreto legislativo 20 febbraio 2006, n.106, in materia di poteri di controllo del Procuratore della Repubblica e di contenuti della relazione al Procuratore generale pressola Corte di Cassazione”, con cui vengono apportati alcuni cambiamenti alle disposizioni relative all’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero.

In particolare, al fine di rafforzare la vigilanza, preventiva e successiva, da parte del Procuratore della Repubblica in ordine alla corretta osservanza delle disposizioni che regolano il momento dell’iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 del cod. proc. pen., viene stabilito, con la modifica del comma 2 dell’art. 1, che tra gli obblighi che egli deve assolvere vi sia anche quello di assicurare, accanto al corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale ed al rispetto delle norme sul giusto processo da parte del suo ufficio vi sia anche quello di garantire“l’osservanza delle disposizioni relative all’iscrizione delle notizie di reato”.

Allo stesso fine è altresì stabilito, con la modifica dell’art. 6 del D.Lgs. n. 106/2006, che siano acquisiti dati e notizie ad opera del Procuratore generale nell’ambito dei suoi poteri di vigilanza.

6. Le deleghe legislative in materia processuale 

L’art. 25 del disegno di legge determina “Principi e criteri direttivi per la riforma del processo penale in materia di intercettazione di conversazioni o comunicazioni e di giudizi di impugnazione”.

La norma, ai fini dell’esercizio della delega di cui all’art. 24, individua due macro aree d’intervento, cioè, da un lato, la materia delle intercettazioni ed acquisizioni di tabulati telefonici, anche ai fini dei reati controla Pubblica Amministrazione, e, dall’altro, il tema delle impugnazioni penali.

Circa la tecnica legislativa prescelta, vi è da segnalare un certo margine di genericità dell’oggetto e soprattutto dei criteri assegnati al legislatore delegato, aspetto che, al di là di ogni altra valutazione critica, impedisce, allo stato, un’adeguata valutazione del portato effettivo della riforma, dato che il contenuto precettivo sostanziale è devoluto in larga parte alle future eventuali disposizioni delegate.

a) Le intercettazioni.

Quanto al primo delicato ambito di delega, il disegno di legge prescrive che i decreti  prevedano disposizioni dirette a garantire la riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni telefoniche e telematiche oggetto di intercettazione, in conformità all’articolo 15 della Costituzione. Ciò attraverso prescrizioni che incidano anche sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle captazioni e che diano una precisa scansione procedimentale all’udienza di selezione del materiale intercettativo, avendo speciale riguardo alla tutela della riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni delle persone occasionalmente coinvolte nel procedimento, in particolare dei difensori nei colloqui con l’assistito, e delle comunicazioni comunque non rilevanti a fini di giustizia penale.

La norma è chiaramente volta a realizzare una migliore conformazione della disciplina vigente in tema d’intercettazioni telefoniche rispetto alla libertà di cui all’art. 15 Cost., quale ampliamento e precisazione del fondamentale principio di inviolabilità della persona umana, sanzionato dall’articolo 13 Cost., garantendo una delle forme più dirette ed immediate di collegamento della persona con il mondo esterno.

Il legislatore delegante, alla lettera a) del primo comma dell’art. 25, hainteso occuparsi del profilo della tutela della privacy, ben recependo le indicazioni fornite nel passato dalla Corte Costituzionale, che ha da tempo[6] chiarito che l’obbligo del segreto sulle comunicazioni irrilevanti ai fini del procedimento rientra nel perimetro rimesso alla riserva di legge di cui all’art. 15.

Il disegno di legge non prevede interventi di riduzione del campo di applicazione dello strumento investigativo delle intercettazioni delineato dall’assetto normativo vigente, ma semmai indicazioni di ampliamento con riguardo ad indagini relative ai reati commessi nell’ambito delle pubbliche amministrazioni (vedi infra).

Il tema oggetto di approfondimento e di riflessione dell’art. 25, lett. a), del ddl in esame attiene più specificatamente ai contenuti pubblicabili degli esiti della attività di captazione di conversazioni o di messaggi telematici in un sistema che deve tutelare la privacy dei cittadini senza rinunciare alla libertà di informazione alla base della società democratica.

Le soluzioni dovranno, quindi, tenere conto della diversità dei contenuti della attività di intercettazione (di valenza processuale; processualmente irrilevanti ma di interesse pubblico sotto il profilo politico-sociale; di valenza strettamente personale) e della differente natura processuale dei soggetti coinvolti nella comunicazione (indagati e non indagati; testimoni di fatti processualmente rilevanti), nonché dei tempi di pubblicazione rispetto alle dinamiche procedimentali.

Il dibattito pubblico oggi propone diverse opzioni, alla luce della tipologia dei contenuti e dei soggetti coinvolti nella comunicazione captata, che si pongono alla attenzione del legislatore delegato.

Vi è chi ipotizza soluzioni estreme secondo cui i contenuti delle intercettazioni non sarebbero mai pubblicabili se non per sintesi. Ciò varrebbe per ogni contenuto e per ogni tipo di interlocutore, anche quando i testi sono presenti in una ordinanza cautelare o in altro atto giudiziario, con previsione addirittura di sanzioni detentive per i giornalisti che violano tale divieto. Un simile orientamento sembra oltremodo penalizzante per la libertà di informazione e, quindi, per la possibilità del cittadino di conoscere nei dettagli fatti di rilievo penale che coinvolgono uomini e vicende di interesse pubblico.

Altri propongono una soluzione intermedia, che nella fase delle indagini preliminari consente la pubblicazione solo dei contenuti delle conversazioni intercettate inseriti in una ordinanza cautelare o in altro atto giudiziario, con una opzione orientata verso la valenza processuale della informazione che si rende nota.

I più “permissivi”, molti dei quali riconducibili alla categoria dei giornalisti, propendono per una conservazione dell’attuale disciplina normativa che collega alla ostensibilità degli atti processuali la pubblicazione dei contenuti delle intercettazioni.

E’ evidente che le questioni attingono una dimensione che esorbita dal piano della mera disciplina degli atti processuali, impegnando il tema più generale e di vasto respiro – emerso in plurime vicende di indagini per reati afferenti la pubblica amministrazione – della determinazione delle fonti e degli strumenti di informazione utilizzabili per  l’articolazione del dibattito civile necessario per nutrire la coscienza critica in ordine all’esercizio dei poteri pubblici, in cui si esprime l’effettiva partecipazione dei cittadini al tessuto democratico delle istituzioni. A tale proposito sono note le argomentazioni di chi sostiene che qualsiasi informazione concernente l’agire dei titolari di poteri pubblici – anche se priva di rilievo penale ma relativa a condotte espressive di opzioni morali, sociali o di costume – meriti di essere conosciuta per consentire ai cittadini di esprimere opinioni basate su un dibattito pubblico effettivo per consentire la consapevole espressione della partecipazione democratica. Ad esse si oppone che gli strumenti del processo penale, per la loro formidabile capacità intrusiva, realizzano eccezioni dei fondamentali principi costituzionali posti a tutela della riservatezza individuale, giustificabili solo in ragione delle preminenti esigenze di repressione delle condotte di reato. La diffusione delle informazioni acquisite attraverso di esse altera la fisiologia del sistema democratico di creazione della conoscenza pubblica, travolgendo i meccanismi fisiologici dell’informazione per il dibattito, trasferendo ingiustamente al di fuori dei rigorosi confini del circuito della giustizia penale moduli procedimentali eccezionali di carattere coercitivo ed autoritari che, in quanto pregiudizievoli delle prerogative individuali, dovrebbero essere confinati agli ambiti per cui sono stati creati.

Il rischio generale è di attribuire, in maniera più o meno consapevole, all’azione giudiziaria penale poteri e funzioni che esorbitano dalla mera repressione dei reati, per assumere caratteri e finalità di generale ed ampio controllo sociale, attingendo anche agli ambiti del giudizio politico, etico e morale che le sono, in ragione dei fondamentali principi costituzionali di frammentarietà, sussidiarietà, specialità e tassatività dell’intervento repressivo,  ontologicamente estranei.

Ora, è bene tener conto che questo Consiglio Superiore ha più volte[7] espresso il proprio parere su precedenti disegni di legge in materia di intercettazioni, ribadendo alcune precise traiettorie interpretative, su cui conviene soffermarsi sinteticamente, trattandosi di canoni valutativi ben estensibili al caso di specie.

Intanto, l’Organo di governo autonomo ha sempre sostenuto l’esigenza di “un utilizzo equilibrato di strumenti invasivi di investigazione quali sono le intercettazioni telefoniche e “ambientali”.[8].

D’altra parte, nella medesima deliberazione il Consiglio ha convintamente sostenuto che “in nessun caso il timore di una possibile impropria diffusione dei risultati delle intercettazioni può giustificare l’adozione di regole che ostacolano o limitano il pieno e necessario utilizzo processuale di quei risultati”.

Resta da ribadire, in ordine al nuovo futuro articolato delegato, che se spetta certamente al legislatore fornire indicazioni o stabilire regole volte ad escludere ogni forma impropria di utilizzo degli atti in nome della riservatezza, qualsiasi misura precettiva attuativa dei predetti criteri dovrà essere sempre valutata con grande prudenza ed accuratezza vista la pluralità di interessi in gioco, tutti di rango costituzionale.

Si deve inoltre affermare che qualsiasi adempimento o formalità deve risolversi in un onere sostenibile da parte dell’ufficio, cioè debba risultare compatibile con la limitatezza delle risorse e con la possibilità di un’efficace gestione del procedimento e del servizio nel suo complesso. Invero, “la tradizionale tendenza del nostro legislatore a non farsi carico delle ricadute sulla operatività del servizio provocate dalle regole di nuova introduzione trova oggi un limite nella lettura moderna dell’art. 97 e nel disposto dell’art. 111 della Costituzione, disposizione quest’ultima che mira ad un corretto bilanciamento fra le esigenze del “giusto processo” e quella di “ragionevole durata” del processo”[9].

Fornita così la cornice critica di riferimento, resta da chiarire qualche ulteriore aspetto relativo alle singole previsioni inserite nella citata lettera a).

Certamente condivisibile è la scelta di affrontare uno degli aspetti più controversi in materia, cioè quello riguardante il momento in cui effettuare la selezione e la trascrizione delle conversazioni intercettate, dato che opera essenzialmente qui il rischio di indebite propalazioni di comunicazioni irrilevanti ai fini delle indagini, ma lesive della riservatezza dell’imputato o di terzi su circostanze estranee al processo.

In tale direzione, un intervento di riforma inteso a imporre una chiara sequenza temporale tra conclusione delle operazioni di intercettazione, deposito di verbali e registrazioni, “udienza stralcio” e perizia trascrittiva potrebbe ben scongiurare il rischio di diffusione di notizie irrilevanti per il processo, assicurare la tutela della privacy e consentire l’immediato esercizio del diritto di difesa.

Corretto è l’intento del legislatore di assegnare specifico rilievo alla tutela dei cittadini non indagati che abbiano avuto contatti con soggetti sottoposti ad intercettazione ed alla protezione di quel perimetro assolutamente confidenziale e riservato costituito dai colloqui difensivi.

Alla lettera b) dell’art. 25, il disegno di legge delega il Governo a “prevedere la semplificazione delle condizioni per l’impiego delle intercettazioni delle conversazioni e delle comunicazioni telefoniche e telematiche nei procedimenti per i più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”.

Il legislatore intende, pertanto, stabilire requisiti meno stringenti per il ricorso alle intercettazioni in vista della migliore repressione dei più gravi reati degli intranei controla P.A., ciò che appare ben condivisibile tenuto conto dei livelli di assoluta gravità che il fenomeno della corruzione ha assunto nel nostro Paese, al pari di altri ambiti criminali pure soggetti allo slargamento delle possibilità investigative sulle comunicazioni.

Infine, alla lettera c) della medesima norma, la delega così viene articolata: “prevedere la garanzia giurisdizionale per l’acquisizione dei dati relativi al traffico telefonico, telematico e informatico, nonché il potere d’intervento d’urgenza del pubblico ministero, in conformità alla disciplina prevista per le intercettazioni di comunicazioni e conversazioni telefoniche”.

La norma è riferita all’attività di acquisizione dei dati estrinseci delle comunicazioni telefoniche, inerenti cioè all’utenza chiamante e all’utenza chiamata, alla data, ora, durata e luogo della conversazione. Quanto alle comunicazioni telematiche, i dati si riferiscono alle tracce lasciate dagli utenti sui servers: identità dei clienti, data e durata dell’allacciamento in rete e servizio richiesto.

L’intervento di riforma appare più che mai opportuno, tenuto conto che la Corte Costituzionale(sentt. nn. 81/1993, 281/1998, 372/2006) ha ricompreso anche i dati esteriori delle comunicazioni nell’alveo dell’art. 15 Cost.[10].

Dunque, la riserva di giurisdizione viene ora ritenuta operante anche con riguardo ai cd. dati estrinseci.

Rimane certamente auspicabile che il legislatore delegato realizzi un sistema garantistico ben coordinato con la vigente disciplina in tema di riservatezza[11]. Con la riforma in oggetto l’attribuzione del potere acquisitivo sarà rimessa al giudice, salvo l’intervento del P.M in casi di urgenza.

Ora, tenuto conto che il primo intervento legislativo in materia si è avuto con il D.Lgs. n. 171/1998, che all’art. 4 aveva previsto un obbligo di conservazione dei dati a carico del fornitore del servizio, successivamente, il D.L. n. 354/2003, poi convertito nella legge n. 45/2004, aveva attribuito al giudice il potere acquisitivo, e che tale regime normativo è stato modificato con l’assegnazione al Pubblico ministero di tale funzione, ad opera del D.L. n. 144/2005, convertito nella legge n. 155/2005, sarebbe opportuna una definitiva stabilizzazione dell’assetto delle competenze in materia.

b) Il regime delle impugnazioni.

Alle lettere da d) ad l) del primo comma dell’art. 25, il disegno di legge definisce principi e criteri direttivi per la delega legislativa in tema di impugnazioni penali.

La riforma si muove su tre linee di fondo: limitazione della possibilità di ricorrere per Cassazione, restrizione dei casi di appellabilità delle sentenze e definizione di norme processuali a scopo deflattivo e semplificativo del giudizio di gravame.

In via di prima approssimazione, è quasi pleonastico rilevare che ormai da tempo la materia delle impugnazioni penali è oggetto di specifica attenzione nel dibattito politico e giuridico[12], senza tuttavia che si siano ad oggi raggiunti approdi di diritto positivo soddisfacenti.

L’ormai ciclico dibattito su questo tema sconta, evidentemente, l’oggettiva difficoltà di coniugare esigenze ordinamentali contrapposte, quali la necessità di contingentare i tempi irragionevoli del processo ed arginare l’abuso degli strumenti processuali, con il bisogno di assicurare piena garanzia ai diritti delle parti e di pervenire ad una decisione finale “giusta“.

Peraltro, il progresso scientifico che ha fatto del contraddittorio il metodo principe di formazione della prova ha messo in dubbio l’opportunità di mantenere un tipo di appello, in grado di sostituirsi all’accertamento di primo grado, senza oralità e senza immediatezza.

Il progetto riformatore del sistema delle impugnazioni penali delineato nel disegno di legge n. 2798 non assurge sicuramente a grande manovra di riforma strutturale del sistema delle impugnazioni.

E’ chiaro, infatti, che il legislatore non ha inteso rivedere in maniera approfondita l’impianto processuale penale in materia, limitandosi ad ammodernarne solo alcune parti isolate.

E ciò potrebbe indurre riflessioni critiche non tanto sulla scelta di conservare il disegno di fondo ponendo mani ad una mera microchirurgia d’interventi, quanto sulla probabilità che da un siffatto modus operandis caturiscano, come spesso avviene[13], incoerenze e distonie che di certo potrebbero inquinare l’armonia del sistema nel suo insieme.

Infatti, la strategia della parcellizzazione è sì rapida ed incisiva, ma può non tener conto del fatto che il momento di controllo della sentenza difficilmente può essere disgiunto dal modo con cui il percorso decisorio complessivo si sviluppa.

Tanto premesso, la filosofia di fondo che anima la riforma merita sicuro apprezzamento nella misura in cui la medesima dovrebbe, con adeguata organicità e razionalità, riallineare le norme processuali allo scopo primario della celerità della risposta giudiziaria. L’art. 111 Cost. codifica, infatti, accanto a quelli dell'”oralità” e dell'”immediatezza”, il fondamentale principio della “ragionevole durata del processo”, che da tempo sollecita spinte innovative immediatamente incidenti sulla velocizzazione e razionalizzazione del processo penale. 

In tale direzione, le previsioni del disegno di legge intese a restringere il perimetro di appellabilità delle sentenze penali ben potrebbero soddisfare – a seguito di un’adeguata attuazione della delega – il canone costituzionale di un processo “giusto”, cioè oltre che garantista, anche efficiente.

L’obiettivo di snellimento e accelerazione viene perseguito dal legislatore delegante tanto sul piano della legittimazione soggettiva quanto su quello dell’appellabilità oggettiva.

Non sembra essere stata invece recepita l’indicazione della Consulta (cfr. sentenza n. 85/2008) sull’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento su contravvenzioni punite con la sola ammenda o pena alternativa.

Né risulta invece recepito lo spunto, pur emerso nel dibattito sul tema, di eliminazione di quel vincolo ai poteri decisori del giudice costituito dal divieto di reformatio in peius, con ogni considerazione che ne può seguire.

Sul versante dei limiti oggettivi di appellabilità, va richiamata la previsione di cui alla lettera h) della proponibilità dell’appello solo per uno o più motivi tassativamente previsti e con onere d’indicazione specifica delle eventuali prove da rinnovare. Parimenti, la lettera i) introduce la previsione legale di limiti di proponibilità dell’appello incidentale. La lettera l) richiede infine la previsione di un’udienza camerale per la declaratoria d’inammissibilità dell’appello.

La disposizione merita particolare attenzione in quanto intende definitivamente superare il carattere “universale” del gravame, espungendo l’effetto, sino ad oggi, tendenzialmente devolutivo dell’impugnazione.

La ristrutturazione del giudizio di seconde cure quale grado destinato al mero controllo della decisione acquisita dovrebbe trovare fondamento nella tipizzazione dei motivi di appello, numerus clausus, quale condizione di proponibilità.

E’ evidente la potenzialità che l’innovazione potrebbe rivestire in termini di snellimento ed accelerazione, considerato che la tassatività dei petita dovrebbe scongiurare appelli omnibus volti alla revisio prioris instantia e, rafforzando l’essenza impugnatoria del secondo grado ed in qualche maniera avvicinandolo al giudizio di cassazione.

I criteri di cristallizzazione positiva di tali motivi, filtro di accesso in appello, rimangono imprecisati nel disegno di legge e ciò, a parte ogni considerazione critica sui contenuti minimi che la  legge delega dovrebbe in ipotesi avere, rende impossibile sviluppare sul punto – in sé pur molto rilevante – ogni altro rilievo più approfondito.

Infine, merita menzione la lettera d) del medesimo art. 25 dedicata al giudizio di legittimità, con la previsione della possibilità di impugnare per cassazione soltanto per violazione di legge sia la sentenza che conferma la pronuncia di assoluzione di primo grado, individuando i casi in cui possa affermarsi la conformità delle due decisioni di merito, sia le sentenze emesse in grado di appello nei procedimenti di competenza del giudice di pace.

La misura appare certamente apprezzabile in quanto tende ad arginare l’alluvionale massa di ricorsi di cuila Corteè annualmente investita, circostanza questa che non solo provoca effetti negativi in termini di carichi insostenibili di lavoro e di durata dei processi, ma che può incidere anche sulla funzione nomofilattica della Suprema Corte.

Con formula piuttosto vaga, il D.D.L. prevede che spetterà al legislatore delegato individuare i requisiti perché la doppia assoluzione possa essere considerata duplice decisione conforme, verosimilmente riferendosi alle ragioni giuridiche che sostengono nei due gradi di merito la sentenza di proscioglimento. Profili di criticità potrebbero rilevarsi con riguardo alla disparità dei poteri impugnatori della parte privata e di quella pubblica di fronte alla stessa fattispecie processuale (doppia conforme), anche tenuto conto della giurisprudenza costituzionale formatasi sulla disciplina della legge n. 46/2006.

Quanto invece ai procedimenti dinanzi al giudice di pace, il legislatore equipara i poteri processuali di entrambe le parti rispetto ad ipotesi di reati di non particolare gravità, per le quali risulta esaustivo assicurare una cognizione estesa al doppio grado di merito ed al controllo di legittimità.»

Il presente parere viene trasmesso al Ministro della Giustizia.


[1] Si tratta di reati di furto con violenza sulle cose, ovvero con destrezza o sul bagaglio di viaggiatori, nonché di introduzione o abbandono di animali nel fondo altrui e pascolo abusivo e di uccisione o danneggiamento di animali altrui, che, nella fattispecie incriminatrice di base, sono comunque perseguibili a querela.

[2] Per un analitico e puntuale esame della questione, in riferimento alle diverse tipologie di confisca, si veda Cass. Penale Sez Un. 29 maggio 2014 (depositata 29 luglio 2014) n. 33451.

[3] Cfr., in particolare, le sentenze della Corte EDU, 20 gennaio 2009, Sud Fondi c. Italia e 29 ottobre 2011, Varvara

[4] E’ utile ricordare che analoga previsione è già prevista in materia di confisca di prevenzione. D’altra parte, proprio la peculiarità del procedimento di prevenzione, che non postula l’accertamento di responsabilità penali individuali, è stata utilizzata dalla Corte Costituzionale quale argomento per escluderne dubbi di compatibilità conla Carta (sent. n. 21 del 2012).

[5] Tra le altre, si vedano Cass Pen., Sez. III, 20 maggio 2014, n. 24860, Cass. Pen., Sez. III, 11 marzo 2014, n. 23965.

[6] nella nota sentenza n. 34/1973.

[7] Oltre al parere di seguito citato, si segnalano le più recenti delibere 17 febbraio 2009 e 21 dicembre 2006.

[8] Deliberazione del 9 febbraio 2006, avente ad oggetto “Nota in data 17 settembre 2005 del Ministro della Giustizia, con la quale trasmette, per il parere, copia del disegno di legge, approvato dal Consiglio dei Ministri il 9 settembre 2005, concernente:Disposizioni in materia di intercettazioni telefoniche ed ambientali e di pubblicità degli atti del fascicolo del pubblico ministero e del difensore”.

[9] Ult. cit..

[10] La pronuncia n. 81 cit. ha però mancato di estendere la disciplina delle intercettazioni telefoniche ai tabulati, ritenendo piuttosto applicabile l’art. 256 c.p.p. relativo all’acquisizione di documenti coperti dal segreto professionale (ad analoghe conclusioni è giuntala Corte EDU nella pronuncia Malone c. Royaume Uni [1984]).

[11] Si consideri, infatti, che attualmente l’acquisizione dei dati esteriori delle comunicazioni è regolata dall’art. 132 del D.Lgs. n. 196/2003 (c.d. codice dellaprivacy, così come modificato dal D.L. n. 144/2005 convertito dalla legge n. 155 del 2005) che prevede un obbligo di conservazione di 24 mesi per i dati esteriori di comunicazioni telefoniche e di 12 mesi per le comunicazioni telematiche, prorogabili dal giudice rispettivamente per altri 24 e 6 mesi per indagini relative a reati di particolare gravità già individuati dall’art. 407 II comma lett. a) c.p.p. I dati possono essere acquisiti con decreto motivato del P.M. se la richiesta avviene nella prima scansione temporale; qualora invece l’acquisizione si riferisca a materiale più risalente, sarà necessario l’intervento acquisitivo del giudice. Un meccanismo “a doppio binario” che si è discostato sino ad oggi dal modello disegnato dal legislatore per le intercettazioni telefoniche per il mero intervento del P.M..

[12] La letteratura scientifica sul tema è sterminata. Una ricognizione recente delle questioni è contenuta in Bargis Marta; Belluta Hervé,Impugnazioni penali. Assestamenti del sistema e prospettive di riforma, Giappichelli, 2013.        

[13] Si pensi alle complicazioni interpretative e giudiziarie scaturite dalla legge n. 46/2006.

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Pratica num. 1/PA/2015 – Nota pervenuta in data 27 gennaio 2015 dal Ministro della Giustizia che trasmette, per il parere, il testo del disegno di legge concernente: “Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore contrasto al fenomeno corruttivo, oltre che all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena.”

Comunico che il Consiglio Superiore della Magistratura, nella seduta del 20 maggio 2015, ha adottato la seguente delibera:

«Premessa.

Il disegno di legge n. 2798 intende riformare alcune parti significative del sistema penale con l’obiettivo di rafforzare le garanzie difensive, assicurare la ragionevole durata dei processi, intensificare il contrasto alla corruzione e incidere sull’ordinamento penitenziario per rendere effettivi percorsi di reinserimento sociale dei condannati e di accesso alle misure alternative alla detenzione.

La proposta di legge coinvolge anche l’istituto della prescrizione, limitatamente all’art. 159 c.p., e tradisce una nitida scelta di campo a fronte del ricco e vivace dibattito in argomento, su cui si sta cimentando la platea dei giuristi e la stessa opinione pubblica.

Nel complesso, il disegno di legge in esame viene a connotarsi per l’estrema varietà degli interventi di natura penal-sostanziale e processuale, alcuni dei quali effettuati attraverso disposizioni di immediata applicazione, altri nella forma dei progetti di legge-delega (ad es. in tema di intercettazioni).

Come più volte segnalato anche dal Consiglio superiore della magistratura, gli ambiziosi obiettivi indicati nella relazione a corredo del disegno di legge andrebbero perseguiti da interventi organici di ben altra intensità, data la crisi gravissima in cui versa la giustizia penale del nostro paese, crisi che attiene a differenti ambiti operativi, tra loro strettamente interconnessi.

A) Il diritto penale sostanziale

Il nostro diritto penale sostanziale, a causa del susseguirsi di interventi normativi spesso ispirati ad una logica emergenziale, nel tempo ha dilatato a dismisura il catalogo dei reati e l’ intensità della risposta repressiva. Ciò si è peraltro realizzato, in maniera prevalente, in settori interessati dalla c.d. criminalità di strada e dai fenomeni connessi all’uso di sostanze stupefacenti, piuttosto che nell’ambito della criminalità economica e contro la pubblica amministrazione, rispetto ai quali si constata una assoluta inadeguatezza della risposta repressiva, anche per la mancanza di adeguati interventi sul sistema economico, sulla pubblica amministrazione e sul relativo regime dei controlli, che dovrebbero essere preliminari ad ogni ipotesi di revisione dell’intervento penalistico.

Alla dilatazione dei dispositivi di controllo penale nei settori più sensibili alle sollecitazioni securitarie ha, per un verso, corrisposto un marcatissimo incremento del carico giudiziario, con effetti di sostanziale incapacità di smaltimento dello stesso da parte del sistema processuale e la conseguente attribuzione all’istituto della prescrizione di una patologica funzione di mantenimento degli equilibri del sistema penale, in specie per i reati in materia ambientale o contro la pubblica amministrazione, in relazione ai quali si è registrata una estrema difficoltà a pervenire ad un effettivo vaglio sulla responsabilità.

Sul versante del diritto sostanziale, a fronte di un catalogo di reati dal carattere ipertrofico, andrebbe effettuata, con assunzione di responsabilità del Parlamento, una selezione delle condotte realmente meritevoli di determinare la risposta penale, che secondo il dettato costituzionale, dovrebbe connotarsi come extrema ratio.

Allo stato, invece, questa operazione viene sostanzialmente affidata alla sola giurisprudenza mediante l’istituto della “particolare tenuità del fatto” introdotto dal decreto legislativo n.28 del 2015, che –  se costituisce un utile strumento di selezione delle condotte nel caso concreto meritevoli di punizione, in ossequio al principio di offensività  – non realizza quella necessaria assunzione di responsabilità del legislatore nelle scelte di valore sottese al sistema penale che, soltanto, può effettivamente incidere sugli indirizzi generali della giurisdizione, anche sotto il profilo deflattivo. E ciò, anche perché l’accertamento della tenuità del fatto nella singola fattispecie comporta comunque procedura laboriosa che difficilmente si tradurrà in una effettiva riduzione dell’impegno giudiziario e che, d’altro canto, potrebbe determinare trattamenti diversificati per condotte analoghe nei diversi ambiti nazionali.

Con riferimento poi al profilo più strettamente sanzionatorio, occorrerebbe superare la persistente centralità della pena carceraria, potenziando l’utilizzo di misure repressive di tipo ablativo, prescrittivo ed interdittivo quali pene principali, e con la previsione della possibilità di applicare sanzioni alternative al carcere da parte del giudice della cognizione. E bisognerebbe altresì addivenire alla implementazione di un sistema di restorative justice fondato sugli istituti tipici della giustizia riparativa e della mediazione penale, già esistenti nel processo minorile e nel rito del giudice di pace come solo in parte il disegno di legge in esame si propone di fare.

B) Il processo penale.

Sul piano processuale si attende una riforma in grado di effettuare una profonda revisione del codice di rito, attualmente connotato dalla presenza di adempimenti defatiganti, solo apparentemente rispondenti a finalità di garanzia ed in realtà prevalentemente formali, nonché alla riforma organica di un regime delle impugnazioni che – unitamente ai tempi di prescrizione assai brevi previsti per alcuni tipi di reati e ad un sistema del patrocinio a spese dello Stato divenuto sempre più centrale in tempi di grave e persistente generale crisi economica – incentiva la proliferazione dei ricorsi, contribuendo a comporre un carico processuale responsabile dei tempi inadeguati della giustizia penale.

Su questo versante le novità proposte dal disegno di legge n. 2798 rappresentano un primo promettente segnale con riguardo alle disposizioni in materia di riti speciali, udienza preliminare, archiviazione e regime delle impugnazioni, ma non decisive per la risoluzione delle suddette questioni.

Per coltivare concretamente il valore della durata ragionevole del processo,  probabilmente sono necessari interventi di dettaglio su istituti specifici fonte di criticità procedimentali che contribuiscono alla complessiva scarsa razionalità e funzionalità del sistema.

Così, sarebbe opportuno rivedere la disciplina delle notifiche penali, valorizzando gli strumenti informatici e semplificando gli oneri di comunicazione talvolta caratterizzati da un approccio di formalistica sovrabbondanza, rafforzando l’affermazione degli oneri di correttezza e di partecipazione leale dei privati.

Anche il processo a carico di imputati irreperibili, recentemente riformato, appare ancora caratterizzato da un eccesso di rigidità formale che rischia di frustrarne l’effetto deflattivo.

Bisognerebbe riconsiderare la regola che impone la rinnovazione delle prove già assunte in caso di mutamento della persona fisica del giudice che appare scarsamente coerente con un processo solo parzialmente orientato al rito accusatorio, è incompatibile con l’enorme numero di processi pendenti ed è fonte di gravi criticità in sedi giudiziarie caratterizzate da scoperture ed elevato ricambio di magistrati. A tal fine potrebbe generalizzarsi l’applicabilità della disciplina stabilita dall’art. 190 bis c.p.p. per i soli reati di più grave allarme sociale.

Andrebbe inoltre rivista la disciplina sul patrocinio a spese dello Stato.

Attualmente, l’elevatissimo numero di patrocinatori presenti nel nostro Paese, senza eguali rispetto ad altri stati europei ad esso assimilabili, costituisce un elemento moltiplicatore di alcune attività giudiziarie, in specie con riferimento alle impugnazioni.

Le concorrenti esigenze di assicurare adeguata difesa alle parti processuali sprovviste di idonei mezzi finanziari e patrimoniali e di evitare non necessari appesantimenti dell’attività processuale, oltre che di contenere gli esborsi per l’Erario, potrebbero essere tutelate mediante l’istituzione di un ruolo stabile di avvocati, dipendenti pubblici, cui affidare la cura delle parti prive di sufficienti risorse. La natura pubblica dell’organo e la previsione di meccanismi retributivi non esclusivamente parametrati alle prestazioni erogate dovrebbe impedire fenomeni di ingiustificata proliferazione del contenzioso, con un sicuro risparmio di risorse economiche e giudiziarie; a tal fine, potrebbe assumersi a modello l’esperienza nordamericana.

C) L’esecuzione penale

Per altro verso, andrebbe riscritto l’assetto dell’esecuzione penale, oggi ancora prevalentemente incentrato sulla costosa ed economicamente ormai insostenibile opzione carcero-centrica del Codice Rocco, con uno spazio ancora limitato per le sanzioni alternative alla pena carceraria. Su questo tema, in effetti, il disegno di legge in esame si limita a fissare una serie di principi e criteri direttivi (art. 26) per una risistemazione organica dell’ordinamento penitenziario, che sarà oggetto di approfondimento in una separata delibera.

Le disposizioni del disegno di legge.

1. La riparazione del danno

Il titolo I contiene proposte di modifica del diritto sostanziale, finalizzate a rendere il sistema penale più adeguato all’obbiettivo di una giustizia snella, funzionale ed efficace, con l’introduzione di misure orientate, da un lato, a selezionare le vicende che – dal punto di vista delle istanze di tutela dell’ordinamento, e delle finalità retributive e preventive della pena – richiedano effettivamente il dispiegamento integrale delle risorse processuali di accertamento e sanzione ordinarie e, dall’altro, ad offrire un apparato ordinamentale idoneo a rendere effettiva la sanzione delle condotte meritevoli di punizione.

Al primo obbiettivo sono dedicati gli artt. 1 e 2 che, operando sul piano sostanziale delle cause di estinzione del reato, individuano, in relazione a certe tipologie di reato, una nuova fattispecie di definizione della vicenda che garantisca l’eliminazione del disvalore sociale della condotta con modalità alternative alla sanzione penale, con i vantaggi di deflazione processuale conseguenti al venir meno della necessità del pieno accertamento. L’istituto pare ispirato dal dibattito, sempre più diffuso in dottrina e radicato nell’attenzione dei legislatori, sulle modalità alternative di definizione dei procedimenti penali, secondo i canoni della cd. “giustizia riparativa”.

Nell’ottica descritta, l’innovazione deve essere salutata con favore, affiancandosi, in un percorso omogeneo di revisione del sistema penale, all’istituto, di più ampia portata, della messa alla prova generalizzato con la recente legge n. 67 del 2014.

L’approccio culturale rimanda ai sistemi di Restorative Justice che attribuiscono a condotte riparative del reo l’effetto di attenuare o di escludere la responsabilità o, ancora, di incidere sulle modalità di espiazione della pena, in una prospettiva in cui l’intervento penale si giustifica quale extrema ratio che, indirettamente, favorisce obbiettivi ulteriori, quali l’economia processuale e, in ulteriore analisi, la riduzione della popolazione carceraria.

Il disegno di legge all’art. 1 propone, dunque, l’introduzione dell’art. 162-ter del codice penale, che prevede l’estinzione del reato quando l’imputato abbia riparato il danno dal medesimo cagionato, mediante le restituzioni o il risarcimento, ed abbia eliminato le sue conseguenze dannose o pericolose.

Il presupposto dogmatico generale, largamente condiviso, è quello che nessuna utilità sociale generale né individuale può essere riconosciuta alla sanzione penale quando, sul piano delle conseguenze obbiettive, ogni effetto pregiudizievole della condotta vietata sia stato rimosso, e sul piano soggettivo, il reo abbia dimostrato, per comportamenti concludenti, una seria volontà di riabilitazione. La giustificazione teorica, appena esposta, spiega la limitazione dell’istituto ai reati perseguibili a querela e con querela rimettibile, in cui, cioè, l’interesse protetto sia fortemente individualizzato nella persona offesa che è per legge arbitro della percorribilità processuale della sua punizione.

Proprio nell’ottica della verifica in concreto della ricorrenza delle ragioni sostanziali che giustificano la rinuncia alla punizione, la norma prescrive che prima di decidere il giudice senta le parti del processo. Naturalmente deve ritenersi che non sia necessario, per dare corso alla dichiarazione di estinzione del reato, l’esplicito assenso della persona offesa; ciò perché, se la volontà della vittima fosse condizione indispensabile per la pronuncia si finirebbe per non riconoscere al nuovo istituto un ambito di significativa applicazione ulteriore rispetto a quello consentito dalla remissione della querela, prevista come autonoma causa di estinzione dall’art. 152 c.p..

La formulazione letterale della norma sembra escludere ogni discrezionalità del giudice, tenuto adichiarare l’estinzione del reato ogni qualvolta sia stata accertata l’intervenuta effettiva riparazione integrale.

E’ introdotto inoltre l’art. 649-bisdel codice penale, che ammette la pronuncia dell’estinzione del reato per intervenuta riparazione del danno in alcune fattispecie di reato la cui procedibilità non dipende dalla querela della persona offesa. Si tratta di ipotesi di reato contro il patrimonio in cui, d’altra parte, per l’oggetto e le modalità della condotta, il legislatore ha ritenuto comunque una caratterizzazione fortemente individuale dell’interesse protetto[1].

2. Le misure di contrasto alla corruzione dal ddl n.2798 al ddl n.19

La proposta di legge in esame affronta pure il tema del contrasto alla corruzione, con l’obiettivo di superare le lacune e le incertezze interpretative dell’assetto normativo che scaturivano dalla legge n.190 del 2012.

Il disegno di legge n.2798, tuttavia, limitandosi a proporre l’aumento della pena edittale prevista per il reato di corruzione attraverso le disposizioni di cui all’art.3, appariva inidoneo a rendere più efficace la strategia complessiva di repressione di una delle principali emergenze di inquinamento del tessuto istituzionale e civile del Paese.

Come evidenziato da una pluralità di fonti sovranazionali, la materia del contrasto alla corruzione richiede interventi organici e di “sistema” su ciascuno degli inscindibili nessi tra il piano amministrativo, quello istituzionale, quello penale sostanziale, nonché sugli strumenti investigativi e sui modelli processuali. Mentre il ddl n.2798 rinuncia a nuove previsioni su pene accessorie, corruzione tra privati, premialità per chi collabora con l’autorità giudiziaria,testdi integrità, riti speciali, falso in bilancio ed evasione fiscale; versanti sui quali gli esperti del settore da anni auspicano una riforma della legislazione interna sulla scia delle direttive della Convenzione Europea per la lotta alla corruzione siglata a Strasburgo nel 1999, anche con la firma dell’Italia .

Viceversa sullo specifico tema del contrasto alla corruzione, si registra ora una concreta inversione di tendenza, rispetto anche al recente passato, nella più articolata proposta di legge recante il n. 19 (rubricata “Disposizioni in materia di corruzione, voto di scambio, falso in bilancio e riciclaggio”,in cui sono state riunite quelle nn. 657, 711, 810, 846, 847, 851 e 868), di cui si tiene conto in questa parte del parere.

Detta proposta, che non si limita ad inglobare la disposizione sugli aumenti di pena prevista dall’art.3 del d.d.l. n.2798 ma prevede positive novità su più fronti, è stata approvata in data 1 aprile 2015 dal Senato della Repubblica ed in atto è pendente presso la Camera dei Deputati.

Un primo significativo passo in avanti il d.d.l. n. 19  lo propone sul versante della  premialità da accordare a chi collabora con l’autorità giudiziaria laddove siano ravvisabili condotte che integrano la fattispecie di corruzione, attraverso l’introduzione di una attenuante ad effetto speciale.

Da anni si sostiene che sarebbe auspicabile l’elaborazione, anche sul piano penale, di un meccanismo di tutela per coloro che, non essendo pubblici ufficiali e prima che sia iniziato un procedimento penale, denuncino fatti di corruzione.  

In ogni caso, la premialità per chi denuncia in sede penale la corruzione, senza voler optare per soluzioni radicali di non punibilità – come pure previsto in altri Paesi -, può acquisire i connotati di un’attenuante speciale, significativa sul piano sanzionatorio, ancorandone il riconoscimento in modo specifico alla rilevanza e novità della collaborazione prestata.

Ebbene, proprio in tale prospettiva si muove opportunamente la proposta di legge 19, laddove  prevede che, per il reato di corruzione, chi collabora con l’autorità giudiziaria può ottenere uno sconto di pena variabile tra un terzo e la metà,  come stabilito da anni per la criminalità di stampo mafioso.

Un passo avanti lo si registra anche nell’intervento del ddl n. 19 sui reati “connessi” alla corruzione, in particolare il falso in bilancio, coltivando una prospettiva già presente nel nostro sistema penale in epoca antecedente alla riforma del 2002.

Come suggerito anche dalle fonti sovranazionali, è necessario aggredire le condotte di reato connesse al fenomeno corruttivo, quali il falso in bilancio e l’evasione fiscale – che consente di acquisire la provvista economica per l’attività di corruzione – orientando la normativa nel senso di perseguire la piena tracciabilità delle transazioni finanziarie.

Le disposizioni del ddl n.19 ripropongono la perseguibilità d’ufficio e un adeguato carico sanzionatorio (da tre a otto anni di reclusione) per il reato di falso in bilancio, ma solo per le società quotate in borsa. Mentre per le società non quotate in borsa la pena è prevista una pena da 1 a 5 anni di reclusione, con evidenti ripercussioni sul versante della ricerca della prova, dal momento che il massimo edittale non consente di esperire l’attività di intercettazione.

Va, poi, salutata con favore pure la disposizione, presente nel ddl n.19 S,  secondo la quale il corrotto per accedere al rito alternativo del patteggiamento e per godere della sospensione della pena deve necessariamente restituire il maltolto.

Tuttavia, nel perseguire una opzione strategica ancor più efficace nel contrasto alla corruzione e di maggiore organicità sistemica, i positivi passi avanti del ddl. n.19 andrebbero completati con ulteriori interventi del legislatore non solo sul piano delle pene accessorie, della disciplina della corruzione tra privati, della introduzione deltestdi integrità, ma anche sul piano amministrativo delle persone giuridiche e sulle misure relative al rientro dei capitali dall’estero.

Tornando al disegno di legge n. 19, votato al Senato il 1 aprile 2015, in esso non si riscontra alcun intervento sull’attuale assetto normativo sulla voluntary disclosure  (rientro di capitali dall’estero, previsto dalla legge 15.12.2014 n. 186), che impedisce su tali fatti indagini anche per riciclaggio, per cui molte condotte (transazioni economiche legate a vicende corruttive) restano opache.

E anche sul piano amministrativo delle persone giuridiche, non si è dato seguito alle indicazioni del GRECO (Gruppo di Stati contro la corruzione), laddove ha fatto presente che il sistema contabile italiano non ottempera ai requisiti previsti dalla convenzione penale sulla corruzione e dalla convenzione civile sulla corruzione del Consiglio d’Europa. Questo si palesa, in particolare, con riguardo alle condizioni/soglie di responsabilità, alla copertura limitata dei requisiti in materia di revisione dei conti (circoscritta alle società quotate in Borsa, alle aziende statali e alle imprese di assicurazione), alla determinazione delle pene e alle disposizioni relative agli autori del reato di falso in bilancio.

Si aggiunga che il fenomeno corruttivo alligna maggiormente nelle procedure di gestione della spesa pubblica (autorizzazioni, concessioni, attività di pianificazione urbanistica, scelta del contraente in procedure di affidamento, erogazioni di sovvenzioni, finanziamenti, ecc.), in relazione alle quali, correttamente, la legge n. 190/2012 impone che i piani anticorruzione contengano specifiche misure preventive.

D’altra parte, il contrasto al fenomeno corruttivo è reso più difficile dal crescente ricorso a procedure di tipo privatistico che azzerano o rendono estremamente difficile ogni possibilità di controllo; e sotto questo profilo il ddl n. 19 non colma le lacune evidenziate a livello applicativo dalla legge n.190 del 2012.

Gli esperti della materia segnalano sul punto come sia ineludibile un pieno contrasto della corruzione in campo privato, proprio per garantire la trasparenza dei meccanismi di gestione di spesa per la realizzazione, da parte di privati, di servizi d’interesse pubblico. Tale questione si collega a quella dell’inidoneità delle categorie penalistiche a fronte della crescente privatizzazione dell’attività della Pubblica Amministrazione.

Le disposizioni di cui alla legge n. 190/2012 non definiscono in modo abbastanza ampio le cariche dirigenziali che possono mettere in gioco la responsabilità dell’impresa per reati di corruzione commessi dai relativi titolari, né prevedono la responsabilità nei casi di carenza di sorveglianza. Il regime sanzionatorio applicabile alle persone giuridiche non sembra essere sufficientemente dissuasivo,

Le attuali disposizioni sulla corruzione tra privati appaiono eccessivamente limitate e restringono il campo di applicazione alle categorie di dirigenti del settore privato cui il reato è imputabile. I procedimenti sono peraltro su querela della persona offesa e non ex officio, salvo se derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi.

A tal proposito, appare utile sottolineare l’importanza di un articolato intervento di riforma sulla fattispecie incriminatrice di corruzione tra privati che non si riscontra nel d.d.l. n. 19, che non contiene previsioni in grado di  trasformare il reato di corruzione tra privati in reato di pericolo e non di danno, con la conseguente eliminazione della punibilità a querela. Invero, solo con quella modifica normativa potrebbe estendersi la repressione della corruzione in campo privatistico venendo meno il requisito del “nocumento” alla società che oggi deve derivare dalla condotta corruttiva ed il reato in esame avrebbe come unico bene giuridico tutelato quello della concorrenza.

Inoltre, sul piano investigativo e processuale, il d.d.l. n. 19 non ha dato corso alle direttive della convenzione di Strasburgo in materia di contrasto alla corruzione del 1999 nella parte in cui  prevedono l’introduzione del test di integrità, ossia l’estensione dell’istituto dell’agente provocatore già previsto per reati di mafia e il traffico di stupefacenti alla materia dei reati contro la pubblica amministrazione, rinunciando ad un utile strumento di accertamento dei fatti peraltro approvato da anni in altri ordinamenti quale il sistema statunitense.

Infine, proprio sul piano strettamente sanzionatorio, andrebbe ripensato l’intero sistema delle pene accessorie, prevedendo come obbligatoria l’interdizione perpetua per ogni fattispecie corruttiva e introducendo una disposizione speciale che non consenta la sospensione quantomeno di questa peculiare ipotesi di pena accessoria. Anche su questo versante il ddl n.19 tace.

Conclusivamente, ad avviso del Consiglio superiore della magistratura, solo una determinazione senza riserve ed una azione coordinata di tutte le risorse dello Stato possono invertire una deteriore tendenza alla dissipazione della cosa pubblica che influisce in maniera pregiudizievole ed apparentemente ineluttabile sui meccanismi di funzionamento dello Stato fino a metterne in discussione gli stessi fondamenti di legittimazione democratica, rafforzando forme differenti di crimine organizzato e indebolendo radicalmente il tessuto di solidarietà indispensabile a mantenere i vincoli di cittadinanza enucleati nella Costituzione. In questa prospettiva il segnalati positivi interventi del d.d.l. 19 potrebbero essere opportunamente integrati da specifiche misure peraltro ampiamente indicate dalle fonti internazionali sopra menzionate.

3. Le innovazioni in materia di confisca allargata

Il testo di legge modifica la disciplina della confisca allargata prevista dall’art 12-sexies del D.L. 8 giugno 1992, allo scopo di ampliarne l’ambito di applicazione e la concreta effettività.

La misura viene estesa a tutti i reati contemplati dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., sì da ricomprendere taluni delitti fino ad ora esclusi, tra i quali i reati di associazione diretta a commettere reati sessuali in danni di minori, le attività organizzate per il traffico di rifiuti, l’associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri. Più in generale, il rinvio normativo induce a ritenere che qualsiasi futura modifica del catalogo contenuto nella norma richiamata automaticamente ope legis provocherà l’ampliamento dell’ambito di applicabilità della misura patrimoniale.

Sono poi oggetto di specifica precisazione aggiuntiva alcuni reati per i quali la misura patrimoniale non è prevista nella disciplina vigente, quali i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale.

Degna di attenzione è l’integrazione della norma con la previsione all’ultimo comma della preclusione per il condannato della possibilità di giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che le risorse siano provento o reimpiego di evasione fiscale.

La disposizione è evidentemente posta a definire una questione interpretativa specifica  oggetto di dibattito in dottrina e giurisprudenza, che finora ha visto emergere soluzioni differenziate in ragione anche della specificità della tipologia di confisca utilizzata[2].

Il legislatore ha ritenuto così di stabilire in via generale ed astratta la risposta interpretativa più rigorosa che finora, nell’ambito della confisca allargata, non aveva trovato il favore della giurisprudenza dominante, allo scopo di rendere l’applicazione dell’istituto più severa ed effettiva.

Meritevole di menzione è altresì l’integrazione del comma 2-ter dell’art. 12-sexies citato, con cui si precisa che la confisca per equivalente può estendersi anche alle utilità di legittima provenienza delle quali il condannato abbia la disponibilità.

Dopo alcune abrogazioni giustificate da motivi di coordinamento normativo e la previsione della garanzia della tutela dei terzi eventualmente titolari di diritti sui beni sequestrati attraverso la citazione nel processo di cognizione, l’art. 4  stabilisce, introducendo il comma 4-sexies dell’art. 12- sexies, che la confisca allargata, ad eccezione di quella per equivalente, può essere pronunciata anche quando il reato sia dichiarato estinto per prescrizione o per amnistia in sede di impugnazione, ove vi sia stata condanna in uno dei gradi di giudizio, purché il giudice del gravame, ai soli effetti della confisca, abbia accertato la responsabilità dell’imputato.

La norma intende adeguare il sistema normativo nazionale alla giurisprudenza nazionale e sovranazionale[3], che ha sancito l’illegittimità della sanzione patrimoniale consistente nella definitiva ablazione dei beni, ove non si sia pervenuti all’accertamento nel merito – nel rispetto dei diritti di difesa dell’imputato – della responsabilità per il reato contestato.

Nel caso in cui intervenga la morte del soggetto nei cui confronti sia stata disposta la confisca, solo nell’ipotesi in cui essa sia stata pronunciata con sentenza definitiva il procedimento può avere corso in sede esecutiva nei confronti degli eredi ed aventi causa (nuovo comma 4-septiesdell’art. 12-sexies). Anche quest’ultima  disposizione serve a chiarire una questione interpretativa ed applicativa controversa in dottrina e oggetto di difformi soluzioni giurisprudenziali[4].

Giova, ancora, considerare che, nella persistenza di indirizzi interpretativi critici in relazione ad entrambe le questioni oggetto dell’intervento legislativo,[5] è da ultimo intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n. 49/2015 – depositata il 26 marzo 2015 – che ha sostanzialmente ratificato la correttezza della soluzione individuata dal legislatore.

4. La disciplina della prescrizione

Il disegno di legge propone inoltre una modifica dell’istituto della prescrizione, prevedendo una parentesi di sospensione onde consentire ai giudizi di impugnazione di potersi tenere, senza il rischio che medio tempore sopravvenga la causa di estinzione del reato per vano decorso del tempo. I periodi di sospensione sono commisurati in due anni per il giudizio di appello ed in un anno per quello di legittimità. E’, altresì, previsto che la parentesi di sospensione operi sempre che il relativo giudizio impugnatorio si concluda con una sentenza di condanna e non di assoluzione, con l’avvertenza, però, che, in caso in cui il giudice decida di assolvere l’imputato, non potrà prendere in considerazione l’opzione di dichiarare prescritto il reato, proprio perché, come leggesi nella relazione esplicativa, prima della pronuncia della sentenza di riforma o di annullamento quel computo è precluso.

Si tratta indubbiamente di un passo avanti significativo, iscrivendosi in unapiù generale rivisitazione dell’istituto della prescrizione, che, prescindendo da interventi settoriali volti all’allungamento dei termini per alcune figure di reato che toccano interessi particolarmente sensibili, giunga ad una sua riforma organica.

In questa ottica di riforma, tuttavia, ancora più convincente sarebbe una previsione di definitivo arresto del decorso del termine prescrizionale una volta che sia stata esercitata l’azione penale o, almeno, sia stata pronunciata la sentenza di primo grado.

Dal punto di vista dogmatico, infatti, la stessa giustificazione teorica dell’istituto – prolungato disinteresse dello Stato alla punizione della condotta vietata – appare inconciliabile con l’esistenza in fase avanzata di un procedimento o, addirittura, del processo finalizzato all’accertamento ed alla punizione.

Sotto il profilo pratico effettuale, poi, la circostanza che l’effettiva punizione di un reato che lo Stato abbia dimostrato di volere perseguire dipenda dai tempi in cui in concreto sia svolta la necessaria attività processuale – e quindi dalle condizioni materiali di lavoro dell’ufficio giudiziario nel suo complesso e del magistrato o dei magistrati coinvolti – introduce il rischio di obbiettiva ed ingiustificabile discriminazione per cui per il medesimo fatto può arrivarsi o meno ad un accertamento definitivo ed alla sanzione in dipendenza dei tempi tecnici possibili nel luogo in cui è stato commesso, e quindi della maggiore o minore dotazione organica, delle risorse materiali disponibili e dei carichi di lavoro degli uffici che se ne occupino.

Con il risultato, peraltro, ampiamente noto e numerose volte già denunciato, della dissipazione di enormi risorse umane e materiali a causa dell’impegno investigativo, procedimentale e processuale profuso dalla parte pubblica e dai privati coinvolti, per lo svolgimento di impegnative attività che a posteriori si rivelino del tutto inutili per il sopravvenire della pronuncia di estinzione del reato.

Non sfugge che, nell’attuale stato di grave difficoltà della macchina giudiziaria, la sostanziale incapacità di smaltimento dell’enorme contenzioso da parte del sistema processuale finisce per assegnare alla prescrizione una patologica funzione di mantenimento degli equilibri del sistema in specie per i reati in cui l’accertamento delle responsabilità è particolarmente complesso (si pensi alla materia ambientale o a quella dei reati contro la Pubblica Amministrazione).  E, in concreto, la tagliola della estinzione del reato costituisce un meccanismo di obbiettiva sollecitazione alla concentrazione dei tempi e degli atti processuali, nonché la garanzia di protezione dei cittadini coinvolti dal rischio di indeterminata ed indefinita pendenza del processo che rappresenta di per sé un grave pregiudizio alle prerogative individuali di onorabilità e certezza delle condizioni di vita personali.

D’altra parte, sotto i profili da ultimo indicati, deve osservarsi come l’attuale assetto normativo della prescrizione fornisca un formidabile incentivo a condotte processuali dilatorie ed ad impugnazioni pretestuose, presentate al solo scopo di lucrare la maturazione del termine estintivo. Senza dire che il venir meno della prospettiva di sfuggire alla punizione a seguito del trascorrere del tempo indurrebbe le persone sottoposte a processo a valutare seriamente i rilevanti benefici offerti dai riti alternativi che, fino ad ora, proprio in ragione della concreta possibilità di prescrizione, hanno avuto uno scarsissimo successo statistico.

In sostanza, la modifica auspicata avrebbe senz’altro un rilevante immediato effetto di deflazione del numero di processi penali in primo grado ed in sede di impugnazione, così offrendo spazi e risorse maggiori per la loro generalizzata più rapida e tempestiva definizione.

In ogni caso, la riforma proposta potrebbe essere accompagnata da misure – di natura risarcitoria ovvero orientate alla verifica dei doveri gravanti sui magistrati e sui dirigenti degli uffici giudiziari  – finalizzate a contenere i tempi complessivi del procedimento compatibili con il principio di ragionevole durata, per come declinato anche in sede sovranazionale.

 Occorrerebbe, altresì, l’ampliamento dell’elenco dei reati imprescrittibili alla luce delle nuove esigenze general-preventive.

In ogni caso, nella consapevolezza che la suindicata opzione richiederebbe una decisa rottura epistemologica con quanto sino ad ora avvenuto, la soluzione proposta nel disegno di legge – che, si nota incidentalmente, va a sovrapporsi ad altra, ispirata alla medesima filosofia, contenuta in altra iniziativa legislativa (d.d.l. n. 1844 “Modifiche al codice penale in materia di prescrizione del reato”,approvato dalla Camera dei Deputati il 24 marzo 2015 ed in atto pendente innanzi al Senato della Repubblica) – presenta alcun aspetti positivi, pur con alcuni punti di criticità che vanno di seguito enucleati.

In particolare suscita più di qualche dubbio annettere un rilievo preminente ai fini del computo del termine prescrizionale alla pronuncia intermedia piuttosto che a quella definitiva. In effetti, così ragionando si consente a pronunce possibilmente non condivise dal giudice superiore di produrre effetti sul decorso del termine prescrizionale, sebbene, appunto, ciò che in ultima analisi conta è la pronuncia definitiva. Chiaro è, altresì, il rischio di imporre la definizione accelerata dei giudizi nei quali è incorsa una pronuncia intermedia assolutoria e la postergazione di quelli nei quali il giudice di secondo grado (od anche  di legittimità) si sia pronunciato in senso sfavorevole all’imputato.

Ulteriore aporia è quella di impedire al giudice che intenda assolvere l’imputato di dichiarare la prescrizione nel frattempo intervenuta, sull’apparente, ma non reale, presupposto che, durante il corso del giudizio di secondo grado o di legittimità, la prescrizione non sia decorsa: tanto più che il deconto retroattivo del periodo di sospensione ‘processuale’ di fase  impone lo svolgimento di un’ulteriore fase processuale davanti ad un altro giudice (la corte di cassazione o il giudice d’appello o di primo grado nel caso di rinvii dalla corte di cassazione) solo per dichiarare la prescrizione automaticamente conseguente alla deliberazione ‘provvisoria’ di non responsabilità.

5. Le disposizioni processuali

Il Titolo II, dedicato a “Modifiche al codice di procedura penale”, è suddiviso in tre capi, afferenti, rispettivamente, a “Modifiche in materia di incapacità dell’imputato di partecipare al processo, di indagini preliminari e di archiviazione”, “Modifiche in materia di riti speciali, udienza preliminare, istruzione dibattimentale e struttura della sentenza di merito” e .

Le relative previsioni traggono spunto, almeno in parte, dalle proposte formulate dalle Commissioni ministeriali di studio istituite, nel 2006 e, poi, nel 2013, in vista della riforma del codice di procedura penale e presiedute, rispettivamente, dal dott. Giovanni Canzio e dal prof. Giuseppe Riccio.

Una lettura d’insieme dell’articolato consente di delinearne la filosofia di fondo, mirante ad accrescere il tasso di fluidità ed efficienza del procedimento senza intaccare i meccanismi di garanzia che, anzi, vengono in qualche caso rafforzati.

Si denota, sotto questo aspetto, il condivisibile ed ambizioso intento di discernere tra le garanzie effettive ed irrinunciabili e quelle solo apparenti che, piuttosto che soddisfare apprezzabili esigenze difensive, finiscono, nella prassi, per non realizzare altro scopo che quello di rallentare senza plausibile giustificazione  l’iterdell’accertamento giurisdizionale.

Un’altra linea di azione muove dal rilievo, divenuto ormai patrimonio comune agli operatori del diritto, che individua nell’attuale disciplina delle impugnazioni uno dei principali fattori di congestione del processo penale: alla previsione, agli artt. 24 e 25 del disegno di legge n. 2798, di apposita delega al Governo si aggiungono, al Capo III del Titolo II, non marginali innovazioni, per lo più finalizzate alla ridefinizione di compiti e modalità di intervento delle Corti di Appello e della Corte di Cassazione.

Il disegno di legge n. 2798 si propone, ancora, di ridare slancio ai riti alternativi attraverso alcune modifiche di dettaglio e, soprattutto, l’introduzione ex novo della condanna su richiesta dell’imputato e la reintroduzione del c.d. “patteggiamento in appello”.

Nel lodevole intento di trarre frutto da importanti approdi della giurisprudenza interna o sovranazionale, il testo in commento li traspone in altrettante norme di diritto positivo ovvero, comunque, mostra di volerne tener conto nell’ottica del più spedito ed efficiente andamento del processo.

Non mancano, infine, disposizioni espressive della confermata opzione per una sorta di doppio binario processuale, in forza del quale l’applicazione di istituti e norme è esclusa per i procedimenti relativi a reati di maggiore gravità ed allarme sociale.

L’art. 9 novella le disposizioni codicistiche relative alle ipotesi in cui venga accertato che l’imputato patisca una infermità mentale sopravvenuta al fatto contestato di gravità tale da impedirgli di partecipare coscientemente al procedimento.

Nell’attuale quadro normativo la protrazione di condizioni di incapacità dell’imputato per periodi assai consistenti, quantificabili in non pochi casi nell’ordine di più lustri, determina il parallelo mantenimento della pendenza a carico di soggetti sovente in stato di parziale o totale incoscienza e la necessità di eseguire, con frequenza biannuale, accertamenti peritali che comportano dispendio di risorse umane, strumentali ed economiche.

Opportunamente, il disegno di legge in commento differenzia i casi in cui lo stato di incapacità sia reversibile, per i quali viene mantenuto il regime esistente, e quelli in cui, al contrario, si pervenga ad una prognosi di segno opposto e stabilisce che, in questa seconda eventualità, il giudice revochi l’ordinanza di sospensione e pronunzi sentenza di non doversi procedere.

L’art. 10 contiene una pluralità di disposizioni, accomunate dall’incidenza sulla fase delle indagini preliminari e sul procedimento di archiviazione.

Il comma 1, ispirato alla logica del c.d. “doppio binario”, circoscrive alle ipotesi di reato più gravi l’ambito applicativo dell’istituto della dilazione dei colloqui tra il difensore e la persona sottoposta a misura detentiva cautelare o precautelare.

Volta ad evitare che l’esercizio delle prerogative difensive possa tradursi nell’ingiustificata paralisi dell’iter processuale è, invece, la disposizione contenuta nel comma 2 che stabilisce, opportunamente, che la riserva della parte privata ex comma 4 dell’art. 360 c.p.p. di promuovere incidente probatorio perda efficacia se non seguita, entro cinque giorni, dalla richiesta di incidente probatorio e che alla perdita di efficacia si accompagni la preclusione alla sua ulteriore proposizione.

Le disposizioni contenute nei commi 4, 5 e 6 concernono il procedimento di archiviazione.

Da un canto, vengono codificate le ipotesi di nullità del decreto di archiviazione individuate dalla giurisprudenza e richiamate, quanto all’ordinanza di archiviazione, le nullità già indicate dall’art. 127, comma 5, c.p.p.; dall’altro, viene introdotto uno specifico procedimento attraverso il quale la nullità dell’ordinanza può essere agilmente dedotta avanti alla Corte di Appello – anziché alla Cassazione, che viene così sgravata da compiti non connaturati alla funzione – mentre, nel caso di nullità del decreto, sarà lo stesso giudice delle indagini preliminari a rilevare il vizio con la spedita procedura ex art. 130 c.p.p..

Viene meno, in tal modo, la ricorribilità del provvedimento di archiviazione in sede di legittimità, ciò che, come chiarito dalla relazione introduttiva, non si pone in contrasto con l’art. 111, comma 7, Cost., giacché ci si trova al cospetto di atti diversi dalla sentenza e non incidenti sulla libertà personale.

L’art. 11 del D.D.L. introduce rilevanti modifiche alla disciplina dell’udienza preliminare, incidendo profondamente sulla latitudine dei poteri d’integrazione riconosciuti al giudice della fase dagli artt. 421-bis e 422 c.p.p.: in specie, è soppresso il potere del giudice dell’udienza preliminare di ordinare ulteriori indagini, ove ne ravvisi l’incompletezza, rimettendosi esclusivamente alle parti il potere di richiedere al giudice l’assunzione di prove ritenute decisive ai fini della sentenza di non luogo a procedere.

Evidente la finalità della norma, identificabile nell’apprezzabile obiettivo di restituire all’udienza preliminare il ruolo che le è proprio, ossia quello di «controllo sulla fondatezza dell’accusa nella prospettiva di una prognosi circa l’utilità del dibattimento», non può, per contro, sottacersi che l’eliminazione di ogni potere officioso del giudice dell’udienza preliminare potrebbe, in ipotesi, risultare controproducente rispetto all’auspicata finalità deflattiva. Va segnalato che il potere officioso attribuito dal vigente testo dell’art. 422 cod. proc. pen. al giudice dell’udienza preliminare consente il riequilibrio tra le posizione della parti nelle acquisizioni probatorie. L’attuale disposizione, quindi, appare fornire una maggiore tutela alle posizioni difensive, anche in considerazione del fatto che le prove da assumere sono finalizzate all’eventuale proscioglimento.

In ordine all’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere ex art. 428 c.p.p., viene attribuita al giudice di appello la competenza a decidere sul gravame; ciò, in quanto la verifica della sussistenza delle condizioni per il rinvio a giudizio dell’imputato attiene essenzialmente alla ricostruzione del fatto e al merito dell’accusa ed è tendenzialmente estranea all’ambito proprio del sindacato di legittimità.

La parte civile perde, ancora, la legittimazione a proporre impugnazione della sentenza ex art. 428 c.p.p., in dipendenza della quale «non soffre alcun pregiudizio dei propri interessi».

Infine, in caso di pronuncia di sentenza di non luogo a procedere anche in grado di appello, il ricorso per Cassazione è circoscritto alla sola violazione di legge.

Le modifiche apportate, all’art. 13,al giudizio abbreviato sono intese a coordinare l’articolazione del contraddittorio sulla richiesta di rito abbreviato con l’esercizio delle facoltà difensive.

In particolare, qualora, all’udienza preliminare, la difesa depositi i risultati delle espletate indagini difensive, si prevede che il giudice, al quale il pubblico ministero abbia chiesto un termine per svolgere indagini suppletive, posponga la decisione sino alla consumazione del concesso termine, al fine di evitare che la trasformazione del rito sia disposta senza che la pubblica accusa abbia potuto vagliare il materiale offerto dalla difesa e, eventualmente, fornire, a sua volta, ulteriori elementi di prova.

Specularmente, e coerentemente, si pone l’imputato in condizione di riconsiderare la già consacrata richiesta di giudizio abbreviato in funzione dell’integrazione probatoria effettuata dal pubblico ministero.

Sotto questo aspetto sarebbe, forse, auspicabile circoscrivere la facoltà di revoca della richiesta di giudizio abbreviato all’ipotesi in cui il pubblico ministero, dopo avere fruito del termine, abbia depositato i risultati di nuove indagini, laddove, invece, in caso contrario, non è dato apprezzarsi la sopravvenienza di elementi di novità idonei a giustificare un ripensamento dell’opzione originaria.

La seconda linea di intervento in materia di giudizio abbreviato concerne l’incidenza della richiesta di giudizio abbreviato sulla patologia dei singoli atti del processo.

Tra le altre, si segnala la questione che afferisce alla proposizione, in sede di giudizio abbreviato, di eccezione di incompetenza territoriale, in relazione alla quale viene adottata una soluzione radicale (nel senso che la richiesta di giudizio abbreviato preclude ogni questione sulla competenza per territorio del giudice), così superandosi, per espressa volontà del legislatore, il precedente indirizzo ermeneutico, che consentiva la riproposizione, in sede di giudizio abbreviato, dell’eccezione sollevata durante l’udienza preliminare ed ivi respinta.

L’art. 14 del progetto di riforma è dedicato al procedimento di applicazione della pena su richiesta delle parti ed all’istituto, di nuovo conio, della “sentenza di condanna su richiesta dell’imputato”.

Per quanto concerne il c.d. “patteggiamento”, viene, innanzitutto, delimitato il campo delle ipotesi che consentono di adire il giudice di legittimità a coloro che abbiano ottenuto l’emissione della sentenza a contenuto concordato, per impedire che i richiedenti formulino ricorsi destinati ad essere ritenuti inammissibili, all’unico e strumentale obbiettivo di posporre il passaggio in giudicato della sentenza e l’esecuzione della pena concordata.

In tal senso si prevede, da un canto, che gli errori che afferiscono alla denominazione o al computo della pena, possano essere rettificati dal giudice che ha emesso la sentenza di patteggiamento, e, dall’altro, che la sentenza sia censurabile in Cassazione solo “per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza”.

E’ poi eliminata la distinzione tra il patteggiamento c.d. “comune” e quello c.d. “allargato”, per il quale, in atto, non operano i benefici indicati dall’art. 445, commi 1 e 2, c.p.p..

L’intervento in itinere mantiene detti effetti ed indica in tre anni il limite massimo di pena, irrogata in concreto, che consente l’accesso al rito speciale.

Il “nuovo” patteggiamento non soffre l’esclusione in relazione a determinate categorie di reati che, per l’attuale patteggiamento allargato, è sancita dall’art. 444, comma 1-bis, c.p.p., del quale si propone l’abrogazione.

Una previsione speciale è dedicata ai procedimenti relativi a gravi reati contro la Pubblica Amministrazione, prescrivendosi in specie, in adesione alle migliori prassi formatesi presso gli uffici giudiziari, che l’applicazione di pena concordata postuli necessariamente l’integrale restituzione del prezzo o del profitto del reato.

Se il patteggiamento subisce un robusto restyling, addirittura sconosciuto al nostro ordinamento è, invece, l’istituto della “sentenza di condanna su richiesta dell’imputato”, la cui genesi può farsi rinvenire nell’esigenza di sperimentare percorsi procedimentali che coniughino rapidità dell’accertamento, natura premiale e valenza di giudicato.

La richiesta di condanna, ammissibile nell’udienza preliminare, fino al momento della discussione, ovvero, in assenza di udienza preliminare, sino alla dichiarazione di apertura del dibattimento, muove dall’ammissione del fatto da parte dell’imputato, formalizzata nel corso di apposito ed immediato interrogatorio, ciò che lo abilita a chiedere di essere condannato a pena specificamente indicata in misura non superiore ad otto anni di reclusione.

Nella determinazione di tale pena, l’imputato terrà conto delle circostanze nonché della riduzione per il rito, commisurata tra un terzo e la metà della pena che sarebbe stata altrimenti fissata.

Espressione della già richiamata opzione per il c.d. “doppio binario” è l’esclusione dell’applicazione dell’istituto in un’ampia gamma di ipotesi, caratterizzate dalla gravità del reato in contestazione ovvero dalla caratura criminale dell’autore.

Al cospetto della richiesta dell’imputato e della sua confessione, il giudice è chiamato a raccogliere il pubblico ministero ed a delibare, secondo il consueto canone dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, la sufficienza della prova in vista dell’emissione dell’invocata condanna.

Se detta verifica sortisce esito positivo e la pena indicata si palesa congrua, il giudice emette la sentenza nei termini di cui alla richiesta, statuendo, eventualmente, sull’azione civile; in caso di rigetto, il giudice dispone il giudizio abbreviato, salva la ricorrenza di una causa di immediato proscioglimento ex art. 129 c.p.p..

La sentenza sarà inappellabile per l’imputato, mentre il pubblico ministero potrà proporre gravame solo in ipotesi eccezionali.

Chiaro è l’intento di introdurre un rito in cui ad una spiccata connotazione premiale fanno dapendant, sul piano della prova, la confessione dell’imputato e, su quello processuale, la forza di giudicato e gli stringenti limiti all’appello.

Il legislatore proponente riprende, in sostanza, il sentiero già percorso con il c.d. “patteggiamento allargato”, istituto che viene contestualmente abrogato, e fa leva sulla disponibilità dell’imputato ad ammettere, anche a fronte della contestazione di crimini assai gravi, l’addebito in cambio di un altrimenti inaccessibile abbattimento della pena.

Prima facie distante rispetto alla cultura processuale oggi più diffusa, la condanna su richiesta dell’imputato è istituto la cui reale attitudine deflattiva costituisce, anche in ragione del circoscritto ambito applicativo, un’incognita.

Nel merito, non appare del tutto convincente il riconoscimento ad elemento discriminante della confessione che, in quanto incondizionato, sembra consentire il contenimento del trattamento sanzionatorio anche al cospetto di procedimenti già caratterizzati dalla assoluta solidità del quadro probatorio.

E se, in rapporto al giudizio abbreviato, tale effetto è compensato dall’inappellabilità, con riferimento, invece, al patteggiamento, il discrimine può ravvisarsi nella sola efficacia di giudicato.

Se pur appare convincente la modifica degli artt. 444 e segg. C.p.p., attraverso la ridefinizione del c.d. patteggiamento e la introduzione della nuova figura della “condanna su richiesta dell’imputato”, si rileva la opportunità di una migliore valutazione dei diritti delle persone offese, anche attraverso la previsione di un preliminare risarcimento del danno, ovvero della offerta di indonee garanzie, nella stessa logica con la quale si è provveduto in materia di corruzione laddove la applicabilità del rito alternativo presuppone la restituzione del prezzo o profitto del reato.

L’art. 15 interviene in materia di esposizione introduttiva ai fini della valutazione della prova, modificando l’art. 493 c.p.p. e proponendo un sistema simile a quello operante in epoca antecedente alla legge n. 479/1999 (c.d. legge Carotti).

La reintroduzione dell’esposizione introduttiva può essere positivamente valutata, trattandosi di attività processuale certamente utile per indirizzare l’esercizio dei poteri del giudice in relazione alla valutazione delle richieste istruttorie,exart. 190.1 e 495 c.p.p..

Con l’art. 16 si introduce, come messo in luce nella relazione di accompagnamento, «il modello legale della  motivazione “in fatto” della decisione, nella quale risulti esplicito il ragionamento probatorio sull’intero spettro dell’oggetto della prova, che sia idoneo a giustificare razionalmente la decisione secondo il modello inferenziale indicato per la valutazione delle prove».

La disposizione si raccorda con la norma dell’art. 581 sulla forma dell’impugnazione ed appare idonea ad assicurare una più razionale semplificazione della procedura impugnatoria.

Il progetto di riforma dedica, poi, una serie di disposizioni alla modifica del complesso regime delle impugnazioni, che da strumento di garanzia si sono trasformate in un «percorso di ostacoli e preclusioni che compromettono l’efficienza del sistema ed assicurano impunità».

L’art. 17 ritocca l’art. 571 c.p.p. escludendo la possibilità per l’imputato di proporre personalmente ricorso per Cassazione: evidente la finalità della norma, che opportunamente mira a riservare al solo difensore l’uso di uno strumento di gravame caratterizzato da un tasso di tecnicità particolarmente elevato scoraggiando, in funzione deflattiva, la presentazione di ricorsi meramente defatigatori e ad accelerare la formazione del giudicato.

Da analoghi fini deflattivi sono caratterizzate anche le novità introdotte dai commi 2 e 3 che modificano l’art. 591 c.p.p., disciplinando una procedura semplificata di declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, «anche d’ufficio e senza formalità», da parte del giudice a quo, in tutti i casi nei quali l’invalidità dell’atto emerga senza che siano necessarie specifiche valutazioni di tipo non oggettivo.

L’art. 18 è dedicato alla reintroduzione del “concordato anche con rinuncia ai motivi di appello”, istituto che è stato espunto dal sistema nel 2008: le disposizioni di nuovo conio ricalcano quelle originarie, fatta salva per l’esclusione, dall’ambito applicativo dell’istituto, dei “procedimenti” relativi a taluni gravi reati, oltre che di quelli contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, e per la previsione che assegna al Procuratore generale presso la Corte di Appello il compito di indicare, previa interlocuzione con i magistrati dell’ufficio ed i procuratori della Repubblica del distretto, i criteri idonei a orientare la valutazione dei magistrati del pubblico ministero nell’udienza, tenuto conto della tipologia dei reati e della complessità dei procedimenti.

L’esaltazione del ruolo del Procuratore generale in vista dell’enucleazione di criteri orientativi da applicare nella formazione dell’accordo va salutata con favore in quanto frutto di un razionale bilanciamento tra i valori in gioco, non ultimo quello dell’autonomia dei sostituti rispetto al dirigente, mentre le menzionate esclusioni oggettive e soggettive concretizzano una precisa e già segnalata opzione di fondo, suscettibile, va però rimarcato, di restringere, sul piano concreto, gli effetti benefici dell’istituto sulla mole di lavoro che grava sugli uffici di secondo grado.

L’ultimo comma dell’art. 18 recepisce, trasfondendole in puntuale dettato normativo, le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza EDU (4 giugno 2013, Hadu c. Romania) in ordine alla necessità che il giudice di appello, adito dal pubblico ministero che invochi il ribaltamento di una pronunzia assolutoria contestando la valutazione di attendibilità operata dal primo giudice con riferimento ad una prova dichiarativa, proceda, ove ritenga non manifestamente infondata l’impugnazione, alla nuova assunzione della prova orale.

Tangibile è la derivazione della regola di cui si propone l’introduzione dai principi del giusto processo, così come percepibile è, al contempo, la preoccupazione di evitare ogni anticipazione di giudizio, cui si riconnette l’ancoraggio della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale alla sussistenza di un mero fumus di fondatezza del gravame.

L’art. 19 incide profondamente sull’attuale disciplina del ricorso per Cassazione.

Con le modifiche introdotte all’art. 610 c.p.p. si intende valorizzare il contraddittorio cartolare, permettendo al ricorrente di essere meglio informato della ragione del rilievo d’inammissibilità del ricorso e di replicare con una memoria puntuale, mentre, nella prospettiva della deflazione processuale, si introduce una disciplina semplificata di dichiarazione di inammissibilità.

Coerentemente con l’analoga modifica dell’art. 571 c.p.p., si prevede che il ricorso per Cassazione sia predisposto solo da parte di un avvocato iscritto all’albo speciale; nell’intento di «scoraggiare i ricorsi meramente defatigatori» e «accelerare la formazione del giudicato», il novellato art. 616 co. 1 c.p.p. prevede la possibilità di aumentare fino al triplo l’attuale importo previsto a titolo di sanzione, per il caso di inammissibilità del ricorso.

All’art. 618 c.p.p. vengono aggiunti due commi, sì da rafforzare l’uniformità e la stabilità nomofilattica dei principi di diritto espressi dal giudice di legittimità, contribuendo a realizzare la legittima aspettativa, ormai da più parti avvertita in modo stringente, di una maggiore prevedibilità delle decisioni giudiziarie e, in ultima analisi, di una maggiore certezza del diritto, senza, al contempo, mortificare la dinamica evolutiva degli indirizzi ermeneutici, che trae linfe dai contributi delle sezioni semplici della Corte di Cassazione, oltre che, naturalmente, da quelli dei giudici di merito.

A ciò sia aggiunga che la previsione di cui al comma 1-terrisponde, altresì, ad un principio di economicità degli strumenti processuali, consentendo alle Sezioni Unite di enunciare il principio di diritto applicabile anche nell’ipotesi in cui il ricorso sia diventato inammissibile per cause sopravvenute, ovvero senza necessità di attendere l’eventuale successivo pertinente caso concreto.

Sono previste, ancora, norme di semplificazione e deflazione attraverso interventi ulteriori sul giudizio in cassazione, ampliando la possibilità di evitare il giudizio di rinvio in caso di annullamento quando esso possa essere ritenuto superfluo, di accedere al procedimento correttivo di errore materiale, anche in maniera officiosa.

L’art. 20  interviene sull’istituto della “rescissione del giudicato”, attivabile dal condannato (o sottoposto a misura di sicurezza) in absentia il quale provi che l’assenza è stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo ed introdotto dalla legge n. 67/2014.

L’innovazione che si propone, consistente nello spostamento della competenza dalla Corte di Cassazione alla Corte di Appello, appare in linea con il rilievo che la disamina della richiesta di rescissione comporta la cognizione di profili esclusivamente di merito.

Tra le norme del Titolo III merita menzione l’art. 23, rubricato “Modifiche al decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, in materia di poteri di controllo del Procuratore della Repubblica e di contenuti della relazione al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione”, con cui vengono apportati alcuni cambiamenti alle disposizioni relative all’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero.

In particolare, al fine di rafforzare la vigilanza, preventiva e successiva, da parte del Procuratore della Repubblica in ordine alla corretta osservanza delle disposizioni che regolano il momento dell’iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 del cod. proc. pen., viene stabilito, con la modifica del comma 2 dell’art. 1, che tra gli obblighi che egli deve assolvere vi sia anche quello di assicurare, accanto al corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale ed al rispetto delle norme sul giusto processo da parte del suo ufficio vi sia anche quello di garantire“l’osservanza delle disposizioni relative all’iscrizione delle notizie di reato”.

Allo stesso fine è altresì stabilito, con la modifica dell’art. 6 del D.Lgs. n. 106/2006, che siano acquisiti dati e notizie ad opera del Procuratore generale nell’ambito dei suoi poteri di vigilanza.

6. Le deleghe legislative in materia processuale 

L’art. 25del disegno di legge determina “Principi e criteri direttivi per la riforma del processo penale in materia di intercettazione di conversazioni o comunicazioni e di giudizi di impugnazione”.

La norma, ai fini dell’esercizio della delega di cui all’art. 24, individua due macro aree d’intervento, cioè, da un lato, la materia delle intercettazioni ed acquisizioni di tabulati telefonici, anche ai fini dei reati contro la Pubblica Amministrazione, e, dall’altro, il tema delle impugnazioni penali.

Circa la tecnica legislativa prescelta, vi è da segnalare un certo margine di genericità dell’oggetto e soprattutto dei criteri assegnati al legislatore delegato, aspetto che, al di là di ogni altra valutazione critica, impedisce, allo stato, un’adeguata valutazione del portato effettivo della riforma, dato che il contenuto precettivo sostanziale è devoluto in larga parte alle future eventuali disposizioni delegate.

a) Le intercettazioni.

Quanto al primo delicato ambito di delega, il disegno di legge prescrive che i decreti  prevedano disposizioni dirette a garantire la riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni telefoniche e telematiche oggetto di intercettazione, in conformità all’articolo 15 della Costituzione. Ciò attraverso prescrizioni che incidano anche sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle captazioni e che diano una precisa scansione procedimentale all’udienza di selezione del materiale intercettativo, avendo speciale riguardo alla tutela della riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni delle persone occasionalmente coinvolte nel procedimento, in particolare dei difensori nei colloqui con l’assistito, e delle comunicazioni comunque non rilevanti a fini di giustizia penale.

La norma è chiaramente volta a realizzare una migliore conformazione della disciplina vigente in tema d’intercettazioni telefoniche rispetto alla libertà di cui all’art. 15 Cost., quale ampliamento e precisazione del fondamentale principio di inviolabilità della persona umana, sanzionato dall’articolo 13 Cost., garantendo una delle forme più dirette ed immediate di collegamento della persona con il mondo esterno.

Il legislatore delegante, alla lettera a) del primo comma dell’art. 25, ha inteso occuparsi del profilo della tutela della privacy, ben recependo le indicazioni fornite nel passato dalla Corte Costituzionale, che ha da tempo[6] chiarito che l’obbligo del segreto sulle comunicazioni irrilevanti ai fini del procedimento rientra nel perimetro rimesso alla riserva di legge di cui all’art. 15.

Il disegno di legge non prevede interventi di riduzione del campo di applicazione dello strumento investigativo delle intercettazioni delineato dall’assetto normativo vigente, ma semmai indicazioni di ampliamento con riguardo ad indagini relative ai reati commessi nell’ambito delle pubbliche amministrazioni (vedi infra).

Il tema oggetto di approfondimento e di riflessione dell’art. 25, lett. a), del ddl in esame attiene più specificatamente ai contenuti pubblicabili degli esiti della attività di captazione di conversazioni o di messaggi telematici in un sistema che deve tutelare la privacy dei cittadini senza rinunciare alla libertà di informazione alla base della società democratica.

Le soluzioni dovranno, quindi, tenere conto della diversità dei contenuti della attività di intercettazione (di valenza processuale; processualmente irrilevanti ma di interesse pubblico sotto il profilo politico-sociale; di valenza strettamente personale) e della differente natura processuale dei soggetti coinvolti nella comunicazione (indagati e non indagati; testimoni di fatti processualmente rilevanti), nonché dei tempi di pubblicazione rispetto alle dinamiche procedimentali.

Il dibattito pubblico oggi propone diverse opzioni, alla luce della tipologia dei contenuti e dei soggetti coinvolti nella comunicazione captata, che si pongono alla attenzione del legislatore delegato.

Vi è chi ipotizza soluzioni estreme secondo cui i contenuti delle intercettazioni non sarebbero mai pubblicabili se non per sintesi. Ciò varrebbe per ogni contenuto e per ogni tipo di interlocutore, anche quando i testi sono presenti in una ordinanza cautelare o in altro atto giudiziario, con previsione addirittura di sanzioni detentive per i giornalisti che violano tale divieto. Un simile orientamento sembra oltremodo penalizzante per la libertà di informazione e, quindi, per la possibilità del cittadino di conoscere nei dettagli fatti di rilievo penale che coinvolgono uomini e vicende di interesse pubblico.

Altri propongono una soluzione intermedia, che nella fase delle indagini preliminari consente la pubblicazione solo dei contenuti delle conversazioni intercettate inseriti in una ordinanza cautelare o in altro atto giudiziario, con una opzione orientata verso la valenza processuale della informazione che si rende nota.

I più “permissivi”, molti dei quali riconducibili alla categoria dei giornalisti, propendono per una conservazione dell’attuale disciplina normativa che collega alla ostensibilità degli atti processuali la pubblicazione dei contenuti delle intercettazioni.

E’ evidente che le questioni attingono una dimensione che esorbita dal piano della mera disciplina degli atti processuali, impegnando il tema più generale e di vasto respiro – emerso in plurime vicende di indagini per reati afferenti la pubblica amministrazione – della determinazione delle fonti e degli strumenti di informazione utilizzabili per  l’articolazione del dibattito civile necessario per nutrire la coscienza critica in ordine all’esercizio dei poteri pubblici, in cui si esprime l’effettiva partecipazione dei cittadini al tessuto democratico delle istituzioni. A tale proposito sono note le argomentazioni di chi sostiene che qualsiasi informazione concernente l’agire dei titolari di poteri pubblici – anche se priva di rilievo penale ma relativa a condotte espressive di opzioni morali, sociali o di costume – meriti di essere conosciuta per consentire ai cittadini di esprimere opinioni basate su un dibattito pubblico effettivo per consentire la consapevole espressione della partecipazione democratica. Ad esse si oppone che gli strumenti del processo penale, per la loro formidabile capacità intrusiva, realizzano eccezioni dei fondamentali principi costituzionali posti a tutela della riservatezza individuale, giustificabili solo in ragione delle preminenti esigenze di repressione delle condotte di reato. La diffusione delle informazioni acquisite attraverso di esse altera la fisiologia del sistema democratico di creazione della conoscenza pubblica, travolgendo i meccanismi fisiologici dell’informazione per il dibattito, trasferendo ingiustamente al di fuori dei rigorosi confini del circuito della giustizia penale moduli procedimentali eccezionali di carattere coercitivo ed autoritari che, in quanto pregiudizievoli delle prerogative individuali, dovrebbero essere confinati agli ambiti per cui sono stati creati.

Il rischio generale è di attribuire, in maniera più o meno consapevole, all’azione giudiziaria penale poteri e funzioni che esorbitano dalla mera repressione dei reati, per assumere caratteri e finalità di generale ed ampio controllo sociale, attingendo anche agli ambiti del giudizio politico, etico e morale che le sono, in ragione dei fondamentali principi costituzionali di frammentarietà, sussidiarietà, specialità e tassatività dell’intervento repressivo,  ontologicamente estranei.

Ora, è bene tener conto che questo Consiglio Superiore ha più volte[7] espresso il proprio parere su precedenti disegni di legge in materia di intercettazioni, ribadendo alcune precise traiettorie interpretative, su cui conviene soffermarsi sinteticamente, trattandosi di canoni valutativi ben estensibili al caso di specie.

Intanto, l’Organo di governo autonomo ha sempre sostenuto l’esigenza di “un utilizzo equilibrato di strumenti invasivi di investigazione quali sono le intercettazioni telefoniche e “ambientali”.[8].

D’altra parte, nella medesima deliberazione il Consiglio ha convintamente sostenuto che “in nessun caso il timore di una possibile impropria diffusione dei risultati delle intercettazioni può giustificare l’adozione di regole che ostacolano o limitano il pieno e necessario utilizzo processuale di quei risultati”.

Resta da ribadire, in ordine al nuovo futuro articolato delegato, che se spetta certamente al legislatore fornire indicazioni o stabilire regole volte ad escludere ogni forma impropria di utilizzo degli atti in nome della riservatezza, qualsiasi misura precettiva attuativa dei predetti criteri dovrà essere sempre valutata con grande prudenza ed accuratezza vista la pluralità di interessi in gioco, tutti di rango costituzionale.

Si deve inoltre affermare che qualsiasi adempimento o formalità deve risolversi in un onere sostenibile da parte dell’ufficio, cioè debba risultare compatibile con la limitatezza delle risorse e con la possibilità di un’efficace gestione del procedimento e del servizio nel suo complesso. Invero, “la tradizionale tendenza del nostro legislatore a non farsi carico delle ricadute sulla operatività del servizio provocate dalle regole di nuova introduzione trova oggi un limite nella lettura moderna dell’art. 97 e nel disposto dell’art. 111 della Costituzione, disposizione quest’ultima che mira ad un corretto bilanciamento fra le esigenze del “giusto processo” e quella di “ragionevole durata” del processo”[9].

Fornita così la cornice critica di riferimento, resta da chiarire qualche ulteriore aspetto relativo alle singole previsioni inserite nella citata lettera a).

Certamente condivisibile è la scelta di affrontare uno degli aspetti più controversi in materia, cioè quello riguardante il momento in cui effettuare la selezione e la trascrizione delle conversazioni intercettate, dato che opera essenzialmente qui il rischio di indebite propalazioni di comunicazioni irrilevanti ai fini delle indagini, ma lesive della riservatezza dell’imputato o di terzi su circostanze estranee al processo.

In tale direzione, un intervento di riforma inteso a imporre una chiara sequenza temporale tra conclusione delle operazioni di intercettazione, deposito di verbali e registrazioni, “udienza stralcio” e perizia trascrittiva potrebbe ben scongiurare il rischio di diffusione di notizie irrilevanti per il processo, assicurare la tutela della privacy e consentire l’immediato esercizio del diritto di difesa.

Corretto è l’intento del legislatore di assegnare specifico rilievo alla tutela dei cittadini non indagati che abbiano avuto contatti con soggetti sottoposti ad intercettazione ed alla protezione di quel perimetro assolutamente confidenziale e riservato costituito dai colloqui difensivi.

Alla lettera b) dell’art. 25, il disegno di legge delega il Governo a “prevedere la semplificazione delle condizioni per l’impiego delle intercettazioni delle conversazioni e delle comunicazioni telefoniche e telematiche nei procedimenti per i più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”.

Il legislatore intende, pertanto, stabilire requisiti meno stringenti per il ricorso alle intercettazioni in vista della migliore repressione dei più gravi reati degli intranei contro la P.A., ciò che appare ben condivisibile tenuto conto dei livelli di assoluta gravità che il fenomeno della corruzione ha assunto nel nostro Paese, al pari di altri ambiti criminali pure soggetti allo slargamento delle possibilità investigative sulle comunicazioni.

Infine, alla lettera c) della medesima norma, la delega così viene articolata: “prevedere la garanzia giurisdizionale per l’acquisizione dei dati relativi al traffico telefonico, telematico e informatico, nonché il potere d’intervento d’urgenza del pubblico ministero, in conformità alla disciplina prevista per le intercettazioni di comunicazioni e conversazioni telefoniche”.

La norma è riferita all’attività di acquisizione dei dati estrinseci delle comunicazioni telefoniche, inerenti cioè all’utenza chiamante e all’utenza chiamata, alla data, ora, durata e luogo della conversazione. Quanto alle comunicazioni telematiche, i dati si riferiscono alle tracce lasciate dagli utenti suiservers: identità dei clienti, data e durata dell’allacciamento in rete e servizio richiesto.

L’intervento di riforma appare più che mai opportuno, tenuto conto che la Corte Costituzionale (sentt. nn. 81/1993, 281/1998, 372/2006) ha ricompreso anche i dati esteriori delle comunicazioni nell’alveo dell’art. 15 Cost.[10].

Dunque, la riserva di giurisdizione viene ora ritenuta operante anche con riguardo ai cd. dati estrinseci.

Rimane certamente auspicabile che il legislatore delegato realizzi un sistema garantistico ben coordinato con la vigente disciplina in tema di riservatezza[11]. Con la riforma in oggetto l’attribuzione del potere acquisitivo sarà rimessa al giudice, salvo l’intervento del P.M in casi di urgenza.

Ora, tenuto conto che il primo intervento legislativo in materia si è avuto con il D.Lgs. n. 171/1998, che all’art. 4 aveva previsto un obbligo di conservazione dei dati a carico del fornitore del servizio, successivamente, il D.L. n. 354/2003, poi convertito nella legge n. 45/2004, aveva attribuito al giudice il potere acquisitivo, e che tale regime normativo è stato modificato con l’assegnazione al Pubblico ministero di tale funzione, ad opera del D.L. n. 144/2005, convertito nella legge n. 155/2005, sarebbe opportuna una definitiva stabilizzazione dell’assetto delle competenze in materia.

b) Il regime delle impugnazioni.

Alle lettere da d) ad l) del primo comma dell’art. 25, il disegno di legge definisce principi e criteri direttivi per la delega legislativa in tema di impugnazioni penali.

La riforma si muove su tre linee di fondo: limitazione della possibilità di ricorrere per Cassazione, restrizione dei casi di appellabilità delle sentenze e definizione di norme processuali a scopo deflattivo e semplificativo del giudizio di gravame.

In via di prima approssimazione, è quasi pleonastico rilevare che ormai da tempo la materia delle impugnazioni penali è oggetto di specifica attenzione nel dibattito politico e giuridico[12], senza tuttavia che si siano ad oggi raggiunti approdi di diritto positivo soddisfacenti.

L’ormai ciclico dibattito su questo tema sconta, evidentemente, l’oggettiva difficoltà di coniugare esigenze ordinamentali contrapposte, quali la necessità di contingentare i tempi irragionevoli del processo ed arginare l’abuso degli strumenti processuali, con il bisogno di assicurare piena garanzia ai diritti delle parti e di pervenire ad una decisione finale “giusta“.

Peraltro, il progresso scientifico che ha fatto del contraddittorio il metodo principe di formazione della prova ha messo in dubbio l’opportunità di mantenere un tipo di appello, in grado di sostituirsi all’accertamento di primo grado, senza oralità e senza immediatezza.

Il progetto riformatore del sistema delle impugnazioni penali delineato nel disegno di legge n. 2798 non assurge sicuramente a grande manovra di riforma strutturale del sistema delle impugnazioni.

E’ chiaro, infatti, che il legislatore non ha inteso rivedere in maniera approfondita l’impianto processuale penale in materia, limitandosi ad ammodernarne solo alcune parti isolate.

E ciò potrebbe indurre riflessioni critiche non tanto sulla scelta di conservare il disegno di fondo ponendo mani ad una mera microchirurgia d’interventi, quanto sulla probabilità che da un siffatto modus operandi scaturiscano, come spesso avviene[13], incoerenze e distonie che di certo potrebbero inquinare l’armonia del sistema nel suo insieme.

Infatti, la strategia della parcellizzazione è sì rapida ed incisiva, ma può non tener conto del fatto che il momento di controllo della sentenza difficilmente può essere disgiunto dal modo con cui il percorso decisorio complessivo si sviluppa.

Tanto premesso, la filosofia di fondo che anima la riforma merita sicuro apprezzamento nella misura in cui la medesima dovrebbe, con adeguata organicità e razionalità, riallineare le norme processuali allo scopo primario della celerità della risposta giudiziaria. L’art. 111 Cost. codifica, infatti, accanto a quelli dell'”oralità” e dell'”immediatezza”, il fondamentale principio della “ragionevole durata del processo”, che da tempo sollecita spinte innovative immediatamente incidenti sulla velocizzazione e razionalizzazione del processo penale. 

In tale direzione, le previsioni del disegno di legge intese a restringere il perimetro di appellabilità delle sentenze penali ben potrebbero soddisfare – a seguito di un’adeguata attuazione della delega – il canone costituzionale di un processo “giusto”, cioè oltre che garantista, anche efficiente.

L’obiettivo di snellimento e accelerazione viene perseguito dal legislatore delegante tanto sul piano della legittimazione soggettiva quanto su quello dell’appellabilità oggettiva.

Non sembra essere stata invece recepita l’indicazione della Consulta (cfr. sentenza n. 85/2008) sull’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento su contravvenzioni punite con la sola ammenda o pena alternativa.

Né risulta invece recepito lo spunto, pur emerso nel dibattito sul tema, di eliminazione di quel vincolo ai poteri decisori del giudice costituito dal divieto di reformatio in peius, con ogni considerazione che ne può seguire.

Sul versante dei limiti oggettivi di appellabilità, va richiamata la previsione di cui alla lettera h) della proponibilità dell’appello solo per uno o più motivi tassativamente previsti e con onere d’indicazione specifica delle eventuali prove da rinnovare. Parimenti, la lettera i) introduce la previsione legale di limiti di proponibilità dell’appello incidentale. La lettera l) richiede infine la previsione di un’udienza camerale per la declaratoria d’inammissibilità dell’appello.

La disposizione merita particolare attenzione in quanto intende definitivamente superare il carattere “universale” del gravame, espungendo l’effetto, sino ad oggi, tendenzialmente devolutivo dell’impugnazione.

La ristrutturazione del giudizio di seconde cure quale grado destinato al mero controllo della decisione acquisita dovrebbe trovare fondamento nella tipizzazione dei motivi di appello, numerus clausus, quale condizione di proponibilità.

E’ evidente la potenzialità che l’innovazione potrebbe rivestire in termini di snellimento ed accelerazione, considerato che la tassatività dei petita dovrebbe scongiurare appelli omnibus volti alla revisio prioris instantia e, rafforzando l’essenza impugnatoria del secondo grado ed in qualche maniera avvicinandolo al giudizio di cassazione.

I criteri di cristallizzazione positiva di tali motivi, filtro di accesso in appello, rimangono imprecisati nel disegno di legge e ciò, a parte ogni considerazione critica sui contenuti minimi che la  legge delega dovrebbe in ipotesi avere, rende impossibile sviluppare sul punto – in sé pur molto rilevante – ogni altro rilievo più approfondito.

Infine, merita menzione la lettera d) del medesimo art. 25 dedicata al giudizio di legittimità, con la previsione della possibilità di impugnare per cassazione soltanto per violazione di legge sia la sentenza che conferma la pronuncia di assoluzione di primo grado, individuando i casi in cui possa affermarsi la conformità delle due decisioni di merito, sia le sentenze emesse in grado di appello nei procedimenti di competenza del giudice di pace.

La misura appare certamente apprezzabile in quanto tende ad arginare l’alluvionale massa di ricorsi di cui la Corte è annualmente investita, circostanza questa che non solo provoca effetti negativi in termini di carichi insostenibili di lavoro e di durata dei processi, ma che può incidere anche sulla funzione nomofilattica della Suprema Corte.

Con formula piuttosto vaga, il D.D.L. prevede che spetterà al legislatore delegato individuare i requisiti perché la doppia assoluzione possa essere considerata duplice decisione conforme, verosimilmente riferendosi alle ragioni giuridiche che sostengono nei due gradi di merito la sentenza di proscioglimento. Profili di criticità potrebbero rilevarsi con riguardo alla disparità dei poteri impugnatori della parte privata e di quella pubblica di fronte alla stessa fattispecie processuale (doppia conforme), anche tenuto conto della giurisprudenza costituzionale formatasi sulla disciplina della legge n. 46/2006.

Quanto invece ai procedimenti dinanzi al giudice di pace, il legislatore equipara i poteri processuali di entrambe le parti rispetto ad ipotesi di reati di non particolare gravità, per le quali risulta esaustivo assicurare una cognizione estesa al doppio grado di merito ed al controllo di legittimità.»

Il presente parere viene trasmesso al Ministro della Giustizia.

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1) Fasc. 1/PA/2015 – Nota pervenuta in data 27 gennaio 2015 dal Ministro della Giustizia che trasmette, per il parere, il testo del disegno di legge concernente: “Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore contrasto al fenomeno corruttivo, oltre che all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena”.

(relatore Consigliere MOROSINI)

La Commissione, all’unanimità, propone al Plenum di approvare il seguente parere:

«Premessa.

Il disegno di legge n. 2798 intende riformare alcuni parti significative del sistema penale con l’obiettivo di rafforzare le garanzie difensive, assicurare la ragionevole la durata dei processi, intensificare il contrasto alla corruzione e incidere sull’ordinamento penitenziario per rendere effettivi percorsi di reinserimento sociale dei condannati e di accesso alle misure alternative alla detenzione.

La proposta di legge coinvolge anche l’istituto della prescrizione, limitatamente all’art. 159 c.p., e tradisce una nitida scelta di campo a fronte del ricco e vivace dibattito in argomento, su cui si sta cimentando la platea dei giuristi e la stessa opinione pubblica.

Nel complesso, il disegno di legge in esame viene a connotarsi per l’estrema varietà degli interventi di natura penal-sostanziale e processuale, alcuni dei quali effettuati attraverso disposizioni di immediata applicazione, altri nella forma dei progetti di legge-delega (ad es. in tema di intercettazioni). E, tuttavia, sembra rinunciare alla formulazione di importanti opzioni strategiche.

Come più volte segnalato anche dal Consiglio superiore della magistratura, gli ambiziosi obiettivi indicati nella relazione a corredo del disegno di legge andrebbero perseguiti da interventi organici di ben altra intensità, data la crisi gravissima in cui versa la giustizia penale del nostro paese, crisi che attiene a differenti ambiti operativi, tra loro strettamente interconnessi.

A) Il diritto penale sostanziale

Il nostro diritto penale sostanziale, a causa del susseguirsi di interventi normativi spesso ispirati ad una logica emergenziale, nel tempo ha dilatato a dismisura il catalogo dei reati e l’ intensità della risposta repressiva. Ciò si è peraltro realizzato, in maniera prevalente, in settori interessati dalla c.d. criminalità di strada e dai fenomeni connessi all’uso di sostanze stupefacenti, piuttosto che nell’ambito della criminalità economica e contro la pubblica amministrazione, rispetto ai quali si constata una assoluta inadeguatezza della risposta repressiva, anche per la mancanza di adeguati interventi sul sistema economico, sulla pubblica amministrazione e sul relativo regime dei controlli, che dovrebbero essere preliminari ad ogni ipotesi di revisione dell’intervento penalistico.

Alla dilatazione dei dispositivi di controllo penale nei settori più sensibili alle sollecitazioni securitarie ha, per un verso, corrisposto un marcatissimo incremento del carico giudiziario, con effetti di sostanziale incapacità di smaltimento dello stesso da parte del sistema processuale e la conseguente attribuzione all’istituto della prescrizione di una patologica funzione di mantenimento degli equilibri del sistema penale, in specie per i reati in materia ambientale o contro la pubblica amministrazione, in relazione ai quali si è registrata una estrema difficoltà a pervenire ad un effettivo vaglio sulla responsabilità.

Sul versante del diritto sostanziale, a fronte di un catalogo di reati dal carattere ipertrofico, andrebbe effettuata, con assunzione di responsabilità del Parlamento, una selezione delle condotte realmente meritevoli di determinare la risposta penale, che secondo il dettato costituzionale, dovrebbe connotarsi come extrema ratio.

Alla stato, invece, questa operazione viene sostanzialmente affidata alla sola giurisprudenza mediante l’istituto della “particolare tenuità del fatto” introdotto dal decreto legislativo n.28 del 2015, che –  se costituisce un utile strumento di selezione delle condotte nel caso concreto meritevoli di punizione, in ossequio al principio di offensività  – non realizza quella necessaria assunzione di responsabilità del legislatore nelle scelte di valore sottese al sistema penale che, soltanto, può effettivamente incidere sugli indirizzi generali della giurisdizione, anche sotto il profilo deflattivo. E ciò, anche perché l’accertamento della tenuità del fatto nella singola fattispecie comporta comunque procedura laboriosa che difficilmente si tradurrà in una effettiva riduzione dell’impegno giudiziario e che, d’altro canto, potrebbe determinare trattamenti diversificati per condotte analoghe nei diversi ambiti nazionali.

Con riferimento poi al profilo più strettamente sanzionatorio, occorrerebbe superare la persistente centralità della pena carceraria, potenziando l’utilizzo di misure repressive di tipo ablativo, prescrittivo ed interdittivo quali pene principali, e con la previsione della possibilità di applicare sanzioni alternative al carcere da parte del giudice della cognizione. E bisognerebbe altresì addivenire alla implementazione di un sistema di restorative justice fondato sugli istituti tipici della giustizia riparativa e della mediazione penale, già esistenti nel processo minorile e nel rito del giudice di pace come solo in parte il disegno di legge in esame si propone di fare.

B) Il processo penale.

Sul piano processuale si attende una riforma in grado di effettuare una profonda revisione del codice di rito, attualmente connotato dalla presenza di adempimenti defatiganti, solo apparentemente rispondenti a finalità di garanzia ed in realtà prevalentemente formali, nonché alla riforma organica di un regime delle impugnazioni che – unitamente ai tempi di prescrizione assai brevi previsti per alcuni tipi di reati e ad un sistema del patrocinio a spese dello Stato divenuto sempre più centrale in tempi di grave e persistente generale crisi economica – incentiva la proliferazione dei ricorsi, contribuendo a comporre un carico processuale responsabile dei tempi inadeguati della giustizia penale.

Su questo versante le novità proposte dal disegno di legge n. 2798 rappresentano un primo promettente segnale con riguardo alle disposizioni in materia di riti speciali, udienza preliminare, archiviazione e regime delle impugnazioni, ma non decisive per la risoluzione delle suddette questioni.

Per coltivare concretamente il valore della durata ragionevole del processo,  probabilmente sono necessari interventi di dettaglio su istituti specifici fonte di criticità procedimentali che contribuiscono alla complessiva scarsa razionalità e funzionalità del sistema.

Così, sarebbe opportuno rivedere la disciplina delle notifiche penali, valorizzando gli strumenti informatici e semplificando gli oneri di comunicazione talvolta caratterizzati da un approccio di formalistica sovrabbondanza, rafforzando l’affermazione degli oneri di correttezza e di partecipazione leale dei privati.

Anche il processo a carico di imputati irreperibili, recentemente riformato, appare ancora caratterizzato da un eccesso di rigidità formale che rischia di frustrane l’effetto deflativo.

Bisognerebbe riconsiderare la regola che impone la rinnovazione delle prove già assunte in caso di mutamento della persona fisica del giudice che appare scarsamente coerente con un processo solo parzialmente orientato al rito accusatorio, è incompatibile con l’enorme numero di processi pendenti ed è fonte di gravi criticità in sedi giudiziarie caratterizzate da scoperture ed elevato ricambio di magistrati. A tal fine potrebbe generalizzarsi l’applicabilità della disciplina stabilita dall’art. 190 bis c.p.p. per i soli reati di più grave allarme sociale.

Andrebbe inoltre rivista la disciplina sul patrocinio a spese dello Stato.

Attualmente, l’elevatissimo numero di patrocinatori presenti nel nostro Paese, senza eguali rispetto ad altri stati europei ad esso assimilabili, costituisce un elemento moltiplicatore di alcune attività giudiziarie, in specie con riferimento alle impugnazioni.

Le concorrenti esigenze di assicurare adeguata difesa alle parti processuali sprovviste di idonei mezzi finanziari e patrimoniali e di evitare non necessari appesantimenti dell’attività processuale, oltre che di contenere gli esborsi per l’Erario, potrebbero essere tutelate mediante l’istituzione di un ruolo stabile di avvocati, dipendenti pubblici, cui affidare la cura delle parti prive di sufficienti risorse.La natura pubblica dell’organo e la previsione di meccanismi retributivi non esclusivamente parametrati alle prestazioni erogate dovrebbe impedire fenomeni di ingiustificata proliferazione del contenzioso, con un sicuro risparmio di risorse economiche e giudiziarie; a tal fine, potrebbe assumersi a modello l’esperienza nordamericana.

C) L’esecuzione penale

Per altro verso, andrebbe riscritto l’assetto dell’esecuzione penale, oggi ancora prevalentemente incentrato sulla costosa ed economicamente ormai insostenibile opzione carcero-centrica del Codice Rocco, con uno spazio ancora limitato per le sanzioni alternative alla pena carceraria. Su questo tema, in effetti, il disegno di legge in esame si limita a fissare una serie di principi e criteri direttivi (art. 26) per una risistemazione organica dell’ordinamento penitenziario, che sarà oggetto di approfondimento in una separata delibera.

Le disposizioni del disegno di legge.

1. La riparazione del danno

Il titolo I contiene proposte di modifica del diritto sostanziale, finalizzate a rendere il sistema penale più adeguato all’obbiettivo di una giustizia snella, funzionale ed efficace, con l’introduzione di misure orientate, da un lato, a selezionare le vicende che – dal punto di vista delle istanze di tutela dell’ordinamento, e delle finalità retributive e preventive della pena – richiedano effettivamente il dispiegamento integrale delle risorse processuali di accertamento e sanzione ordinarie e, dall’altro, ad offrire un apparato ordinamentale idoneo a rendere effettiva la sanzione delle condotte meritevoli di punizione.

Al primo obbiettivo sono dedicati gli artt. 1 e 2 che, operando sul piano sostanziale delle cause di estinzione del reato, individuano, in relazione a certe tipologie di reato, una nuova fattispecie di definizione della vicenda che garantisca l’eliminazione del disvalore sociale della condotta con modalità alternative alla sanzione penale, con i vantaggi di deflazione processuale conseguenti al venir meno della necessità del pieno accertamento. L’istituto pare ispirato dal dibattito, sempre più diffuso in dottrina e radicato nell’attenzione dei legislatori, sulle modalità alternative di definizione dei procedimenti penali, secondo i canoni della cd. “giustizia riparativa”.

Nell’ottica descritta, l’innovazione deve essere salutata con favore, affiancandosi, in un percorso omogeneo di revisione del sistema penale, all’istituto, di più ampia portata, della messa alla prova generalizzato con la recente legge n. 67 del 2014.

L’approccio culturale rimanda ai sistemi di Restorative Justice che attribuiscono a condotte riparative del reo l’effetto di attenuare o di escludere la responsabilità o, ancora, di incidere sulle modalità di espiazione della pena, in una prospettiva in cui l’intervento penale si giustifica quale extrema ratio che, indirettamente, favorisce obbiettivi ulteriori, quali l’economia processuale e, in ulteriore analisi, la riduzione della popolazione carceraria.

Il disegno di legge all’art. 1propone, dunque, l’introduzione dell’art. 162- ter del codice penale, che prevede l’estinzione del reato quando l’imputato abbia riparato il danno dal medesimo cagionato, mediante le restituzioni o il risarcimento, ed abbia eliminato le sue conseguenze dannose o pericolose.

Il presupposto dogmatico generale, largamente condiviso, è quello che nessuna utilità sociale generale né individuale può essere riconosciuta alla sanzione penale quando, sul piano delle conseguenze obbiettive, ogni effetto pregiudizievole della condotta vietata sia stato rimosso, e sul piano soggettivo, il reo abbia dimostrato, per comportamenti concludenti, una seria volontà di riabilitazione. La giustificazione teorica, appena esposta, spiega la limitazione dell’istituto ai reati perseguibili a querela e con querela rimettibile, in cui, cioè, l’interesse protetto sia fortemente individualizzato nella persona offesa che è per legge arbitro della percorribilità processuale della sua punizione.

Proprio nell’ottica della verifica in concreto della ricorrenza delle ragioni sostanziali che giustificano la rinuncia alla punizione, la norma prescrive che prima di decidere il giudice senta le parti del processo. Naturalmente deve ritenersi che non sia necessario, per dare corso alla dichiarazione di estinzione del reato, l’esplicito assenso della persona offesa; ciò perché, se la volontà della vittima fosse condizione indispensabile per la pronuncia si finirebbe per non riconoscere al nuovo istituto un ambito di significativa applicazione ulteriore rispetto a quello consentito dalla remissione della querela, prevista come autonoma causa di estinzione dall’art. 152 c.p..

La formulazione letterale della norma sembra escludere ogni discrezionalità del giudice, tenuto adichiarare l’estinzione del reato ogni qualvolta sia stata accertata l’intervenuta effettiva riparazione integrale.

E’ introdotto inoltre l’art. 649-bisdel codice penale, che ammette la pronuncia dell’estinzione del reato per intervenuta riparazione del danno in alcune fattispecie di reato la cui procedibilità non dipende dalla querela della persona offesa. Si tratta di ipotesi di reato contro il patrimonio in cui, d’altra parte, per l’oggetto e le modalità della condotta, il legislatore ha ritenuto comunque una caratterizzazione fortemente individuale dell’interesse protetto [1].

2. La misure di contrasto alla corruzione

L’art. 3 del disegno di legge in esame affronta il tema del contrasto alla corruzione, che costituisce una delle principali emergenze di inquinamento del tessuto istituzionale politico e civile del Paese.

Va evidenziato che del medesimo argomento si occupa in maniera più articolata altra proposta di legge (n. 19, cui sono state riunite quelle nn. 657, 711, 810, 846, 847, 851 e 868),   approvata in data 1 aprile 2015 dal Senato della Repubblica ed in atto pendente pressola Cameradei Deputati, di cui si tiene conto in questa parte del parere.

In realtà il testo in commento si limita a proporre l’aumento della pena edittale prevista per il reato (art.3 del ddl n.2798), misura che dal punto di vista della strategia complessiva di repressione del fenomeno, pare largamente insufficiente, e come tale inidonea a colmare le lacune e le incertezze interpretative che già scaturivano dalla legge n.190 del 2012.

La revisione dell’assetto normativo proposto dall’art. 3 del disegno di legge in questione non tiene conto delle richieste e dei suggerimenti di ordine sovranazionale, convenzionale e comparato secondo cui la credibilità di un quadro anticorruzione efficace e dissuasivo dipende dalla effettiva capacità di perseguire i casi di corruzione. In effetti il disegno di legge, al pari della legge n.190/2012, non apporta quegli indispensabili interventi sulle pene accessorie e sulla non punibilità di chi denuncia la corruzione, da più parti considerati irrinunciabili per una azione efficace. E dette richieste solo in parte vengono assecondate dalla proposta di legge n. 19, già votata dal Senato.

Proprio sul piano strettamente sanzionatorio, andrebbe, infatti, ripensato l’intero sistema delle pene accessorie, prevedendo come obbligatoria l’interdizione perpetua per ogni fattispecie corruttiva e introducendo una disposizione speciale che non consenta la sospensione quantomeno di questa peculiare ipotesi di pena accessoria.

E sarebbe, altresì, auspicabile l’elaborazione, anche sul piano penale, di un meccanismo di tutela per coloro che, non essendo pubblici ufficiali e prima che sia iniziato un procedimento penale, denuncino fatti di corruzione.

La premialità per chi denuncia in sede penale la corruzione, senza voler optare per soluzioni radicali di non punibilità – come pure previsto in altri Paesi -, può acquisire i connotati di un’attenuante speciale, significativa sul piano sanzionatorio, ancorandone il riconoscimento in modo specifico alla rilevanza e novità della collaborazione prestata[2]. In questa scia si muove opportunamente la già menzionata proposta di legge 19, laddove si prevede che, per il reato di corruzione, chi collabora con l’autorità giudiziaria può ottenere uno sconto di pena variabile tra un terzo e la metà,  come stabilito da anni per la criminalità di stampo mafioso.

E’, inoltre, necessario aggredire le condotte di reato connesse al fenomeno corruttivo, quali il falso in bilancio e l’evasione fiscale – che consente di acquisire la provvista economica per l’attività di corruzione – orientando la normativa nel senso di perseguire la piena tracciabilità delle transazioni finanziarie.

In effetti, anche sotto tale ultimo profilo, il testo della proposta di legge n. 19, pure non scevra da lacune, contiene, nella parte relativa al reato di falso in bilancio, delle positive novità. Le relative disposizioni ripropongono la perseguibilità d’ufficio e un adeguato carico sanzionatorio (da tre a otto anni di reclusione), ma solo per le società quotate in borsa. Mentre per le società non quotate in borsa la pena è prevista una pena da1 a5 anni di reclusione, con evidenti ripercussioni sul versante della ricerca della prova, dal momento che il massimo edittale non consente di esperire l’attività di intercettazione.

Tornando al disegno di legge in commento, non si riscontra alcun intervento sull’attuale assetto normativo sulla voluntary disclosure  (rientro di capitali dall’estero, previsto dalla legge 15.12.2014 n. 186), che impedisce su tali fatti indagini anche per riciclaggio, per cui molte condotte (transazioni economiche legate a vicende corruttive) restano opache.

E anche sul piano amministrativo delle persone giuridiche, non si è dato seguito alle indicazioni del GRECO (Gruppo di Stati contro la corruzione), laddove ha fatto presente che il sistema contabile italiano non ottempera ai requisiti previsti dalla convenzione penale sulla corruzione e dalla convenzione civile sulla corruzione del Consiglio d’Europa. Questo si palesa, in particolare, con riguardo alle condizioni/soglie di responsabilità, alla copertura limitata dei requisiti in materia di revisione dei conti (circoscritta alle società quotate in Borsa, alle aziende statali e alle imprese di assicurazione), alla determinazione delle pene e alle disposizioni relative agli autori del reato di falso in bilancio.

In relazione a tutti gli ambiti considerati, deve essere senz’altro sostenuto il percorso di riforma che il legislatore appare intenzionato ad intraprendere, anche attraverso la più volte citata proposta di legge 19, peraltro anch’essa incompleta, come già sopra illustrato.

Si aggiunga che il fenomeno corruttivo alligna maggiormente nelle procedure di gestione della spesa pubblica (autorizzazioni, concessioni, attività di pianificazione urbanistica, scelta del contraente in procedure di affidamento, erogazioni di sovvenzioni, finanziamenti, ecc.), in relazione alle quali, correttamente, la legge n. 190/2012 impone che i piani anticorruzione contengano specifiche misure preventive.

D’altra parte, il contrasto al fenomeno corruttivo è reso più difficile dal crescente ricorso a procedure di tipo privatistico che azzerano o rendono estremamente difficile ogni possibilità di controllo.

Ciò rende ineludibile un pieno contrasto della corruzione in campo privato, proprio per garantire la trasparenza dei meccanismi di gestione di spesa per la realizzazione, da parte di privati, di servizi d’interesse pubblico. Tale questione si collega a quella dell’inidoneità delle categorie penalistiche a fronte della crescente privatizzazione dell’attività della Pubblica Amministrazione.

Le disposizioni di cui alla legge n. 190/2012 non definiscono in modo abbastanza ampio le cariche dirigenziali che possono mettere in gioco la responsabilità dell’impresa per reati di corruzione commessi dai relativi titolari, né prevedono la responsabilità nei casi di carenza di sorveglianza. Il regime sanzionatorio applicabile alle persone giuridiche non sembra essere sufficientemente dissuasivo.

Le attuali disposizioni sulla corruzione tra privati appaiono eccessivamente limitate e restringono il campo di applicazione alle categorie di dirigenti del settore privato cui il reato è imputabile. I procedimenti sono peraltro su querela della persona offesa e non ex officio, salvo se derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi.

A tal proposito, appare utile sottolineare l’importanza di un articolato intervento di riforma sulla fattispecie incriminatrice di corruzione tra privati. Il disegno di legge in commento così come il testo della proposta di legge n. 19, già approvata da un ramo del Parlamento, non prevedono la trasformazione del reato di corruzione tra privati in reato di pericolo e non di danno, con la conseguente eliminazione della punibilità a querela. Invero, solo con quella modifica normativa verrebbe meno il requisito del “nocumento” alla società che oggi deve derivare dalla condotta corruttiva ed il reato in esame avrebbe come unico bene giuridico tutelato quello della concorrenza.

Conclusivamente, non può che osservarsi che i singoli sporadici e frammentari interventi realizzati – ed in gran parte attualmente solo annunciati dal legislatore – risultano per la loro disorganicità insufficienti. E’ al contrario indispensabile, per contrastare efficacemente un fenomeno criminale di siffatta ampiezza, pervasività e ramificazione – ed i conseguenti intollerabili costi sociali in termini di risorse e di effettività della funzione democratica dello Stato – una piena assunzione di responsabilità ed il superamento di cautele e timidezze che troppo spesso hanno intralciato il cammino del legislatore. E’ necessario un intervento organico a tutto campo operando su ciascuno snodo degli inscindibili nessi tra il piano amministrativo, quello istituzionale, quello penale sostanziale, nonché degli strumenti investigativi e dei modelli processuali. Solo una determinazione senza riserve ed una azione coordinata di tutte le risorse dello Stato possono invertire una deteriore tendenza alla dissipazione della cosa pubblica che influisce in maniera pregiudizievole ed apparentemente ineluttabile sui meccanismi di funzionamento dello Stato fino a metterne in discussione gli stessi fondamenti di legittimazione democratica, indebolendo radicalmente il tessuto di solidarietà indispensabile a mantenere i vincoli di cittadinanza enucleati nella Costituzione.

3. Le innovazioni in materia di confisca allargata

Il testo di legge modifica la disciplina della confisca allargata prevista dall’art 12-sexies del D.L. 8 giugno 1992, allo scopo di ampliarne l’ambito di applicazione e la concreta effettività.

La misura viene estesa a tutti i reati contemplati dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., sì da ricomprendere taluni delitti fino ad ora esclusi, tra i quali i reati di associazione diretta a commettere reati sessuali in danni di minori, le attività organizzate per il traffico di rifiuti, l’associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri. Più in generale, il rinvio normativo induce a ritenere che qualsiasi futura modifica del catalogo contenuto nella norma richiamata automaticamente ope legis provocherà l’ampliamento dell’ambito di applicabilità della misura patrimoniale.

Sono poi oggetto di specifica precisazione aggiuntiva alcuni reati per i quali la misura patrimoniale non è prevista nella disciplina vigente, quali i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale.

Degna di attenzione è l’integrazione della norma con la previsione all’ultimo comma della preclusione per il condannato della possibilità di giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che le risorse siano provento o reimpiego di evasione fiscale.

La disposizione è evidentemente posta a definire una questione interpretativa specifica  oggetto di dibattito in dottrina e giurisprudenza, che finora ha visto emergere soluzioni differenziate in ragione anche della specificità della tipologia di confisca utilizzata[3].

Il legislatore ha ritenuto così di stabilire in via generale ed astratta la risposta interpretativa più rigorosa che finora, nell’ambito della confisca allargata, non aveva trovato il favore della giurisprudenza dominante, allo scopo di rendere l’applicazione dell’istituto più severa ed effettiva.

Meritevole di menzione è altresì l’integrazione del comma 2- ter dell’art. 12-sexies citato, con cui si precisa che la confisca per equivalente può estendersi anche alle utilità di legittima provenienza delle quali il condannato abbia la disponibilità.

Dopo alcune abrogazioni giustificate da motivi di coordinamento normativo e la previsione della garanzia della tutela dei terzi eventualmente titolari di diritti sui beni sequestrati attraverso la citazione nel processo di cognizione, l’art. 4  stabilisce, introducendo il comma 4-sexies dell’art. 12-sexies, che la confisca allargata, ad eccezione di quella per equivalente, può essere pronunciata anche quando il reato sia dichiarato estinto per prescrizione o per amnistia in sede di impugnazione, ove vi sia stata condanna in uno dei gradi di giudizio, purché il giudice del gravame, ai soli effetti della confisca, abbia accertato la responsabilità dell’imputato.

La norma intende adeguare il sistema normativo nazionale alla giurisprudenza nazionale e sovranazionale[4], che ha sancito l’illegittimità della sanzione patrimoniale consistente nella definitiva ablazione dei beni, ove non si sia pervenuti all’accertamento nel merito – nel rispetto dei diritti di difesa dell’imputato – della responsabilità per il reato contestato.

Nel caso in cui intervenga la morte del soggetto nei cui confronti sia stata disposta la confisca, solo nell’ipotesi in cui essa sia stata pronunciata con sentenza definitiva il procedimento può avere corso in sede esecutiva nei confronti degli eredi ed aventi causa (nuovo comma 4-septies dell’art. 12-sexies). Anche quest’ultima  disposizione serve a chiarire una questione interpretativa ed applicativa controversa in dottrina e oggetto di difformi soluzioni giurisprudenziali [5].

Giova, ancora, considerare che, nella persistenza di indirizzi interpretativi critici in relazione ad entrambe le questioni oggetto dell’intervento legislativo,[6] è da ultimo intervenutala Corte Costituzionale con la sentenza n. 49/2015 – depositata il 26 marzo 2015 – che ha sostanzialmente ratificato la correttezza della soluzione individuata dal legislatore.

4. La disciplina della prescrizione

Il disegno di legge propone inoltre una modifica dell’istituto della prescrizione, prevedendo una parentesi di sospensione onde consentire ai giudizi di impugnazione di potersi tenere, senza il rischio che medio tempore sopravvenga la causa di estinzione del reato per vano decorso del tempo. I periodi di sospensione sono commisurati in due anni per il giudizio di appello ed in un anno per quello di legittimità. E’, altresì, previsto che la parentesi di sospensione operi sempre che il relativo giudizio impugnatorio si concluda con una sentenza di condanna e non di assoluzione, con l’avvertenza, però, che, in caso in cui il giudice decida di assolvere l’imputato, non potrà prendere in considerazione l’opzione di dichiarare prescritto il reato, proprio perché, come leggesi nella relazione esplicativa, prima della pronuncia della sentenza di riforma o di annullamento quel computo è precluso.

In linea generale, quanto mai opportuna appare una più generale rivisitazione generale dell’istituto della prescrizione, che, prescindendo da interventi settoriali volti all’allungamento dei termini per alcune figure di reato che toccano interessi particolarmente sensibili, giunga ad una sua riforma organica, prevedendo il definitivo arresto del decorso del termine prescrizionale una volta che sia stata esercitata l’azione penale o, almeno, sia stata pronunciata la sentenza di primo grado.

Dal punto di vista dogmatico, infatti, la stessa giustificazione teorica dell’istituto – prolungato disinteresse dello Stato alla punizione della condotta vietata – appare inconciliabile con l’esistenza in fase avanzata di un procedimento o, addirittura, del processo finalizzato all’accertamento ed alla punizione.

Sotto il profilo pratico effettuale, poi, la circostanza che l’effettiva punizione di un reato che lo Stato abbia dimostrato di volere perseguire dipenda dai tempi in cui in concreto sia svolta la necessaria attività processuale- e quindi dalle condizioni materiali di lavoro dell’ufficio giudiziario nel suo complesso e del magistrato o dei magistrati coinvolti – introduce il rischio di obbiettiva ed ingiustificabile discriminazione per cui per il medesimo fatto può arrivarsi o meno ad un accertamento definitivo ed alla sanzione in dipendenza dei tempi tecnici possibili nel luogo in cui è stato commesso, e quindi della maggiore o minore dotazione organica, delle risorse materiali disponibili e dei carichi di lavoro degli uffici che se ne occupino.

Con il risultato, peraltro, ampiamente noto e numerose volte già denunciato, della dissipazione di enormi risorse umane e materiali a causa dell’impegno investigativo, procedimentale e processuale profuso dalla parte pubblica e dai privati coinvolti, per lo svolgimento di impegnative attività che a posteriori si rivelino del tutto inutili per il sopravvenire della pronuncia di estinzione del reato.

Non sfugge che, nell’attuale stato di grave difficoltà della macchina giudiziaria, la sostanziale incapacità di smaltimento dell’enorme contenzioso da parte del sistema processuale finisce per assegnare alla prescrizione una patologica funzione di mantenimento degli equilibri del sistema in specie per i reati in cui l’accertamento delle responsabilità è particolarmente complesso (si pensi alla materia ambientale o a quella dei reati controla Pubblica Amministrazione).  E, in concreto, la tagliola della estinzione del reato costituisce un meccanismo di obbiettiva sollecitazione alla concentrazione dei tempi e degli atti processuali, nonché la garanzia di protezione dei cittadini coinvolti dal rischio di indeterminata ed indefinita pendenza del processo che rappresenta di per sé un grave pregiudizio alle prerogative individuali di onorabilità e certezza delle condizioni di vita personali.

D’altra parte, sotto i profili da ultimo indicati, deve osservarsi come l’attuale assetto normativo della prescrizione fornisca un formidabile incentivo a condotte processuali dilatorie ed ad impugnazioni pretestuose, presentate al solo scopo di lucrare la maturazione del termine estintivo. Senza dire che il venir meno della prospettiva di sfuggire alla punizione a seguito del trascorrere del tempo indurrebbe le persone sottoposte a processo a valutare seriamente i rilevanti benefici offerti dai riti alternativi che, fino ad ora, proprio in ragione della concreta possibilità di prescrizione, hanno avuto uno scarsissimo successo statistico.

In sostanza, la modifica auspicata avrebbe senz’altro un rilevante immediato effetto di deflazione del numero di processi penali in primo grado ed in sede di impugnazione, così offrendo spazi e risorse maggiori per la loro generalizzata più rapida e tempestiva definizione.

In ogni caso, la riforma proposta potrebbe essere accompagnata da misure – di natura risarcitoria ovvero orientate alla verifica dei doveri gravanti sui magistrati e sui dirigenti degli uffici giudiziari  – finalizzate a contenere i tempi complessivi del procedimento compatibili con il principio di ragionevole durata, per come declinato anche in sede sovranazionale.

Occorrerebbe, altresì, l’ampliamento dell’elenco dei reati imprescrittibili alla luce delle nuove esigenze general-preventive.

In ogni caso, nella consapevolezza che la suindicata opzione richiederebbe una decisa rottura epistemologica con quanto sino ad ora avvenuto, la soluzione proposta nel disegno di legge – che, si nota incidentalmente, va a sovrapporsi ad altra, ispirata alla medesima filosofia, contenuta in altra iniziativa legislativa (d.d.l. n. 1844 “Modifiche al codice penale in materia di prescrizione del reato“, approvato dalla Camera dei Deputati il 24 marzo 2015 ed in atto pendente innanzi al Senato della Repubblica) – presenta alcun aspetti positivi, pur con alcuni punti di criticità che vanno di seguito enucleati.

In particolare suscita più di qualche dubbio annettere un rilievo preminente ai fini del computo del termine prescrizionale alla pronuncia intermedia piuttosto che a quella definitiva. In effetti, così ragionando si consente a pronunce possibilmente non condivise dal giudice superiore di produrre effetti sul decorso del termine prescrizionale, sebbene, appunto, ciò che in ultima analisi conta è la pronuncia definitiva. Chiaro è, altresì, il rischio di imporre la definizione accelerata dei giudizi nei quali è incorsa una pronuncia intermedia assolutoria e la postergazione di quelli nei quali il giudice di secondo grado (od anche  di legittimità) si sia pronunciato in senso sfavorevole all’imputato.

Ulteriore aporia è quella di impedire al giudice che intenda assolvere l’imputato di dichiarare la prescrizione nel frattempo intervenuta, sull’apparente, ma non reale, presupposto che, durante il corso del giudizio di secondo grado o di legittimità, la prescrizione non sia decorsa: tanto più che il deconto retroattivo del periodo di sospensione ‘processuale’ di fase  impone lo svolgimento di un’ulteriore fase processuale davanti ad un altro giudice (la corte di cassazione o il giudice d’appello o di primo grado nel caso di rinvii dalla corte di cassazione) solo per dichiarare la prescrizione automaticamente conseguente alla deliberazione ‘provvisoria’ di non responsabilità.

5. Le disposizioni processuali

Il Titolo II, dedicato a “Modifiche al codice di procedura penale”, è suddiviso in tre capi, afferenti, rispettivamente, a “Modifiche in materia di incapacità dell’imputato di partecipare al processo, di indagini preliminari e di archiviazione”“Modifiche in materia di riti speciali, udienza preliminare, istruzione dibattimentale e struttura della sentenza di merito” e “Semplificazione delle impugnazioni”.

Le relative previsioni traggono spunto, almeno in parte, dalle proposte formulate dalle Commissioni ministeriali di studio istituite, nel 2006 e, poi, nel2013, invista della riforma del codice di procedura penale e presiedute, rispettivamente, dal dott. Giovanni Canzio e dal prof. Giuseppe Riccio.

Una lettura d’insieme dell’articolato consente di delinearne la filosofia di fondo, mirante ad accrescere il tasso di fluidità ed efficienza del procedimento senza intaccare i meccanismi di garanzia che, anzi, vengono in qualche caso rafforzati.

Si denota, sotto questo aspetto, il condivisibile ed ambizioso intento di discernere tra le garanzie effettive ed irrinunciabili e quelle solo apparenti che, piuttosto che soddisfare apprezzabili esigenze difensive, finiscono, nella prassi, per non realizzare altro scopo che quello di rallentare senza plausibile giustificazione  l’iter dell’accertamento giurisdizionale.

Un’altra linea di azione muove dal rilievo, divenuto ormai patrimonio comune agli operatori del diritto, che individua nell’attuale disciplina delle impugnazioni uno dei principali fattori di congestione del processo penale: alla previsione, agli artt. 24 e 25 del disegno di legge n. 2798, di apposita delega al Governo si aggiungono, al Capo III del Titolo II, non marginali innovazioni, per lo più finalizzate alla ridefinizione di compiti e modalità di intervento delle Corti di Appello e della Corte di Cassazione.

Il disegno di legge n. 2798 si propone, ancora, di ridare slancio ai riti alternativi attraverso alcune modifiche di dettaglio e, soprattutto, l’introduzione ex novo della condanna su richiesta dell’imputato e la reintroduzione del c.d. “patteggiamento in appello”.

Nel lodevole intento di trarre frutto da importanti approdi della giurisprudenza interna o sovranazionale, il testo in commento li traspone in altrettante norme di diritto positivo ovvero, comunque, mostra di volerne tener conto nell’ottica del più spedito ed efficiente andamento del processo.

Non mancano, infine, disposizioni espressive della confermata opzione per una sorta di doppio binario processuale, in forza del quale l’applicazione di istituti e norme è esclusa per i procedimenti relativi a reati di maggiore gravità ed allarme sociale.

L’art. 9 novella le disposizioni codicistiche relative alle ipotesi in cui venga accertato che l’imputato patisca una infermità mentale sopravvenuta al fatto contestato di gravità tale da impedirgli di partecipare coscientemente al procedimento.

Nell’attuale quadro normativo la protrazione di condizioni di incapacità dell’imputato per periodi assai consistenti, quantificabili in non pochi casi nell’ordine di più lustri, determina il parallelo mantenimento della pendenza a carico di soggetti sovente in stato di parziale o totale incoscienza e la necessità di eseguire, con frequenza biannuale, accertamenti peritali che comportano dispendio di risorse umane, strumentali ed economiche.

Opportunamente, il disegno di legge in commento differenzia i casi in cui lo stato di incapacità sia reversibile, per i quali viene mantenuto il regime esistente, e quelli in cui, al contrario, si pervenga ad una prognosi di segno opposto e stabilisce che, in questa seconda eventualità, il giudice revochi l’ordinanza di sospensione e pronunzi sentenza di non doversi procedere.

L’art. 10 contiene una pluralità di disposizioni, accomunate dall’incidenza sulla fase delle indagini preliminari e sul procedimento di archiviazione.

Il comma 1, ispirato alla logica del c.d. “doppio binario”, circoscrive alle ipotesi di reato più gravi l’ambito applicativo dell’istituto della dilazione dei colloqui tra il difensore e la persona sottoposta a misura detentiva cautelare o precautelare.

Volta ad evitare che l’esercizio delle prerogative difensive possa tradursi nell’ingiustificata paralisi dell’iterprocessuale è, invece, la disposizione contenuta nel comma 2 che stabilisce, opportunamente, che la riserva della parte privata ex comma 4 del’art. 360 c.p.p. di promuovere incidente probatorio perda efficacia se non seguita, entro cinque giorni, dalla richiesta di incidente probatorio e che alla perdita di efficacia si accompagni la preclusione alla sua ulteriore proposizione .

Le disposizioni contenute nei commi 4, 5 e 6 concernono il procedimento di archiviazione.

Da un canto, vengono codificate le ipotesi di nullità del decreto di archiviazione individuate dalla giurisprudenza e richiamate, quanto all’ordinanza di archiviazione, le nullità già indicate dall’art. 127, comma 5, c.p.p.; dall’altro, viene introdotto uno specifico procedimento attraverso il quale la nullità dell’ordinanza può essere agilmente dedotta avanti alla Corte di Appello – anziché alla Cassazione, che viene così sgravata da compiti non connaturati alla funzione – mentre, nel caso di nullità del decreto, sarà lo stesso giudice delle indagini preliminari a rilevare il vizio con la spedita procedura ex art. 130 c.p.p..

Viene meno, in tal modo, la ricorribilità del provvedimento di archiviazione in sede di legittimità, ciò che, come chiarito dalla relazione introduttiva, non si pone in contrasto con l’art. 111, comma 7, Cost., giacché ci si trova al cospetto di atti diversi dalla sentenza e non incidenti sulla libertà personale.

L’art. 11 del D.D.L. introduce rilevanti modifiche alla disciplina dell’udienza preliminare, incidendo profondamente sulla latitudine dei poteri d’integrazione riconosciuti al giudice della fase dagli artt. 421-bis e 422 c.p.p.: in specie, è soppresso il potere del giudice dell’udienza preliminare di ordinare ulteriori indagini, ove ne ravvisi l’incompletezza, rimettendosi esclusivamente alle parti il potere di richiedere al giudice l’assunzione di prove ritenute decisive ai fini della sentenza di non luogo a procedere.

Evidente la finalità della norma, identificabile nell’apprezzabile obiettivo di restituire all’udienza preliminare il ruolo che le è proprio, ossia quello di «controllo sulla fondatezza dell’accusa nella prospettiva di una prognosi circa l’utilità del dibattimento», non può, per contro, sottacersi che l’eliminazione di ogni potere officioso del giudice dell’udienza preliminare potrebbe, in ipotesi, risultare controproducente rispetto all’auspicata finalità deflattiva.

In ordine all’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere ex art. 428 c.p.p., viene attribuita al giudice di appello la competenza a decidere sul gravame; ciò, in quanto la verifica della sussistenza delle condizioni per il rinvio a giudizio dell’imputato attiene essenzialmente alla ricostruzione del fatto e al merito dell’accusa ed è tendenzialmente estranea all’ambito proprio del sindacato di legittimità.

La parte civile perde, ancora, la legittimazione a proporre impugnazione della sentenza ex art. 428 c.p.p., in dipendenza della quale «non soffre alcun pregiudizio dei propri interessi».

Infine, in caso di pronuncia di sentenza di non luogo a procedere anche in grado di appello, il ricorso per Cassazione è circoscritto alla sola violazione di legge.

Le modifiche apportate, all’art. 13,al giudizio abbreviato sono intese a coordinare l’articolazione del contraddittorio sulla richiesta di rito abbreviato con l’esercizio delle facoltà difensive.

In particolare, qualora, all’udienza preliminare, la difesa depositi i risultati delle espletate indagini difensive, si prevede che il giudice, al quale il pubblico ministero abbia chiesto un termine per svolgere indagini suppletive, posponga la decisione sino alla consumazione del concesso termine, al fine di evitare che la trasformazione del rito sia disposta senza che la pubblica accusa abbia potuto vagliare il materiale offerto dalla difesa e, eventualmente, fornire, a sua volta, ulteriori elementi di prova.

Specularmente, e coerentemente, si pone l’imputato in condizione di riconsiderare la già consacrata richiesta di giudizio abbreviato in funzione dell’integrazione probatoria effettuata dal pubblico ministero.

Sotto questo aspetto sarebbe, forse, auspicabile circoscrivere la facoltà di revoca della richiesta di giudizio abbreviato all’ipotesi in cui il pubblico ministero, dopo avere fruito del termine, abbia depositato i risultati di nuove indagini, laddove, invece, in caso contrario, non è dato apprezzarsi la sopravvenienza di elementi di novità idonei a giustificare un ripensamento dell’opzione originaria.

La seconda linea di intervento in materia di giudizio abbreviato concerne l’incidenza della richiesta di giudizio abbreviato sulla patologia dei singoli atti del processo.

Tra le altre, si segnala la questione che afferisce alla proposizione, in sede di giudizio abbreviato, di eccezione di incompetenza territoriale, in relazione alla quale viene adottata una soluzione radicale (nel senso che la richiesta di giudizio abbreviato preclude ogni questione sulla competenza per territorio del giudice), così superandosi, per espressa volontà del legislatore, il precedente indirizzo ermeneutico, che consentiva la riproposizione, in sede di giudizio abbreviato, dell’eccezione sollevata durante l’udienza preliminare ed ivi respinta.

L’art. 14 del progetto di riforma è dedicato al procedimento di applicazione della pena su richiesta delle parti ed all’istituto, di nuovo conio, della “sentenza di condanna su richiesta dell’imputato”.

Per quanto concerne il c.d. “patteggiamento”, viene, innanzitutto, delimitato il campo delle ipotesi che consentono di adire il giudice di legittimità a coloro che abbiano ottenuto l’emissione della sentenza a contenuto concordato, per impedire che i richiedenti formulino ricorsi destinati ad essere ritenuti inammissibili, all’unico e strumentale obbiettivo di posporre il passaggio in giudicato della sentenza e l’esecuzione della pena concordata.

In tal senso si prevede, da un canto, che gli errori che afferiscono alla denominazione o al computo della pena, possano essere rettificati dal giudice che ha emesso la sentenza di patteggiamento, e, dall’altro, che la sentenza sia censurabile in Cassazione solo “per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza”.

E’ poi eliminata la distinzione tra il patteggiamento c.d. “comune” e quello c.d. “allargato”, per il quale, in atto, non operano i benefici indicati dall’art. 445, commi 1 e 2, c.p.p..

L’intervento in itinere mantiene detti effetti ed indica in tre anni il limite massimo di pena, irrogata in concreto, che consente l’accesso al rito speciale.

Il “nuovo” patteggiamento non soffre l’esclusione in relazione a determinate categorie di reati che, per l’attuale patteggiamento allargato, è sancita dall’art. 444, comma 1-bis, c.p.p., del quale si propone l’abrogazione.

Una previsione speciale è dedicata ai procedimenti relativi a gravi reati controla Pubblica Amministrazione, prescrivendosi in specie, in adesione alle migliori prassi formatesi presso gli uffici giudiziari, che l’applicazione di pena concordata postuli necessariamente l’integrale restituzione del prezzo o del profitto del reato.

Se il patteggiamento subisce un robusto restyling, addirittura sconosciuto al nostro ordinamento è, invece, l’istituto della “sentenza di condanna su richiesta dell’imputato”, la cui genesi può farsi rinvenire nell’esigenza di sperimentare percorsi procedimentali che coniughino rapidità dell’accertamento, natura premiale e valenza di giudicato.

La richiesta di condanna, ammissibile nell’udienza preliminare, fino al momento della discussione, ovvero, in assenza di udienza preliminare, sino alla dichiarazione di apertura del dibattimento, muove dall’ammissione del fatto da parte dell’imputato, formalizzata nel corso di apposito ed immediato interrogatorio, ciò che lo abilita a chiedere di essere a condannato a pena specificamente indicata in misura non superiore ad otto anni di reclusione.

Nella determinazione di tale pena, l’imputato terrà conto delle circostanze nonché della riduzione per il rito, commisurata tra un terzo e la metà della pena che sarebbe stata altrimenti fissata.

Espressione della già richiamata opzione per il c.d. “doppio binario” è l’esclusione dell’applicazione dell’istituto in un’ampia gamma di ipotesi, caratterizzate dalla gravità del reato in contestazione ovvero dalla caratura criminale dell’autore.

Al cospetto della richiesta dell’imputato e della sua confessione, il giudice è chiamato a raccogliere il pubblico ministero ed a delibare, secondo il consueto canone dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, la sufficienza della prova in vista dell’emissione dell’invocata condanna.

Se detta verifica sortisce esito positivo e la pena indicata si palesa congrua, il giudice emette la sentenza nei termini di cui alla richiesta, statuendo, eventualmente, sull’azione civile; in caso di rigetto, il giudice dispone il giudizio abbreviato, salva la ricorrenza di una causa di immediato proscioglimento ex art. 129 c.p.p..

La sentenza sarà inappellabile per l’imputato, mentre il pubblico ministero potrà proporre gravame solo in ipotesi eccezionali.

Chiaro è l’intento di introdurre un rito in cui ad una spiccata connotazione premiale fanno dapendant, sul piano della prova, la confessione dell’imputato e, su quello processuale, la forza di giudicato e gli stringenti limiti all’appello.

Il legislatore proponente riprende, in sostanza, il sentiero già percorso con il c.d. “patteggiamento allargato”, istituto che viene contestualmente abrogato, e fa leva sulla disponibilità dell’imputato ad ammettere, anche a fronte della contestazione di crimini assai gravi, l’addebito in cambio di un altrimenti inaccessibile abbattimento della pena.

Prima facie distante rispetto alla cultura processuale oggi più diffusa, la condanna su richiesta dell’imputato è istituto la cui reale attitudine deflattiva costituisce, anche in ragione del circoscritto ambito applicativo, un’incognita.

Nel merito, non appare del tutto convincente il riconoscimento ad elemento discriminante della confessione che, in quanto incondizionato, sembra consentire il contenimento del trattamento sanzionatorio anche al cospetto di procedimenti già caratterizzati dalla assoluta solidità del quadro probatorio.

E se, in rapporto al giudizio abbreviato, tale effetto è compensato dall’inappellabilità, con riferimento, invece, al patteggiamento, il discrimine può ravvisarsi nella sola efficacia di giudicato.

L’art. 15 interviene in materia di esposizione introduttiva ai fini della valutazione della prova, modificando l’art. 493 c.p.p. e proponendo un sistema simile a quello operante in epoca antecedente alla legge n. 479/1999 (c.d. legge Carotti).

La reintroduzione dell’esposizione introduttiva può essere positivamente valutata, trattandosi di attività processuale certamente utile per indirizzare l’esercizio dei poteri del giudice in relazione alla valutazione delle richieste istruttorie,exart. 190.1 e 495 c.p.p..

Con l’art. 16 si introduce, come messo in luce nella relazione di accompagnamento, «il modello legale della motivazione “in fatto” della decisione, nella quale risulti esplicito il ragionamento probatorio sull’intero spettro dell’oggetto della prova, che sia idoneo a giustificare razionalmente la decisione secondo il modello inferenziale indicato per la valutazione delle prove».

La disposizione si raccorda con la norma dell’art. 581 sulla forma dell’impugnazione ed appare idonea ad assicurare una più razionale semplificazione della procedura impugnatoria.

Il progetto di riforma dedica, poi, una serie di disposizioni alla modifica del complesso regime delle impugnazioni, che da strumento di garanzia si sono trasformate in un «percorso di ostacoli e preclusioni che compromettono l’efficienza del sistema ed assicurano impunità ».

L’art. 17 ritocca l’art. 571 c.p.p. escludendo la possibilità per l’imputato di proporre personalmente ricorso per Cassazione: evidente la finalità della norma, che opportunamente mira a riservare al solo difensore l’uso di uno strumento di gravame caratterizzato da un tasso di tecnicità particolarmente elevato scoraggiando, in funzione deflativa, la presentazione di ricorsi meramente defatigatori e ad accelerare la formazione del giudicato.

Da analoghi fini deflativi sono caratterizzate anche le novità introdotte dai commi 2 e 3 che modificano l’art. 591 c.p.p., disciplinando una procedura semplificata di declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, «anche d’ufficio e senza formalità», da parte del giudice a quo, in tutti i casi nei quali l’invalidità dell’atto emerga senza che siano necessarie specifiche valutazioni di tipo non oggettivo.

L’art. 18 è dedicato alla reintroduzione del “concordato anche con rinuncia ai motivi di appello”, istituto che è stato espunto dal sistema nel 2008: le disposizioni di nuovo conio ricalcano quelle originarie, fatta salva per l’esclusione, dall’ambito applicativo dell’istituto, dei “procedimenti” relativi a taluni gravi reati, oltre che di quelli contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, e per la previsione che assegna al Procuratore generale pressola Corte di Appello il compito di indicare, previa interlocuzione con i magistrati dell’ufficio ed i procuratori della Repubblica del distretto, i criteri idonei a orientare la valutazione dei magistrati del pubblico ministero nell’udienza, tenuto conto della tipologia dei reati e della complessità dei procedimenti.

L’esaltazione del ruolo del Procuratore generale in vista dell’enucleazione di criteri orientativi da applicare nella formazione dell’accordo va salutata con favore in quanto frutto di un razionale bilanciamento tra i valori in gioco, non ultimo quello dell’autonomia dei sostituti rispetto al dirigente, mentre le menzionate esclusioni oggettive e soggettive concretizzano una precisa e già segnalata opzione di fondo, suscettibile, va però rimarcato, di restringere, sul piano concreto, gli effetti benefici dell’istituto sulla mole di lavoro che grava sugli uffici di secondo grado.

L’ultimo comma dell’art. 18 recepisce, trasfondendole in puntuale dettato normativo, le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza EDU (4 giugno 2013, Hadu c. Romania) in ordine alla necessità che il giudice di appello, adito dal pubblico ministero che invochi il ribaltamento di una pronunzia assolutoria contestando la valutazione di attendibilità operata dal primo giudice con riferimento ad una prova dichiarativa, proceda, ove ritenga non manifestamente infondata l’impugnazione, alla nuova assunzione della prova orale.

Tangibile è la derivazione della regola di cui si propone l’introduzione dai principi del giusto processo, così come percepibile è, al contempo, la preoccupazione di evitare ogni anticipazione di giudizio, cui si riconnette l’ancoraggio della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale alla sussistenza di un mero fumus di fondatezza del gravame.

L’art. 19 incide profondamente sull’attuale disciplina del ricorso per Cassazione.

Con le modifiche introdotte all’art. 610 c.p.p. si intende valorizzare il contraddittorio cartolare, permettendo al ricorrente di essere meglio informato della ragione del rilievo d’inammissibilità del ricorso e di replicare con una memoria puntuale, mentre, nella prospettiva della deflazione processuale, si introduce una disciplina semplificata di dichiarazione di inammissibilità.

Coerentemente con l’analoga modifica dell’art. 571 c.p.p., si prevede che il ricorso per Cassazione sia predisposto solo da parte di un avvocato iscritto all’albo speciale; nell’intento di «scoraggiare i ricorsi meramente defatigatori» e «accelerare la formazione del giudicato», il novellato art. 616 co. 1 c.p.p. prevede la possibilità di aumentare fino al triplo l’attuale importo previsto a titolo di sanzione, per il caso di inammissibilità del ricorso.

All’art. 618 c.p.p. vengono aggiunti due commi, sì da rafforzare l’uniformità e la stabilità nomofilattica dei principi di diritto espressi dal giudice di legittimità, contribuendo a realizzare la legittima aspettativa, ormai da più parti avvertita in modo stringente, di una maggiore prevedibilità delle decisioni giudiziarie e, in ultima analisi, di una maggiore certezza del diritto, senza, al contempo, mortificare la dinamica evolutiva degli indirizzi ermeneutici, che trae linfe dai contributi delle sezioni semplici della Corte di Cassazione, oltre che, naturalmente, da quelli dei giudici di merito.

A ciò sia aggiunga che la previsione di cui al comma 1-ter risponde, altresì, ad un principio di economicità degli strumenti processuali, consentendo alle Sezioni Unite di enunciare il principio di diritto applicabile in una determinata anche nell’ipotesi in cui il ricorso sia diventato inammissibile per cause sopravvenute, ovvero senza necessità di attendere l’eventuale successivo pertinente caso concreto.

Sono previste, ancora, norme di semplificazione e deflazione attraverso interventi ulteriori sul giudizio in cassazione, ampliando la possibilità di evitare il giudizio di rinvio in caso di annullamento quando esso possa essere ritenuto superfluo, di accedere al procedimento correttivo di errore materiale, anche in maniera officiosa.

L’art. 20  interviene sull’istituto della “rescissione del giudicato”, attivabile dal condannato (o sottoposto a misura di sicurezza) in absentia il quale provi che l’assenza è stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo ed introdotto dalla legge n. 67/2014.

L’innovazione che si propone, consistente nello spostamento della competenza dalla Corte di Cassazione alla Corte di Appello, appare in linea con il rilievo che la disamina della richiesta di rescissione comporta la cognizione di profili esclusivamente di merito.

Tra le norme del Titolo III merita menzione l’art. 23, rubricato “Modifiche al decreto legislativo 20 febbraio 2006, n.106, in materia di poteri di controllo del Procuratore della Repubblica e di contenuti della relazione al Procuratore generale pressola Corte di Cassazione”, con cui vengono apportate alcuni cambiamenti alle disposizioni relative all’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero.

In particolare, al fine di rafforzare la vigilanza, preventiva e successiva, da parte del Procuratore della Repubblica in ordine alla corretta osservanza delle disposizioni che regolano il momento dell’iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 del cod. proc. pen., viene stabilito, con la modifica del comma 2 dell’art. 1, che tra gli obblighi che egli deve assolvere vi sia anche quello di assicurare, accanto al corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale ed al rispetto delle norme sul giusto processo da parte del suo ufficio vi sia anche quello di garantire“l’osservanza delle disposizioni relative all’iscrizione delle notizie di reato”.

Allo stesso fine è altresì stabilito, con la modifica dell’art. 6 del D.Lgs. n. 106/2006, che siano acquisiti dati e notizie ad opera del Procuratore generale nell’ambito dei suoi poteri di vigilanza.

6. Le deleghe legislative in materia processuale 

L’art. 25 del disegno di legge determina “Principi e criteri direttivi per la riforma del processo penale in materia di intercettazione di conversazioni o comunicazioni e di giudizi di impugnazione”.

La norma, ai fini dell’esercizio della delega di cui all’art. 24, individua due macro aree d’intervento, cioè, da un lato, la materia delle intercettazioni ed acquisizioni di tabulati telefonici, anche ai fini dei reati controla Pubblica Amministrazione, e, dall’altro, il tema delle impugnazioni penali.

Circa la tecnica legislativa prescelta, vi è da segnalare un certo margine di genericità dell’oggetto e soprattutto dei criteri assegnati al legislatore delegato, aspetto che, al di là di  ogni altra valutazione critica, impedisce, allo stato, un’adeguata valutazione del portato effettivo della riforma, dato che il contenuto precettivo sostanziale è devoluto in larga parte alle future eventuali disposizioni delegate.

a) Le intercettazioni.

Quanto al primo delicato ambito di delega, il disegno di legge prescrive che i decreti  prevedano disposizioni dirette a garantire la riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni telefoniche e telematiche oggetto di intercettazione, in conformità all’articolo 15 della Costituzione. Ciò attraverso prescrizioni che incidano anche sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle captazioni e che diano una precisa scansione procedimentale all’udienza di selezione del materiale intercettativo, avendo speciale riguardo alla tutela della riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni delle persone occasionalmente coinvolte nel procedimento, in particolare dei difensori nei colloqui con l’assistito, e delle comunicazioni comunque non rilevanti a fini di giustizia penale.

La norma è chiaramente volta a realizzare una migliore conformazione della disciplina vigente in tema d’intercettazioni telefoniche rispetto alla libertà di cui all’art. 15 Cost., quale ampliamento e precisazione del fondamentale principio di inviolabilità della persona umana, sanzionato dall’articolo 13 Cost., garantendo una delle forme più dirette ed immediate di collegamento della persona con il mondo esterno.

Il legislatore delegante, alla lettera a) del primo comma dell’art. 25, hainteso occuparsi del profilo della tutela della privacy, ben recependo le indicazioni fornite nel passato dalla Corte Costituzionale, che ha da tempo[7] chiarito che l’obbligo del segreto sulle comunicazioni irrilevanti ai fini del procedimento rientra nel perimetro rimesso alla riserva di legge di cui all’art. 15.

Il disegno di legge non prevede interventi di riduzione del campo di applicazione delle strumento investigativo delle intercettazioni delineato dall’assetto normativo vigente, ma semmai indicazioni di ampliamento con riguardo ad indagini relative ai reati commessi nell’ambito delle pubbliche amministrazioni (vedi infra).

Il tema oggetto di approfondimento e di riflessione dell’art. 25, lett. a), del ddl in esame attiene più specificatamente ai contenuti pubblicabili degli esiti della attività di captazione di conversazioni o di messaggi telematici in un sistema che deve tutelare la privacy dei cittadini senza rinunciare alla libertà di informazione alla base della società democratica.

Le soluzioni dovranno, quindi, tenere conto della diversità dei contenuti della attività di intercettazione (di valenza processuale; processualmente irrilevanti ma di interesse pubblico sotto il profilo politico-sociale; di valenza strettamente personale) e della differente natura processuale dei soggetti coinvolti nella comunicazione (indagati e non indagati; testimoni di fatti processualmente rilevanti), nonché dei tempi di pubblicazione rispetto alle dinamiche procedimentali.

Il dibattito pubblico oggi propone diverse opzioni, alla luce della tipologia dei contenuti e dei soggetti coinvolti nella comunicazione captata, che si pongono alla attenzione del legislatore delegato.

Vi è chi ipotizza soluzioni estreme secondo cui i contenuti delle intercettazioni non sarebbero mai pubblicabili se non per sintesi. Ciò varrebbe per ogni contenuto e per ogni tipo di interlocutore, anche quando i testi sono presenti in una ordinanza cautelare o in altro atto giudiziario, con previsione addirittura di sanzioni detentive per i giornalistici che violano tale divieto. Un simile orientamento sembra oltremodo penalizzante per la libertà di informazione e, quindi, per la possibilità del cittadino di conoscere nei dettagli fatti di rilievo penale che coinvolgono uomini e vicende di interesse pubblico. 

Altri propongono una soluzione intermedia, che nella fase delle indagini preliminari consente la pubblicazione solo dei contenuti delle conversazioni intercettate inseriti in una ordinanza cautelare o in altro atto giudiziario, con una opzione orientata verso la valenza processuale della informazione che si rende nota .

I più “permissivi”, molti dei quali riconducibili alla categoria dei giornalisti, propendono per una conservazione dell’attuale disciplina normativa che collega alla ostensibilità degli atti processuali la pubblicazione dei contenuti delle intercettazioni.

E’ evidente che le questioni attingono una dimensione che esorbita dal piano della mera disciplina degli atti processuali, impegnando il tema più generale e di vasto respiro – emerso in plurime vicende di indagini per reati afferenti la pubblica amministrazione –  della determinazioni delle fonti e degli strumenti di informazione utilizzabili per  l’articolazione del dibattito civile necessario per nutrire la coscienza critica in ordine all’esercizio dei poteri pubblici,  in cui si esprime l’effettiva partecipazione dei cittadini al tessuto democratico delle istituzioni.  A tale proposito sono note le argomentazioni di chi sostiene che qualsiasi informazione concernente l’agire dei titolari di poteri pubblici –  anche se priva di rilievo penale ma relativa a condotte espressive di opzioni morali, sociali o di costume – meriti di essere conosciuta per consentire ai cittadini di esprimere opinioni basate su un dibattito pubblico effettivo per consentire la consapevole espressione della partecipazione democratica. Ad esse si oppone che gli strumenti del processo penale, per la loro formidabile capacità intrusiva, realizzano eccezioni dei fondamentali principi costituzionali posti a tutela della riservatezza individuale, giustificabili solo in ragione delle preminenti esigenze di repressione delle condotte di reato. La diffusione delle informazioni acquisite attraverso di esse altera la fisiologia del sistema democratico di creazione della conoscenza pubblica, travolgendo i meccanismi fisiologici dell’informazione per il dibattito, trasferendo ingiustamente al di fuori dei rigorosi confini del circuito della giustizia penale moduli procedimentali eccezionali di carattere coercitivo ed autoritari che, in quanto pregiudizievoli delle prerogative individuali, dovrebbero essere confinati agli ambiti per cui sono stati creati.

Il rischio generale è di attribuire, in maniera più o meno consapevole, all’azione giudiziaria penale poteri e funzioni che esorbitano dalla mera repressione dei reati, per assumere caratteri e finalità di generale ed ampio controllo sociale, attingendo anche agli ambiti del giudizio politico, etico e morale che le sono, in ragione dei fondamentali principi costituzionali di frammentarietà, sussidiarietà, specialità e tassatività dell’intervento repressivo,  ontologicamente estranei.

Ora, è bene tener conto che questo Consiglio Superiore ha più volte [8] espresso il proprio parere su precedenti disegni di legge in materia di intercettazioni, ribadendo alcune precise traiettorie interpretative, su cui conviene soffermarsi sinteticamente, trattandosi di canoni valutativi ben estensibili al caso di specie.

Intanto, l’Organo di governo autonomo ha sempre sostenuto l’esigenza di “un utilizzo equilibrato di strumenti invasivi di investigazione quali sono le intercettazioni telefoniche e “ambientali”.[9].

D’altra parte, nella medesima deliberazione il Consiglio ha convintamene sostenuto che “in nessun caso il timore di una possibile impropria diffusione dei risultati delle intercettazioni può giustificare l’adozione di regole che ostacolano o limitano il pieno e necessario utilizzo processuale di quei risultati”.

Resta da ribadire, in ordine al nuovo futuro articolato delegato, che se spetta certamente al legislatore fornire indicazioni o stabilire regole volte ad escludere ogni forma impropria di utilizzo degli atti in nome della riservatezza, qualsiasi misura precettiva attuativa dei predetti criteri dovrà essere sempre valutata con grande prudenza ed accuratezza vista la pluralità di interessi in gioco, tutti di rango costituzionale.

Si deve inoltre affermare che qualsiasi adempimento o formalità deve risolversi in un onere sostenibile da parte dell’ufficio, cioè debba risultare compatibile con la limitatezza delle risorse e con la possibilità di un’efficace gestione del procedimento e del servizio nel suo complesso. Invero, “la tradizionale tendenza del nostro legislatore a non farsi carico delle ricadute sulla operatività del servizio provocate dalle regole di nuova introduzione trova oggi un limite nella lettura moderna dell’art. 97 e nel disposto dell’art. 111 della Costituzione, disposizione quest’ultima che mira ad un corretto bilanciamento fra le esigenze del “giusto processo” e quella di “ragionevole durata” del processo”  [10].

Fornita così la cornice critica di riferimento, resta da chiarire qualche ulteriore aspetto relativo alle singole previsioni inserite nella citata lettera a).

Certamente condivisibile è la scelta di affrontare uno degli aspetti più controversi in materia, cioè quello riguardante il momento in cui effettuare la selezione e la trascrizione delle conversazioni intercettate, dato che opera essenzialmente qui il rischio di indebite propalazioni di comunicazioni irrilevanti ai fini delle indagini, ma lesive della riservatezza dell’imputato o di terzi su circostanze estranee al processo.

In tale direzione, un intervento di riforma inteso a imporre una chiara sequenza temporale tra conclusione delle operazioni di intercettazione, deposito di verbali e registrazioni, “udienza stralcio” e perizia trascrittiva potrebbe ben scongiurare il rischio di diffusione di notizie irrilevanti per il processo, assicurare la tutela dellaprivacye consentire l’immediato esercizio del diritto di difesa.

Corretto è l’intento del legislatore di assegnare specifico rilievo alla tutela dei cittadini non indagati che abbiano avuto contatti con soggetti sottoposti ad intercettazione ed alla protezione di quel perimetro assolutamente confidenziale e riservato costituito dai colloqui difensivi.

Alla lettera b) dell’art. 25, il disegno di legge delega il Governo a “prevedere la semplificazione delle condizioni per l’impiego delle intercettazioni delle conversazioni e delle comunicazioni telefoniche e telematiche nei procedimenti per i più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”.

Il legislatore intende, pertanto, stabilire requisiti meno stringenti per il ricorso alle intercettazioni in vista della migliore repressione dei più gravi reati degli intranei controla P.A., ciò che appare ben condivisibile tenuto conto dei livelli di assoluta gravità che il fenomeno della corruzione ha assunto nel nostro Paese, al pari di altri ambiti criminali pure soggetti allo slargamento delle possibilità investigative sulle comunicazioni.

Infine, alla lettera c) della medesima norma, la delega così viene articolata: “prevedere la garanzia giurisdizionale per l’acquisizione dei dati relativi al traffico telefonico, telematico e informatico, nonché il potere d’intervento d’urgenza del pubblico ministero, in conformità alla disciplina prevista per le intercettazioni di comunicazioni e conversazioni telefoniche”.

La norma è riferita all’attività di acquisizione dei dati estrinseci delle comunicazioni telefoniche, inerenti cioè all’utenza chiamante e all’utenza chiamata, alla data, ora, durata e luogo della conversazione. Quanto alle comunicazioni telematiche, i dati si riferiscono alle tracce lasciate dagli utenti suiservers: identità dei clienti, data e durata dell’allacciamento in rete e servizio richiesto.

L’intervento di riforma appare più che mai opportuno, tenuto conto che la Corte Costituzionale(sentt. nn. 81/1993, 281/1998, 372/2006) ha ricompreso anche i dati esteriori delle comunicazioni nell’alveo dell’art. 15 Cost. [11].

Dunque, la riserva di giurisdizione viene ora ritenuta operante anche con riguardo ai cd. dati estrinseci.

Rimane certamente auspicabile che il legislatore delegato realizzi un sistema garantistico ben coordinato con la vigente disciplina in tema di riservatezza[12]. Con la riforma in oggetto l’attribuzione del potere acquisitivo sarà rimessa al giudice, salvo l’intervento del P.M in casi di urgenza.

Ora, tenuto conto che il primo intervento legislativo in materia si è avuto con il D.Lgs. n. 171/1998, che all’art. 4 aveva previsto un obbligo di conservazione dei dati a carico del fornitore del servizio, successivamente, il D.L. n. 354/2003, poi convertito nella legge n. 45/2004, aveva attribuito al giudice il potere acquisitivo, e che tale regime normativo è stato modificato con l’assegnazione al Pubblico ministero di tale funzione, ad opera del D.L. n. 144/2005, convertito nella legge n. 155/2005, sarebbe opportuna una definitiva stabilizzazione dell’assetto delle competenze in materia.

b) Il regime delle impugnazioni.

Alle lettere da d) ad l) del primo comma dell’art. 25, il disegno di legge definisce principi e criteri direttivi per la delega legislativa in tema di impugnazioni penali.

La riforma si muove su tre linee di fondo: limitazione della possibilità di ricorrere per Cassazione, restrizione dei casi di appellabilità delle sentenze e definizione di norme processuali a scopo deflativo e semplificativo del giudizio di gravame.

In via di prima approssimazione, è quasi pleonastico rilevare che ormai da tempo la materia delle impugnazioni penali è oggetto di specifica attenzione nel dibattito politico e giuridico [13], senza tuttavia che si siano ad oggi raggiunti approdi di diritto positivo soddisfacenti.

L’ormai ciclico dibattito su questo tema sconta, evidentemente, l’oggettiva difficoltà di coniugare esigenze ordinamentali contrapposte, quali la necessità di contingentare i tempi irragionevoli del processo ed arginare l’abuso degli strumenti processuali, con il bisogno di assicurare piena garanzia ai diritti delle parti e di pervenire ad una decisione finale “giusta”.

Peraltro, il progresso scientifico che ha fatto del contraddittorio il metodo principe di formazione della prova ha messo in dubbio l’opportunità di mantenere un tipo di appello, in grado di sostituirsi all’accertamento di primo grado, senza oralità e senza immediatezza.

Il progetto riformatore del sistema delle impugnazioni penali delineato nel disegno di legge n. 2798 non assurge sicuramente a grande manovra di riforma strutturale del sistema delle impugnazioni.

E’ chiaro, infatti, che il legislatore non ha inteso rivedere in maniera approfondita l’impianto processuale penale in materia, limitandosi ad ammodernarne solo alcune parti isolate.

E ciò potrebbe indurre riflessioni critiche non tanto sulla scelta di conservare il disegno di fondo ponendo mani ad una mera microchirurgia d’interventi, quanto sulla probabilità che da un siffatto modus operandi scaturiscano, come spesso avviene [14], incoerenze e distonie che di certo potrebbero inquinare l’armonia del sistema nel suo insieme.

Infatti, la strategia della parcellizzazione è sì rapida ed incisiva, ma può non tener conto del fatto che il momento di controllo della sentenza difficilmente può essere disgiunto dal modo con cui il percorso decisorio complessivo si sviluppa.

Tanto premesso, la filosofia di fondo che anima la riforma merita sicuro apprezzamento nella misura in cui la medesima dovrebbe, con adeguata organicità e razionalità, riallineare le norme processuali allo scopo primario della celerità della risposta giudiziaria. L’art. 111 Cost. codifica, infatti, accanto a quelli dell'”oralità” e dell'”immediatezza”, il fondamentale principio della “ragionevole durata del processo”, che da tempo sollecita spinte innovative immediatamente incidenti sulla velocizzazione e razionalizzazione del processo penale. 

In tale direzione, le previsioni del disegno di legge intese a restringere il perimetro di appellabilità delle sentenze penali ben potrebbero soddisfare – a seguito di un’adeguata attuazione della delega – il canone costituzionale di un processo “giusto”, cioè oltre che garantista, anche efficiente.

L’obiettivo di snellimento e accelerazione viene perseguito dal legislatore delegante tanto sul piano della legittimazione soggettiva quanto su quello dell’appellabilità oggettiva.

Non sembra essere stato invece recepita l’indicazione della Consulta (cfr. sentenza n. 85/2008) sull’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento su contravvenzioni punite con la sola ammenda o pena alternativa.

Né risulta invece recepito lo spunto, pur emerso nel dibattito sul tema, di eliminazione di quel vincolo ai poteri decisori del giudice costituito dal divieto di reformatio in peius, con ogni considerazione che ne può seguire.

Sul versante dei limiti oggettivi di appellabilità, va richiamata la previsione di cui alla lettera h) della proponibilità dell’appello solo per uno o più motivi tassativamente previsti e con onere d’indicazione specifica delle eventuali prove da rinnovare. Parimenti, la lettera i) introduce la previsione legale di limiti di proponibilità dell’appello incidentale. La lettera l) richiede infine la previsione di un’udienza camerale per la declaratoria d’inammissibilità dell’appello.

La disposizione merita particolare attenzione in quanto intende definitivamente superare il carattere “universale” del gravame, espungendo l’effetto, sino ad oggi, tendenzialmente devolutivo dell’impugnazione.

La ristrutturazione del giudizio di seconde cure quale grado destinato al mero controllo della decisione acquisita dovrebbe trovare fondamento nella tipizzazione dei motivi di appello, numerus clausus, quale condizione di proponibilità.

E’ evidente la potenzialità che l’innovazione potrebbe rivestire in termini di snellimento ed accelerazione, considerato che la tassatività dei petita dovrebbe scongiurare appelli omnibus volti alla revisio prioris instantia e, rafforzando l’essenza impugnatoria del secondo grado ed in qualche maniera avvicinandolo al giudizio di cassazione.

I criteri di cristallizzazione positiva di tali motivi, filtro di accesso in appello, rimangono imprecisati nel disegno di legge e ciò, a parte ogni considerazione critica sui contenuti minimi che la  legge delega dovrebbe in ipotesi avere, rende impossibile sviluppare sul punto – in sé pur molto rilevante – ogni altro rilievo più approfondito.

Infine, merita menzione la lettera d) del medesimo art. 25 dedicata al giudizio di legittimità, con la previsione della possibilità di impugnare per cassazione soltanto per violazione di legge sia la sentenza che conferma la pronuncia di assoluzione di primo grado, individuando i casi in cui possa affermarsi la conformità delle due decisioni di merito, sia le sentenze emesse in grado di appello nei procedimenti di competenza del giudice di pace.

La misura appare certamente apprezzabile in quanto tende ad arginare l’alluvionale massa di ricorsi di cuila Corteè annualmente investita, circostanza questa che non solo provoca effetti negativi in termini di carichi insostenibili di lavoro e di durata dei processi, ma che può incidere anche sulla funzione nomofilattica della Suprema Corte.

Con formula piuttosto vaga, il D.D.L. prevede che spetterà al legislatore delegato individuare i requisiti perché la doppia assoluzione possa essere considerata duplice decisione conforme, verosimilmente riferendosi alle ragioni giuridiche che sostengono  nei due gradi di merito la sentenza di proscioglimento. Profili di criticità potrebbero rilevarsi con riguardo alla disparità dei poteri impugnatori della parte privata e di quella pubblica di fronte alla stessa fattispecie processuale (doppia conforme), anche tenuto conto della giurisprudenza costituzionale formatasi sulla disciplina della legge n. 46/2006.

Quanto invece ai procedimenti dinanzi al giudice di pace, il legislatore equipara i poteri processuali di entrambe le parti rispetto ad ipotesi di reati di non particolare gravità, per le quali risulta esaustivo assicurare una cognizione estesa al doppio grado di merito ed al controllo di legittimità.»

Il presente parere viene trasmesso al Ministro della Giustizia.

[1] Si tratta di reati di furto con violenza sulle cose, ovvero con destrezza o sul bagaglio di viaggiatori, nonché di introduzione o abbandono di animali nel fondo altrui e pascolo abusivo e di uccisione o danneggiamento di animali altrui, che, nella fattispecie incriminatrice di base, sono comunque perseguibili a querela.

[2] in tal senso cfr. il D.D.L. S.19, rubricato “Disposizioni in materia di corruzione, voto di scambio, falso in bilancio e riciclaggio”, che venne presentato in data 15 marzo 2013 dall’attuale Presidente del Senato dott. Grasso ed altri firmatari, che prevede attenuante speciale con diminuzione pena da un terzo alla metà per chi collabora.

[3] Per un analitico e puntuale esame della questione, in riferimento alle diverse tipologie di confisca, si veda Cass. Penale Sez Un. 29 maggio 2014 (depositata 29 luglio 2014) n. 33451.

[4] Cfr., in particolare, le sentenze della Corte EDU, 20 gennaio 2009, Sud Fondi c. Italia e 29 ottobre 2011, Varvara

[5] E’ utile ricordare che analoga previsione è già prevista in materia di confisca di prevenzione. D’altra parte, proprio la peculiarità del procedimento di prevenzione, che non postula l’accertamento di responsabilità penali individuali, è stata utilizzata dalla Corte Costituzionale quale argomento per escluderne dubbi di compatibilità conla Carta (sent. n. 21 del 2012).

[6] Tra le altre, si vedano Cass Pen., Sez. III, 20 maggio 2014, n. 24860, Cass. Pen., Sez. III, 11 marzo 2014, n. 23965.

[7] nella nota sentenza n. 34/1973.

[8] Oltre al parere di seguito citato, si segnalano le più recenti delibere 17 febbraio 2009 e 21 dicembre 2006.

[9] Deliberazione del 9 febbraio 2006, avente ad oggetto “Nota in data 17 settembre 2005 del Ministro della Giustizia, con la quale trasmette, per il parere, copia del disegno di legge, approvato dal Consiglio dei Ministri il 9 settembre 2005, concernente:Disposizioni in materia di intercettazioni telefoniche ed ambientali e di pubblicità degli atti del fascicolo del pubblico ministero e del difensore”.

[10] Ult. cit..

[11] La pronuncia n. 81 cit. ha però mancato di estendere la disciplina delle intercettazioni telefoniche ai tabulati, ritenendo piuttosto applicabile l’art. 256 c.p.p. relativo all’acquisizione di documenti coperti dal segreto professionale (ad analoghe conclusioni è giuntala Corte EDU nella pronuncia Malone c. Royaume Uni [1984]).

[12] Si consideri, infatti, che attualmente l’acquisizione dei dati esteriori delle comunicazioni è regolata dall’art. 132 del D.Lgs. n. 196/2003 (c.d. codice dellaprivacy, così come modificato dal D.L. n. 144/2005 convertito dalla legge n. 155 del 2005) che prevede un obbligo di conservazione di 24 mesi per i dati esteriori di comunicazioni telefoniche e di 12 mesi per le comunicazioni telematiche, prorogabili dal giudice rispettivamente per altri 24 e 6 mesi per indagini relative a reati di particolare gravità già individuati dall’art. 407 II comma lett. a) c.p.p. I dati possono essere acquisiti con decreto motivato del P.M. se la richiesta avviene nella prima scansione temporale; qualora invece l’acquisizione si riferisca a materiale più risalente, sarà necessario l’intervento acquisitivo del giudice. Un meccanismo “a doppio binario” che si è discostato sino ad oggi dal modello disegnato dal legislatore per le intercettazioni telefoniche per il mero intervento del P.M..

[13] La letteratura scientifica sul tema è sterminata. Una ricognizione recente delle questioni è contenuta in Bargis Marta; Belluta Hervé,Impugnazioni penali. Assestamenti del sistema e prospettive di riforma, Giappichelli, 2013.        

[14] Si pensi alle complicazioni interpretative e giudiziarie scaturite dalla legge n. 46/2006.

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22/05/2015

LEX – Agenda Normativa

Nuova disciplina della diffamazione, omicidio stradale e non solo…

Il Parlamento ha approvato definitivamente sia il ddl c.d. anticorruzione con le nuove disposizioni sul falso in bilancio, sia il ddl in materia di delitti contro l’ambiente. Prime approvazioni, invece, per la riforma dell’istruzione (dalla Camera) e per il contrasto al cyberbullismo (dal Senato). Sbarca finalmente a Palazzo Madama il disegno di legge che introduce l’omicidio stradale, mentre la Camera ha iniziato l’esame della nuova class action. In Commissione Giustizia incominciano i lavori sul ddl di modifica alla disciplina della diffamazione, già approvata dal Senato. Le Commissioni riunite Giustizia e Lavoro hanno iniziato l’esame del provvedimento per la protezione degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità nell’interesse pubblico.

Nella settimana in cui il Parlamento ha approvato definitivamente il ddl 3008 c.d. anticorruzione con le nuove disposizioni in materia di falso in bilancio e il ddl n. 1345-B in materia di delitti contro l’ambiente (per saperne di più sui nuovi ecoreati, clicca qui), la Camera dei Deputati ha approvato il disegno di legge C. 2994-A e abb. contenente  la riforma del sistema nazionale di istruzione: il provvedimento passa ora all’esame del Senato. Approda all’esame della Camera la proposta di legge in materia di azione di classe (per approfondire la disciplina sulla nuova class action, clicca qui). A Palazzo Madama, l’Assemblea ha approvato il ddl n. 1261, per il contrasto del fenomeno del cyberbullismo (tema affrontato qui): il testo passa ora all’altro ramo del Parlamento.

Alla Camera, La Commissione Bilancio ha formulato pareri favorevoli con condizioni sui ddl governativi in tema di misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro (per approfondire l’argomento, clicca qui) e di riforma delle tipologie contrattuali e revisione della disciplina delle mansioni (schemi di d.lgs. che hanno ottenuto parere favorevole anche in Commissione Bilancio della Camera). La Commissione Lavoro ha proseguito l’esame in comitato ristretto del provvedimento C. 435 in materia di collocamento al lavoro dei centralinisti telefonici e degli operatori della comunicazione minorati della vista, mentre la Commissione Politiche dell’Unione europea, in sede referente, continua i lavori sul ddl c.d. Legge europea 2014.

Le Commissioni riunite Giustizia e Lavoro hanno iniziato l’esame in sede referente del provvedimento C. 1751 per la protezione degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità nell’interesse pubblico. La Commissione Affari costituzionali ha iniziato un’indagine conoscitiva per il ddl C. 3098 sulla riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche (per saperne di più, clicca qui), approvato dal Senato.

La Commissione giustizia, in sede referente, ha proseguito l’esame del provvedimento C. 925-B in materia di diffamazione, modificata dal Senato in seguito all’approvazione da parte della Camera.

Al Senato, la Commissione Giustizia ha conferito mandato al relatore a riferire favorevolmente all’Assemblea sul testo unificato con le modifiche apportate in tema di omicidio stradale (per aprrofondire, clicca qui): per il parere al Governo, è iniziato l’esame dell’A.G. n. 166 in tema di reciproco riconoscimento decisioni di confisca.

La Commissione Bilancio ha emanato parere in parte non ostativo, in parte contrario sull’A.S. 1676 sulla green economy, già approvato dalla Camera dei Deputati. La Commissione Lavori pubblici, in sede referente, ha proseguito l’esame degli emendamenti riferiti al nuovo testo adottato per il disegno di legge n. 1678 contenente delega per il recepimento delle direttive in tema di appalti e concessioni.

Nuova disciplina della diffamazione

La Commissione giustizia ha ripreso l’esame del ddl n. 925-B in materia di diffamazione, di diffamazione a mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante nonché di segreto professionale e con ulteriori disposizioni a tutela del soggetto diffamato. La norma è stata approvata nell’ottobre 2014 dal Senato che ha apportato modifiche al testo approvato precedentemente alla Camera.

Ecco le principali novità:

· l’ambito di applicazione della legge sulla stampa si estenda alle testate giornalistiche on-line e a quelle radiotelevisive;

· modificata la disciplina della rettifica ed eliminata la pena della reclusione nelle sanzioni in materia di diffamazione a mezzo stampa;

· modifiche alla disciplina della responsabilità del direttore del quotidiano o di altro mezzo di diffusione, nel caso in cui il delitto sia stato conseguente alla violazione dei doveri di vigilanza sul contenuto della pubblicazione;

· per l’ingiuria, la pena della reclusione è stata sostituita con una multa fino ad un massimo di 5.000 euro;

· eliminazione dei contenuti diffamatori dai siti internet e dai motori di ricerca;

· sanzione per le lite temerarie per i reati in materia di diffamazione;

· estensione della disciplina del segreto professionale anche ai giornalisti pubblicisti iscritti all’albo.

PROVVEDIMENTI PUBBLICATI IN GAZZETTA UFFICIALE (15 – 21 maggio 2015)  

ARGOMENTOESTREMINOME COMUNEPUBBLICATI
BancheDECRETO LEGISLATIVO 7 maggio 2015, n. 66 Norme per l’attuazione della direttiva 2013/14/UE, che modifica le direttive 2003/41/CE, 2009/65/CE e 2011/61/UE, e per l’adeguamento alle disposizioni del regolamento (UE) n. 462/2013, che modifica il regolamento (CE) n. 1060/2009, relativo alle agenzie di rating del credito. (15G00079)Agenzie di rating del creditoGU Serie Generale n.116 del 21-5-2015
Imposte erariali e di consumoN. 83 SENTENZA 15 aprile – 15 maggio 2015Giudizio di legittimita’ costituzionale in via incidentale. Commercio – Commercializzazione dei prodotti contenenti nicotina o altre sostanze idonei a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati nonche’ i dispositivi meccanici ed elettronici che ne consentono il consumo – Assoggettamento a regime autorizzatorio ed all’imposta di consumo. – Decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504 (Testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative), art. 62-quater, nel testo originario, antecedente alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 15 dicembre 2014, n. 188 (Disposizioni in materia di tassazione dei tabacchi lavorati, dei loro succedanei, nonche’ di fiammiferi, a norma dell’articolo 13 della legge 11 marzo 2014, n. 23). GU 1a Serie Speciale – Corte Costituzionale n.20 del 20-5-2015
RegioniN. 82 SENTENZA 25 marzo – 15 maggio 2015Giudizio di legittimita’ costituzionale in via principale. Bilancio e contabilita’ pubblica – Concorso al risanamento della finanza pubblica da parte delle autonomie speciali e dei comuni ricadenti nel territorio di alcune di esse a decorrere dall’anno 2012. – Decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equita’ e il consolidamento dei conti pubblici) – convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214 – artt. 28, commi 2, 3, 6, 7, 8, 9, 10 e 11-ter, e 48. GU 1a Serie Speciale – Corte Costituzionale n.20 del 20-5-2015
Sicurezza socialeDECRETO-LEGGE 21 maggio 2015, n. 65Disposizioni urgenti in materia di pensioni, di ammortizzatori sociali e di garanzie TFR. (15G00081) GU Serie Generale n.116 del 21-5-2015

PROVVEDIMENTI APPROVATI MA NON ANCORA PROMULGATI O PUBBLICATI

ARGOMENTODISEGNO/PROPOSTA DI LEGGENOME COMUNESTATO
Assicurazioni privateAttuazione della direttiva 2009/138/CE in materia di accesso ed esercizio delle attività di assicurazione e di riassicurazione (solvibilità II) (decreto legislativo – esame definitivo) 8 maggio 2015: approvato definitivamente; firmato dal Presidente della Repubblica
BancheAttuazione della direttiva 2013/36/UE, che modifica la direttiva 2002/87/CE e abroga le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE, per quanto concerne l’accesso all’attività degli enti creditizi e la vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento. Modifiche al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (decreto legislativo – esame definitivo) 8 maggio 2015: approvato definitivamente; firmato dal Presidente della Repubblica
Codice penaleC. 3008 [Sen. Pietro Grasso (PD) e altri] Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancioCorruzione, voto di scambio, falso in bilancio e riciclaggio21 maggio 2015: approvato definitivamente
Documentazioni amministrative e legalizzazione di firmeAttuazione di direttiva europea in materia di riutilizzo dell’informazione del settore pubblico di attuazione della direttiva 2013/37/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che modifica la direttiva 2003/98/CE (decreto legislativo – esame definitivo)Informazione del settore pubblico18 maggio 2015: approvato definitivamente
Enti localiAdozione delle note metodologiche e dei fabbisogni standard per ciascun Comune delle Regioni a statuto ordinario relativi alle funzioni di istruzione pubblica, nel campo della viabilità, nel campo dei trasporti, di gestione del territorio e dell’ambiente al netto dello smaltimento rifiuti, sul servizio smaltimento rifiuti, nel settore sociale e sul servizio degli asili nido, a norma dell’articolo 6 del decreto legislativo 26 novembre 2010, n. 216 (decreto del presidente del Consiglio dei Ministri – esame definitivo)Fabbisogni standard27 marzo 2015: approvato definitivamente
Inquinamento e salvaguardia dell’ambienteS. 1345-B [On. Ermete Realacci (PD) e altri] Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente
 
Delitti contro l’ambienteApprovato definitivamente, non ancora pubblicato
Navigazione marittima e internaAttuazione di direttiva europea sul controllo dello stato di approdo (decreto legislativo – esame definitivo)Controllo dello stato di approdo21 aprile 2015: approvato definitivamente; firmato dal Presidente della Repubblica
Ordinamento giudiziario e amministrazione della giustiziaRegolamento di organizzazione del ministero della Giustizia e riduzione degli uffici dirigenziali e delle dotazioni organiche del Ministero della Giustizia (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri – esame definitivo)Organizzazione del Ministero della giustizia18 maggio 2015: approvato definitivamente
ZootecniaAttuazione della direttiva 2013/31/UE, che modifica la direttiva 92/65/CEE, per quanto riguarda le norme sanitarie che disciplinano gli scambi e le importazioni nell’Unione di cani, gatti e furetti (decreto legislativo – esame definitivo)Scambi e importazioni in UE di cani, gatti e furetti8 maggio 2015: approvato definitivamente; firmato dal Presidente della Repubblica

SEGNALAZIONI SU LAVORI IN CORSO

ARGOMENTODISEGNO/PROPOSTA DI LEGGENOME COMUNESTATO
Agricoltura e prodotti agricoliC. 3119 [Governo Letta-I] Deleghe al Governo e ulteriori disposizioni in materia di semplificazione, razionalizzazione e competitività dei settori agricolo, agroalimentare, della pesca e dell’acquacoltura
 
Competitività settore agricoloTrasmesso dal Senato-Assegnato alla 13ª Commissione permanente (Agricoltura) in sede referente
Amministrazione del patrimonio e contabilità generale dello StatoC. 3098 [Governo Renzi-I] Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubblicheRiforma delle amministrazioni pubblicheTrasmesso dal Senato -In corso esame alla 1ª Commissione permanente (Affari costituzionali) in sede referente
C. 2343 [Governo Renzi-I] Disposizioni di carattere finanziario finalizzate a garantire la funzionalità di enti locali, la realizzazione di misure in tema di infrastrutture, trasporti ed opere pubbliche, nonché a consentire interventi in favore di popolazioni colpite da calamità naturali [con altro] In corso esame alla 5ª Commissione permanente (Bilancio, tesoro e programmazione) in sede referente
Associazioni vietateS. 686 [Sen. Felice Casson (PD)] Modifiche al codice penale in materia di associazioni di tipo mafioso [con altro]Concorso esterno in associazione mafiosaIn corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
S. 1687 [Governo Renzi-I] Misure volte a rafforzare il contrasto alla criminalità organizzata e ai patrimoni illeciti [con altro]Contrasto alla criminalità organizzataIn corso esame alle commissioni riunite 1ª (Affari Costituzionali) e 2ª (Giustizia) in sede referente
C. 2580 [On. Andrea Vecchio (SCpI)] Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, volte a rendere più efficiente l’attività dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, a favorire la vendita dei beni confiscati e il riutilizzo del ricavato per finalità sociali nonché a rendere produttive le aziende confiscate [con altro] In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
C. 2848 [Sen. Vito Claudio Crimi (M5S) e altri] Modifica al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, in materia di soggetti sottoposti alla verifica antimafiaModifica al decreto legislativo 159/2011, concernente i soggetti sottoposti alla verifica antimafiaTrasmesso dal Senato –
Concluso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
Associazionismo, volontariato e impresa socialeS. 1870 [Governo Renzi-I] Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universaleTerzo settore, impresa sociale e Servizio civile universaleTrasmesso dalla Camera -In corso esame alla 1ª Commissione permanente (Affari Costituzionali) in sede referente
Autoveicoli e circolazione stradaleS. 1638 [On. Silvia Velo (PD) e altri] Delega al Governo per la riforma del codice della strada, di cui al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 Riforma del codice della stradaTrasmesso dalla Camera -In corso esame alla 8ª Commissione permanente (Lavori pubblici, comunicazioni) in sede referente
Avvocati e procuratoriS. 1012 [Sen. Giacomo Caliendo (PdL) e altri] Istituzione e funzionamento delle Camere arbitrali dell’AvvocaturaCamere arbitrali dell’AvvocaturaIn corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
BancheS. 1259 [Sen. Gianluca Rossi (PD) e altri] Delega al Governo per la riforma del sistema dei ConfidiDelega per la riforma dei confidiIn stato relazione
Codice di procedura civileC. 1335 [On. Alfonso Bonafede (M5S)] Modifiche al codice di procedura civile e abrogazione dell’articolo 140-bis del codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, in materia di azione di classe [con altro] All’esame Assemblea
Codice di procedura penaleC. 2798 [Governo Renzi-I] Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore contrasto del fenomeno corruttivo, oltre che all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena [con altri] In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
C. 2813 [Governo Renzi-I] Delega al Governo per la riforma del libro XI del codice di procedura penale. Modifiche alle disposizioni in materia di estradizione per l’estero: termine per la consegna e durata massima delle misure coercitive In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
Codice penaleC. 2874 [Sen. Silvana Amati (PD) e altri] Modifica all’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, in materia di contrasto e repressione dei crimini di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale, e modifica all’articolo 414 del codice penaleReato di negazionismoTrasmesso dal Senato -In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
S. 1830 [Governo Renzi-I] Ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalle sparizioni forzate adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 dicembre 2006Ratifica Convenzione ONU protezione persone da sparizioni forzateTrasmesso dalla Camera -In corso esame alla 3ª Commissione permanente (Affari esteri, emigrazione) in sede referente
S. 859 [Sen. Domenico Scilipoti (PdL)] Modifica al codice della strada, al codice penale ed all’art. 380 del codice di procedura penale, in materia di Omicidio Stradale [con altri]Norme penali sull’omicidio stradaleConcluso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
S. 10-362-388-395-849-874-B[Sen. Luigi Manconi (PD) e altri] Introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano [con altri]TorturaTrasmesso (dal Senato e in seguito) dalla Camera -In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
C. 2937 [Sen. Maurizio Romani (M5S) e altri] Modifiche al codice penale e alla legge 1° aprile 1999, n. 91, in materia di traffico di organi destinati al trapianto e alla legge 26 giugno 1967, n. 458, in materia di trapianto del rene tra persone viventiTraffico organi destinati al trapiantoTrasmesso dal Senato -Assegnato alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
S. 1261 [Sen. Elena Ferrara (PD)]
Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo [con altro]
Contrasto al cyberbullismoApprovato (modificato rispetto al testo del proponente), passa all’altro ramo
C. 925-B [On. Enrico Costa (PdL)] Modifiche alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, al codice penale, al codice di procedura penale e al codice di procedura civile in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante nonché di segreto professionale. Ulteriori disposizioni a tutela del soggetto diffamato DiffamazioneTrasmesso dal Senato -In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
S. 1052 [On. Ivan Scalfarotto (PD) e altri] Disposizioni in materia di contrasto dell’omofobia e della transfobia [con altri]Contrasto all’omofobia e alla transfobiaTrasmesso dalla Camera -In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
C. 2664 [On. Giuseppe Lauricella (PD)] Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di furto di materiale appartenente a infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
S. 1844 [On. Donatella Ferranti (PD) e altri] Modifiche al codice penale in materia di prescrizione del reatoPrescrizione dei reatiTrasmesso dalla Camera -In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
S. 20 [Sen. Luigi Manconi e altri] Concessione di amnistia e indulto [con altri]  Amnistia e indultoIn corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
Costituzione dello StatoS.1429-B [Governo Renzi-I] Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte II della CostituzioneRevisione della Parte II della CostituzioneTrasmesso dalla Camera -Assegnato alla 1ª Commissione permanente (Affari Costituzionali) in sede referente
Edilizia e urbanisticaC. 2039 [Governo Letta-I] Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato [con altri] In corso esame alle commissioni riunite 8ª (Ambiente, territorio e lavori pubblici) e 13ª (Agricoltura) in sede referente
S. 74 [Sen. Luigi Zanda (PD)] Legge quadro in materia di valorizzazione della qualità architettonica e disciplina della progettazione. Delega al Governo per la modifica del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163Valorizzazione qualità architettonicaIn corso esame alla 7ª Commissione permanente (Istruzione pubblica, beni culturali) in sede referente
Enti localiS. 1448 [Sen. Paolo Romani (FI-PdL XVII) e altri] Modifiche agli articoli 114, 117, 118, 119, 120, 132 e 133 della Costituzione, in materia di abolizione delle province
[con altri]
Soppressione delle provinceIn stato di relazione
FamigliaS. 14 [Sen. Luigi Manconi] Disciplina delle unioni civili [con altri]Disciplina delle coppie di fatto e delle unioni civiliIn corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
C.1589-B [Governo Letta-I] Ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori, fatta all’Aja il 19 ottobre 1996Ratifica convenzione Aja protezione minoriTrasmesso dal Senato –
In corso esame alle commissioni riunite 2ª (Giustizia) e 3ª (Affari esteri e comunitari) in sede referente
S. 1628 [On. Laura Garavini (PD) e altri] Disposizioni in materia di attribuzione del cognome ai figli Trasmesso dalla Camera – Assegnato alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
C. 2957 [Sen. Francesca Puglisi (PD) e altri] Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare Adozione dei minoriTrasmesso dal Senato -In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
C. 784 [On. Luisa Bossa (PD)] Modifica all’art. 28 della legge 4 maggio 1983, n. 184, in materia di accesso del figlio adottato non riconosciuto alla nascita alle informazioni sulle proprie origini e sulla propria identità [con altri] Concluso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
Forze armateS. 1809 [On. Carlo Galli (PD) e altri]
Modifiche al codice dell’ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, in materia di limiti di assunzione di incarichi presso imprese operanti nel settore della difesa da parte di ufficiali delle Forze armate che cessano dal servizio e di dirigenti civili del Ministero della difesa
Limiti all’assunzione di incarichi presso imprese della difesa da parte di ufficiali delle Forze armate e di dirigenti civiliTrasmesso dalla Camera -In corso esame alla 4ª Commissione permanente (Difesa) in sede referente
Gruppi di pressioneS. 1522 [Sen. Luis Alberto Orellana (Misto, Italia Lavori in Corso) e altri]
Disposizioni in materia di rappresentanza di interessi presso i decisori pubblici [con altri]
Attività di rappresentanza interessiIn corso esame alla 1ª Commissione permanente (Affari Costituzionali) in sede referente
Immigrazione extracomunitaria, rifugiati e apolidiS. 1871 [On. Bruno Molea (SCpI) e altri] Disposizioni per favorire l’integrazione sociale dei minori stranieri residenti in Italia mediante l’ammissione nelle società sportive appartenenti alle federazioni nazionali, alle discipline associate o agli enti di promozione sportiva Trasmesso dalla Camera -Assegnato alla 7ª Commissione permanente (Istruzione pubblica, beni culturali) in sede referente
Inquinamento e salvaguardia dell’ambienteS. 1676 [Governo Letta-I] Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali Collegato ambientale – legge stabilità 2014Trasmesso dalla Camera -In corso esame alla 13ª Commissione permanente (Territorio, ambiente, beni ambientali) in sede referente
S. 8 [Sen. Felice Casson e altri] Norme a tutela dei lavoratori, dei cittadini e dell’ambiente dall’amianto, nonché delega al Governo per l’adozione di un testo unico in materia di amianto [con altri]Norme tutela esposizione amiantoIn corso esame alla 11ª Commissione permanente (Lavoro, previdenza sociale) in sede referente
S.1458 [On. Ermete Realacci (PD) e altri] Istituzione del Sistema nazionale a rete per la protezione dell’ambiente e disciplina dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientaleAgenzie ambientaliTrasmesso dalla Camera -In corso esame alla 13ª Commissione permanente (Territorio, ambiente, beni ambientali) in sede referente
Istituti di prevenzione e di penaC. 983 [On. Sandro Gozi (PD)] Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni in materia di relazioni affettive e familiari dei detenuti [con altro]
 
 In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
IstruzioneC. 2994 [Governo Renzi-I] Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni vigenti Approvato (modificato rispetto al testo del proponente), passa all’altro ramo
LavoroS. 1051 [Sen. Maurizio Sacconi (PdL) e altri] Delega al Governo in materia di informazione e consultazione dei lavoratori, nonché per la definizione di misure per la democrazia economicaPartecipazione lavoratori gestione impreseIn corso esame alla 11ª Commissione permanente (Lavoro, previdenza sociale) in sede referente
S. 1148 [Sen. Nunzia Catalfo (M5S) e altri] Istituzione del reddito di cittadinanza nonché delega al Governo per l’introduzione del salario minimo orario [con altri]
 
Reddito di cittadinanza e salario minimo orarioIn corso esame alla 11ª Commissione permanente (Lavoro, previdenza sociale)
Opere pubblicheS. 1678 [Governo Renzi-I] Delega al Governo per l’attuazione della direttiva 2014/23/UE del 26 febbraio 2014 del Parlamento europeo e del Consiglio sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, della direttiva 2014/24/UE del 26 febbraio 2014 del Parlamento europeo e del Consiglio sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE e della direttiva 2014/25/UE del 26 febbraio 2014 del Parlamento europeo e del Consiglio sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali e che abroga la direttiva 2004/17/CEDelega recepimento direttive appalti e concessioniIn corso esame alla 8ª Commissione permanente (Lavori pubblici, comunicazioni)in sede referente
C. 219 [On. Matteo Bragantini (LNA)]Modifiche all’articolo 17 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e ulteriori disposizioni in materia di contratti segretati o che esigono particolari misure di sicurezza Approvato (modificato rispetto al testo del proponente), passa all’altro ramo
S. 980 [Sen. Domenico Scilipoti (PdL) e altri] Norme per la consultazione e la partecipazione democratica in materia di localizzazione e realizzazione di opere pubbliche [con altri]Consultazione realizzazione opere pubblicheIn corso esame alle commissioni riunite 8ª (Lavori pubblici, comunicazioni) e 13ª (Territorio, ambiente, beni ambientali) in sede referente
Ordinamento giudiziario e amministrazione della giustiziaS. 1626 [Governo Renzi-I] Riforma della disciplina della responsabilità civile dei magistratiResponsabilità civile dei magistratiIn corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
S. 1738 [Governo Renzi-I] Delega al Governo per la riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace
[con altri]
 In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
C. 2188 [Sen. Nitto Francesco Palma (PdL)] Disposizioni in materia di candidabilità, eleggibilità e ricollocamento dei magistrati in occasione di elezioni politiche e amministrative nonché di assunzione di incarichi di governo nazionale e negli enti territoriali. Modifiche alla disciplina in materia di astensione e ricusazione dei giudici [con altri]Ineleggibilità ed incompatibilità dei magistrati. Magistrati cessati da cariche politicheTrasmesso dal Senato -In corso esame alle commissioni riunite 1ª (Affari costituzionali) e 2ª (Giustizia) in sede referente
S. 1339 [Sen. Enrico Cappelletti (M5S) e altri] Disposizioni in materia di giustizia telematicaGiustizia telematicaIn corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
Poste e telecomunicazioniS. 1561 [Sen. Francesco Campanella (Misto, Italia Lavori in Corso)] Introduzione dell’articolo 34-bis della Costituzione, recante disposizioni volte al riconoscimento del diritto di accesso ad Internet [con altro]Diritto di accesso a internetIn corso esame alla 1ª Commissione permanente (Affari Costituzionali) in sede referente
Pubblica sicurezzaS. 1307 [Sen. Marco Scibona (M5S)] Disposizioni in materia di identificazione degli appartenenti alle Forze dell’ordine che espletano attività di ordine pubblico [con altri]
 
Identificazione appartenenti forze dell’ordineIn corso esame alla 1ª Commissione permanente (Affari Costituzionali) in sede referente
Sanità, sanitari e igieneC. 2985 [Sen. Antonio De Poli (SCpI)] Disposizioni in materia di diagnosi, cura e abilitazione delle persone con disturbi dello spettro autistico e di assistenza alle famiglieAutismoTrasmesso dal Senato –
In corso esame alla 12ª Commissione permanente (Affari sociali) in sede referente
Unione europeaC. 3123 [Governo Renzi-I] Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2014Legge di delegazione europea 2014Trasmesso dal Senato -Assegnato alla 14ª Commissione permanente (Politiche dell’Unione europea) in sede referente

SEGNALAZIONI SU LAVORI IN CORSO

ARGOMENTODISEGNO/PROPOSTA DI LEGGENOME COMUNESTATO
Agricoltura e prodotti agricoliC. 3119 [Governo Letta-I] Deleghe al Governo e ulteriori disposizioni in materia di semplificazione, razionalizzazione e competitività dei settori agricolo, agroalimentare, della pesca e dell’acquacoltura
 
Competitività settore agricoloTrasmesso dal Senato-Assegnato alla 13ª Commissione permanente (Agricoltura) in sede referente
Amministrazione del patrimonio e contabilità generale dello StatoC. 3098 [Governo Renzi-I] Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubblicheRiforma delle amministrazioni pubblicheTrasmesso dal Senato -In corso esame alla 1ª Commissione permanente (Affari costituzionali) in sede referente
C. 2343 [Governo Renzi-I] Disposizioni di carattere finanziario finalizzate a garantire la funzionalità di enti locali, la realizzazione di misure in tema di infrastrutture, trasporti ed opere pubbliche, nonché a consentire interventi in favore di popolazioni colpite da calamità naturali [con altro] In corso esame alla 5ª Commissione permanente (Bilancio, tesoro e programmazione) in sede referente
Associazioni vietateS. 686 [Sen. Felice Casson (PD)] Modifiche al codice penale in materia di associazioni di tipo mafioso [con altro]Concorso esterno in associazione mafiosaIn corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
S. 1687 [Governo Renzi-I] Misure volte a rafforzare il contrasto alla criminalità organizzata e ai patrimoni illeciti [con altro]Contrasto alla criminalità organizzataIn corso esame alle commissioni riunite 1ª (Affari Costituzionali) e 2ª (Giustizia) in sede referente
C. 2580 [On. Andrea Vecchio (SCpI)] Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, volte a rendere più efficiente l’attività dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, a favorire la vendita dei beni confiscati e il riutilizzo del ricavato per finalità sociali nonché a rendere produttive le aziende confiscate [con altro] In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
C. 2848 [Sen. Vito Claudio Crimi (M5S) e altri] Modifica al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, in materia di soggetti sottoposti alla verifica antimafiaModifica al decreto legislativo 159/2011, concernente i soggetti sottoposti alla verifica antimafiaTrasmesso dal Senato –
Concluso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
Associazionismo, volontariato e impresa socialeS. 1870 [Governo Renzi-I] Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universaleTerzo settore, impresa sociale e Servizio civile universaleTrasmesso dalla Camera -In corso esame alla 1ª Commissione permanente (Affari Costituzionali) in sede referente
Autoveicoli e circolazione stradaleS. 1638 [On. Silvia Velo (PD) e altri] Delega al Governo per la riforma del codice della strada, di cui al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 Riforma del codice della stradaTrasmesso dalla Camera -In corso esame alla 8ª Commissione permanente (Lavori pubblici, comunicazioni) in sede referente
Avvocati e procuratoriS. 1012 [Sen. Giacomo Caliendo (PdL) e altri] Istituzione e funzionamento delle Camere arbitrali dell’AvvocaturaCamere arbitrali dell’AvvocaturaIn corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
BancheS. 1259 [Sen. Gianluca Rossi (PD) e altri] Delega al Governo per la riforma del sistema dei ConfidiDelega per la riforma dei confidiIn stato relazione
Codice di procedura civileC. 1335 [On. Alfonso Bonafede (M5S)] Modifiche al codice di procedura civile e abrogazione dell’articolo 140-bis del codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, in materia di azione di classe [con altro] All’esame Assemblea
Codice di procedura penaleC. 2798 [Governo Renzi-I] Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore contrasto del fenomeno corruttivo, oltre che all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena [con altri] In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
C. 2813 [Governo Renzi-I] Delega al Governo per la riforma del libro XI del codice di procedura penale. Modifiche alle disposizioni in materia di estradizione per l’estero: termine per la consegna e durata massima delle misure coercitive In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
Codice penaleC. 2874 [Sen. Silvana Amati (PD) e altri] Modifica all’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, in materia di contrasto e repressione dei crimini di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale, e modifica all’articolo 414 del codice penaleReato di negazionismoTrasmesso dal Senato -In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
S. 1830 [Governo Renzi-I] Ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalle sparizioni forzate adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 dicembre 2006Ratifica Convenzione ONU protezione persone da sparizioni forzateTrasmesso dalla Camera -In corso esame alla 3ª Commissione permanente (Affari esteri, emigrazione) in sede referente
S. 859 [Sen. Domenico Scilipoti (PdL)] Modifica al codice della strada, al codice penale ed all’art. 380 del codice di procedura penale, in materia di Omicidio Stradale [con altri]Norme penali sull’omicidio stradaleConcluso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
S. 10-362-388-395-849-874-B[Sen. Luigi Manconi (PD) e altri] Introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano [con altri]TorturaTrasmesso (dal Senato e in seguito) dalla Camera -In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
C. 2937 [Sen. Maurizio Romani (M5S) e altri] Modifiche al codice penale e alla legge 1° aprile 1999, n. 91, in materia di traffico di organi destinati al trapianto e alla legge 26 giugno 1967, n. 458, in materia di trapianto del rene tra persone viventiTraffico organi destinati al trapiantoTrasmesso dal Senato -Assegnato alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
S. 1261 [Sen. Elena Ferrara (PD)]
Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo [con altro]
Contrasto al cyberbullismoApprovato (modificato rispetto al testo del proponente), passa all’altro ramo
C. 925-B [On. Enrico Costa (PdL)] Modifiche alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, al codice penale, al codice di procedura penale e al codice di procedura civile in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante nonché di segreto professionale. Ulteriori disposizioni a tutela del soggetto diffamato DiffamazioneTrasmesso dal Senato -In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
S. 1052 [On. Ivan Scalfarotto (PD) e altri] Disposizioni in materia di contrasto dell’omofobia e della transfobia [con altri]Contrasto all’omofobia e alla transfobiaTrasmesso dalla Camera -In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
C. 2664 [On. Giuseppe Lauricella (PD)] Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di furto di materiale appartenente a infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
S. 1844 [On. Donatella Ferranti (PD) e altri] Modifiche al codice penale in materia di prescrizione del reatoPrescrizione dei reatiTrasmesso dalla Camera -In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
S. 20 [Sen. Luigi Manconi e altri] Concessione di amnistia e indulto [con altri]  Amnistia e indultoIn corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
Costituzione dello StatoS.1429-B [Governo Renzi-I] Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte II della CostituzioneRevisione della Parte II della CostituzioneTrasmesso dalla Camera -Assegnato alla 1ª Commissione permanente (Affari Costituzionali) in sede referente
Edilizia e urbanisticaC. 2039 [Governo Letta-I] Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato [con altri] In corso esame alle commissioni riunite 8ª (Ambiente, territorio e lavori pubblici) e 13ª (Agricoltura) in sede referente
S. 74 [Sen. Luigi Zanda (PD)] Legge quadro in materia di valorizzazione della qualità architettonica e disciplina della progettazione. Delega al Governo per la modifica del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163Valorizzazione qualità architettonicaIn corso esame alla 7ª Commissione permanente (Istruzione pubblica, beni culturali) in sede referente
Enti localiS. 1448 [Sen. Paolo Romani (FI-PdL XVII) e altri] Modifiche agli articoli 114, 117, 118, 119, 120, 132 e 133 della Costituzione, in materia di abolizione delle province
[con altri]
Soppressione delle provinceIn stato di relazione
FamigliaS. 14 [Sen. Luigi Manconi] Disciplina delle unioni civili [con altri]Disciplina delle coppie di fatto e delle unioni civiliIn corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
C.1589-B [Governo Letta-I] Ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori, fatta all’Aja il 19 ottobre 1996Ratifica convenzione Aja protezione minoriTrasmesso dal Senato –
In corso esame alle commissioni riunite 2ª (Giustizia) e 3ª (Affari esteri e comunitari) in sede referente
S. 1628 [On. Laura Garavini (PD) e altri] Disposizioni in materia di attribuzione del cognome ai figli Trasmesso dalla Camera – Assegnato alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
C. 2957 [Sen. Francesca Puglisi (PD) e altri] Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare Adozione dei minoriTrasmesso dal Senato -In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
C. 784 [On. Luisa Bossa (PD)] Modifica all’art. 28 della legge 4 maggio 1983, n. 184, in materia di accesso del figlio adottato non riconosciuto alla nascita alle informazioni sulle proprie origini e sulla propria identità [con altri] Concluso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
Forze armateS. 1809 [On. Carlo Galli (PD) e altri]
Modifiche al codice dell’ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, in materia di limiti di assunzione di incarichi presso imprese operanti nel settore della difesa da parte di ufficiali delle Forze armate che cessano dal servizio e di dirigenti civili del Ministero della difesa
Limiti all’assunzione di incarichi presso imprese della difesa da parte di ufficiali delle Forze armate e di dirigenti civiliTrasmesso dalla Camera -In corso esame alla 4ª Commissione permanente (Difesa) in sede referente
Gruppi di pressioneS. 1522 [Sen. Luis Alberto Orellana (Misto, Italia Lavori in Corso) e altri]
Disposizioni in materia di rappresentanza di interessi presso i decisori pubblici [con altri]
Attività di rappresentanza interessiIn corso esame alla 1ª Commissione permanente (Affari Costituzionali) in sede referente
Immigrazione extracomunitaria, rifugiati e apolidiS. 1871 [On. Bruno Molea (SCpI) e altri] Disposizioni per favorire l’integrazione sociale dei minori stranieri residenti in Italia mediante l’ammissione nelle società sportive appartenenti alle federazioni nazionali, alle discipline associate o agli enti di promozione sportiva Trasmesso dalla Camera -Assegnato alla 7ª Commissione permanente (Istruzione pubblica, beni culturali) in sede referente
Inquinamento e salvaguardia dell’ambienteS. 1676 [Governo Letta-I] Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali Collegato ambientale – legge stabilità 2014Trasmesso dalla Camera -In corso esame alla 13ª Commissione permanente (Territorio, ambiente, beni ambientali) in sede referente
S. 8 [Sen. Felice Casson e altri] Norme a tutela dei lavoratori, dei cittadini e dell’ambiente dall’amianto, nonché delega al Governo per l’adozione di un testo unico in materia di amianto [con altri]Norme tutela esposizione amiantoIn corso esame alla 11ª Commissione permanente (Lavoro, previdenza sociale) in sede referente
S.1458 [On. Ermete Realacci (PD) e altri] Istituzione del Sistema nazionale a rete per la protezione dell’ambiente e disciplina dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientaleAgenzie ambientaliTrasmesso dalla Camera -In corso esame alla 13ª Commissione permanente (Territorio, ambiente, beni ambientali) in sede referente
Istituti di prevenzione e di penaC. 983 [On. Sandro Gozi (PD)] Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni in materia di relazioni affettive e familiari dei detenuti [con altro]
 
 In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
IstruzioneC. 2994 [Governo Renzi-I] Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni vigenti Approvato (modificato rispetto al testo del proponente), passa all’altro ramo
LavoroS. 1051 [Sen. Maurizio Sacconi (PdL) e altri] Delega al Governo in materia di informazione e consultazione dei lavoratori, nonché per la definizione di misure per la democrazia economicaPartecipazione lavoratori gestione impreseIn corso esame alla 11ª Commissione permanente (Lavoro, previdenza sociale) in sede referente
S. 1148 [Sen. Nunzia Catalfo (M5S) e altri] Istituzione del reddito di cittadinanza nonché delega al Governo per l’introduzione del salario minimo orario [con altri]
 
Reddito di cittadinanza e salario minimo orarioIn corso esame alla 11ª Commissione permanente (Lavoro, previdenza sociale)
Opere pubblicheS. 1678 [Governo Renzi-I] Delega al Governo per l’attuazione della direttiva 2014/23/UE del 26 febbraio 2014 del Parlamento europeo e del Consiglio sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, della direttiva 2014/24/UE del 26 febbraio 2014 del Parlamento europeo e del Consiglio sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE e della direttiva 2014/25/UE del 26 febbraio 2014 del Parlamento europeo e del Consiglio sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali e che abroga la direttiva 2004/17/CEDelega recepimento direttive appalti e concessioniIn corso esame alla 8ª Commissione permanente (Lavori pubblici, comunicazioni)in sede referente
C. 219 [On. Matteo Bragantini (LNA)]Modifiche all’articolo 17 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e ulteriori disposizioni in materia di contratti segretati o che esigono particolari misure di sicurezza Approvato (modificato rispetto al testo del proponente), passa all’altro ramo
S. 980 [Sen. Domenico Scilipoti (PdL) e altri] Norme per la consultazione e la partecipazione democratica in materia di localizzazione e realizzazione di opere pubbliche [con altri]Consultazione realizzazione opere pubblicheIn corso esame alle commissioni riunite 8ª (Lavori pubblici, comunicazioni) e 13ª (Territorio, ambiente, beni ambientali) in sede referente
Ordinamento giudiziario e amministrazione della giustiziaS. 1626 [Governo Renzi-I] Riforma della disciplina della responsabilità civile dei magistratiResponsabilità civile dei magistratiIn corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
S. 1738 [Governo Renzi-I] Delega al Governo per la riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace
[con altri]
 In corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
C. 2188 [Sen. Nitto Francesco Palma (PdL)] Disposizioni in materia di candidabilità, eleggibilità e ricollocamento dei magistrati in occasione di elezioni politiche e amministrative nonché di assunzione di incarichi di governo nazionale e negli enti territoriali. Modifiche alla disciplina in materia di astensione e ricusazione dei giudici [con altri]Ineleggibilità ed incompatibilità dei magistrati. Magistrati cessati da cariche politicheTrasmesso dal Senato -In corso esame alle commissioni riunite 1ª (Affari costituzionali) e 2ª (Giustizia) in sede referente
S. 1339 [Sen. Enrico Cappelletti (M5S) e altri] Disposizioni in materia di giustizia telematicaGiustizia telematicaIn corso esame alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente
Poste e telecomunicazioniS. 1561 [Sen. Francesco Campanella (Misto, Italia Lavori in Corso)] Introduzione dell’articolo 34-bis della Costituzione, recante disposizioni volte al riconoscimento del diritto di accesso ad Internet [con altro]Diritto di accesso a internetIn corso esame alla 1ª Commissione permanente (Affari Costituzionali) in sede referente
Pubblica sicurezzaS. 1307 [Sen. Marco Scibona (M5S)] Disposizioni in materia di identificazione degli appartenenti alle Forze dell’ordine che espletano attività di ordine pubblico [con altri]
 
Identificazione appartenenti forze dell’ordineIn corso esame alla 1ª Commissione permanente (Affari Costituzionali) in sede referente
Sanità, sanitari e igieneC. 2985 [Sen. Antonio De Poli (SCpI)] Disposizioni in materia di diagnosi, cura e abilitazione delle persone con disturbi dello spettro autistico e di assistenza alle famiglieAutismoTrasmesso dal Senato –
In corso esame alla 12ª Commissione permanente (Affari sociali) in sede referente
Unione europeaC. 3123 [Governo Renzi-I] Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2014Legge di delegazione europea 2014Trasmesso dal Senato -Assegnato alla 14ª Commissione permanente (Politiche dell’Unione europea) in sede referente

La selezione dei provvedimenti non può, in alcun modo, considerarsi esaustiva dell’intero panorama normativo approvato o in discussione in Parlamento e al Governo, per la consultazione del quale si rinvia ai rispettivi siti istituzionali.

di Massimo Perrotti


La riforma del sistema cautelare vive nelle procedure camerali incidentali (le ragioni della privazione del diritto alla libertà personale)

di Massimo Perrotti

Io penso, scriveva Luigi Ferrajoli quarant’anni or sono, che la stessa ammissione in via di principio della carcerazione ante iudicium, qualunque fine le si voglia associare, contraddice alla radice il principio di giurisdizionalità: che non consiste nel poter esser ristretti solo per ordine di un giudice, ma nel poterlo essere solo sulla base di un giudizio (1). A pochi mesi dall’entrata in vigore dell’ultima “riforma cautelare” (2), che sembra avere ambizioni di organicità, possiamo azzardare, forse, un primo timido bilancio, attraverso un monitoraggio sul campo camerale, senza tuttavia alcuna pretesa di esaustività.
 La lettura del testo novellato (3) affatica, ma non stupisce l’occhio dell’osservatore intraneo al sistema cautelare. L’adozione di formule perentorie, nei toni e nei contenuti (4), il ricorso ad una sanzione che rende ineffettivo il disposto della giurisdizione e ne limita la rianimazione (5) non è chiave nuova nelle serramenta di un legislatore che nutre ambizioni di “moralizzatore” delle prassi giudiziarie ritenute non ortodosse. Può solo osservarsi, con un certo timore, che tale forma del legiferare appare indizio della volontà di trasformare lo Stato di diritto in Stato etico; uno Stato che avverte la necessità di dettagliare i percorsi, tracciare netti i sentieri più erti, coartare la discrezionalità di quelle migliaia di sartine, che sono pagate per ritagliare, in tempi da guinness, un abito su misura sui numeri della grande distribuzione. E’ un legislatore già conosciuto, che sembra vestire i panni del rigido maestro ottocentesco, quando usa la bacchetta per indicare il percorso tortuoso da seguire ed il frustino per colpire la deviazione eretica (6) .Questo l’effetto emotivo offerto dalla prima lettura della novella n. 47/2015. L’analisi, tuttavia, è altro: chi voglia superare le quinte del proscenio, sollevandone i pesanti velluti, deve sforzarsi di capire perché, da alcuni lustri, il legislatore manifesti all’evidenza di non fidarsi degli organi della giurisdizione, avvertendo quindi la necessità di veicolare, in canali molto angusti, la discrezionalità tecnica che ne caratterizza l’opera remunerata (7).
 I divieti di accesso nel procedere, le nullità assolute, le categorie nuove della inutilizzabilità, le sanzioni di inefficacia, le presunzioni assolute, sono tutti strumenti di perimetrazione esogena del percorso processuale che conduce al traguardo della decisione. Un percorso che, nel nostro Paese, da sempre tormentato dal dubbio di sentirsi realmente democratico (nel senso della indipendenza assoluta da fattori di etero direzione delle scelte politiche), è stato perennemente caratterizzato dalla stretta osservanza della legge del pendolo, che oscilla, con immutato periodo, tra gli estremi della sicurezza sociale e della libertà individuale, con la massa costantemente volta alla tutela sindacale delle ragioni della classe forense.
 Questa riforma, che, come abbiamo detto in apertura, vanta ambizioni di organicità, segue certamente il faro delle indicazioni sovranazionali (8) quando insiste nel proposito di convincere gli organi della giurisdizione preposti alla cautela, che la custodia intramuraria deve essere disposta solo quando sia assolutamente necessaria e quando ogni altra veste cautelare approntata dall’ordinamento sia palesemente inane (9). E’ questo un concetto che il legislatore ripete da almeno un quarto di secolo e, ormai, non sa davvero più quali formule semantiche usare per esprimerne la cogenza. E’ in questa direzione, dunque, che bisogna orientare gli sforzi dell’analisi, perché solo così riusciremo a comprendere come mai, nel nostro Paese, il legislatore usi formule lessicali così autoritarie nei confronti di quelle sartine che devono ritagliare, in tempi ridottissimi, l’abito su misura per le miriadi di utenti del servizio giustizia (10). Ed allora, anche un po’ di sana autocritica bisogna pur farla: è dovuto intervenire il legislatore nel 2001 (11) per ricordare (anche alla suprema Corte) che, nella valutazione cautelare dei gravi indizi di colpevolezza, non potevano usarsi regole di giudizio diverse da quelle dettate in tema di valutazione della penale responsabilità dagli artt. 192 co. 3 e 4, 195 co. 7, 203, 271 comma 1 c.p.p. Ancora, il legislatore è più volte dovuto intervenire e lo ha fatto anche in questa ultima occasione, per ricordare alla giurisdizione che, laddove si ipotizzi all’esito del giudizio l’applicazione di una sanzione non carceraria, la cautela non può vestire le forme della restrizione intramuraria. Sono concetti quanto mai ovvi, eppure non sono stati compresi da larga parte della giurisdizione, che ha continuato ad (ab)usare della custodia carceraria, come se questa fosse la regola, nel processo, e non l’eccezione assoluta (12).
 Dietro questa riottosa ostinazione si cela forse un gap culturale difficile da rimuovere, si sente ancor oggi dalle stanze della Procura echeggiare un concetto della cautela (funzione e strumento dell’attività di indagine) che non appare compatibile con la struttura del processo, oltre che con i principi fondamentali della Costituzione. La cautela, a modesto ma fermissimo avviso di chi scrive, è strumento di conservazione, della situazione oggetto di giudizio (intesa come ambito personale, oggettivo o misto), nell’ambito del processo ed è funzione di tutela della sicurezza della collettività dai pericoli che possono sortire dalla libertà di soggetti che, anche per la loro appartenenza a comunità organizzate nel malaffare, siano manifestamente insofferenti al rispetto delle regole della convivenza; funzione, quest’ultima, che va attentamente perimetrata, giacché si presta a scivolare facilmente verso la punizione preventiva del sospetto, verso l’applicazione della pena senza processo. Libertà che, proprio in uno sforzo di gradazione funzionale a mantenere la cautela nel suo alveo proprio, può esser ristretta in varie forme, a seconda del grado di trasgressività che gli atti ed il percorso di vita dell’agente rendono manifesto.
Non sapendo più come esprime questi eterni concetti, il legislatore ha oggi usato le formule semantiche che leggiamo nel testo riformato dell’articolato. Si parte così dal richiamo, che non potrebbe essere più esplicito, alla attualità delle esigenze cautelari, attualità che non può esser desunta esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede, ma va oggi, necessariamente, riempita di considerazioni logiche che trovino fonte in fatti, non necessariamente compresi in imputazione, che siano in grado di sprigionare allarme cautelare (13). Il che non esclude che possa ritenersi ragionevolmente attuale l’esigenza coercitiva anche per la imputazione di fatti non recenti; occorre tuttavia che il p.m. alleghi, avvalendosi anche della polizia giudiziaria, l’esistenza di condizioni di fatto, estranee alla imputazione, in grado di trascinare nel tempo all’attualità i pericula libertatis (come, ad es. l’attualità della funzione svolta dal p.u., nel medesimo ufficio e con gli stessi collaboratori, rispetto a fatti di corruzione risalenti a date non recentissime).L’orientamento che appare formarsi nell’esperienza camerale del riesame sembra proprio andare in questo senso (14).
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 Sul piano delle presunzioni di adeguatezza della custodia carceraria, il nuovo testo dell’art. 275 comma 3 c.p.p.15, opera una evidente, quanto parcellizzata, gradazione. Questo comma rappresenta, a parere di chi scrive, il trionfo della sfiducia nei confronti della giurisdizione. Il legislatore segue un percorso di regole ed eccezioni, semi regole e semi eccezioni, che sembra ricalcare il sistema preilluministico delle prove legali, piene e semipiene. Chi scrive resta invece fermamente convinto, pur nell’isolamento assordante degli intelletti prestati alla giurisdizione, che le presunzioni assolute, in materia processuale penale, possano soltanto affollare, come comari ipocritamente addolorate, il corteo funebre della ragione. Sul piano dei danni collaterali, inoltre, le presunzioni inducono -nell’operatore ignavo- la pessima abitudine a cullarsi nella comoda concavità creata, una volta per tutte, dalla legge, per rinunziare a dimostrare i fatti o le circostanze che evidenzino il grado delle esigenze di cautela e l’adeguatezza, rispetto ad esse, della misura eletta.Rispetto ad imputazioni per fattispecie associative di rango mafioso o terroristico-eversivo, in presenza di gravi indizi di colpevolezza e di esigenze cautelari (si badi, non attuali, per quanto solitamente connesse alla tendenziale stabilità del vincolo associativo mafioso), l’applicazione della misura di massima afflittività è sostenuta da una presunzione assoluta di adeguatezza. Il che manifesta il perfetto allineamento delle scelte operate dal legislatore con il percorso seguito, ormai da un lustro, dalla Corte costituzionale (16), che connette solo all’enorme pericolo, che la sodalità mafiosa o terroristico-evesiva rappresenta per la stessa democrazia, il sacrificio massimo ed automatico dei diritti fondamentali della persona. Anche sotto questo profilo, nulla di nuovo sotto la rete protettiva dei massimi garanti della Costituzione. Correva l’anno 1861, quando la voce di Francesco Crispi tuonava nell’aula del Parlamento di Torino (salus publica suprema lex esto!) invocando la tutela dell’ordine pubblico -turbato da alcune centinaia di ragazzotti cattivissimi male equipaggiati e verosimilmente mal finanziati dal Borbone-sopra ogni altro diritto o interesse della persona. Solo che, in allora, il sacrificio era quello della vita, sottratta alle membra dei partecipi alle associazioni dei malfattori e dei loro manutengoli dalla baionetta del bersagliere, dal fucile del Real Carabiniere o dalla forca edificata per eseguire i verdetti frettolosamente emessi, senza diritto alla difesa tecnica, dai tribunali speciali delle giberne. Da allora, qualche passo in avanti sui mezzi (ad es. gli introvabili braccialetti elettronici) si è forse compiuto; pochi timidi passetti laterali, però, sulla tenuta dei diritti fondamentali della persona e sulla inderogabilità di quei principi.La ricaduta attuale e concreta di simili presunzioni, per quanto interessi forse a pochi, è quella di vedere ancor oggi applicate misure cautelari carcerarie a soggetti già detenuti per una pluralità (talvolta oltre mezza dozzina) di condanne irrevocabili senza termine. Il che si può evitare, per chi ne voglia assumere la responsabilità, solo motivando in ordine alla carenza (assoluta) di esigenze cautelari.
 Quanto alle categorie criminali ritenute di più contenuto pericolo per la società (quelle di cui alla seconda parte della declinazione che avvince i cattivi), la presunzione viene mitigata dalla possibilità, per il giudice, di motivare circa la adeguatezza, nelcaso concreto, delle altre, meno afflittive, misure cautelari. Il giudice torna a respirare aria di giurisdizione e dismette, per queste fattispecie, i panni del boia vincolato.
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 Sorvoliamo, per carità di patria, sulla sponsorizzazione degli introvabili mezzi elettronici di controllo a distanza, di cui al comma 1 dell’art. 275 bis c.p.p., richiamato, in punto di necessità di motivarne il diniego, dal comma 3 bis dell’art. 275 c.p.p. Le riforme, perfino quelle processuali, talvolta hanno bisogno di copertura finanziaria effettiva, altrimenti restano solo parole vuote a sporcare di inchiostro la pergamena.
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 La cassa toracica della nostra sartina riprende ad espandersi, in uno all’allentamento della garrotanormativa, con la modifica del comma 1 ter dell’art. 276 c.p.p. Laddove riconosca che il fatto di evasione sia di lieve entità, il giudice può evitare di aggravare il presidio detentivo in corso di applicazione. E’ una vittoria dell’illuminismo, finalmente la ragione torna ad orientare le opzioni della giurisdizione cautelare. La medesima ratio presiede alla modifica dell’ultimo comma dell’art. 284 c.p.p., questo moderato relativismo giudiziario consente di derogare al divieto di applicare la misura degli arresti domiciliari a chi risulti evaso nel quinquennio. Naturalmente, la valutazione consentita postula che il giudice debba conoscere gli atti della precedente evasione e non solo i caratteri alfanumerici delle appostazioni contenute nel certificato del casellario, il che non è sempre agevole, soprattutto nei tempi ristrettissimi delle ordinanze connesse alle convalide degli atti precautelari.
 La modifica dell’art. 289 c.p.p. razionalizza i momenti del procedere nel caso di applicazione di misure interdittive in melius rispetto alla mozione cautelare del p.m. In questi casi non è necessario il previo contraddittorio, così da rendere compatibili le esigenze di riservatezza (in caso di mozioni cautelari soggettivamente complesse) con la necessità di garantire un sollecito confronto con il giudice che procede in cautela. La modifica operata era di semplice attuazione, era attesa dagli operatori e rivela anche all’utente più critico una sua, razionale, utilità. Come pure era attesa la riforma della durata massima delle misure interdittive, poco praticate proprio in ragione della limitatissima durata (17).
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 Altro differente piano di intervento pedagogico del nostro legislatore/istitutore (bacchetta e frustino alla mano) è quello che scandisce esplicitamente la necessità, per la giurisdizione cautelare, di manifestare, attraverso gli atti (le ordinanze cautelari), che la decisione è propria, è maturata dalla lettura del materiale indiziario e dalle ragioni talvolta offerte dall’indagato (interrogatorio di convalida che, di solito, precede l’emissione della misura), è autonoma rispetto alle suggestioni che inevitabilmente provengono dalla parte pubblica che avanza l’istanza. Qui il discorso si fa più complesso, giacché partecipa della struttura propria del procedimento incidentale cautelare, dal quale non si può prescindere (provvedimenti a sorpresa e necessità di risposta sollecita).
 La quasi totalità dei provvedimenti cautelari è emessa, nel corso delle indagini preliminari, da un giudice monocratico, che tutti ormai siamo abituati a chiamare, confidenzialmente, GIP. Va detto subito, forte e chiaro, che la figura di questa sartina, solitaria più che monocratica, merita massimo rispetto istituzionale, giacché l’ordinamento (quindi la scelta politica attuata nelle norme) ha deciso di affidare nelle sue mani (sovente inesperte, quanto operose) la più alta responsabilità dell’intero sistema cautelare. Il GIP deve decidere della libertà personale dei suoi simili senza accertamento dei fatti, in tempi ragionevolmente ristretti (18) e, soprattutto, avendo dei fatti una conoscenza solo unilaterale e filtrata (non sempre obiettivamente), giacché gli atti che deve valutare, autonomamente, si sono formati in un ufficio diverso. Il GIP è un solista, che ascolta in monofonia e si esprime in polifonia. E’ il primo garante del merito, oltre che della correttezza del percorso procedurale, che, tuttavia, non dispone delle risorse umane delle quali può giovarsi il p.m. (soprattutto quello distrettuale, che operi nel settore di cui all’art. 51 co. 3 bis c.p.p.), per l’esame degli atti e la redazione delle minute da spendere nell’incidente cautelare. E’ la vittima sacrificale del sistema cautelare, stretto tra le legittime istanze di speditezza prospettate dal p.m., la necessità di verificare la fondatezza della domanda, oltre che assicurare il rispetto massimo delle garanzie per il destinatario della afflizione ante iudicium. Ed è ancora l’oggetto delle reprimende, oltre che delle parti, una delle quali necessariamente insoddisfatta dall’esito della decisione, anche del tribunale per il riesame, che sovente non lesina censure sull’operato di quel solista assediato.
 Il lavoro del GIP, se svolto con laboriosità, coscienza, attenzione e dedizione, è certamente il più difficile del settore cautelare; ma, forse per i medesimi motivi, anche il più appagante. Occorre saper leggere le carte (oggi i files) inviati riservatamente dal p.m. con un occhio critico che, contemporaneamente, sappia metterne in discussione quella pregnanza indiziaria rappresentata come univoca, prendendo anche le parti di un soggetto che, al momento della decisione, manca (salvo i casi di ordinanza coercitiva emessa all’esito della convalida) e non può far sentire la sua voce.
 E’ a questo soggetto processuale che il legislatore del 2015 rivolge la parte più sensibile, almeno ad avviso di chi scrive, della riforma (art. 292 lett. c e c bis c.p.p., art. 309 comma 9 c.p.p.). La necessità (prevista oggi esplicitamente a pena di nullità del titolo) di far comprendere, senza possibilità di equivoci, a chi legge il provvedimento cautelare che quella sartina ha saputo valutare autonomamente, senza quindi cadere nella comoda rete informatica tessuta dal p.m. con la sua ben imbandita mozione cautelare, ogni passo della sua (propria) decisione incidentale (19).
 Anche in questo caso, il principio era ovvio, il sistema processuale chiedeva già esplicitamente al GIP di decidere della cautela in perfetta autonomia; tuttavia, come sovente accade per gli ovvi principi, la concreta attuazione dello stesso porgeva il volto alle suole delle calzature di non poche malaccortesartine. Naturalmente, nessuno ha mai contestato al GIP la facoltà di avvalersi dell’informatica per riportare dati narrativi e discorsivi assunti dalla polizia giudiziaria o dal p.m.; il punto dolente è l’analisi critica, la rilevanza decisionale del materiale raccolto da altri. In questo l’opera del GIP deve essere autonoma, o meglio, non solo deve essere autonoma, ma deve anche apparire tale. Dal testo del provvedimento deve quindi trasudare la fatica, il lavoro attento che il GIP ha svolto per valutare criticamente il materiale sottoposto alla sua attenzione. Come possa esprimersi l’autonomia è difficile a dirsi, certamente non con mere formule di stile, che, come soprabiti adatti ad ogni stagione, rivestano di apparenza il vuoto valutativo (la motivazione apparente). E’ auspicabile forse che quella sartina renda evidente -con il ricamo e la definizione dei dettagli, magari valorizzando una parte del tessuto grezzo che il p.m. e la polizia giudiziaria avevano solo imbastito grossolanamente- di aver fatto proprio il modello da cucire addosso alla fattispecie cautelare concreta, cogliendo anche nella trama ordita in altri uffici aspetti critici della mozione. Ovviamente, la dimostrazione di aver lavorato in autonomia sarà tanto più agevole, quanto più ci si discosti dalla mozione della parte pubblica, mentre resterà faticoso convincere le parti ed i giudici della revisione che la valutazione autonoma c’è stata, anche quando si è deciso di condividere in toto la richiesta del p.m. Non è semplice definire uno schema duttile ed efficace, ma è proprio questo che voleva il legislatore, per costringere quelle sartine soliste a lavorare di fino e su misura, senza ausilio di veloci cucitrici automatiche, che snaturerebbero l’opera loro assegnata dall’art 13 della Costituzione repubblicana.
 L’obbligo motivazionale dettato per il giudice che procede, già contenuto, sebbene meno enfaticamente, nella precedente stesura dell’art. 292 c.p.p. e già sanzionato a pena di nullità, avrebbe rischiato, tuttavia, di restare lettera morta, se un legislatore, questa volta attentissimo ai richiami della più recente ed avveduta giurisprudenza (20), non avesse avvertito la necessità di precisare, con la modifica della norma che definisce i poteri del tribunale per il riesame, quali debbano essere le conseguenze ineludibili di quella riscontrata assenza di motivazione (21).
 La precisazione era quanto mai necessaria, giacché una consistente fascia conservatrice di revisori cautelari, favorita anche da un orientamento di legittimità piuttosto autoreferenziale e, forse, troppo legato a parallelismi con la decisione di merito, che tuttavia non sembravano percorribili anche sotto l’egida della precedente formulazione dell’art. 292 c.p.p.22, era radicalmente convinta dell’obbligo, per il giudice del riesame (23), di integrare anche la motivazione omessa o solo apparente, essendo le due decisioni di merito, quella genetica e quella emessa su sollecitazione dell’indagato, parte di un unicummotivazionale a formazione progressiva. Disegno, quello della conservazione, forse anche nobile, ma disancorato, ad avviso di chi scrive, dal dettato normativo in allora vigente, che già deponeva (art. 292 c.p.p. ante novella del 2015) per la nullità rilevabile in sede di merito. Del resto non è mai stato chiarito dalla Corte di legittimità, perché mai quelle letterine contenute nel corpo dell’art. 292 c.p.p. dovessero intendersi indirizzate solo al più alto consesso della giurisdizione e non anche ai peones dei distretti periferici.
 Di questa necessaria novella si avvertono i primi vagiti nella giurisdizione di merito, che ha già colpito ordinanze del GIP rese con mere formule adesive ritenute di stile, senza che fosse reso manifesto il percorso autonomo della valutazione incidentale (24).Così pure è stata falcidiata una recente ordinanza emessa dal GIP, ex art. 27 c.p.p., resa senza l’inequivoca esposizione di autonomia motivazionale, rispetto alla ordinanza ad effetti precari emessa (ai sensi dell’art. 291 co. 2 c.p.p.) dal giudice dichiaratosi incompetente (25).La decisione, diffusamente ed acutamente argomentata, dovrà tuttavia confrontarsi con le resistenze di un orientamento della Corte di legittimità piuttosto coeso in tema di rapporto motivazionale osmotico tra ordinanza precaria ed ordinanza emessa dal giudice competente (26).
 Del resto, se è vero che l’ordinanza interinale è per sua natura precaria, è pur vero che l’ordinanza emessa dal giudice competente, che ne richiami il contenuto narrativo, ove tenga conto, valutandoli espressamente, degli elementi rappresentati dall’indagato innanzi al giudice incompetente e di quelli emersi nel corso dell’eventuale fase incidentale di riesame, ben può limitarsi ad esplicitare le ragioni della condivisione, quale che sia la veste grafica scelta per rendere intellegibile tale decisione. Giacché, ed è forse questo il punto dirimente che occorre cogliere nella voluntas legis, in questo caso la motivazione condivisa è quella di un giudice (sebbene incompetente) e non quella della parte pubblica, che sovente si limita ad offrire in un diverso formato grafico l’informativa redatta dalla polizia giudiziaria, così evirando dalla giurisdizione il momento della proposizione, con le conseguenti aporie del momento genetico e con buona pace di quanto disposto, in forma non equivocabile, dall’art. 13 della nostra Carta fondamentale.
 Si può allora sinteticamente definire l’intervento normativo in parte qua, come un necessario, quanto forse mortificante richiamo, alla giurisdizione di frontiera (quella che soffoca sotto il peso dei numeri e non viene adeguatamente assistita dalla componente amministrativa del complesso Giustizia), affinché non dimentichi, nella redazione degli atti che conculcano la libertà, quale è stata la funzione che la Costituzione ha voluto attribuirle………….. 
 Sul piano delle regole del procedere incidentale, il legislatore ha poi offerto la necessaria massima espansione al diritto dell’indagato di rendere, di persona, le proprie ragioni al collegio deputato alla revisione della sua posizione cautelare (27). Il detenuto fuori distretto avrà quindi la facoltà di esser tradotto per l’udienza di riesame (28), potendo così rendere al suo giudice le ragioni personali della impugnazione, senza mediazioni da parte del magistrato di sorveglianza. E’ un’opzione di civiltà, funzionale anche a favorire una più diretta conoscenza dei fatti da parte del giudice della revisione. Restano sul tappeto della ordinaria quotidianità i problemi relativi ai tempi della traduzione in udienza, posto che la richiesta di presenziare potrà, certo, esser anticipata con la richiesta di riesame (ove fosse presentata personalmente), ma, del pari certamente, non potrà restare negletta se comunicata all’atto della comunicazione della data di udienza. Anche in questo caso occorre prender atto che le garanzie non sono a km. zero, costano denaro e dilatano i tempi della decisione, basta esserne consapevoli.
 Nella medesima direzione volge l’interpolazione del comma 9 bis dell’art. 309 c.p.p. (29). Il termine perentorio per la decisione incidentale di riesame perde una fetta della sua perentorietà, in favore della disponibilità dei diritti personali. E’ solo il soggetto nel cui interesse era stata pensata quella perentorietà che ne può, limitatamente, disporre. Per questo motivo non ne è stata prevista l’estensione anche ad iniziativa di ufficio del tribunale per il riesame, che certo avrebbe potuto goderne, magari per favorire una migliore conoscenza degli atti. Tuttavia, non può che concordarsi con la scelta operata dal legislatore, solo la parte nel cui interesse è posto un diritto (quello alla sollecita decisione collegiale sulla sorte della propria libertà) può rinunciarvi.
 Del pari è a dirsi per l’ampliamento della scure dell’inefficacia (30), che ha già registrato molte osservazioni critiche sul versante requirente della giurisdizione. L’incidente cautelare, è vero, rischia apparentemente di trasformarsi, più di quanto già non fosse, in una moderna e poco ludica versione delgioco dell’oca. Solo che, mentre prima della novella in commento poteva porsi rimedio alla declaratoria di inefficacia con la immediata e, talvolta fin troppo tempestiva, riemissione della ordinanza, oggi tale ancora di salvezza resta confinata alle ipotesi in cui ricorrano eccezionali esigenze cautelari, specificamente motivate. Ad avviso dei più malevoli commentatori si tratterebbe di una forma di salvacondotto per i professionisti della latitanza, o meglio, per chi è aduso a muoversi in maniera obliqua nei meandri delle difficoltà operative delle cancellerie. Può anche darsi che un tale effetto (non voluto, fino a dimostrazione del contrario) possa sortire dalla norma così novellata. Tuttavia, sono fatti salvi i casi delle eccezionali esigenze cautelari, da motivare specificamente, il che porta ad escludere che la riemissione sia inibita nel caso si tratti dei professionisti di cui sopra. Anche qui, non può, per onestà intellettuale, calare l’oblio sulle disfunzioni (non sempre incolpevoli) del sistema cautelare incidentale: non sarà addebitabile a responsabilità individuali di alcuno, tuttavia il soggetto ristretto ha certamente diritto a conoscere, in tempi rapidissimi, la decisione collegiale sul suo destino di coercizione; del pari ha diritto di conoscere i motivi di quella decisione, anche per orientare le successive scelte processuali (accesso a riti alternativi, ammissione degli addebiti, risarcimento dei danni). In questa prospettiva, una ineccepibile motivazione della ordinanza di riesame, che intervenga a sei mesi o ad un anno dal deposito del dispositivo (ed è purtroppo capitato, non una sola volta, nel distretto di Napoli) non è utile alle parti, ritarda oltre misura i tempi già dilatati della impugnazione in sede di legittimità e, non da ultimo, appare anche poco dignitosa per chi la rende. Spiace doverlo ammettere, ma non c’è altro modo, che la sanzione processuale di inefficacia, per convincere gli organi preposti alla decisione incidentale che la risposta, quando si tratta della libertà personale, deve esser rapida, giacché, se non è rapida, neppure è utile.
In termini esattamente simmetrici la scure della inefficacia volge la sua lama anche nella sede di rinvio, a seguito dell’annullamento disposto dalla Corte di Cassazione (31). Sarà difficile da digerire per i ruoli già carichi dei tribunali distrettuali, ma se il principio che orienta i tempi dell’incidente cautelare è quello poco sopra indicato, la soluzione pare ineccepibile. L’indagato ha diritto di sapere, in tempi ragionevolmente brevi, se deve restare ristretto e per quali motivi, senza che le inettitudini e le inefficienze dell’amministrazione possano ridondare in danno della sua libertà personale.Questi i principali spunti di interesse della recente novella. Altri aspetti minori hanno gettato lo sguardo anche verso il procedimento di appello (art. 310 c.p.p.), senza tuttavia snaturarne la funzione (controllo della legittimità e di merito del titolo cautelare nel tempo, non nel suo momento genetico), con le ovvie conseguenze in termini di non perentorietà dei tempi per la decisione.Abbiamo aperto queste brevi considerazioni con le parole di Luigi Ferrajoli, che meritano di esser conosciute anche a quarant’anni dalla loro stesura su carta. Al termine di questo percorso di riflessioni dobbiamo, con lui, ancor oggi, chiederci se la custodia preventiva sia davvero una “necessaria ingiustizia”, come pensava Carrara, o se invece sia solo il prodotto di una inconfessata concezione inquisitoria del processo, che vuole l’imputato, al di là di virtuose, quanto ipocrite, declamazioni del contrario, presunto colpevole. A sommesso avviso di chi scrive, finché il legislatore non prenderà coscienza della necessità, ormai non più eludibile, di distinguere e diversamente disciplinare gli strumenti materiali della coercizione cautelare da quelli della sanzione, continueremo ad oscillare, disordinati e disorientati, tra gli estremi inconciliabili del periodo pendolare. Il luogo ed il momento della custodia non possono rozzamente identificarsi col carcere, giacché diversi sono i presupposti e diverse le funzioni. Non credo occorrano grandi intelligenze per comprenderlo; occorrono invece molte risorse, non solo finanziarie, per dare concretezza a queste nude parole.

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 1 Diritto e Ragione, Laterza editore, parte terza, cap. IX, paragrafo 3.

2 Il d.d.l. 1232-B è stato approvato in via definitiva dal Senato il 9 aprile 2015, pubblicato nella G.U. del 23.4.2015, con entrata in vigore l’8 maggio 2015, dopo l’ordinaria vacatio legis.

3 Per una attenta analisi strutturale della novella cautelare in commento si segnala Paola Borrelli, Una prima lettura delle novità della legge 47 del 2015 in tema di misure cautelari personali, in Diritto Penale Contemporaneo, giugno 2015.

4 Art. 274 comma I lett. c- c.p.p.: le situazionidiconcreto ed attuale pericolo,anche in relazione alla personalità dell’imputatonon possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo del reato per cui si procede.

5 Il “nuovo” comma 10 dell’art. 309 c.p.p. recita: “Se la trasmissione degli atti non avviene nei termini di cui al comma 5 o se la decisione sulla richiesta di riesame o il deposito dell’ordinanza del tribunale in cancelleria non intervengono nei termini prescritti, l’ordinanza che dispone la misura coercitiva perde efficacia e, salve eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate, non può essere rinnovata. L’ordinanza del tribunale deve essere depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione salvi i casi in cui la stesura della motivazione sia particolarmente complessa per il numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni. In tali casi, il giudice può disporre per il deposito un termine più lungo, comunque non eccedente il quarantacinquesimo giorno da quello della decisione.

6 Si pensi al comma 1 bis, aggiunto già nel 2001 all’art. 273 c.p.p. per condurre il contrasto giurisprudenziale interno alla Corte regolatrice, in materia di valutazione cautelare della chiamata di correo, verso approdi più conformi al sentire comune; o al comma 2 bis art. 275 c.p.p., ultimo approdo dello sciame di correttivi seguiti allebacchettate  inferte dalla Corte EDU, Torregiani c. Italia dell’8.1.2013. Per un excursus  storico, in chiave critica, della legislazione succedutasi in materia cautelare, delle prassi applicative e per una traccia delle prospettive di riforma, si veda E. AMODIO, Inviolabilità della libertà personale e coercizione cautelare minima, in Cassazione Penale, fasc.1, 2014, 0012B. Il d.l. n. 78/2013, convertito, con modificazioni, nella L. 94 / 13 ha novellato, in primo luogo, l’art. 280 co. 2 codice di rito, prevedendo la possibilità di adottare la custodia carceraria solo per i delitti, consumati o tentati, per cui è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni -incrementando il limite precedente, pari a quattro anni- ovvero nel caso di delitto di finanziamento illecito dei partiti. Per evidenti esigenze di coordinamento, è stato novellato l’art. 274, co. 1, lett. C), c.p.p., introducendo la locuzione per cui la custodia cautelare in carcere è disposta solo se si tratta di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. L’art. 275 co. 2-bis, c.p.p. è stato novellato dal d.l. n. 94/2014, convertito, con modificazioni, nella L. 117/14; il primo periodo del comma 2-bis ha imposto come necessaria la prognosi sulla futura sospensione condizionale della pena anche in vista dell’applicazione degli arresti domiciliari, oltre che per la custodia in carcere. Il secondo periodo ha subito importanti innovazioni: accanto alla previsione secondo cui non può applicarsi “la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni”, vi sono diverse eccezioni. La prognosi sulla pena irroganda non sarà necessaria nelle ipotesi previste dagli artt. 275, co. 3, 276 co. 1-ter e 280 co. 3, c.p.p. ovvero quando si proceda per i delitti di cui agli artt. 423-bis, incendio boschivo, 572, maltrattamenti contro familiari e conviventi, 612-bis, atti persecutori, 624-bis, furto in abitazione e furto con strappo c.p., nonché per i delitti indicati all’art. 4-bis ord. penit., ovvero, ancora, qualora non possano essere disposti gli arresti domiciliari per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione di cui all’art. 284 co. 1 c.p.p. Altra modifica riguarda le “particolari modalità di controllo”per i detenuti agli arresti domiciliari di cui all’art. 275-bis c.p.p. che, secondo le modifiche del d.l. n. 146/2013, convertito, con modificazioni, nella L. n. 10/2014, non vanno più disposte se il giudice lo ritenga necessario in relazione alla natura ed al grado delle esigenze da soddisfare nel caso concreto, ma “salvo che le ritenga non necessarie”.

7 Dello “scopo di limitare la discrezionalità del giudice nella valutazione delle esigenze cautelari “quale obiettivo della novella dell’art. 274 c.p.p., si legge nel Dossier del Servizio Studi del Senato sull’A.S. n. 1232 – “Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali” n. 95 del gennaio 2014.

8 Anche per la cogenza delle sanzioni pecuniarie connesse alla inosservanza delle direttive, oltre che per la crescente mole di condanne al risarcimento dei danni patiti da chi si è trovato ingiustamente ristretto o indegnamente mal trattato negli ambienti della coercizione intramuraria.

9 (Il comma 3 dell’art. 275 c.p.p. ora così recita: “La custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate. Quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 270, 270-bis e 416-bis del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari. Salvo quanto previsto dal secondo periodo del presente comma, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del presente codice nonché in ordine ai delitti di cui agli articoli 575, 600-bis, primo comma, 600-ter, escluso il quarto comma, 600-quinquies e, quando non ricorrano le circostanze attenuanti contemplate, 609-bis, 609-quater e 609-octies del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelaripossono essere soddisfatte con altre misure”.

10 Utenti che, forse, sono così numerosi ed esuberanti giacché nello stivale la devianza dalla regola è regola, più che devianza, e, dunque, numeri così alti mal si prestano ad esser trattati con strumenti da extrema ratio, ma questa è una riflessione sulle cause sociali e sulle responsabilità della politica, che esula dal profilo tecnico che deve informare questo lavoro.

11 Art. 11 della legge n. 63 sul giusto processo.

12 Si ricordano, nell’esperienza cautelare del distretto di Napoli le centinaia di ordinanze della massima afflittività emesse, nei primi anni del nuovo secolo, per fattispecie omicidiarie, benché certamente gravissime, commesse negli anni ’80 del secolo precedente, nel contesto di conflitti tra consorterie criminali non più esistenti da alcuni lustri. Già in allora c’era chi si domandava quale attualità di esigenze cautelari sgorgasse da quei poveri resti organici ridotti a polvere.

13 Si segnala in proposito l’interessante soluzione motivazionale che si legge nella ord. n. 228/2015, emessa dal giudice per indagini preliminari del Tribunale di Napoli, sezione 26°, in data 8 maggio 2015, ove si descrive, in tema di pluralità di episodi di cessione di stupefacenti in concorso, commessi in forma organizzata fino al giugno 2014, una dimostrata abitualità e costanza dell’attività illecita osservata nel corso delle indagini, ad opera di un soggetto che, come dimostrato dalla lettura del certificato del casellario, ha fatto della cessione di stupefacenti uno stile di vita, il che rende contezza della attualità e concretezza del pericolo di reiterazione, da intendersi come esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati.)

14 VIII sezione penale del Tribunale di Napoli, in funzione di riesame dei provvedimenti restrittivi della libertà personale e dei sequestri, udienza del 29 maggio 2015, RIMC n. 2733-34/2015, “In punto di esigenze cautelari, sebbene non vi siano dubbi sulla gravità delle condotte ascritte agli indagati e sulla ripetitività delle stesse, circostanza che ha permesso di fare dell’attività illecita in commento la principale fonte di guadagno dei ricorrenti, occorre soffermarsi sulla datazione delle condotte: le attività di indagine, poste a base del presente procedimento, si sono fermate all’ottobre 2012, e da quel momento non è stato svolto alcun accertamento o monitoraggio che possa consentire a questo giudice di ritenere che l’attività di spaccio sia continuata, sì da valutare l’attualità del pericolo. La legge 9 aprile 2015 n. 47 ha novellato la disposizione di cui all’art. 274 c.p.p., in modo particolare la lettera c), relativa al pericolo di reiterazione dei reati, richiedendo, oltre alla concretezza, anche l’attualità del menzionato pericolo (… quando … sussiste il concreto e attuale pericolo …) ed aggiungendo, tra l’altro, il seguente periodo: Le situazioni di concreto pericolo, anche in relazione alla personalità dell’imputato, non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede. Ebbene, pur trovandoci dinanzi a reati gravi posti in essere con condotte reiterate, espressione di attività organizzata, non è possibile giungere ad una prognosi positiva in ordine alla sussistenza di esigenze specialpreventive così come richieste dal legislatore, per difetto del requisito dell’attualità del pericolo. Del resto, proprio in relazione alla figura di reato in esame una recente sentenza della Corte di Cassazione, VI sezione penale, decisione del 26 novembre 2015, depositata il 17 dicembre 2014, anteriore anche all’indicata novella legislativa, ha richiamato – per escludere in quel caso la ricorrenza delle esigenze cautelari – la natura del reato ex art. 74 d.P.R. n. 309/1990, così come illustrata nella sentenza della Corte Costituzionale n. 231 del 2011, specificando che si risolve in una forma speciale di delitto di associazione a delinquere, qualificata unicamente dalla natura dei reati- fine e non postula necessariamente la creazione di una struttura complessa e gerarchicamente ordinata, o l’esistenza di radicamenti sul territorio o di particolari collegamenti personali e, soprattutto, di specifiche connotazioni del vincolo associativo, cosicché rispetto ad essa difettano quelle peculiari caratteristiche, più proprie del reato di cui all’art. 416 bis c.p., idonee a fornire una congrua regola di esperienza, riguardante la sua tendenziale stabilità, in difetto di elementi contrari che attestino il recesso individuale o lo scioglimento del gruppo. In sostanza, nell’associazione in esame la diretta connessione con la realizzazione dei reati-fine, che costituisce l’estrinsecazione della struttura associativa, ne dimostra la persistenza, sicché, rispetto a tale figura associativa, risulta essere essenziale individuare gli elementi di fatto che giustificano l’attualità delle esigenze, rispetto a condotte esecutive distanti nel tempo. Nel caso che ne occupa, il reato associativo ipotizzato racchiude condotte che si sviluppano in un periodo che va dal marzo 2011 all’ottobre 2012, data della consumazione dell’ultimo reato-fine, mentre nella motivazione dell’ordinanza impugnata – benché emessa in data 7 aprile 2015 – manca qualsiasi considerazione sull’irrilevanza del tempo trascorso, né l’accusa ha prodotto elementi, che consentano a questo Tribunale di poter colmare tale lacuna: di qui l’impossibilità di motivare sulla correlazione, necessariamente esistente, tra il pericolo di recidiva ed il tempo del commesso reato, in ossequio alla novella legislativa su richiamata, ma anche alla specifica previsione di cui all’art. 292, comma 2, lett. c), c.p.p., essendo un dato di comune esperienza che il decorso di un arco temporale significativo può essere sintomo di un proporzionale affievolimento del pericolo di reiterazione (sentenza Corte di Cassazione, sezione VI, del 26 giugno 2013 n. 20112). Va solo precisato che non convince la tesi del pubblico ministero, che, in udienza, ha cercato di sostenere l’attualità del pericolo in ragione della asserita protrazione della condotta criminosa in contestazione: la nota della Guardia di Finanza (priva, peraltro, di data e di sottoscrizione) che ha rilevato – in sede di esecuzione dei provvedimenti cautelari emessi nel presente procedimento – diverse anomalie (cancellature ed annulli di incassi) nel registro dei corrispettivi della ditta individuale … omissis … non vale a dimostrare che tali anomalie costituiscano effettivamente un espediente per occultare temporaneamente, versandoli in cassa, i proventi dell’attività di spaccio, così sottraendoli ad eventuali controlli delle forze dell’ordine. Non appare significativo in tal senso il contenuto della conversazione tra omissis e omissis– risalente al 5 febbraio 2012 – richiamata nella predetta nota dei medesimi inquirenti, che, peraltro, come emerge da una semplice lettura, si esprimono, al riguardo, in termini di mera probabilità, come tale tutta da verificare. Del resto, non è neppure da escludere che le segnalate anomalie possano nascondere intenti di evasione fiscale. L’ordinanza impugnata va, quindi, annullata per assenza di esigenze cautelari attuali che legittimino l’applicazione della misura cautelare.”.

15 Già poco sopra riportato.

16 Da ultimo, sentenza 26 marzo 2015 n. 48, in ordine al reato di concorso esterno in associazione mafiosa; sentenza 23 luglio 2013, n. 232, in ordine al delitto di cui all’articolo 609 octies c.p.; sentenza 18 luglio 2013, n. 213, in ordine al delitto di cui all’articolo 630 c.p.; sentenza 29 marzo 2013, n. 57 in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo; sentenza 3 maggio 2012, n. 110, in ordine al delitto di cui all’art. 416 c.p., realizzato allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 c.p.; sentenza 22 luglio 2011, n. 231, in ordine al delitto di cui all’art. 74, D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309; sentenza 12 maggio 2011, n. 164, in ordine al delitto di cui all’art. 575 c.p.; sentenza 21 luglio 2010, n. 265, in ordine ai delitti di cui agli articoli 600-bis co. 1, 609-bis e 609 quater c.p. Si veda, altresì, la sentenza n. 331 del 16 dicembre 2011, con cui la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 -Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero-, che pure prevedeva una presunzione assoluta analoga a quella dell’art. 275 co. 3 c.p.p. Sul tema, si vedano V. MANES, Lo “sciame di precedenti” della Corte costituzionale sulle presunzioni in materia cautelare, in Dir. Pen. e Processo, 2014, 4, 457; F. VERGINE, Art. 275, comma 3, c.p.p.: una norma dall’utilizzo eccessivo, in Dir. Pen. e Processo, 2014, 4, 430; F. GIUNCHEDI, La presunzione di adeguatezza della custodia cautelare. Frammenti di storia ed equilibri nuovi, in Giur. It., 2013, 3, P. TONINI, La carcerazione cautelare per gravi delitti: dalle logiche dell’allarme sociale alla gestione in chiave probatoria, in Dir. Pen. e Processo, 2014, 3, 261, G. BARROCU, La presunzione di adeguatezza esclusiva della custodia in carcere: evoluzione normativa e giurisprudenziale, in Dir. Pen. e Processo, 2012, 2, 224. Sull’ispirazione degli interventi della Consulta, si veda V. MANES, Lo “sciame di precedenti” cit., in Dir. Pen. e Processo, 2014, 4, 457: ” Quanto alle indicazioni più generali, le numerose pronunce di accoglimento – tutte sentenze “additive di regola”, direttamente fruibili per il giudice comune – poggiano su un chiaro denominatore comune, che rappresenta lo starting point del percorso argomentativo: il principio di fondo, cui è sotteso un preciso ethos costituzionale, è quello del “massimo livello di tutela dei diritti”, cui fa da pendant il principio del minimo sacrificio possibile dei diritti fondamentali, e, nella specie, del “minor sacrificio necessario” della libertà dell’indagato in sede cautelare.”

17 L’art. 308 co. 2 c.p.p. è stato integralmente sostituito ed il comma 2-bis è stato abrogato. La norma di nuovo conio. recita: “Le misure interdittive non possono avere durata superiore a dodici mesi e perdono efficacia quando è decorso il termine fissato dal giudice nell’ordinanza. In ogni caso, qualora siano state disposte per esigenze probatorie, il giudice può disporne la rinnovazione nei limiti temporali previsti dal primo periodo del presente comma”.

18 Talvolta irragionevolmente ristrettissimi, allorquando si trova a dover assecondare le scelte scellerate di qualche p.m., che procede al fermo di molte diecine di persone, per reati associativi mafiosi o altre complesse fattispecie plurisoggettive.

19 L’ordinanza che dispone la misura cautelare dovrà contenere, infatti, a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio: “c) l’esposizione el’autonoma valutazionedelle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza, tenuto conto anche del tempo trascorso dalla commissione del reato; c-bis) l’esposizione el’autonoma valutazionedei motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa, nonché, in caso di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, l’esposizione el’autonoma valutazionedelle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all’articolo 274 non possono essere soddisfatte con altre misure;”.

20 Cfr. Cass. Pen. Sez. VI, 4 marzo 2014, n. 12032, Cass. Pen. Sez. II, 4 dicembre 2013, n. 12537, Cass. Pen. Sez. VI, 24 maggio 2012, n. 22327, Cass. Pen. Sez. VI, 24 maggio 2012 n. 25631, Cass. Pen. Sez. II, 14 giugno 2012, n. 25513, Cass. Pen. Sez. III, 15 luglio 2010 n. 33753, Cass. Pen. Sez. II, 8 ottobre 2008 n. 39383, Cass. Pen. Sez. III, 11 ottobre 2007 n. 41569, Cass. Pen. Sez. IV, 8 luglio 2004 n. 45847.

21 Il legislatore ha, infatti, così riscritto il comma 9 dell’art. 309: “Entro dieci giorni dalla ricezione degli atti il tribunale, se non deve dichiarare l’inammissibilità della richiesta, annulla, riforma o conferma l’ordinanza oggetto del riesame decidendo anche sulla base degli elementi addotti dalle parti nel corso dell’udienza. Il tribunale può annullare il provvedimento impugnato o riformarlo in senso favorevole all’imputato anche per motivi diversi da quelli enunciati ovvero può confermarlo per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento stesso.Il tribunale annulla il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, a norma dell’articolo 292, delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa”.

22 Le argomentazioni dell’orientamento più conservativo fondavano anche sulla riflessione autoreferenziale secondo cui la possibilità di annullare per vizio motivazionale esula dai poteri del t. d r., spettando solo alla Corte di Cassazione, si vedano Cass. Pen. Sez. II, 20 aprile 2012, n. 30696, Cass. Pen. Sez. II, 30 novembre 2011, n. 7967, Cass. Pen. Sez. III, 2 febbraio 2011, n. 15416, Cass. Pen. Sez. VI, 16 gennaio 2006, n. 8590, Cass. Pen. Sez. VI, 14 giugno 2004, n. 35993, Cass. Pen. Sez. II, 4 dicembre 2006, n. 1102, Cass. Pen. Sez. II, 21 novembre 2006, n. 6322.

23 Che può ancor oggi confermare o riformare l’ordinanza genetica anche per motivi diversi da quelli esposti dal giudice che procede.

24 Tribunale distrettuale di Napoli, sez. XII, ord. n. 2503/2015, del 19.5.2015: “All’udienza del 19 maggio 2015, i difensori dei ricorrenti hanno chiesto, tutti, l’annullamento dell’ordinanza impugnata. Il Tribunale ritiene, però, di dover, in via principale, affrontare la questione relativa alla “tenuta” dell’ordinanza qui in esame a fronte delle modiche introdotte dalla L. 47/2015 agli artt. 292 e 309 c.p.p. Va, al riguardo, innanzitutto, rilevato che l’art. 8 L. 47/2015, entrato in vigore solo l’8 maggio 2015, da un lato, ha “arricchito” le lettere c) e c-bis) dell’art. 292 c.p.p. di un ulteriore requisito motivazionale: si prevede, infatti, che l’ordinanza cautelare debba contenere non solo “l’esposizione”, ma anche “l’autonoma valutazione” degli elementi ivi rispettivamente indicati -esigenze cautelari, indizi, irrilevanza delle argomentazioni difensive- e, dall’altro lato, ha modificato anche i poteri attribuiti, in fase decisoria, al Tribunale del Riesame: in particolare, è stato aggiunto al nono comma dell’art. 309 c.p.p. il seguente periodo conclusivo: “Il Tribunale annulla il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292, delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa”. Va, poi, ritenuto, alla luce del combinato disposto di tali due norme, che il potere integrativo è, in primo luogo, precluso “se la motivazione manca”: trova, quindi, oggi, un’esplicita conferma, nel codice, l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui il Tribunale del Riesame deve annullare il provvedimento cautelare nelle ipotesi di motivazione mancante -in senso grafico-, alla quale sembra doversi continuare ad equiparare quella in cui la motivazione è meramente apparente. E tale situazione è riscontrabile allorquando l’apparato argomentativo si risolva in mere clausole di stile o in proposizioni apodittiche. In secondo luogo, il dovere di annullare l’ordinanza, senza poter procedere ad integrazioni, viene codificato anche proprio con riferimento all’ipotesi in cui la motivazione sia viziata nel requisito di nuovo conio, vale a dire se la stessa non contenga “l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292, delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa”. E tale situazione ricorre nell’ipotesi di redazione di motivazioni per così dire “appiattite su quelle del Pubblico Ministero richiedente”. La frase è virgolettata poiché l’espressione è mutuata dalla relazione a cura dell’ufficio del massimario della Corte di Cassazione. Tanto premesso, ad avviso del Collegio, nel caso di specie, nell’ordinanza impugnata, fa difetto proprio il requisito dell’autonoma valutazione da parte del GIP dei gravi indizi a carico di … omissis … in ordine ai reati loro rispettivamente ascritti. Ciò in quanto l’ordinanza qui in esame si limita a ripetere pedissequamente il contenuto della richiesta del PM, addirittura riproducendo la medesima suddivisione in paragrafi e utilizzando le stesse parole, senza alcuna ulteriore aggiunta, commento o osservazione da parte del GIP e quindi senza alcuna autonoma valutazione da parte di quest’ultimo. Ne consegue, quindi, alla luce delle modifiche introdotte con la L. 47/2015, entrata in vigore solo l’8 maggio 2015, che l’ordinanza del GIP del Tribunale di Napoli del 18 marzo 2015 va annullata e … omissis … vanno immediatamente liberati, se non detenuti o in custodia per altro caso. A fronte dell’accertamento circa la assenza, da parte del giudice impugnato, di una sia pur sintetica valutazione autonoma dei fatti rappresentati dal P.M. e trasfusi pedissequamente nell’ordinanza cautelare senza alcuna rielaborazione, sia per quanto attiene alla sussistenza dei gravi indizi, sia per quanto riguarda le esigenze cautelari -a quest’ultimo riguardo le difese hanno a lungo argomentato, eccependo proprio la assenza di un giudizio autonomo e specificamente inerente le singole posizioni-, il collegio non può che prendere atto della preclusione normativa derivante dalla norma succitata, che – ridisegnando i poteri decisori attribuiti al Tribunale del Riesame nelle ipotesi di carenza motivazionale – ha sottratto al Tribunale il potere di integrare, argomentare o valutare “ex novo” elementi fondanti il titolo custodiale, imponendo senz’altro di annullare l’ordinanza sottoposta al suo vaglio quando rilevi dette carenze. Nella citata relazione, infatti, si ipotizza (o meglio si propugna), l’annullamento senza rinvio (ad opera della Corte di Cassazione adita dal ricorrente) dell’ordinanza emessa dal Tribunale del Riesame ad integrazione di un’ordinanza carente di autonoma valutazione in ordine alla gravità indiziaria o alle esigenze cautelari.

25 Tribunale distrettuale di Napoli, sezione X, ord. n. 2729/2015 del 4.6.2015: “… Si può, quindi, affermare che secondo la più recente giurisprudenza di legittimità determina la nullità dell’ordinanza cautelare, non sanabile con l’esercizio dei poteri integrativi della motivazione spettanti al tribunale del riesame, anche l’ipotesi in cui il giudice non ha rispettato la tecnica di redazione consistente nel rinvio, o nella materiale ricezione, di altro provvedimento giurisdizionale. Il recente approdo dei giudici di legittimità, anche se non ancora consolidatosi, ha trovato una più solida e univoca base normativa nella modifica dell’art. 309, comma 9, c.p.p. introdotta dall’art. 11, comma 3, della L. n. 47/15. In particolare, il legislatore ha imposto al giudice del riesame di annullare il provvedimento cautelare qualora la motivazione manchi o non contenga l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292 c.p.p., degli indizi, delle esigenze cautelari e degli elementi forniti dalla difesa. Ad avviso del Collegio in seguito alla novella legislativa il potere integrativo dell’ordinanza spettante al tribunale del riesame non può, quindi, essere esercitato nel caso in cui il giudice della cautela, nel recepire integralmente il contenuto di altro atto del procedimento o nel rinviare allo stesso, si sia limitato all’impiego di mere clausole di stile o all’uso di frasi apodittiche, senza dare alcuna contezza delle ragioni per cui abbia fatto proprio il contenuto dell’atto recepito o richiamato oppure lo abbia comunque considerato coerente con la sua decisione. Tale ipotesi, infatti, integra una violazione di legge (cfr. il novellato art. 292 comma 2 lett. c) e c-bis), c.p.p.), rilevabile anche in sede di riesame (cfr. il novellato art. 309, comma 9, c,.p.p.). Tanto premesso, ritiene il Tribunale che nel caso in esame il G.I.P. non abbia rispettato i requisiti previsti per la tipologia di motivazione consistente nel rinvio, o nella materiale ricezione, di altro provvedimento giurisdizionale (in questo caso l’ordinanza cautelare emessa dal G.I.P. dichiaratosi incompetente). Manca, infatti, nell’ordinanza impugnata l’indicazione delle ragioni, sia pure sintetiche, dell’adesione alla motivazione espressa nel precedente provvedimento cautelare, così come è del tutto carente qualsiasi accenno di autonoma valutazione in ordine agli indizi, alle esigenze cautelari e agli elementi forniti dalla difesa. In base alla motivazione riportata in premessa, non risulta in alcun modo che il G.I.P. del Tribunale di Napoli abbia preso cognizione del contenuto delle ‘ragioni’ dell’atto richiamato, ritenendole condivisibili a tal punto da ‘rifarsi’ completamente a esse, attraverso un iter logico che possa essere controllato da questo giudice dell’impugnazione. In conclusione, si ritiene di affermare che nella presente procedura non si può esercitare il potere integrativo dell’ordinanza cautelare spettante al tribunale del riesame, poiché si è verificata una sostanziale mancanza di motivazione, che ha, di fatto, privato la parte di un grado di giudizio. Ad avviso del Collegio la totale assenza di autonoma motivazione è, quindi, indiscutibile. Né la carenza assoluta di motivazione può ritenersi superata dalla adeguatezza di motivazione dell’ordinanza emessa dal giudice dichiaratosi incompetente, che senza dubbio ha consentito ai destinatari dell’ordinanza – come si desume dalla memoria versata in atti – di conoscere gli elementi a loro carico così come indicati nella richiesta del P.M., per disporre un’adeguata difesa.Non si rileva, infatti, l’inadeguatezza dell’atto a conseguire il suo fine, ma si pone il problema se, non esistendo motivazione del giudice competente, si realizzi la nullità prevista dall’articolo 292 c.p.p., non emendabile con i poteri del Tribunale del riesame di integrazione della motivazione. Nel caso in esame, infatti, appare evidente come la tecnica redazionale utilizzata nei modi prima riportati dal giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, imponga di escludere che il G.I.P. abbia realmente preso cognizione del contenuto delle ragioni esposte nell’ordinanza del giudice dichiaratosi incompetente, ritenendole coerenti alla decisione adottata. In proposito è appena il caso di evidenziare che il provvedimento di custodia cautelare disposto dal giudice per le indagini preliminari che, contestualmente, si dichiari incompetente viene, a tutti gli effetti, sostituito dall’ordinanza pronunciata, come nel caso in esame, tempestivamente dal giudice competente, cioè entro i venti giorni previsti dall’art. 27 c.p.p. Ritiene questo Tribunale che l’art. 291 c.p.p. conferisce un potere eccezionale in materia cautelare in relazione a situazioni in cui le ragioni di urgenza impongono l’adozione di una misura personale che garantisca un presidio alle esigenze cautelari esistenti in attesa dell’intervento del giudice naturale del processo, che, laddove emetta a sua volta un’ordinanza custodiale, si sostituisce integralmente al primo giudice. Da questo momento, in caso di emissione della nuova misura, a parere del tribunale, la valutazione indiziaria sulla cui scorta si limita la libertà individuale e, quindi, oggetto di possibile riesame, è quella contenuta nella seconda ordinanza alla quale seguirà lo svolgimento del procedimento fino allo sbocco naturale dell’esercizio dell’azione penale o della decisione di archiviare la procedura. Alla luce delle considerazioni che precedono deve essere annullata l’ordinanza impugnata.

26 Cass. Sez. II, n. 6358 del 28.1.2015, rv. 262576.

27 Il comma 6 dell’art. 309, così come riformulato, recita: “Con la richiesta di riesame possono essere enunciati anche i motivi. Chi ha proposto la richiesta ha, inoltre, facoltà di enunciare nuovi motivi davanti al giudice del riesame facendone dare atto a verbale prima dell’inizio della discussione el’imputato può chiedere di comparire personalmente.“. A questa si collega la novella del comma 8-bis: “Il pubblico ministero che ha richiesto l’applicazione della misura può partecipare all’udienza in luogo del pubblico ministero presso il tribunale indicato nel comma 7.L’imputato che ne abbia fatto richiesta ai sensi del comma 6 ha diritto di comparire personalmente.”.

28 Salvo i casi di cui all’art. 45 bis disp. att. c.p.p., collegamento a distanza.

29 “Su richiesta formulata personalmente dall’imputato entro due giorni dalla notificazione dell’avviso, il tribunale differisce la data dell’udienza da un minimo di cinque ad un massimo di dieci giorni se vi siano giustificati motivi. In tal caso il termine per la decisione e quello per il deposito dell’ordinanza sono prorogati nella stessa misura“.

30 Il “nuovo” comma 10 dell’art. 309 c.p.p., così recita: “Se la trasmissione degli atti non avviene nei termini di cui al comma 5 o se la decisione sulla richiesta di riesame o il deposito dell’ordinanza del tribunale in cancelleria non intervengono nei termini prescritti, l’ordinanza che dispone la misura coercitiva perde efficacia e, salve eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate, non può essere rinnovata. L’ordinanza del tribunale deve essere depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione salvi i casi in cui la stesura della motivazione sia particolarmente complessa per il numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni. In tali casi, il giudice può disporre per il deposito un termine più lungo, comunque non eccedente il quarantacinquesimo giorno da quello della decisione.

31 Comma 5-bis dell’art. 311 c.p.p.: “Se è stata annullata con rinvio, su ricorso dell’imputato, un’ordinanza che ha disposto o confermato la misura coercitiva ai sensi dell’articolo 309, comma 9, il giudice decide entro dieci giorni dalla ricezione degli atti e l’ordinanza è depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione. Se la decisione ovvero il deposito dell’ordinanza non intervengono entro i termini prescritti, l’ordinanza che ha disposto la misura coercitiva perde efficacia, salvo che l’esecuzione sia sospesa ai sensi dell’articolo 310 comma 3, e, salve eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate, non può essere rinnovata”.

Massimo Perrotti

 
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1) Fasc. 5/PA/2015 – Nota pervenuta in data 27 gennaio 2015 prot. CSM 4283/2015 dal Ministro della Giustizia che trasmette, per il parere, il testo del disegno di legge concernente: “Misure volte a rafforzare il contrasto alla criminalità organizzata e ai patrimoni illeciti”.

(relatore Consigliere MOROSINI)

La Commissione, all’unanimità, propone al Plenum  di adottare la seguente delibera:

«Considerazioni introduttive.

Il disegno di legge n. 1687, approvato dal Consiglio dei Ministri nella riunione del 29 agosto 2014 e presentato al Senato della Repubblica il 20 novembre 2014 dal Ministro della giustizia e dal Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, ha ad oggetto “Misure volte a rafforzare il contrasto alla criminalità organizzata e ai patrimoni illeciti”.

L’iniziativa legislativa contempla modifiche ai codici penale e di procedura penale, al codice civile e ad altri testi normativi, complessivamente intese al rafforzamento dell’azione di contrasto al fenomeno della illecita accumulazione di ricchezza e di capitali ad opera della criminalità organizzata.

Il contenuto del presente parere non concerne, tuttavia, l’intera gamma delle previsioni del disegno di legge in discorso.

In effetti, alcune disposizioni di cui al capo I, in epoca posteriore rispetto alla presentazione del disegno di legge n. 1687, sono state interessate da autonomi interventi di riforma, ossia la legge n. 186/2014 e la legge n.69/2015. E di conseguenza le materia della informazione al Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione sull’esercizio dell’azione penale per i fatti di corruzione, del trattamento sanzionatorio del delitto di associazione mafiosa, dell’introduzione del reato di autoriciclaggio, della disciplina in tema di false comunicazioni sociali, nonché della responsabilità amministrativa degli enti in relazione ai reati societari non costituiranno oggetto del presente parere.

Sotto altro aspetto, le norme articolate ai capi VI (“Disposizioni in materia di vittime e misure di protezione”), VII (“Disposizioni in materia di scioglimento degli enti locali conseguente a fenomeni di condizionamento di tipo mafioso o similare”) e VIII (“Misure per il contrasto del riciclaggio, del finanziamento del terrorismo e della proliferazione delle armi di distruzione di massa”) non mettono in evidenza competenze consiliari.

Il presente parere del Consiglio Superiore della Magistratura è, quindi, essenzialmente concentrato sui capi II (“Modifiche al codice di procedura penale e alle norme di attuazione del medesimo codice, per una maggiore efficienza dei procedimenti di esecuzione e di cognizione con detenuti”), III (“Modifiche al codice delle leggi antimafia”), IV (“Disposizioni in materia di assetto dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”), V (“Modifiche alla disciplina della confisca per sproporzione al reddito o all’attività economica”).

In tale prospettiva, il Consiglio superiore della magistratura condivide, innanzitutto, l’approccio tematico del disegno di legge in esame che evidenzia l’importanza centrale espressamente riconosciuta alla disciplina delle misure di prevenzione, patrimoniali innanzitutto, in un frangente storico in cui le associazioni mafiose, pur non rinnegando la loro originaria matrice territoriale ed ambientale, hanno ormai varcato i confini nazionali e manifestato una franca vocazione imprenditoriale, così palesando una più intensa pericolosità, non fronteggiabile in via esclusiva attraverso i tradizionali istituti del diritto penale.

E va salutata con favore anche la scelta del legislatore di adottare, nel caso di specie, una tecnica di intervento che, prendendo le mosse dalla attuale regolamentazione degli istituti, la emenda e modifica in modo puntuale senza determinare radicali stravolgimenti: una riforma, dunque, da valutarsi in chiave positiva per la complessiva attitudine ad eliminare non secondari elementi di criticità ed a rendere, di conseguenza, più efficace l’azione di contrasto alla criminalità organizzata e di aggressione ai patrimoni di matrice illecita.

I contenuti del disegno di legge, infatti, muovono dalle prime esperienze giurisprudenziali connesse alla messa in opera del c.d. “Codice delle leggi antimafia” (D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159), per poi valorizzare le conclusioni e le opzioni della Commissione ministeriale incaricata di elaborare una proposta di interventi in materia di criminalità organizzata, istituita con decreto ministeriale del 10 giugno 2013 e presieduta dal prof. Giovanni Fiandaca, nonché il rapporto della Commissione presieduta dal cons. Roberto Garofoli per l’elaborazione di proposte in tema di lotta, anche patrimoniale, alla criminalità, istituita dal Presidente del Consiglio con decreto del 7 giugno 2013.

Sulla materia delle misure di prevenzione trattata dal testo oggetto del parere pendono, peraltro, presso il Parlamento, distinte proposte di legge, talune delle quali[1] traggono spunto dall’attività svolta dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, istituita con legge 19 luglio 2013, n. 87 e presieduta dall’on. Rosi Bindi, del cui contenuto si darà conto all’atto dell’esame delle singole disposizioni del disegno di legge n. 1687.

Il terreno di approfondimento del presente parere investe, dunque, una serie di questioni cruciali tra cui: la disciplina del procedimento applicativo delle misure di prevenzione che concerne i temi dei soggetti che sono legittimati ad attivarlo, della competenza territoriale, dei diritti di difesa, dell’adeguato approfondimento istruttorio, della ragionevole durata; l’amministrazione e il controllo giudiziario per i casi di agevolazione incolpevole e occasionale di interessi economici della organizzazioni criminali; il ruolo dell’amministratore giudiziario e la trasparenza e la rotazione nella selezione nonché l’obbligo di predisposizione di un piano di prosecuzione aziendale per quelle imprese ritenute in grado di competere sul mercato; i profili di ordinamento giudiziario funzionali ad istituire dei giudici specializzati nella materia della prevenzione; il ruolo e la struttura della Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata; l’estensione dell’istituto della confisca cosiddetta “allargata” di cui all’art 12 sexies D.L. n.306 del 1992 . 

Sin da questa parte introduttiva si intendono segnalare le importanti novità sul cosiddetto codice antimafia, nella parte relativa al procedimento sulle misure di prevenzione, da valutare in termini certamente positivi, ancorchè suscettibili di alcune integrazioni in parte suggerite dalle citate proposte della commissione parlamentare antimafia.

Innanzitutto, con riguardo alla parte più strettamente organizzativo-ordinamentale, rappresentano un grande passo avanti le novità della trattazione prioritaria dei procedimenti relativi alle misure di prevenzione unita alla “previsione rafforzata” che istituisce sezioni distrettuali specializzate partorita dal d.d.l. n.2737 (proveniente dalla commissione parlamentare antimafia), con competenza esclusiva, sia in primo grado sia in appello. L’auspicio è che dette sezioni, una volta istituite, vengano composte da magistrati con professionalità integrate, civili e penali. In ogni caso questo tipo di riforma affida comprensibilmente al Consiglio Superiore della Magistratura una notevole responsabilità sul rispetto delle precondizioni affinchè i suddetti obiettivi vengano effettivamente realizzati.

Inoltre, deve essere evidenziato l’impegno sul piano della più dettagliata disciplina del procedimento con riferimento ai termini per le richieste e alle eccezioni delle parti, in particolare per quanto concerne l’eccezione di incompetenza territoriale. Impegno che, in una ottica di garanzia dei diritti di difesa e di durata ragionevole del procedimento, andrebbe integrato con regole più dettagliate anche sui tempi e i modi dell’ approfondimento istruttorio.

Va salutato con favore anche lo sforzo di definire organicamente  il ruolo dell’amministratore giudiziario, attraverso interventi sui criteri di nomina che valorizzano la trasparenza e la rotazione delle opzioni della autorità giudiziaria (utile in tale prospettiva la previa acquisizione  della dichiarazione del nominato sul numero ed il tipo di incarichi in corso).

Nella prospettiva della più precisa definizione del ruolo dell’amministratore giudiziario, potrebbero essere utili da una parte la creazione dell’ufficio di coadiuzione organizzato con le professionalità necessarie per la specificità della gestione e con la redazione del preventivo di spesa, dall’altra l’obbligo di predisposizione di un più dettagliato piano di prosecuzione aziendale( business plan)per quelle imprese ritenute in grado di competere nel mercato. Piano che dovrebbe orientare l’amministrazione giudiziaria durante tutte le fasi del giudizio e anche oltre la confisca definitiva, da discutere preventivamente in udienza, con pubblico ministero e Agenzia nazionale per i beni confiscati, dopo avere ascoltato il parere dei sindacati.

Molto positiva si presenta pure l’introduzione della nuova misura di prevenzione non ablativa del “Controllo giudiziario”, nei casi di agevolazione incolpevole ed occasionale di interessi criminali. E le relative disposizioni potrebbero completarsi con la previsione di applicazione di detta misura anche su richiesta dell’azienda, quando quest’ultima risulti colpita da una misura interdittiva di matrice prefettizia con l’effetto di sospenderne temporaneamente gli effetti, all’esito di una valutazione del giudice, previo  parere del PM.

Le nuove previsioni contenute nel disegno di legge in esame potrebbero essere utilmente integrate da disposizioni finalizzate a tutelare i creditori delle aziende consentendo all’amministratore di procedere tempestivamente ai pagamenti  dei debiti privilegiando i creditori strategici per la prosecuzione dell’attività, nonché ad accelerare i procedimenti di verifica della buona fede per i crediti di origine incerta.

Infine, andrebbero elaborate disposizioni in grado di semplificare i rapporti tra il procedimento di prevenzione e le procedure fallimentari\esecutive al fine di evitare esiti contraddittori per i titolari di diritti di credito.

Indilazionabile appare, inoltre, un intervento legislativo sulla liquidazione dei compensi agli amministratori giudiziari onde evitare, per un verso decisioni incomprensibili e talvolta prive di una base motivazionale, per altro verso garantire una adeguatezza degli stessi compensi, rispetto alla natura e alla gravosità delle attività espletate. In questo senso occorre distinguere i trattamenti da riservare agli amministratori giudiziari con quelli previsti per i curatori fallimentari. Si tratta di funzioni assai differenti laddove gli amministratori giudiziari perseguano l’obiettivo di mantenere le imprese sul mercato (e non già di liquidarle), garantire i livelli occupazionali e addirittura di incrementare la redditività dei beni in sequestro ove possibile.

Le modifiche al codice delle leggi antimafia (Capo III del d.d.l n-1687)

Gli artt. da8 a16 del DDL contengono alcune modifiche al codice delle leggi antimafia, approvato con il Decreto Legislativo 6 settembre 2011, n. 159, la cui introduzione è stata salutata con favore dalla generalità degli operatori quale strumento di importanza strategica nella lotta al crimine organizzato.

Analogamente, esegeti ed operatori concordano nel ritenere che il codice delle leggi antimafia necessiti, quantomeno in alcune parti, di una rivisitazione finalizzata a porre rimedio agli elementi di criticità emersi nei primi anni della sua vigenza.

Tra le varie opzioni sul campo, il disegno di legge n. 1687 privilegia l’enucleazione di specifici campi di intervento, che incidono puntualmente su alcune disposizioni del codice lasciandone sostanzialmente inalterato l’impianto complessivo[2].

Di seguito, si procederà, dunque, all’esame di ciascuna disposizione del Capo III.  

A) La rilevabilità della incompetenza per territorio nei procedimenti di prevenzione; il potenziamento degli strumenti di indagine; le annotazioni e le comunicazioni sul procedimento.

L’articolo 8, comma 1, inserisce, dopo l’art. 5 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, il nuovo articolo 5-bis.

Nello specifico viene introdotto un limite temporale alla eccepibilità ed alla rilevabilità d’ufficio dell’incompetenza per territorio nei procedimenti di prevenzione, nel senso che la relativa questione è preclusa se non proposta entro la conclusione della discussione di primo grado ovvero rilevata non oltre la decisione di primo grado.

Il secondo comma del articolo 8 DDL introduce poi i commi 2-bis e 2-ter all’articolo 27 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 e ciò al fine di attuare il necessario coordinamento del regime delle impugnazioni con la nuova previsione di cui all’art. 5-bis.

Si prevede, pertanto, che in caso di accoglimento della questione di incompetenza territoriale riproposta in secondo grado,la Corted’Appello, anche qualora la proposta non sia stata avanzata dal procuratore della Repubblica o dal questore legittimati ai sensi dell’articolo 5, ordini la trasmissione degli atti all’organo proponente

Nel complesso l’innovazione può essere favorevolmente apprezzata, in quanto il contenimento dello spazio per l’eccepibilità e la rilevabilità di tale questione processuale potrà produrre positivi effetti acceleratori nella trattazione e nella definizione dei procedimenti di prevenzione.

Non va sottaciuto, infatti, che nel sistema vigente la disciplina dellʹincompetenza territoriale nei procedimenti di prevenzione presenta elementi di irragionevolezza, posto che la relativa regolamentazione risulta essere molto più rigorosa di quella stabilita, in termini generali, per il processo penale.

Attualmente, infatti, mancando ogni preclusione temporale, l’incompetenza territoriale del giudice della prevenzione è rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, avendo natura funzionale ed inderogabile(cfr. Cass. Sez. V, sent. n. 19067 del 31.3.2010).

Se a ciò si aggiunge che il criterio del luogo di dimora del proposto, utilizzato dal testo legislativo per la determinazione della competenza, si riferisce, per giurisprudenza consolidata, allo spazio geografico‐ambientale in cui il soggetto manifesta i suoi comportamenti socialmente pericolosi, pur se tale luogo è diverso da quello di dimora abituale ovvero ad un contesto di non agevole identificazione, è facile comprendere come l’incompetenza territoriale, nei termini in cui è attualmente disciplinata, rappresenti una mina vagante, potenzialmente idonea a porre nel nulla procedimenti giunti alla fase del giudizio di legittimità, con inaccettabile dispendio di lavoro e risorse.

La modifica prevista dal DDL in commento, che peraltro si pone in linea con la proposta[3] avanzata sul punto dalla Commissione per l’elaborazione di proposte per la lotta, anche patrimoniale, alla criminalità (istituita con DPCM del 7 giugno 2013), dovrebbe finalmente porre rimedio a questo elemento di distonia.

Allo stesso articolo 27 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 vengono introdotti, infine, i commi 3-bis e 6 bis, concernenti, rispettivamente: a) la possibilità di sospensione, nelle more del giudizio di Cassazione, della decisione con cui la corte d’appello, in riforma del decreto di confisca emesso dal tribunale, abbia disposto la revoca del sequestro; b) la disciplina sulla formazione del fascicolo da parte del procuratore della Repubblica per l’ipotesi  in cui, al termine del procedimento di primo grado, sia proposta impugnazione.

L’articolo 9 modifica il comma 4 dell’articolo 19 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159.

Per effetto della novella le autorità titolari del potere di proposta delle misure di prevenzione patrimoniali potranno ora accedere direttamente al Sistema di interscambio flussi dati (SID) dell’Agenzia delle entrate.

Tale previsione, determinando un evidente potenziamento degli strumenti di indagine, non può che essere vista con favore in ottica di rafforzamento dei mezzi di contrasto alle condotte delittuose

L’articolo 10 modifica l’articolo 81 del codice antimafia, prevedendo che nei registri delle procure della Repubblica venga annotato anche il provvedimento di archiviazione, ove non sussistano i presupposti per l’esercizio dell’azione di prevenzione. Ulteriore modifica riguarda la previsione che la proposta di applicazione di misura di prevenzione, formulata dal questore e dal direttore della Direzione investigativa antimafia, venga “contestualmente” comunicata alla Procura competente per territorio, con allegazione in copia della proposta.

La novella in esame, determinando un’implementazione (annotazione anche del provvedimento di archiviazione) e un’accelerazione (comunicazione non solo immediata ma contestuale della proposta di misura personale e patrimoniale) dei flussi informativi dei dati relativi ai procedimenti prevenzione, si pone certamente in linea con l’obiettivo di rendere più efficace l’azione preventiva e repressiva nei confronti della criminalità.

B) Le modifiche al procedimento applicativo delle misure di prevenzione patrimoniale. I presupposti della revoca del sequestro. Il sequestro o confisca per equivalente.

L’articolo 11 del disegno di legge n. 1687 contiene modifiche, nei suoi tre commi, ad altrettanti articoli, nn. 20, 24 e 25, del “codice antimafia”, tutti compresi nel capo dedicato al procedimento applicativo delle misure di prevenzione patrimoniali.

Prendendo le mosse dall’art. 20, rubricato “Sequestro“, il comma 1 prevede, nel testo in atto vigente, che “Il tribunale, anche d’ufficio, ordina con decreto motivato il sequestro dei beni dei quali la persona nei cui confronti é iniziato il procedimento risulta poter disporre, direttamente o indirettamente, quando il loro valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta ovvero quando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”.

Il disegno di legge n. 1687 interviene ancorando la facoltà di emettere, d’ufficio o su istanza del proponente e, ovviamente, ricorrendone i presupposti di legge, il decreto di sequestro alla presentazione della proposta di applicazione della misura di prevenzione patrimoniale anziché all’avvio del procedimento, così realizzando un miglior coordinamento sistematico della norma[4].

La novella tocca anche, sotto diversi aspetti, il comma 2 dell’art.20, amente del quale “Il sequestro é revocato dal tribunale quando é respinta la proposta di applicazione della misura di prevenzione o quando risulta che esso ha per oggetto beni di legittima provenienza o dei quali l’indiziato non poteva disporre direttamente o indirettamente”.

La prima delle modifiche prospettate, tutte mutuate dalla relazione conclusiva dei lavori della già menzionata “Commissione Fiandaca”, riguarda l’inserimento della parola “patrimoniale” dopo quelle “misure di prevenzione“, e costituisce applicazione dell’interpretazione sistematica che induce a circoscrivere il presupposto per la revoca del sequestro, nella fase conclusiva del procedimento, alla reiezione della richiesta di confisca, senza estenderlo al rigetto della proposta relativa alla sorveglianza speciale, venendo altrimenti svuotato di contenuto il principio di reciproca autonomia tra le misure personali e patrimoniali, in ossequio, peraltro, a quanto già illustrato nella Relazione ministeriale al codice antimafia, che afferma che la norma deve «interpretarsi, nella nuova disciplina, come riferita alla richiesta di misura di prevenzione patrimoniale».

Il disegno di legge previde, poi, l’inserimento delle parole “nel corso del procedimento”, dopo quelle “o quando”, al dichiarato scopo di chiarire che il sequestro può essere revocato anche in corso di procedimento, cioè prima dell’adozione del decreto conclusivo, qualora emerga che i beni assoggettati a vincolo hanno legittima provenienza o che l’indiziato non poteva disporne direttamente o indirettamente.

Il comma 2 dell’art. 20 viene integrato, da ultimo, aggiungendo il riferimento alla necessità di disporre la annotazione e le trascrizioni nei pubblici registri conseguenti alla revoca del sequestro, sì da ovviare a diverse difficoltà riscontrate nella prassi per il mancato adempimento degli oneri di pubblicità all’atto del venir meno del vincolo.

Di notevole rilievo appaiono le modificazioni apportate ai primi due commi dell’art. 24 codice antimafia, dedicato alla confisca di prevenzione.

In dettaglio, al primo comma – ai sensi del quale “Il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati di cui la persona nei cui confronti e’ instaurato il procedimento non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilita’ a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attivita’ economica, nonche’ dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego” – viene aggiunto un periodo, nel quale si statuisce che “In ogni caso il proposto non può giustificare la legittima provenienza dei beni adducendo che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale”.

La disposizione[5] recepisce, quanto alla confisca di prevenzione, gli approdi del percorso ermeneutico giunto di recente a compimento con il pronunciamento delle Sezioni Unite[6] e concorre, insieme all’analoga previsione inserita, all’art. 19 del disegno di legge  in commento, in relazione alla confisca allargata ex art. 12-sexies D.L. n. 306/1992, ad introdurre un regime comune alle due principali tipologie di confisca (cc.dd. “per sproporzione”) utilizzate nel sistema di contrasto alla criminalità organizzata.

Il comma 2 dell’art. 24 del codice antimafia[7] viene, poi, modificato aggiungendo, dopo le parole:«direttamente o indirettamente», quelle: «, nonché per il tempo decorrente dalla morte del proposto alla citazione dei soggetti previsti dall’articolo 18, comma 2».

La normativa vigente prevede, al riguardo, che il termine massimo, calcolato a far data dall’immissione in possesso dei beni da parte dell’amministratore giudiziario, entro il quale deve, a pena di inefficacia, essere adottato il decreto di confisca, termine che, fissato in un anno e sei mesi, può essere, a determinate condizioni prorogato, resti sospeso in una serie tipizzata di ipotesi, che viene arricchita dal disegno di legge n. 1687 prevedendosi la sospensione, nel caso di morte del proposto, per il tempo necessario alla citazione di eredi ed aventi causa.

Tangibile appare la ratio della disposizione, intesa a sterilizzare, in funzione del rispetto del termine di efficacia, il periodo in cui il procedimento si arresta in considerazione del decesso del proposto e della conseguente necessità di instaurare il contraddittorio nei confronti dei suoi successori.    

Il comma 3 dell’art. 11 del disegno di legge n. 1687 opera, infine, l’integrale riformulazione dell’art. 25 del codice antimafia, dedicato a “Sequestro o confisca per equivalente”[8].

La normativa in atto vigente individua, in proposito, due distinte ipotesi in cui è consentito disporre il sequestro o la confisca per equivalente che concernono, rispettivamente, il caso in cui la persona destinataria della misura di prevenzione disperda, distragga, occulti o svaluti i beni per eludere l’esecuzione dei provvedimenti di sequestro o di confisca che li abbiano ad oggetto, e quello in cui la confisca sia preclusa dal legittimo trasferimento, prima dell’esecuzione del sequestro, in favore di terzi di buona fede.

La disposizione si differenzia da altre ipotesi di confisca per equivalente perché prevede l’integrazione di una specifica condotta distruttiva, oltre che per l’espresso riferimento alla finalità elusiva perseguita dal proposto che, compiendo le attività ivi descritte, mira a sottrarre i beni al sequestro o alla confisca.

Ne discende che l’art. 25, nella sua attuale formulazione, non può essere applicato al cospetto di condotte colpose quando non addirittura incolpevoli o che, comunque, non costituiscono portato di una volontà protesa ad elidere o contenere gli effetti della misura patrimoniale.

Altro limite all’applicazione della confisca per equivalente si ricollega, secondo attenta dottrina, all’esclusivo rilievo riconosciuto alle condotte poste in essere dopo la presentazione della proposta, per come si evince sia dall’utilizzo del termine “proposto” che dalla finalità elusiva perseguita, che logicamente presuppone la promozione di apposita iniziativa giudiziaria.

In questo contesto interviene il disegno di legge n. 1687, che intende sostituire il precedente testo[9], con due commi distinti (“1.Dopo la presentazione della proposta, se non è possibile procedere al sequestro dei beni di cui all’articolo 20, comma 1, perché il proposto non ne ha la disponibilità, diretta o indiretta, anche ove trasferiti legittimamente in qualunque epoca a terzi in buona fede, il sequestro e la confisca hanno ad oggetto altri beni di valore equivalente, di legittima provenienza, dei quali il proposto ha la disponibilità, anche per interposta persona. 2. Si procede con le modalità previste dal comma 1 nei casi di cui all’articolo 18, commi 2 e 3, nei riguardi dei soggetti nei cui confronti prosegue o inizia il procedimento, con riferimento a beni di legittima provenienza loro pervenuti dal proposto»).

La rilevanza dell’innovazione si coglie, al di là dei profili semantici e di tecnica legislativa, ove si noti come il testo attualmente vigente postula che il proposto si sia disfatto dei beni da sottoporre a sequestro e\o confisca allo scopo di eludere l’esecuzione dei relativi provvedimenti, mentre quello di cui si suggerisce l’introduzione è svincolato da tale presupposto soggettivo e presuppone soltanto l’impossibilità di esecuzione.

La novella chiarisce, ulteriormente, che la traslazione dell’oggetto del sequestro o della confisca è ammessa anche su beni di legittima provenienza o dei quali il proposto abbia disponibilità per interposta persona, nonché in caso di cessione di quelli da sottoporre a sequestro o confisca a terzi di buona fede; ad identica misura possono essere, peraltro, sottoposti gli eredi ed aventi causa del proposto che da lui abbiano ricevuto beni di legittima provenienza.

C) Amministrazione e controllo giudiziario di attività economiche ed aziende

L’articolo 12 del disegno di legge n. 1687 si occupa di “Amministrazione e controllo giudiziario di attività economiche ed aziende”.

Il legislatore profonde, in questo campo, un duplice, contemporaneo sforzo, mirante, da un canto, a rivitalizzare e meglio regolamentare l’esistente istituto della “amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche” e, dall’altro, ad introdurreex novola fattispecie del “controllo giudiziario delle aziende”.

Va evidenziato come il preesistente istituto della sospensione dell’amministrazione dei beni connessi ad attività economiche, previsto dagli artt. 3-quater e 3-quinquies della legge n. 575/1965, sia stato inserito nel codice antimafia, sotto la nuova denominazione di “amministrazione giudiziaria”, all’art. 34 che, in buona sostanza, riproduce le precedenti disposizioni.

L’amministrazione giudiziaria costituisce un intervento su attività economiche, anche del tutto lecite e che non sono nella disponibilità nemmeno indiretta di soggetti pericolosi, ma che, tuttavia, siano comunque in grado di offrire ai medesimi soggetti un contributo agevolatore.

Articolata, dal punto di vista procedimentale, in due fasi (l’amministrazione giudiziaria vera e propria e l’eventuale, successiva confisca), la misura si connota per la funzione meramente cautelare e si radica sullo specifico presupposto del carattere ausiliario che una determinata attività economica presenta per la realizzazione degli interessi mafiosi.

L’amministrazione giudiziaria costituisce strumento di contrasto al fenomeno mafioso in quanto intesa a prosciugarne i canali di accumulazione economica grazie, da un lato, alla scissione del rapporto di stretta connessione che, ordinariamente, lega sequestro e confisca, che viene sostituito dalla correlazione tra la fase di amministrazione e la successiva confisca, e, dall’altro, interrompendo il collegamento tra il titolare dei beni ed il soggetto portatore di pericolosità sociale qualificata.

La fase di amministrazione sfocierà, d’altro canto, in confisca solo ove sia dimostrato che i beni de quibus siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego.

Ciò posto, l’articolato dell’art. 12 riprende[10] la proposta elaborata dalla Commissione ministeriale istituita con decreto ministeriale 10 giugno 2013 presso il Ministero della giustizia, presieduta dal prof. Giovanni Fiandaca, e propone innovazioni volte all’obiettivo di promuovere il recupero delle imprese infiltrate dalle organizzazioni criminali.

Il novellato articolo 34 rivede, in particolare, la regolamentazione normativa dell’amministrazione giudiziaria, introducendo una disciplina dettagliata delle prerogative gestionali.

La riscrittura del comma 1 mira, in specie, a risolvere taluni dubbi interpretativi che, stante la formulazione attuale, sono stati sollevati in relazione alla platea dei soggetti “agevolati” ed al presupposto negativo, che viene più chiaramente delineato, dell’insussistenza delle condizioni per applicare una delle misure di prevenzione patrimoniali previste dal Capo I del Titolo II, Libro I, del codice antimafia.

Nei commi successivi, le modalità operative dell’amministrazione giudiziaria vengono ridisegnate in sostanziale continuità con la disciplina in atto vigente ma con la tangibile aspirazione a rendere l’istituto più moderno e flessibile, dotandolo di più ampio respiro e coordinandolo con quello, di nuovo conio, del controllo giudiziario previsto dal successivo art. 34-bis., nel contesto, dunque, di una strategia complessivamente volta a contrastare le infiltrazioni mafiose nel mercato, senza ricorrere alle misure più invasive già consacrate dalla vigente disciplina.

A titolo esemplificativo della tipologia di intervento prefigurato, può segnalarsi la più dettagliata esposizione dei compiti dell’amministratore giudiziario[11] e delle formalità esecutive del provvedimento con cui è disposta l’amministrazione giudiziaria[12].

Ancora, va sottolineato come il disegno di legge n. 1687 opportunamente stabilisca che, qualora alla fase di amministrazione giudiziaria conseguano la revoca con controllo giudiziario o la confisca dei beni, si applicano, quanto alle impugnazioni, le disposizioni dell’art. 27 (norma che disciplina, in via generale, le impugnazioni contro i provvedimenti con  cui il tribunale definisce il primo grado di giudizio in materia di misure di prevenzione patrimoniale), così sostanzialmente ottemperando al dictum della Corte Costituzionale che, con sentenza n. 487/1995, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale delle previsione dell’art. 3-quinquies, comma 2 della l. 31-5-1965, n. 575 (norma che, si è detto, é stata trasfusa nell’art. 34 del codice antimafia che, però, nulla prevede in argomento), nella parte in cui non prevedeva che avverso il provvedimento di confisca possano proporsi le impugnazioni previste e con gli effetti indicati nell’art. 3-ter, secondo comma, della stessa legge per i provvedimenti di confisca adottati a norma del precedente art. 2-ter.

Un vero e proprio salto di qualità nel coacervo di azioni messe in campo allo scopo di promuovere il disinquinamento mafioso delle attività economiche, salvaguardando al contempo la continuità produttiva e gestionale delle imprese, si compie con l’introduzione del controllo giudiziario delle aziende, istituto che trova compiuta disciplina nell’art. 34-bis del codice antimafia[13].

Anche in questo caso, come in quello disciplinato dal precedente art. 34, si muove dalla sussistenza, in assenza delle condizioni per applicare altre misure di prevenzione patrimoniali, di indizi sufficienti a far ritenere “che il libero esercizio di determinate attività economiche, comprese quelle a carattere imprenditoriale, agevoli l’attività di persone nei confronti delle quali è stata proposta o applicata una delle misure di pre-venzione personale o patrimoniale previste dagli articoli 16 e 24, ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei delitti di cui all’articolo 4, comma 1, lettere a) e b)”.

Nell’ipotesi in esame, tuttavia, non avendo l’agevolazione carattere di stabilità, l’apprezzamento di circostanze di fatto che facciano desumere il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose idonee a condizionarne l’attività autorizza il tribunale a disporre, anche d’ufficio, il controllo per un periodo compreso tra uno e tre anni.

La misura ha un contenuto alquanto pregnante, in quanto comprende innanzitutto, a carico di chi abbia la proprietà, l’uso o l’amministrazione di attività economiche ed aziende, obblighi di tempestiva comunicazione nei confronti del questore e della polizia tributaria estesi ad una miriade di atti[14].

Il controllo viene esercitato attraverso l’opera di un commissario giudiziario, tenuto a riferire con cadenza almeno bimestrale al giudice delegato ed al pubblico ministero, ed onerato di compiti stabiliti dal tribunale e, in ipotesi, assai invasivi[15]. 

Funzionale alla verifica del corretto adempimento di tali obblighi è l’eventuale accesso, autorizzato dal tribunale, di ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria presso gli uffici dell’impresa, nonché presso uffici pubblici, studi professionali, società, banche ed intermediari mobiliari, al fine di acquisire informazioni e copia della documentazione ritenute utili.

Ove, poi, fosse accertata la violazione di una o più prescrizioni ovvero ricorressero i presupposti di cui al comma 1 dell’articolo 34, il tribunale potrebbe disporre l’amministrazione giudiziaria dell’impresa.

Al titolare dell’attività economica sottoposta al controllo giudiziario compete, invece, la proposizione di istanza di revoca, che viene discussa in camera di consiglio, con la partecipazione del giudice delegato, del pubblico ministero e, ove nominato, del commissario giudiziario.

Nitida appare la finalità dell’istituto[16], che non determina lo spossessamento della gestione dell’attività di impresa e dà luogo ad un intervento meno invasivo, di «vigilanza prescrittiva», imperniato sull’azione del commissario giudiziario nominato dal tribunale, tenuto a monitorare dall’interno dell’azienda l’adempimento di una serie di obblighi di compliance imposti dall’autorità giudiziaria; la traduzione in norma, quindi, di una migliore e più duttile articolazione dell’azione di contrasto al crimine organizzato, la cui reale efficacia dovrebbe, nondimeno, essere verificata alla luce dell’esperienza applicativa.

D) Profili ordina mentali, organizzativi e processuali delle misure di prevenzione.

L’articolo 13 del disegno di legge n. 1687, rubricato “Trattazione prioritaria ed esclusiva. Individuazione dei termini di deposito”, si occupa della materia ordinamentale e processuale.

Il comma 1 prevede l’inserimento nel codice antimafia del capo V-bis, denominato “Trattazione prioritaria del procedimento”, comprendente il solo art. 34-ter.

La norma, suddivisa in tre commi, è volta ad assicurare, in primo luogo, la priorità assoluta nella trattazione dei procedimenti di prevenzione patrimoniale, a tal fine onerandosi i dirigenti degli uffici giudiziari giudicanti e requirenti dell’adozione dei “provvedimenti organizzativi necessari per assicurare la trattazione e definizione prioritaria dei procedimenti di cui al comma 1 e il rispetto dei termini previsti”, da comunicarsi tempestivamente a Consiglio giudiziario e Consiglio superiore della magistratura, oltre che della trasmissione, con cadenza annuale, al Ministero della giustizia dei dati sulla durata dei relativi procedimenti.

A quest’ultimo proposito, spetterà al Consiglio superiore della magistratura valutare gli effetti dei provvedimenti adottati dai dirigenti degli uffici sulla trattazione prioritaria, sulla durata e sul rispetto dei termini dei procedimenti, mentre sarà il Ministro della Giustizia a riferire alle Camere in merito alla trattazione prioritaria in sede di comunicazioni sull’amministrazione della giustizia ai sensi dell’art. 86 ord. giud..

Il secondo comma dell’art. 13 incide, invece, sulla legge di ordinamento giudiziario (R.D. 30 gennaio 1941, n. 12) mediante l’inserimento, all’art. 7-bis, dedicato alle tabelle degli uffici giudicanti, del comma 2-sexies che prescrive, al fine di rendere effettiva la trattazione dei procedimenti di prevenzione patrimoniale, l’individuazione di collegi o sezioni adibiti in via esclusiva alla trattazione delle procedure previste dal codice antimafia, l’assegnazione a tali collegi o sezioni, nei limiti del possibile, di un ruolo ridotto di procedimenti ordinari e la copertura prioritaria delle vacanze di organico che si dovessero registrare nei medesimi collegi o sezioni.

Le disposizioni contenute nei primi due commi dell’art. 13 rispondono all’esigenza, largamente diffusa tra gli operatori del settore, di adeguare l’assetto ordinamentale e processuale alla mutata concezione dell’importanza delle procedure di prevenzione patrimoniali nel contesto della complessiva attività di contrasto al crimine organizzato, che non può prescindere da una continua ed efficace azione di aggressione ai patrimoni di matrice illecita, nella consapevolezza che la capacità degli organismi delinquenziali di esercitare il predominio sul territorio è direttamente proporzionale alla loro potenza finanziaria, al controllo di interi settori di attività imprenditoriali, alla possibilità di offrire, tanto più in ragione del negativo ciclo economico, appetibili alternative al circuito legale.

Acclarato, allora, che le chances di successo nella lotta alle mafie dipendono dalla sottrazione alle organizzazioni mafiose di patrimoni ed aziende, deve necessariamente riconoscersi carattere prioritario alla trattazione dei relativi procedimenti[17].

La previsione del primo comma dell’art. 13 merita, dunque, sicura apprezzamento perché indica con chiarezza che i procedimenti di prevenzione patrimoniale, cui in passato non è stata sempre riservata la giusta attenzione [18], costituiscono una ineludibile priorità e che soggetti ed istituzioni coinvolti (dirigenza giudiziaria, circuito dell’autogoverno, Ministero della giustizia) sono chiamati ad orientare l’esercizio delle rispettive competenze in vista del conseguimento dell’obiettivo indicato.

Trattasi, va detto, di affermazioni di principio che, in quanto ancorate ad un connotato – la priorità assoluta – che, al di là della terminologia utilizzata, deve essere giocoforza relativizzato in rapporto alla concorrente necessità di assicurare analoga priorità ad altre categorie di procedimenti, in primisa quelli nei quali gli imputati sono sottoposti a misura cautelare personale.

Nondimeno, la previsione del primo comma dell’art. 13 assume valenza tutt’altro che marginale anche perché corredata da meccanismi di verifica idonei a consentire alle istituzioni preposte (Consiglio superiore della magistratura, Parlamento) di accertare se ed in quale misura la priorità sia stata garantita.

In chiave propriamente ordinamentale, il comma 2 dell’art. 13 manifesta una franca e condivisibile preferenza per la specializzazione dei giudici chiamati ad occuparsi di misure di prevenzione stabilendo che i relativi procedimenti dovranno essere concentrati, come del resto già accade nella maggior parte degli uffici di primo e secondo grado, in collegi o sezioni preventivamente individuati all’atto della redazione delle tabelle.

Intese alla sollecita ed efficiente definizione delle medesime procedure sono, poi, le disposizioni concernenti la copertura prioritaria delle vacanze di organico ed alla opportunità di contenere, dal punto di vista quantitativo, il carico di procedimenti ordinari che ai collegi o le sezioni incaricate di trattare le procedure di prevenzione dovessero essere, eventualmente (nell’ipotesi, cioè, che il carico dell’ufficio non consente che un collegio o una sezione tratti esclusivamente procedure preventive), assegnati.

Nella medesima direzione si pone, ancora, la previsione del comma 3 dell’art. 13, che prescrive che il decreto con cui il tribunale definisce il procedimento sia depositato in cancelleria entro quindici giorni dalla conclusione dell’udienza, salva la fissazione di un termine più ampio, indicato in udienza, motivato dalla complessità della decisione e comunque non superiore a novanta giorni.

Al decreto con cui il tribunale definisce il procedimento vengono estese, infine, le norme relative alle modalità di redazione e sottoscrizione della sentenza (art. 546 c.p.p. e 154 disp. att. c.p.p.), fatta eccezione per l’indicazione dell’imputazione, che non è contemplata nelle procedure preventive.

In relazione alla materia ordinamentale, più radicali sono le modifiche previste nella proposta di legge n. 2737, che ha recepito, anche su questo aspetto, le conclusioni esposte nella relazione della Commissione parlamentare antimafia.

L’art. 2, comma 1, lett. c), di quell’articolato contempla, infatti, l’istituzione di sezioni specializzate in materia di misure di prevenzione personali e patrimoniali presso i tribunali dei capoluoghi di distretto e le corti di appello, composte da magistrati di specifica esperienza nella materia o comunque già assegnati a funzioni civili, fallimentari e societarie.

Dette sezioni acquisirebbero, giusta il disposto della lett. a) del comma 1, competenza in ordine a tutte le proposte: al sistema attuale, che distribuisce la competenza su base provinciale, se ne sostituirebbe altro, che la radica a livello distrettuale, con le sole eccezioni di Trapani e Santa Maria Capua Vetere, per le quali sarebbe mantenuto il regime previgente.

Una prospettiva, quella descritta nella proposta di legge n. 2737, più marcatamente ispirata ad esigenze di concentrazione e specializzazione, che vengono esaltate a scapito della prossimità territoriale e della contaminazione dei saperi.

La concreta efficacia della creazione di sezioni specializzate, in primo e secondo grado, a livello distrettuale dovrebbe, comunque, essere misurata alla luce della irregolare distribuzione, in termini quantitativi e qualitativi, delle procedure tra i tribunali e le corti di appello: a fronte, invero, di sezioni di notevoli dimensioni (quali, ad esempio, quelle dei più grandi tribunali, specie del meridione), ne sarebbero create altre con un flusso di affari modesto (si pensi alle piccole corti di appello), forse non sufficiente alla previsione di una sezione autonoma anziché di un mero collegio.

E) Disposizioni in materia di amministrazione dei beni confiscati e sequestrati. La selezione trasparente e la revoca degli amministratori giudiziari.  

L’articolo 14 del disegno di legge n. 1687 contiene, in un unico comma, suddiviso in tre lettere, disposizioni in materia di amministrazione dei beni sequestrati e confiscati.

Con la lettera a) si incide sull’art. 35 del codice antimafia, rubricato “nomina e revoca dell’amministratore giudiziario”, introducendo pregnanti limiti al cumulo di incarichi da parte di singoli professionisti.

In specie, per quanto concerne l’amministrazione di beni immobili, si prevede che la scelta dell’amministrazione sia guidata da criteri di trasparenza e di rotazione degli incarichi, nonché di corrispondenza tra i profili professionali ed i beni sequestrati, criteri da definirsi con decreto ministeriale, cui si demanda anche “l’individuazione degli incarichi per i quali la particolare complessità dell’amministrazione o l’eccezionalità del valore del patrimonio da amministrare determinano il divieto di cumulo”.

In relazione, poi, all’amministrazione di aziende, la scelta verrà effettuata tra gli iscritti nella sezione di esperti in gestione aziendale dell’Albo nazionale degli amministratori giudiziari (Albo che, si nota incidentalmente, non è ancora concretamente operativo a distanza di sei anni dalla sua introduzione con legge n. 94/2009), con il rigoroso divieto di cumulo di incarichi (prevedendosi, infatti che “Non possono essere nominate amministratori giudiziari di aziende sequestrate le persone che, al momento della nomina, risultino affidatarie di altro incarico, ancora in corso, di amministratore giudiziario di aziende sequestrate”).

Un’opzione, quella consacrata nelle norme testé richiamate, che, nel dichiarato intento di assicurare la massima trasparenza e di garantire accesso alle amministrazioni giudiziarie ad una ampia platea di professionisti di idonea qualificazione, rischia, tuttavia, di rivelarsi controproducente nell’ottica di una gestione efficiente e produttiva, avuto precipuo riguardo alla complessità delle attività connesse alla conduzione delle attività imprenditoriali (per le quali vige un inderogabile divieto di cumulo, che per i beni immobili è, invece, solo eventuale) ed agli investimenti richiesti, in chiave organizzativa, strumentale, logistica, di risorse umane, a chi intenda cimentarsi nell’amministrazione giudiziaria.

L’esasperata, ineludibile frammentazione degli incarichi di amministrazione potrebbe, sotto questo profilo, indurre i professionisti più capaci ed attrezzati a non impegnarsi in questo settore, con conseguente nocumento all’efficienza complessiva delle gestioni.

Pacifico che la trasparenza debba essere comunque garantita, anche attraverso la rotazione degli incarichi, un miglior punto di equilibrio tra le concorrenti esigenze che vengono in rilievo sembra essere individuato dalla più volte citata proposta di legge n. 2737, che, all’art. 23, suggerisce modifiche dell’art. 35 del codice antimafia che, oltre ad introdurre nuove ipotesi di incompatibilità all’assunzione dell’incarico di amministratore giudiziario, stabilisce che la scelta, da trasfondersi un decreto motivato, deve rispondere a “criteri di trasparenza che assicurano la rotazione degli incarichi” e che il prescelto, all’atto dell’accettazione della nomina, debba comunicare all’autorità giudiziaria se e quali incarichi egli abbia in corso: obbligo di motivazione e dichiarazione sugli incarichi in atto consentono, dunque, di coniugare la dovuta trasparenza con l’interesse a preporre alla gestione di beni immobili e, soprattutto, aziende, professionisti di sicura affidabilità ed in grado di condurre a termini compiti gravosi, delicati e, non di rado, forieri di pericoli anche sul piano personale.

Ulteriori innovazioni riguardano l’art. 37 del codice antimafia. L’intervento risponde, stavolta, all’esigenza di chiarire gli adempimenti che devono essere svolti nel momento in cui, per effetto del decreto di confisca di primo grado, si chiude la fase dell’amministrazione giudiziaria per passare alla gestione del bene da parte dell’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.

A seguito del citato decreto, l’amministratore giudiziario cessa dall’incarico, mentre spetta al tribunale provvedere agli adempimenti riguardanti le spese, i compensi e i rimborsi stabiliti dall’articolo 42 del codice e all’approvazione del rendiconto della gestione svolta dall’amministratore giudiziario. Viene disposta, in conseguenza degli interventi appena descritti, l’abrogazione dei commi 4 e 6 dell’art. 38 del codice antimafia.

Con una distinta modifica dell’art. 38 si prevede, ancora, che i coadiutori di cui può avvalersi l’Agenzia, per l’amministrazione dei beni dopo il decreto di confisca di primo grado, siano individuati secondo le modalità previste per l’amministratore giudiziario e, pertanto, scelti tra gli iscritti all’albo degli amministratori giudiziari. Compete, poi, all’Agenzia proporre al tribunale, nell’ambito della sua attività di ausilio durante la fase cautelare del sequestro, l’adozione delle misure per la migliore utilizzazione dei cespiti appresi, individuate attraverso i nuovi strumenti introdotti dal comma 2-bisall’articolo 110 del decreto legislativo n. 159 del 2011.

F) Destinazione e gestione dei beni confiscati

Gli articoli 15 e 16 del disegno di legge n. 1687 sono dedicati al tema, centrale nella materia dell’effettività delle misure patrimoniali di contrasto alla criminalità attraverso la sottrazione con sequestri e confische di prevenzione penale dei cespiti economici connessi all’attività delinquenziale, della destinazione e della gestione dei beni sequestrati e confiscati.

Costituisce acquisizione definitiva nel settore l’affermazione per cui, sotto il profilo generale, l’azione repressiva dello Stato nel settore patrimoniale è efficace nella misura in cui alla sottrazione dei beni alla loro origine criminale consegua una riconduzione degli stessi alla comunità, attraverso misure che ne consentano il riutilizzo nel circuito della legalità in funzione sociale, ovvero, soprattutto con riferimento alle realtà aziendali, anche economica o produttiva.

Ciò in primo luogo perché le utilità in questione costituiscono dei valori di obbiettivo rilievo economico la cui dispersione realizzerebbe un danno per la collettività sotto il profilo strettamente patrimoniale, a fronte dell’ingente investimento di risorse materiali posto in campo per recuperarle. E ciò tanto più quando la loro dissipazione comporti, come nel caso di aziende funzionanti, anche conseguenze obbiettive di deterioramento del tessuto economico e sociale, con la perdita di realtà produttive e quindi di avviamento e opportunità di sviluppo e di crescita economica, nonché di lavoro per coloro che vi siano impiegati.

Sotto il profilo simbolico, poi, con il riutilizzo dei beni confiscati si indeboliscono le organizzazioni criminali, si afferma in modo concreto e visibile il principio di legalità nei luoghi in cui le mafie sono presenti, si restituiscono alla collettività beni in grado di promuoverne l’arricchimento e la crescita.

In sostanza, l’utile ed efficiente gestione dei beni confiscati e sequestrati assume un ruolo strategico per realizzare il fine ultimo perseguito dalla normativa sulle misure patrimoniali antimafia, le quali – come è stato evidenziato ripetutamente dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità – mirano “a sottrarre definitivamente i beni di provenienza illecita al circuito economico di origine per inserirli in altro esente da condizionamenti criminali”[19].

Sensibile a tale considerazioni, il legislatore, su sollecitazione del dibattito dottrinale e giurisprudenziale, ha quindi già da tempo perseguito il passaggio da un modello di amministrazione statica (finalizzata essenzialmente alla conservazione dei beni) ad uno di amministrazione dinamica, che miri a preservare il valore economico e sociale di utilizzo dei beni, ed il mantenimento sul mercato le aziende sequestrate.

Nel campo della destinazione dei beni confiscati, quindi, con la l. 7 marzo 1996, n. 109 è stata introdotta una normativa finalizzata alla restituzione alla collettività dei patrimoni delle organizzazioni criminali attraverso il loro riutilizzo sociale, produttivo e pubblico.

Si è trattato di una scelta di fondamentale importanza non solo sul piano dell’azione di contrasto nei confronti del sistema di potere e degli strumenti di condizionamento propri delle organizzazioni criminali, ma anche su quelli dello sviluppo dell’economia di vaste zone del territorio nazionale (con la eliminazione di pesanti fattori inquinanti), e del rafforzamento del consenso dei cittadini alla legalità.

D’altra parte l’impegno in tal senso profuso dal legislatore e dagli operatori si è scontrato con obbiettive, rilevantissime difficoltà pratiche e materiali.

La gestione dei beni immobili è storicamente ostacolata dalla presenza di gravami ipotecari, procedure giudiziarie in corso, confische pro quota, occupazionesine titulo, inagibilità dei beni.

Ancora più serie le difficoltà per il mantenimento in funzione delle aziende produttive, che hanno condotto l’assoluta maggioranza dei sequestri e delle confische pronunciate concludersi con il dissesto e la dissoluzione dell’attività economica.

Ciò perché lo spossessamento dei cespiti, realizza una inevitabile forzosa soluzione di continuità della gestione.

L’amministrazione dell’azienda richiede competenze specifiche di carattere imprenditoriale.

Alle ordinarie difficoltà di un’attività aziendale si aggiungono quelle derivanti da un provvedimento autoritario che comporta indubbi riflessi nella gestione e nei rapporti con gli istituti di credito, i fornitori, i clienti, i dipendenti e tutti coloro che intrattenevano rapporti di varia natura con l’azienda che devono relazionarsi con un soggetto nuovo organo dello Stato, inevitabilmente astretto da vincoli sostanziali, formali e burocratici.

Notevoli problematiche derivano dalla necessaria legalizzazione dell’azienda sotto il profilo contabile , tributario, previdenziale e dei rapporti di lavoro – spesso irregolari nella forma o nella sostanza – o della conformità alla normativa antinfortunistica e di altra natura.

Le difficoltà diventano ancora più rilevanti in presenza di imprese tipicamente mafiose, che vivono e si alimentano nell’illegalità. Il venir meno del volano “criminale” dell’attività – in termini sia di risorse che di “pratica” gestione dei rapporti con clienti, fornitori soggetti concorrenti – in fatto, purtroppo, realizza un oggettivo indebolimento della capacità dell’impresa di attrarre il mercato.

Il mantenimento in attività di aziende espropriate, quindi richiede un rilevante investimento, come più avanti si dirà, in termini di risorse materiali ed umane.

Per questo il Codice antimafia di cui al decreto legislativo n. 159 del2011 hastabilito la necessaria verifica preliminare, nel caso di specie, da compiersi attraverso amministratore giudiziario professionalmente qualificato, dello “stato dell’attivita’ aziendale e sulle sue prospettive di prosecuzione” (art. 41 comma 1). Solo in caso di esito positivo di tale verifica il tribunale approva il programma con decreto motivato e impartisce le direttive per la gestione dell’impresa.

Una volta che il programma sia avviato, è comunemente sentita l’esigenza che lo sforzo sia il più possibile condiviso e partecipato da tutti i soggetti coinvolti ed i presidi centrali e territoriali rilevanti. Su questo piano la pratica ha fatto emergere la necessità di un sempre maggiore sforzo collettivo delle istituzioni interessate  attraverso schemi di intervento efficaci, tempestivi ed effettivi.  L’art. 15 del disegno di legge in commento, introducendo il nuovo art. 41 bis del d.lgs 159/2011, ribadisce e dettaglia la necessità di tale coordinamento operativo, stabilendo la formazione di tavoli permanenti sulle aziende sequestrate e confiscate presso le prefetture – uffici territoriali del governo -, che coinvolgano non solo le istituzioni di governo centrale e territoriale, ma anche rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro, nonché soggetti della società civile portatori di interressi nell’ambito della gestione di attività produttive e del contrasto alla criminalità organizzata, allo scopo di elaborare e realizzare i programmi e le misure necessarie per favorire la continuazione dell’attività produttiva, fornire ausilio e consulenza all’amministratore giudiziario ed all’Agenzia, nello sforzo comune di realizzare il percorso di riconduzione alla legalità.

Nella materia delle misure predisposte per perseguire l’obbiettivo condiviso – di fondamentale rilevanza pratica e simbolica – del mantenimento in attività secondo schemi di legalità di attività produttive di origine criminale, deve essere menzionato il diverso disegno di legge delega , attualmente pendente pressola Camera dei Deputati con il numero 2786, che reca “misure di sostegno in favore delle imprese sequestrate e confiscate sottoposte ad amministrazione giudiziaria e dei lavoratori da esse dipendenti, nonchè di organizzazione dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”.La proposta si compone di un unico articolo che contempla una serie di interventi eccezionali in deroga alla normativa ordinaria, che hanno per presupposto la presa d’atto della difficoltà obbiettiva operativa in cui si trova l’attività improvvisamente sottratta alla criminalità organizzata e quindi privata del “volano” economico e commerciali ad essa connesso. Si propongono misure pratiche di estrema effettività e concretezza, quali la possibilità di accesso alla cassa integrazione guadagni o altri ammortizzatori sociali, sgravi contributivi sui rapporti di lavoro, riduzione dell’aliquota iva per gli acquisti e le vendite, priorità nella concessione di appalti . E’ prevista inoltre la costituzione di un fondo di garanzia strutturato finalizzato a garantire la liquidità necessaria, a tassi agevolati, non sempre resa disponibile dal settore bancario, necessaria a realizzare gli interventi di ristrutturazione ed adeguamento a legge della strutture aziendali. 

Il legislatore si è posto ragionevolmente il problema di evitare che la attuazione delle misure descritte per la loro concretezza, effettività ed efficacia, introduca il rischio di significativa alterazione della condizioni materiali di concorrenza in danno degli ulteriori operatori del medesimo mercato che, esenti da problematiche criminali,  non possono beneficiare di analoghi vantaggi e, in tempi di crisi economica, vedono obbiettivamente messa in discussione la loro appetibilità commerciale perché costretti a farsi carico di costi maggiori che inevitabilmente non possono non riflettersi sulle condizioni economiche dell’offerta proposta ai consumatori. Senza dire della normativa nazionale e comunitaria di tutela della concorrenza volta a scoraggiare ogni interferenza pubblica sul mercato a beneficio di singoli operatori. Questo è il motivo per cui il disegno di legge delega in commento, in conformità alle prescrizioni sopranazionale, prevede comunque che gli aiuti in questione siano erogati solo in presenza di una preliminare e seria valutazione – operata dall’autorità giudiziaria – in ordine alla effettività e concretezza delle previsione di ripresa, e possono essere riconosciuti solo per periodi di tempo limitati, la cui determinazione è affidata al legislatore delegato.

Sempre sul regime dell’amministrazione e destinazione dei beni sequestrati o confiscati opera l’art. 16 del disegno di legge n. 1687, che modifica l’art. 48 del decreto legislativo n. 159 del 2011, con la finalità di promuovere il reimpiego utile dei beni, aumentando il novero dei possibili utilizzi, mantenendoli comunque ancorati  alla prioritaria finalità di beneficio sociale . Si stabilisce in tal senso che gli immobili frutto di espropriazione possano essere utilizzati anche per attività di natura economica, purchè i proventi siano destinati ad attività sociali.

Allo stesso modo la norma amplia il numero di soggetti cooperativi cui possono essere assegnati i beni confiscati, con la prescrizione che si tratti, in ogni caso, di enti a mutualità prevalente e senza scopo di lucro.

Infine l’art. 16 impone che le destinazioni dei beni siano rese pubbliche in ossequio alla legislazione sulla trasparenza amministrativa.

Capo IV.

L’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati.

Il Capo IV del disegno di legge reca Disposizioni in materia di assetto dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, compendiate negli articoli 17 e 18, specificamente dedicati alla disciplina ed alle funzioni della medesima Agenzia.

Come è noto, il d.l. n. 4/10, conv. dalla l. n. 50/10, per rispondere alle esigenze di specializzazione, efficienza operativa, direzione unitaria, omogeneità strategica e coordinamento della gestione delle utilità sottratte alla criminalità organizzata su tutto il territorio nazionale, ha istituito l’Agenzia nazionale. Si tratta di ente dotato di personalità di diritto pubblico, di autonomia organizzativa e contabile, posto sotto la vigilanza del Ministro dell’Interno, con sede principale a Reggio Calabria e sedi secondarie nelle regioni interessate da un numero significativo di beni sequestrati e confiscati[20].

Il disegno di legge 1687 propone alcune modifiche dalla vigente organizzazione allo scopo di rendere più efficaci e flessibili i moduli operativi, attraverso una struttura meno burocratica e costosa, ma assistita da una più efficace sinergia con presidi istituzionali o enti esponenziali della società civile competenti nella materia[21].

  Per quanto riguarda i tempi dell’intervento dell’Agenzia in ogni singola procedura l’attuale disciplina prevede, per rendere più agevole l’amministrazione dei beni, una tendenziale continuità degli organi che vi partecipano per l’intera durata del procedimento, dal sequestro alla sua revoca o alla confisca definitiva. Per questo è stabilito che l’Agenzia intervenga, pur rimanendo la procedura affidata al Tribunale ed al giudice delegato (ovvero del giudice penale che ha disposto il sequestro) fino alla sua definizione, già dopo la confisca di primo grado, quando subentra nella gestione l’amministratore giudiziario che può nominare come suo coadiutore.

Fino alla pronuncia di primo grado all’Agenzia sono assegnati compiti di mero ausilio (artt. 38 e 110 comma 2 D.Lgs. n. 159/2011).  L’art. 17 del D.L. 1687 propone un ulteriore rafforzamento di tale contributo di ausilio e supporto prevedendo che già nella prima fase l’Agenzia definisca interventi di salvaguardia del valore patrimoniale dei beni, anche avvalendosi di società a partecipazione pubblica specializzate nel sostegno all’industria.

L’art. 18 è dedicato al consolidamento e rafforzamento della dotazione organica dell’Agenzia, aumentata da trenta a sessanta unità, ammettendone il reclutamento, sempre tra oggetti dotati di competenza specifiche nei settori di intervento dell’ente, attraverso il meccanismo concorsuale, ovvero con gli strumenti della mobilità tra amministrazioni dello Stato. E’ inoltre consentito l’utilizzo di contratti  a tempo determinato per il conferimento di incarichi di particolare specializzazione in materia di gestione patrimoniale o aziendale.

E’ consentito inoltre all’Agenzia l’utilizzo dei moduli amministrativi del comando, del distacco o del collocamento fuori ruolo di  personale di altre amministrazioni pubbliche.

La struttura e le funzioni dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata è, inoltre, oggetto di considerazione in ulteriori due iniziative legislative di origine parlamentare attualmente pendenti avanti alla Camera dei Deputati. Una di esse, la proposta di legge delega n. 2786 già citato sopra, si limita a prevedere la delega al governo per l’adozione di disposizioni sull’organizzazione ed il funzionamento dell’ente. I criteri direttivi di delega, definiti in termini generici, appaiono pienamente corrispondenti a quelli che hanno guidato il legislatore del D.D.L. 1687, evidenziandosi in essi la necessità di rivedere la dotazione organica, in proporzione al numero di beni ed aziende in sequestro, di definire le mansioni e le competenze del personale ed i criteri di selezione secondo principi di specializzazione e competenza, con particolare attenzione alla materia della gestione amministrativa ed aziendale, di prevedere la possibilità che l’Agenzia si avvalga di personale proveniente da altre amministrazioni dello Stato.

Molto più ampio e radicale l’intervento di modifica legislativa che si propone con la proposta di legge n. 2737, sopra già menzionata, che si è detto trarre origine dalle riflessioni della Commissione parlamentare antimafia operate a seguito di un articolato percorso istruttorio di audizioni, accertamenti e confronto, e che prefigura una complessiva e generale rivisitazione di alcuni dei presupposti, del procedimento, dei tempi, delle competenza, delle ipotesi e degli effetti delle procedure di sequestro o confisca di beni alla criminalità organizzata.

Con riferimento alla Agenzia nazionale, detto progetto contiene interventi di modifica fortemente innovativi.

In primo luogo, a modifica dell’attuale assetto – in questo confermato dal Disegno di legge 1687 – la proposta n. 2737 prefigura la collocazione dell’Agenzia sotto la vigilanza della Presidenza del Consiglio, sottraendola al Ministero dell’Interno nell’ambito delle cui competenze oggi opera.

La modifica, che fa seguito ad un indirizzo di opinione diffuso nel dibattito pubblico, ha lo scopo di garantire alla struttura una maggiore ampiezza e flessibilità di competenze e collaborazioni, istituzionali e sociali, in sintonia con un più ricco ventaglio di compiti di programmazione, elaborazione, indirizzo ed attuazione che le sono attribuiti e che richiedono una trasversalità e ricchezza delle possibili sinergie più facilmente perseguibili in una amministrazione non settoriale qualela Presidenzadel Consiglio.

La sede principale è indicata, di conseguenza, in Roma, mantenendosi la sede secondaria operativa in Reggio Calabria.

Nella stessa ottica di ampliamento del ruolo promozionale e delle competenze specialistiche sono riviste la struttura e la composizione degli organi interni nel senso di garantire una partecipazione composita e versatile, aperta alle istanze degli operatori sociali, ma di marcato profilo specialistico.

In tal senso deve essere letta anche l’ulteriore innovazione relativa all’individuazione del Direttore dell’Agenzia, il cui profilo non deve più essere scelto necessariamente tra gli appartenenti alla carriera prefettizia, ma può avere estrazione professionale diversa  – funzionari pubblici, amministratori di società pubbliche o private, magistrati con un certa anzianità – purché garantisca, in ogni caso, una rilevante e comprovata esperienza e competenza nel settore specifico.

Rimane la stretta collaborazione con le istanze territoriali che continuano a trovare espressione in organi di consulenza collocati presso le Prefetture, quali uffici territoriali del Governo.

Una ulteriore importante innovazione contenente nella proposta n. 2737 è quella relativa all’art. 38 del D.Lgs. n.159/2011 che verrebbe modificato eliminando l’automatico trasferimento all’Agenzia dell’amministrazione dei beni sequestrati o confiscati all’emissione del provvedimento di primo grado, prevedendo al contrario che tale passaggio avvenga soltanto quando l’espropriazione sia definitiva. Fino a quel momento all’Agenzia sarebbe affidata la sola attività di supporto ed ausilio alla autorità giudiziaria.

Tornando al Disegno di legge n. 1687, sempre in relazione all’attività dell’Agenzia nazionale deve essere segnalata la norma dell’articolo 32, che compone il Capo IX, relativo alle disposizioni finali, contenente la disciplina transitoria dell’applicazione delle novità proposte. In essa si stabilisce che per il periodo di diciotto mesi successivi all’entrata in vigore del nuovo articolato la competenza dell’Agenzia è esercitata solo in relazione ai beni confiscati in via definitiva, mentre la competenza in merito all’amministrazione dei beni fino al decreto di confisca definitiva,è attribuita all’autorità giudiziaria.

Nella fase precedente la competenza di gestione rimane integralmente affidata alla autorità giudiziaria. Sono esclusi da tale nuova disposizione i provvedimenti ablativi adottati in via non definitiva prima dell’entrata in vigore della legge.

Il Capo V.

1. Le novità dell’articolo19 intema di confisca allargata di cui all’art.12 sexies.

1.1. Premessa.

Accanto alle originarie fattispecie codicistiche di confisca, il legislatore ha nel tempo inserito, tra gli strumenti di contrasto alle illecite accumulazioni delle organizzazioni criminali, alcune nuove ipotesi di ablazione patrimoniale: dalla confisca per equivalente (avente ad oggetto beni di cui il condannato ha la disponibilità diretta o indiretta, per un valore corrispondente a quello del profitto derivante dal reato), alla confisca ai danni dell’Ente di cui agli artt. 9, comma 1, lett. c) e 19 del d.lgs. n. 231/01, fino alla cd. confisca allargata.

Con l’art. 12-sexies  (“Ipotesi particolari di confisca”) del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, introdotto dal decreto legge 20 giugno 1994 n. 399, convertito nella legge 8 agosto 1994 n. 501, è stata infatti prevista la cd. confisca allargata (o per sproporzione), che originariamente poteva essere disposta nei casi di condanna o di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., per il delitto previsto dall’articolo 416-bis e per altri gravi reati, in relazione al denaro, ai beni o alle altre utilità di cui il condannato non potesse giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risultasse essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica.

L’istituto in esame, dunque, presenta, fin dall’origine, caratteri marcatamente ibridi: è misura di sicurezza, disposta all’esito di una sentenza di condanna, ma al tempo stesso viene agganciata solo parzialmente al reato, che in ragione della sua tendenziale riconducibilità a fenomeni di criminalità organizzata funge da elemento presuntivo di illecita accumulazione patrimoniale[22], asseverato, secondo una logica assimilabile alla cd. confisca di prevenzione (dalla quale si distingue per il fatto che la misura segue una condanna e non richiede pertanto una mera sufficienza indiziaria, oltre che per il fatto che solo la confisca allargata presuppone la commissione di specifici reati), dal dato della sproporzione tra valore economico dei beni di cui il condannato ha la disponibilità e il reddito da lui dichiarato o i proventi della sua attività economica, ove egli non sia riuscito a fornire una credibile giustificazione in ordine alla legittima provenienza dei beni stessi ed alla effettiva loro appartenenza al condannato.

Col tempo, peraltro, l’originario assetto dell’art. 12-sexies è stato modificato, sia attraverso il progressivo inserimento di sempre nuove fattispecie di reato, sia attraverso la estensione alla confisca allargata delle disposizioni in materia di amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati previste in materia di confisca di prevenzione nonché la destinazione di una quota dei beni confiscati per l’attuazione delle speciali misure di protezione per i testimoni ed i collaboratori di giustizia. Inoltre, con l’introduzione del comma 2-ter ad opera dell’art. 10-bis, comma 1 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modificazioni dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, è stata prevista anche la possibilità di procedere, sussistendo gli stessi presupposti già ricordati per la confisca allargata, anche alla confisca per equivalente “quando non è possibile procedere alla confisca del denaro, dei beni e delle altre utilità”.

1.2. Le novità del disegno di legge.

L’articolo 19, rubricato “Ipotesi particolari di confisca: ambito applicativo ed estensione della disciplina del Codice antimafia”, modifica, in una serie di passaggi qualificanti, la confisca allargata prevista dall’articolo 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992.

In primo luogo il comma 1 procede ad una riformulazione delle ipotesi di reato la cui condanna dà luogo all’applicazione della misura. In particolare, viene inserito il riferimento, tra le fattispecie presupposte, ai reati contemplati dall’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale.

Per effetto della modifica in esame, la confisca allargata diviene applicabile anche in caso di condanna per i reati di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (articolo 291-quater del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43) e di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (articolo 260 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152); reati in relazione ai quali in precedenza la confisca in esame non era invece consentita, probabilmente per un mero difetto di coordinamento legislativo. Sotto questo profilo, dunque, si è in presenza di una innovazione che rende più efficace l’azione di contrasto ai fenomeni di accumulazione patrimoniale di origine illecita. Alle predette modifiche seguono poi alcuni interventi normativi di adeguamento, essendo divenute superflue alcune disposizioni che, in un processo di progressiva stratificazione normativa, erano state aggiunte per inserire nuove fattispecie cui la confisca allargata potesse essere applicata: è il caso, in particolare, dei commi 2-quater, 3 e 4, che vengono conseguentemente abrogati.

E’ stata, invece, mantenuta la previsione di cui al comma 2-ter, relativa – come detto – alla possibilità per il giudice di disporre la confisca per equivalente in presenza degli altri presupposti che consentono l’applicazione della confisca allargata.

Altro passaggio significativo concerne l’introduzione di una disposizione espressa che preclude la possibilità che il condannato possa giustificare la provenienza dei beni con la disponibilità di denaro che costituisca provento o comunque reimpiego di attività di evasione fiscale. La norma in questione si è resa necessaria, nella prospettiva riformatrice, in ragione dell’esistenza di un orientamento giurisprudenziale, col tempo divenuto prevalente, per cui l’indagato/imputato avrebbe potuto allegare, a giustificazione della provenienza dei beni confiscandi, la circostanza che il loro acquisto fosse avvenuto con redditi da evasione fiscale.

L’art. 19 interviene, ancora, sulle “disposizioni in materia di amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati”, prevedendo, attraverso la modifica del comma 4-bis, la piena applicabilità alla confisca allargata della disciplina dettata dal d.lgs. n. 159/11 in materia di tutela dei terzi e di esecuzione del sequestro: ciò che in precedenza la Suprema Corteaveva escluso[23]. Per questo motivo, infatti, nella rubrica dell’art. 19 si fa riferimento alla estensione della disciplina del Codice antimafia.

Sempre al comma 4-bis, il d.d.l. intende rimediare ad una incongruenza nella normativa processuale, che fino ad oggi individuava nell’udienza preliminare il momento fino al quale l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata  doveva coadiuvare il giudice nell’amministrazione e nella custodia dei beni sequestrati e successivamente al quale essa amministrava i beni stessi. Tale disciplina, infatti, era ovviamente inapplicabile ai casi in cui il procedimento non contemplasse l’udienza preliminare, per essere lo stesso “a citazione diretta” (come nel caso della ricettazione) o per essere essa mancante a causa della instaurazione del giudizio immediato o della definizione del procedimento con sentenza di applicazione della pena pronunciata durante le indagini preliminari. Anche queste ipotesi vengono oggi contemplate dalla norma, come emendata dalla disposizione in esame (art. 19, comma 1, lett. e), n. 4).

Viene, infine, introdotto il comma 4-quinquies, con il quale si prevede che i terzi, titolari di diritti reali o personali di godimento sui beni sequestrati, di cui l’imputato risulti avere la disponibilità a qualsiasi titolo, debbano essere citati nel processo di cognizione al fine di garantire piena tutela ai loro diritti difensivi. Anche in questo caso l’intervento normativo si giustifica in ragione di prassi applicative di segno non univoco, che comunque ammettevano quantomeno la facoltà dei terzi di intervenire nel processo (sia in sede di udienza preliminare che di dibattimento), pur se negavano la sussistenza di qualunque profilo di nullità in caso di omessa citazione degli stessi[24].

2. Le novità contenute nell’art. 20. La confisca allargata in alcuni casi di estinzione del reato dopo la sentenza di condanna in uno dei gradi del giudizio.

L’articolo 20 del d.d.l. introduce nell’articolo 12-sexies due ulteriori commi, il 4-sexies e il 4-septies, relativi all’applicabilità della confisca allargata nel caso in cui, successivamente alla pronuncia di sentenza di condanna in uno dei gradi di giudizio, il reato si estingua, rispettivamente, per prescrizione o amnistia ovvero per morte del condannato.

La prima norma prevede l’applicabilità della confisca allargata (ma non di quella per equivalente excomma 2-ter) dopo una sentenza di proscioglimento per prescrizione o amnistia intervenuta in appello o nel giudizio di Cassazione a seguito di una pronuncia di condanna in uno dei gradi di giudizio.

Il successivo comma 4-septies stabilisce che, in caso di morte del soggetto nei cui confronti sia stata disposta la confisca con sentenza di condanna passata in giudicato, il procedimento di esecuzione inizi o prosegua nei confronti degli eredi e degli aventi causa del de cuius.

Con queste disposizioni il legislatore intende intervenire in un ambito segnato da un marcato travaglio giurisprudenziale, che ha interessato anche la Corte EDU[25], nel cui contesto si è giunti ad affermare l’illegittimità della definitiva ablazione dei beni, disposta nell’ambito di un meccanismo di natura sanzionatoria, nei casi in cui non si sia pervenuti all’accertamento della responsabilità per il reato contestato.

2.1. Il comma 4-sexies.

Nella prassi giurisprudenziale, infatti, la questione della possibilità di disporre la confisca in esame in caso di prescrizione aveva fatto registrare, fin qui, due opposti indirizzi applicativi.

Una prima opinione, sicuramente prevalente, riteneva che non potesse procedersi a confisca in quanto il tenore letterale dell’art. 12-sexiespostula una sentenza di condanna o di “patteggiamento”e non il mero proscioglimento per estinzione del reato; ed inoltre perché la misura ablativa è prevista non in ragione dell’intrinseca illiceità delle stesse, bensì in forza del loro peculiare collegamento con il reato, il cui positivo accertamento è necessario presupposto.

Alla tesi prevalente si opponeva un indirizzo minoritario, secondo il quale anche quando dovesse pronunciare la estinzione del reato, il giudice avrebbe dovuto esercitare comunque i suoi poteri di accertamento sul fatto-reato al fine di disporre la confisca obbligatoria; con ciò realizzandosi una sostanziale assimilazione della funzione repressiva della confisca ex art. 12-sexies rispetto a quella di prevenzione, con la finalità “di evitare il proliferare di ricchezze di provenienza non giustificata, immessa nel circuito di realtà economiche a forte influenza criminale”[26].

Con la nuova norma si stabilisce l’applicabilità della confisca allargata (ma non anche della confisca per equivalente di cui al comma 2-ter) anche in caso di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione (o per amnistia) da parte del giudice di appello o di legittimità, ma solo a condizione che nei confronti dell’imputato vi sia stato, in uno dei precedenti gradi di giudizio, un accertamento (incidentale) della responsabilità penale, con la pronunzia di una sentenza di condanna.

La soluzione offerta, dunque, sposa l’indirizzo sin qui minoritario in giurisprudenza, con il chiaro intento di rafforzare le possibilità applicative della misura in questione.

2.2. Il comma 4-septies.

La giurisprudenza distingue il caso di estinzione del reato per morte dell’indagato o dell’imputato da quello della estinzione della pena per morte del condannato.

Con riferimento al primo caso la giurisprudenza è univocamente contraria all’applicabilità della confisca ex art. 12-sexies. Secondo le Sezioni Unite (v. sentenza n. 5 del 25 marzo 1993, Carica ed altri, Rv. 193120), la confisca può essere ordinata “solo quando alla stregua di tali disposizioni la sua applicazione non presupponga la condanna e possa aver luogo anche in seguito al proscioglimento”. E dal momento che la confiscaexart. 12-sexies presuppone una pronuncia di condanna o di applicazione pena per determinati titoli di reato, divenuta irrevocabile, ecco che nei casi di proscioglimento per morte dell’imputato la misura in questione non può essere applicata.

Peraltro la Cortecostituzionale, interpellata dal giudice di legittimità in materia di confisca urbanistica[27], ha affermato che la citata decisione Varvara c. Italia (con la qualela Corte Edu aveva condannato il nostro paese per violazione dell’art. 7 della Convenzione e dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale) deve essere armonizzata con i principi costituzionali di sussidiarietà in materia penale e discrezionalità legislativa nella politica sanzionatoria, essendo il giudice comune obbligato ad adottare una lettura della normativa interna conforme alla Costituzione, atteso il “predominio assiologico di questa sulla CEDU”. Pertanto, il concetto di “condanna”, assunto dalla citata decisione della Corte EDU quale presupposto necessario all’applicazione della confisca, dovrebbe essere declinato in senso sostanziale, sicché potrebbe ritenersi sufficiente, ai suddetti fini, un semplice accertamento incidentale della responsabilità del soggetto. Una pronuncia, quella in esame, che pare dunque fornire un solido sostegno a soluzioni legislative innovative, che il d.d.l. in commento non ha però prospettato.

Infatti, il comma 4-septies, intervenendo con riferimento al solo caso in cui la confisca fosse già stata disposta con sentenza di condanna passata in giudicato (ipotesi in relazione alla quale il combinato disposto degli artt. 210 e 236 c.p. ne consente l’applicazione anche con riferimento alla speciale confisca di cui all’art. 12-sexies) stabilisce che il relativo procedimento inizi o prosegua, con le forme proprie del procedimento di esecuzione di cui all’articolo 666 del codice di procedura penale, “nei confronti degli eredi o comunque degli aventi causa”[ 28]. Una soluzione condivisibile, atteso che gli eredi di una persona condannata con sentenza irrevocabile non rientrano nella categoria dei “terzi estranei” di cui all’art. 240 cod. pen. e considerato che gli effetti della sentenza di condanna definitiva che vengono a cessare dopo la morte del condannato sono solo quelli di natura personale e non quelli di natura reale.

Anche in questo caso, peraltro, l’intervento normativo intende “correggere” un orientamento giurisprudenziale ritenuto disfunzionale rispetto ad un rafforzamento degli strumenti di contrasto dei fenomeni di accumulazione patrimoniale di origine illecita.

Il Capo II. Disposizioni relative alla partecipazione a distanza del detenuto ai procedimenti di esecuzione o al dibattimento

L’articolo 6 del DDL modifica l’articolo 666 c.p.p., prevedendo una diversa disciplina della partecipazione dell’interessato al procedimento di esecuzione.

In particolare, mediante l’introduzione del comma 4-bis al medesimo articolo, si adegua la disciplina alla modifica apportata all’articolo 146-bis disp. att. c.p.p. in tema di partecipazione a distanza.

Per effetto della novella, nel procedimento di esecuzione, l’interessato, se ne fa richiesta, è sentito personalmente ovvero, nei casi previsti dall’articolo 146-bisdelle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del presente codice (cioè qualora sussistano gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico o qualora il procedimento sia di particolare complessità e la partecipazione a distanza risulti necessaria ad evitare ritardi nel suo svolgimento ovvero quando si procede nei confronti di detenuto al quale sono state applicate le misure di cui all’articolo 41-bis, comma 2, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni) con le modalità ivi previste: collegamento audiovisivo tra l’aula di udienza e luogo della custodia, con modalità tali da assicurare la contestuale, effettiva e reciproca visibilità delle persone presenti in entrambi i luoghi e la possibilità di udire quanto vi viene detto, con possibilità per il difensore o un suo sostituto di essere presente nel luogo dove si trova l’interessato, nonché di consultarsi riservatamente con l’assistito, per mezzo di strumenti tecnici idonei, ove il difensore o il suo sostituto sia presenti nell’aula di udienza.

Con l’introduzione del comma 4-ter, inoltre, si generalizza l’istituto della partecipazione a distanza a tutti i casi in cui l’interessato sia detenuto o internato in luogo posto fuori dalla circoscrizione del giudice. In tali ipotesi, per effetto della prevista estensione dell’istituto, la possibilità che il detenuto o l’internato venga sentito prima del giorno dell’udienza dal magistrato di sorveglianza del luogo è ora subordinata all’indisponibilità di mezzi tecnici idonei a consentire la  partecipazione a distanza, salva la possibilità per il giudice, come previsto dal nuovo comma 4-quater, di disporre la traduzione dell’interessato ove ne ritenga comunque necessaria la presenza.

La novella, nel suo complesso, può essere accolta con favore, in quanto mira a realizzare un giusto contemperamento tra le esigenze di sicurezza e le esigenze di difensive.

L’articolo 7 del disegno di legge modifica il comma 1 dell’articolo 146-bisdisp. att. c.p.p..

Esso è finalizzato ad evitare che per un detenuto la partecipazione dibattimentale mediante video conferenza possa essere attivata esclusivamente nell’ipotesi in cui si proceda per i delitti indicati negli articoli 51, comma 3-bis, e 407, comma 2, lettera a), numero 4), c.p.p.

Per effetto della modifica, quindi, il giudice, potrà ora disporre l’attivazione della videoconferenza per un detenuto ristretto per taluno dei delitti indicati, anche nel caso in cui si proceda per fatti diversi. Ciò a condizione che ricorrano le specifiche esigenze indicate dalle lettere a) e b) ovvero che sussistano gravi ragioni di ordine pubblico e di sicurezza, anche penitenziaria  ovvero cheil dibattimento sia di particolare complessità e la partecipazione a distanza risulti necessaria ad evitare ritardi nel suo svolgimento.

Al pari delle modifiche introdotte dall’art. art. 6, anche la novella in esame può essere positivamente apprezzata nell’ottica del miglior contemperamento delle esigenze di sicurezza, di effettività del diritto di difesa e di ragionevole durata del processo.

Ed invero, pur al cospetto del comprensibile interesse dell’imputato ad essere fisicamente presente nel luogo ove si svolge il processo a suo carico, l’ausilio dei più moderni presidi tecnologici gli garantisce la possibilità di seguire in maniera adeguata, consapevole e piena le attività di udienza e di mantenere un proficuo e continuo contatto con i difensori, sì da escludere che la partecipazione mediante collegamento a distanza provochi significativo pregiudizio alle sue prerogative.

Per contro, tangibili sono i vantaggi che derivano dall’assenza del detenuto in udienza in chiave sia di più spedita conduzione del processo che di contenimento delle incombenze gravanti sulla polizia penitenziaria, quotidianamente impegnata, in un contesto notoriamente connotato dalla limitatezza delle risorse, in delicate e faticose attività di traduzione.

Del resto,la Cortecostituzionale da tempo ormai ha chiarito che la partecipazione a distanza, se attuata con accorgimenti idonei a rendere effettiva la partecipazione dell’imputato, è pienamente compatibile con il “diritto di difesa” come garantito dall’articolo 24 della Costituzione, non potendosi accettare l’idea secondo la quale soltanto la presenza fisica dell’accusato nella sala d’udienza assicura l’effettività di questo diritto, limitandosila Costituzionea richiedere la partecipazione personale e consapevole dell’imputato al dibattimento (sentenza n. 342 del 22 luglio 1999).»

Il presente parere viene trasmesso al Ministro della Giustizia.

[1] Il riferimento attiene, rispettivamente, alla proposta di legge n. 2737, presentata alla Camera dei Deputati il 20 novembre 2014 ed avente ad oggetto “Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, e all’ordinamento giudiziario, di cui al regio decreto 30 gennaio 1941, n.12”, ed a quella n. 2786, presentata alla Camera dei Deputati il 18 dicembre 2014 ed avente ad oggetto “Delega al Governo in materia di misure per il sostegno in favore delle imprese sequestrate e confiscate sottoposte ad amministrazione giudiziaria e dei lavoratori da esse dipendenti, nonché di organizzazione dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”.

[2]Diversa è, invece, la filosofia che ispira la già citata proposta di legge n. 2737, che, traendo spunto dalla relazione, licenziata il 22 ottobre 2014 dalla Commissione parlamentare antimafia, auspica una revisione organica del codice antimafia, distribuita su ben 58 articoli.

[3]In proposito,la Commissione ritiene opportuna l’introduzione di un limite temporale, prevedendo che questioni concernenti la competenza per territorio siano precluse se non proposte entro la conclusione della discussione di primo grado e possano essere rilevate d’ufficio non oltre la decisione di primo grado.

[4] Identica previsione è contenuta nella proposta di legge n. 2737, nella quale sono riversate le proposte formulate nell’ottobre 2014 dalla Commissione parlamentare antimafia, talune delle quali corrispondono, in tutto o in parte, a quelle inserite nel corpo dell’art. 11 del disegno di legge, presentato in pari data.

[5] Che trova pendant in norma dal contenuto quasi identico nella proposta di legge n. 2737.

[6] Cassazione penale, Sez. U, 29 luglio 2014, n. 33451, Repaci e altri, secondo cui “In tema di confisca di prevenzione di cui all’art. 2 ter legge 31 maggio 1965, n. 575 (attualmente art. 24 D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159), la sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del proposto non può essere giustificata adducendo proventi da evasione fiscale, atteso che le disposizioni sulla confisca mirano a sottrarre alla disponibilità dell’interessato tutti i beni che siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, senza distinguere se tali attività siano o meno di tipo mafioso”.

[7] Il testo originario è, peraltro, già stato sostituito, a decorrere dall’1 gennaio 2013, dall’art. 1, comma 189, lett. a), L. 24 dicembre 2012, n. 228.

[8] Nella novella la preposizione disgiuntiva “o” lascia il posto a quella congiuntiva “e”.

[9] composto da un unico comma, a tenore del quale “Se la persona nei cui confronti e’ proposta la misura di prevenzione disperde, distrae, occulta o svaluta i beni al fine di eludere l’esecuzione dei provvedimenti di sequestro o di confisca su di essi, il sequestro e la confisca hanno ad oggetto denaro o altri beni di valore equivalente. Analogamente si procede quando i beni non possono essere confiscati in quanto trasferiti legittimamente, prima dell’esecuzione del sequestro, a terzi in buona fede”.

[10] Al pari, va detto, della più volte citata proposta di legge n. 2737, il cui testo è, per questa parte, quasi identico.

[11] Prevedendosi, ad opera del novellato comma 3, che questi “esercita tutte le facoltà spettanti ai titolari dei diritti sui beni e sulle aziende oggetto della misura” e, nel caso di imprese esercitate in forma societaria, “può esercitare i poteri spettanti agli organi di amministrazione e agli altri organi sociali secondo le modalità stabilite dal tribunale, tenuto conto delle esigenze di prosecuzione dell’attività d’impresa”.

[12] Che oggi presuppongono, relativamente ai beni aziendali, “l’immissione in possesso dell’amministratore e con l’iscrizione nel registro tenuto dalla camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura presso il quale è iscritta l’impresa”.

[13] Per completezza espositiva, va detto che, in atto, il comma 8 dell’art. 34 del codice antimafia contempla, sotto la voce “Controllo giudiziario”, un istituto dal contenuto prescrittivo molto esiguo in quanto circoscritto a meri obblighi informativi ex posta carico dell’attività sottoposta alla misura, e collocato in posizione ancillare rispetto alla amministrazione giudiziaria, potendo essere disposto soltanto in sede di revoca di quest’ultima e per un periodo di tre anni.

[14] “gli atti di disposizione, di acquisto o di pagamento effettuati, gli atti di pagamento ricevuti, gli incarichi professionali, di amministrazione o di gestione fiduciaria ricevuti, e gli altri atti o contratti indicati dal tribunale, di valore non inferiore a euro 10.000 o del valore superiore stabilito dal tribunale in relazione al reddito della persona o al patrimonio e al volume d’affari dell’impresa”.

[15] Il tribunale può, infatti, imporre: “a)l’obbligo di non cambiare la sede, la denominazione e la ragione sociale, l’oggetto sociale e la composizione degli organi di amministrazione, direzione e vigilanza, e di non compiere fusioni o altre trasformazioni, senza l’autorizzazione da parte del giudice delegato; b) di adempiere ai doveri informativi di cui alla lettera a) del comma 2 nei confronti del commissario giudiziario; c) di informare preventivamente il commissario giudiziario circa eventuali forme di finanziamento della società da parte dei soci o di terzi; d) l’obbligo di adottare ed attuare effi-cacemente misure organizzative, anche ai sensi degli articoli 6, 7 e 24-ter del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231; e) l’obbligo di assumere qualsiasi altra iniziativa finalizzata a prevenire specifica-mente il rischio di tentativi di infiltrazione o condizionamento mafiosi”.

[16] Che costituisce una prima risposta alle sollecitazioni provenienti dalla dottrina; scrive, in particolare, C. Visconti, in Proposte per recidere il nodo mafie-imprese, in www.penalecontemporaneo.it, 7 gennaio 2014: “…se si condivide l’idea che lo Stato – nei casi … in cui l’azienda non è irrimediabilmente compromessa ma risulta comunque in qualche modo esposta al condizionamento o all’infiltrazione mafiosi – potrebbe svolgere una funzione – per dir così – ‘terapeutica’, nella duplice prospettiva di assicurare la continuità dell’impresa e al contempo “isolarla” dal contesto criminale, allora occorre rafforzare il Controllo giudiziario quanto a contenuti e spazio applicativo. … Un nuovo Controllo giudiziario … insieme alla valorizzazione nella prassi della già esistente Sospensione temporanea, potrebbero fungere, verosimilmente, da strumenti più flessibili, selettivi e meno dirompenti in un’ottica economico-aziendale, in modo da graduare meglio la risposta giudiziaria al variegato fenomeno delle infiltrazioni mafiose nelle attività imprenditoriali e ottenere una rapida ed efficace ‘bonifica’ dell’impresa ritenuta ‘contaminata'”.

[17] L’esigenza di non protrarre eccessivamente, in attesa della pronunzia definitiva, il vincolo su beni ed aziende fonda, d’altro canto, la vigente previsione di termini di efficacia del sequestro e della confisca, nelle differenti fasi del procedimento. 

[18] Tanto è accaduto, deve ritenersi, in forza sia della elevata tecnicità della materia, che richiede una particolare competenza che abbraccia il diritto penale come quello civile, che di ragioni più latamente culturali, che hanno indotto a posporre la trattazione di procedimenti che coinvolgono valori, pure di rango costituzionale, quali la proprietà e l’iniziativa economica privata, ritenuti minusvalenti rispetto a quello della libertà personale, interessato dal procedimento penale ordinario e dalle misure di prevenzione personali.

[19] Così C. cost., 30 settembre 1996, n. 335; Cass. Sez. II, 21 marzo 1997, n. 12541, Nobile, in Cass. pen, 1997, p. 3170; Sez. I, 15 giugno 2005, n. 27433, Libri, rv. 231755.

[20]Il Consiglio direttivo, la cui composizione è stata modificata dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228, è formato dal Direttore dell’Agenzia scelto tra i Prefetti (che lo presiede), da un magistrato designato dal Ministro della giustizia, da un magistrato designato dal Procuratore nazionale antimafia e terrorismo, da due esperti in materia di gestioni aziendali e patrimoniali (art. 111 del Codice Antimafia).

L’Agenzia è dotata di un organico di  trenta elementi e la legge n. 228/12 prevede che possa avvalersi, nella forma del comando, di 100 dipendenti di altre Pubbliche Amministrazioni.

[21] Per questo, ad esempio, si prevede che l’Agenzia abbia una sola sede secondaria, in Roma, sopprimendo la possibilità di sedi ulteriori. Si stabilizza il supporto delle prefetture, presso ognuna delle quali è costituito un nucleo di assistenza specifico, la cui composizione non è predeterminata in  maniera rigida ed uniforme, ma può essere modulata – da parte del Prefetto sulla base delle indicazioni della stessa Agenzia – a seconda delle caratteristiche dei beni e della loro possibile destinazione in ciascuna singola fattispecie.

Viene modificata la composizione del Comitato direttivo prevedendo l’inserimento di un esperto in gestioni patrimoniali e di uno in materia di gestioni aziendali, entrambi di nomina ministeriale.

Viene inoltre costituito un nuovo organo, il Comitato consultivo, composto, oltre che da esperti rappresentanti delle istituzioni interessate, anche da rappresentanti della associazioni che possono essere destinatarie dei beni e dalle organizzazioni rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro. Il Comitato ha compiti di consulenza ed indirizzo in materia di pianificazione e programmazione delle attività, nonché in ordine ad ogni altra questione in materia di utilizzazione dei beni sequestrati o confiscati.

[22] Cass., Sez. Un., 17 dicembre 2003 (dep. 19 gennaio 2004), n. 920, Montella, in C.E.D. Cass., n. 226490.

[23] V. Cass., Sez. 2, 12 febbraio 2014 (dep. 5 marzo 2014), n. 10471.

[24] Cass., Sez. I, 21 febbraio 2008 (dep. 9 aprile 2008), n. 14928, Marchitelli, in CED Cass., n. 240164.

[25] Cfr., in particolare, le sentenze della Corte EDU, 20 gennaio 2009, Sud Fondi c. Italia e 29 ottobre 2011, Varvara. In quest’ultimo casola Corte EDU ha condannato il nostro Paese per violazione dell’art. 7 (nulla poena sine lege) della Convenzione e dell’art. 1 (diritto di proprietà) del Primo Protocollo addizionale.

[26] Cass., Sez. II, 25 maggio 2010, n. 32273..

[27] Cass., Sez. III, ordinanza n. 1139/2014.

[28] Analoga previsione è già prevista in materia di confisca di prevenzione, ove, non essendo richiesto l’accertamento di responsabilità penali individuali,la Corte costituzionale ha ritenuto che tale disciplina sia pienamente compatibile conla Carta (cfr. sent. n. 21 del 2012). 


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Parere ANM riforma disegno di legge riforma processo penale

‘Associazione Nazionale Magistrati esprime ferma contrarietà al testo del DDL di riforma del settore penale C. 2798, attualmente sottoposto all’esame della Camera. Sul testo originario del disegno di legge l’ANM aveva già manifestato forti riserve in occasione dell’audizione davanti alla Commissione Giustizia. In quella sede avevamo osservato che “l’intervento normativo non appare idoneo a restituire concreta e piena efficacia al sistema penale, limitandosi a singole disposizioni disorganiche, le quali lasciano impregiudicata, e certo non allontanano, l’esigenza di un’urgente rivisitazione sistematica che guardi al processo nel suo complesso. Si aggiunga che alcuni degli aspetti più problematici delle regole processuali non sono affrontati dalla riforma. Per limitarsi a qualche esempio: la disciplina degli avvisi e delle notifiche, le norme sulle nullità, il principio di immutabilità del giudice.”

Per effetto degli emendamenti approvati in sede di esame da parte della Commissione Giustizia, il testo risulta addirittura gravemente peggiorato. Nel rinviare ad altra sede un esame dettagliato del DDL, ci si limita per ora a poche osservazioni esemplificative.

1.      La previsione di un termine di tre mesi successivo alla durata massima delle indaginicostituisce un danno gravissimo all’attività investigativa e in particolare alle indagini più delicate e complesse, comprese quelle per terrorismo, mafia, corruzione e criminalità economica. E’ impossibile anche solo immaginare che, conclusa la fase investigativa, in tre mesi la polizia giudiziaria possa ascoltare migliaia di intercettazioni e redigere informative complesse e il pubblico ministero e il gip possano esaminare voluminosi fascicoli e scrivere articolate richieste e ordinanze cautelari nei confronti di numerosi indagati.

Ancora una volta emerge il tentativo di risolvere il problema dell’eccessiva durata dei processi non con riforme strutturali ma imponendo termini illusori che nessuno potrà rispettare.

2.      L‘ aumento delle pene per alcuni reati di furto e rapina è intervento inutile e demagogico, in mancanza di un generale ripensamento del sistema sanzionatorio (ormai datato e fonte di evidenti squilibri del sistema) e, soprattutto, risulta incoerente con il depotenziamento della fase delle indagini e con l’assenza di interventi in grado di restituire efficienza al processo di primo grado.

3.      L’introduzione del nuovo reato di diffusione di registrazioni fraudolente effettuate da soggetto presente al colloquio da un lato ignora l’esistenza di altre norme che già puniscono condotte analoghe (diffamazione, interferenze illecite nella vita privata), dall’altro rischia – per di più con la previsione di una pena edittale sproporzionata – di comprimere iniziative che rivestono un oggettivo interesse generale (ancorché svolte da soggetti diversi dai giornalisti professionisti).

Interventi su materie così delicate e con effetti così pesanti non dovrebbero essere affidati, come invece avvenuto, a emendamenti presentati e approvati nello spazio di pochi giorni o addirittura di poche ore. Si auspica invece che sul testo possano svolgersi un’ampia discussione e un’attenta riflessione, che portino quanto meno alla correzione dei profili maggiormente critici, in attesa che si realizzi una rivisitazione sistematica del settore penale.

Infine, quanto alla disciplina delle intercettazioni, è grave, si ribadisce, che sia stata scelta la via di una delega largamente generica, che di fatto ostacola una riflessione approfondita in sede parlamentare su una materia così delicata come l’impiego delle intercettazioni e l’equilibrio fra tale impiego, la tutela della riservatezza, il diritto alla difesa e il diritto all’informazione.

Roma, 30 luglio 2015

La Giunta Esecutiva Centrale


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di David Mancini

È stato votato alla Camera, il disegno di legge di riforma del processo penale AC 2798. Il provvedimento, approvato in prima lettura, passa ora all’esame del Senato (Atto S 2067).

Questo ulteriore provvedimento si aggiunge ad altri che hanno introdotto importanti norme in materia di diritto penale sostanziale e processuale (come, ad esempio, quelli che hanno introdotto istituti quali la messa alla prova, la particolare tenuità del fatto; hanno modificato la disciplina di istituti particolarmente importanti quali la custodia cautelare, per alcuni aspetti limitati la prescrizione, ovvero sono intervenuti su reati (quelli contro la pubblica amministrazione, il falso in bilancio, l’autoriciclaggio).

Ancora una volta, tuttavia, l’intervento del legislatore è frammentario e non ispirato da una logica di ampio respiro che suggerirebbe interventi meno frequenti e più sistematici. La stessa parte contente delega per “la riforma del processo penale” in realtà si riferisce ad alcune parti del processo e non è dotata di una visione globale.

Le misure contenute nell’atto Camera n. 2798-A sarebbero mirate principalmente a semplificare e rendere spedita la celebrazione dei processi penali, dando attuazione al principio della ragionevole durata del processo, senza tralasciare le istanze di garanzia degli imputati, le indicazioni che provengono dalle convenzioni e dalle direttive europee, così come dalla giurisprudenza internazionale, il dialogo ed il coordinamento con le nuove misure sostanziali e processuali recentemente introdotte in campo penale. In realtà, ad una prima lettura, non sembra che tali finalità possano essere raggiunte in pieno con il presente provvedimento, poiché il legislatore non ha adottato le misure da tempo suggerite per deflazionare il processo penale, ridurne i formalismi non ancorati all’esercizio effettivo di diritti, aumentare l’impatto della tecnologia, riformare l’istituto della prescrizione, snellire il sistema delle notifiche, semplificare – e sfrondare di possibili deviazioni dilatorie – l’accesso ai mezzi di impugnazione.

Inoltre, con lo strumento della delega si è voluto anche affidare al Governo la facoltà di prevedere interventi di regolazione degli equilibri tra le opposte istanze di finalità rieducativa della pena e di sicurezza sociale per quanto attiene all’ordinamento penitenziario e alle misure di sicurezza, e tra diritto alla riservatezza delle comunicazioni e diritto all’informazione per quel che attiene alle intercettazioni telefoniche.

I contenuti principali del provvedimento:

Estinzione del reato per condotte riparatorie

Nei reati procedibili a querela il giudice dichiara estinto il reato, sentite le parti e la persona offesa, quando l’imputato ripara interamente il danno mediante restituzione o risarcimento ed elimina le conseguenze del reato. La regola è che il danno sia riparato prima che abbia inizio il dibattimento. Una delega, infine, affida al Governo il compito di estendere la procedibilità a querela anche ai reati che arrecano offese di modesta entità salvo che la persona offesa sia incapace (per età o infermità).

Indagini preliminari e udienza preliminare

Colloqui con difensore. Nel corso delle indagini preliminari per i reati di mafia e terrorismo il giudice può differire il colloquio dell’arrestato con il proprio avvocato per un massimo di 5 giorni.

Limiti a poteri gup/gip. Nell’udienza preliminare è soppresso il potere del giudice di esercitare la supplenza dei poteri-doveri di indagine del pm. Rimane invece salva la facoltà del giudice di disporre l’acquisizione di prove decisive ai fini del proscioglimento dell’imputato. Se, dopo le ulteriori indagini ordinate dal gip, il pm richiede nuovamente l’archiviazione e non vi è opposizione della persona offesa, il gip non può ordinare l'”imputazione coatta”.  

Ampliamento diritti della parte offesa. A 6 mesi dalla denuncia la persona offesa ha diritto a conoscere lo stato del procedimento, attribuendole così un potere di controllo e stimolo all’attività del pm. Alla persona offesa inoltre si dà anche più tempo per opporsi alla richiesta d’archiviazione, che nel caso di furto in abitazione dovrà in ogni caso esserle comunicata.

Tempi definiti per l’esercizio dell’azione penale o dell’archiviazione. Il rinvio a giudizio o l’archiviazione dovranno essere chiesti dal pm entro 3 mesi, prorogabili di altri 3 dal procuratore generale presso la corte d’appello, se si tratta di casi complessi, dalla scadenza di tutti gli avvisi e notifiche di conclusa indagine. Per i delitti di mafia e terrorismo il termine però sale automaticamente a 12 mesi. In caso di inerzia del pm si prevede l’avocazione d’ufficio del fascicolo disposta dal pg. È poi previsto uno specifico potere di vigilanza del pg sulla tempestiva e regolare iscrizione nel registro degli indagati. Una norma transitoria riserva comunque i nuovi termini alle notizie di reato iscritte dopo l’entrata in vigore della riforma.

Interventi in tema di impugnazioni

Inammissibilità decisa dal giudice a quo. In presenza di specifici vizi formali, come ad esempio il difetto di legittimazione o la violazione dei termini, spetterà allo stesso giudice che ha emanato l’atto dichiarare anche l’inammissibilità dell’impugnazione. Superato questo primo filtro, il giudice dell’impugnazione può comunque dichiarare inammissibile il gravame.

Concordato sui motivi d’appello. Le parti potranno accordarsi su alcuni motivi d’appello condivisi, sempre con il vaglio del giudice, rideterminando la pena. È prevista l’emanazione di linee guida da parte del pg presso la Corte di appello per i pm di udienza.

Appello contro proscioglimento. Nel caso di appello del pm contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione di una prova dichiarativa (ad esempio una testimonianza) il giudice di appello dovrà rinnovare l’istruttoria.

Motivi appello più rigorosi. Si rendono più rigorosi e specifici a pena di inammissibilità i motivi di appello (581 c.p.p.), così come sono scanditi con maggiore puntualità i requisiti della sentenza in modo da rendere più agevole e al tempo stesso semplificare le impugnazioni (546 c.p.p.)

Deflazione ricorsi cassazione. Il ricorso per cassazione subisce un intervento limitativo. Da un lato aumentano le sanzioni pecuniarie in caso di inammissibilità dei ricorsi, dall’altro si introduce una disciplina semplificata per l’inammissibilità per vizi formali nei casi in cui non sia già stata dichiarata dallo stesso giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. È poi previsto che in caso di “doppia conforme” di assoluzione il ricorso per cassazione possa essere proposto solo per violazione di legge. Si allargano inoltre le ipotesi di annullamento senza rinvio. Il ricorso per cassazione, richiedendo una particolare capacità tecnica, non può più essere presentato personalmente dall’imputato.

Limiti ai ricorsi in cassazione dopo il patteggiamento. Il ricorso per cassazione contro le sentenze di patteggiamento è limitato ai motivi che attengono all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra richiesta e sentenza o all’illegalità della pena o delle misure di sicurezza. Il potere di correggere l’errore materiale è attribuito allo stesso giudice che ha emesso la sentenza.

Altre novità per delega.

Anche in sede di delega vi sono numerose innovazioni. Il Governo infatti, secondo i principi e criteri direttivi, dovrà adottare norme al fine di prevedere la ricorribilità per cassazione soltanto per violazione di legge delle sentenze emesse in grado di appello nei procedimenti di competenza del giudice di pace; prevedere che il procuratore generale presso la corte di appello possa appellare soltanto nei casi di avocazione e di acquiescenza del pubblico ministero presso il giudice di primo grado; prevedere la legittimazione del pubblico ministero ad appellare avverso la sentenza di condanna solo quando abbia modificato il titolo del reato o abbia escluso la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o che stabilisca una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato; prevedere la legittimazione dell’imputato ad appellare avverso le sentenze di proscioglimento emesse al termine del dibattimento, salvo che siano pronunciate con le formule “il fatto non sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso”; prevedere la titolarità dell’appello incidentale in capo all’imputato e limiti di proponibilità.

Inasprimento di alcune pene

Furti e rapine. Aumenta la pena minima per furto in abitazione (da 3 a 6 anni), per furto aggravato (da 2 a 6 anni) e rapina semplice (da 4 a 10 anni) e aggravata (da 5 a 20 anni e in caso di doppia circostanza dell’art. 628 comma 3 o di concorso di una di dette circostanze con alcuna dell’art. 61 c.p., da 6 a 20 anni).

Voto scambio politico-mafioso. Pene in aumento anche per il voto di scambio politico-mafioso, che dagli attuali 4-10 anni passerà a 6-12.

Riti alternativi

Abbreviato. L’imputato raggiunto da un decreto di giudizio immediato, ove voglia fare un abbreviato, avrà la possibilità di ottenere un’udienza, cosiddetta camerale, per la valutazione della sua richiesta e in quella sede far valere tutte le proprie ragioni anche con eccezioni di nullità e incompetenza. Una volta però che il giudizio abbreviato è stato accettato dal giudice non potranno più essere riproposte questioni di competenza territoriale e le nullità, se non assolute, saranno sanate. Vi è quindi una maggiore garanzia di ascolto delle ragioni dell’imputato ma al tempo stesso si evitano istanze, relative a riti speciali che comportano sconti di pena, con finalità meramente dilatorie (458 c.p.p.).

Quando l’imputato fa richiesta di giudizio abbreviato condizionato a una integrazione probatoria contestualmente può fare domande subordinate di “abbreviato secco” o patteggiamento. Ciò risponde all’esigenza di favorire quanto più possibile l’applicazione di un rito speciale, attraverso un ventaglio di soluzioni alternative che saranno vagliate dal giudice.

Nell’abbreviato lo sconto di pena in caso di contravvenzioni è stato individuato nella metà del massimo, rimane un terzo se si procede per un delitto.

Decreto penale di condanna. Per favorire l’applicazione di questo rito speciale si consente al giudice nel determinare la pena pecuniaria in sostituzione di quella detentiva di tener conto anche della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare e si modifica il ragguaglio del valore giornaliero da 250 a 75 euro di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva.

Ulteriori misure

Processi a distanza. Viene ampliato il ricorso ai collegamenti in video nei processi di mafia e terrorismo precisando che la partecipazione al dibattimento a distanza diviene la regola per chi si trova in carcere (anche in caso di udienze civili) e per i “collaboratori di giustizia” sotto protezione. L’eccezione (ossia la presenza fisica in aula) può essere prevista dal giudice con decreto motivato ma non vale mai per i detenuti sottoposti al 41bis. La partecipazione a distanza, peraltro, può essere disposta dal giudice anche quando, fuori dalle ipotesi obbligatorie, ravvisi ragioni specifiche di sicurezza ovvero quando il dibattimento sia particolarmente complesso o debba essere assunta la testimonianza di un recluso.

Delega al Governo per alcuni interventi di riforma del processo penale

All’interno della complessiva delega al Governo per la riforma del processo penale, si prevede la riforma del regime di pubblicità delle intercettazioni e inoltre della utilizzazione delle registrazioni tra privati captate fraudolentemente.

Intercettazioni. Il Governo dovrà predisporre norme per evitare la pubblicazione di conversazioni irrilevanti ai fini dell’indagine e comunque riguardanti persone completamente estranee attraverso una selezione del materiale intercettato nel rispetto del contradditorio tra le parti e fatte salve le esigenze di indagine. Non sono previste restrizione quanto ai reati intercettabili;  si dovrebbe semplificare il ricorso alle intercettazioni per i reati contro la pubblica amministrazione.

Registrazioni fraudolente. È prevista la delega per punire (fino a 4 anni) la diffusione delle captazioni fraudolente di conversazioni tra privati al solo fine di recare a taluno danno alla reputazione e all’immagine. La punibilità è esclusa quando le riprese sono utilizzate in un procedimento amministrativo o giudiziario o sono utilizzate per l’esercizio del diritto di difesa o di cronaca.

Delega al Governo per la riforma dell’ordinamento penitenziario

Il governo è delegato a risistemare l’ordinamento penitenziario secondo precise linee guida, facilitando tra l’altro il ricorso alle misure alternative, eliminando automatismi e preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari, valorizzando il lavoro e riconoscendo il diritto all’affettività. Dai benefici restano comunque esclusi i condannati all’ergastolo per mafia e terrorismo e i casi di eccezionale gravità e pericolosità.

Delega al Governo per la riforma del casellario giudiziale

È infine prevista anche una delega al Governo per la riforma del casellario giudiziale, da realizzare alla luce delle «modifiche intervenute nella materia penale, anche processuale, e dei principi e dei criteri contenuti nella normativa nazionale e nel diritto dell’Unione europea in materia di protezione dei dati personali». Tra i principii e i criteri direttivi è stata inserita l’abolizione della norma che prevede che le iscrizioni nel casellario giudiziale siano eliminate al compimento dell’ottantesimo anno di età o per morte della persona alla quale si riferiscono.

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a cura di Roberta Zizanovich

La II Sezione penale, con decisione assunta all’udienza camerale del 4 novembre 2015 (dep. 13.11.2015), n. 45341, De PetrilloRv. 264872, ha affermato il principio di diritto così massimato:

“In tema di riesame delle misure cautelari reali, il rinvio contenuto nell’art. 324, comma secondo, cod. proc. pen. alle forme previste dall’art. 582, comma secondo, cod. proc. pen., secondo cui le parti private e i difensori possono presentare l’atto di impugnazione anche nella cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trovano, pur se questo è diverso da quello in cui è stato emesso il provvedimento, implica che, una volta avvenuta la presentazione della richiesta di riesame in tali uffici entro il termine di dieci giorni dalla data di esecuzione del sequestro, è del tutto irrilevante, ai fini della tempestività del gravame, che l’atto pervenga o meno entro lo stesso termine al tribunale competente del capoluogo di provincia nel quale ha sede l’ufficio che ha emesso il provvedimento impugnato”.

In motivazione è evidenziato che la formulazione letterale dell’art. 324 cod. proc. pen. è analoga a quella del richiamato art. 309 cod. proc. pen., atteso che al primo comma è previsto che la richiesta di riesame va presentata alla cancelleria del tribunale indicato al comma 5, vale a dire il tribunale capoluogo di provincia nel quale ha sede l’ufficio che emesso il provvedimento; il secondo comma dispone, poi, che “la richiesta è presentata con le forme previste dall’art. 582”.

Il collegio decidente osserva, conseguentemente, che non vi è alcun motivo per adottare, per le misure cautelari reali, una diversa interpretazione rispetto a quella consolidatasi per le misure cautelari personali, come compiutamente esposta nella pronuncia delle Sezioni Unite 18 giugno 1991, n. 11, D’Alfonso e altro, Rv. 187922.

Ritiene, infatti, che anche per l’art. 324 cod. proc. pen. il rinvio all’art. 582 (le “forme”) sia a tutto l’articolo e non solo al primo comma, perché l’art. 582 è la norma generale in materia di impugnazioni. Di conseguenza, non vi è ragione, in mancanza di una deroga espressa prevista nell’art. 324 ed in conformità al principio generale delfavor impugnationis,di non applicarla integralmente. Quello che rileva, quindi, è che il termine di decadenza (nella specie di dieci giorni) sia rispettato al momento del deposito dell’istanza sicché diventa irrilevante, ai fini della tempestività del gravame, che l’atto pervenga o meno entro lo stesso termine al tribunale competente del capoluogo di provincia nel quale ha sede l’ufficio che ha emesso il provvedimento impugnato.

A medesime conclusioni era già giunta anche Sez. III, 25 settembre 2014, n. 47264, Tucci, Rv. 261214.

In base, invece, ad un diverso indirizzo interpretativo, affermato da: Sez. VI, 6 dicembre 1990, n. 3539/91, Messora, Rv. 187018;Sez. I, 3 novembre 1992, n. 4486/93, Fedele, Rv. 194278; Sez. IV, 27 novembre 1996, n. 2921, , Rv. 206612; Sez. V, 22 maggio 2000, n. 2915, Fontana e altro, Rv. 216655; Sez. IV, 10 luglio 2002, n. 33337, Cannavacciuolo, Rv. 222663; Sez. II, 29 gennaio 2013, n. 18281, Bachar, Rv. 255753 e Sez. III, 2 luglio 2015, n. 31961, Borghi, Rv. 264189, la richiesta di riesame deve essere presentata, anche per via telegrafica o postale, nella cancelleria del tribunale del capoluogo della provincia nella quale ha sede l’ufficio che emesso il provvedimento ed è, pertanto, inammissibile il gravame presentato nella cancelleria di altro tribunale.

Nelle riportate pronunce è affermato che l’art. 582, comma 2, cod. proc. pen., prevede, in via generale, che le parti private e i loro difensori possono presentare l’atto di impugnazione, in luogo della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento, presso la cancelleria del tribunale del luogo in cui si trovano se tale luogo è diverso da quello in cui fu emesso il provvedimento impugnato. È, quindi, considerato che tale regola non trova applicazione nel procedimento di riesame delle misure cautelari reali e del provvedimento di convalida del sequestro, giacché l’art. 324 cod. proc. pen. (cui l’art. 355, comma 3, cod. proc. pen. fa richiamo), dispone che la richiesta di riesame sia presentata direttamente nella cancelleria del capoluogo della provincia nella quale ha sede l’ufficio che ha emesso il provvedimento. Né a diversa conclusione può pervenirsi in virtù del richiamo che il menzionato art. 324 opera al successivo art. 582, trattandosi di riferimento concernente esclusivamente le “forme” con le quali la richiesta va proposta e non già le modalità del suo deposito.

L’orientamento in esame considera, altresì, che l’illustrata interpretazione non confligge con il principio delfavor impugnationis. Invero, le modalità con cui ogni principio viene concretizzato nel dettato delle norme specifiche sono determinate – salvo, ovviamente, il limite delle superiori fonti costituzionali e sovranazionali – dal legislatore ordinario, il quale, nel caso in esame, lo ha conformato in modo inequivoco al punto che, qualora si ritenesse che l’art. 582 fosse applicabile anche per quanto concerne l’individuazione del tribunale ove depositare la richiesta, si incorrerebbe in un chiaro contrasto con l’ulteriore principio della conservazione di un significato alla normativa. Invero, si priverebbe di ogni incidenza il combinato disposto dell’art. 324, commi 1 e 5, il cui tenore letterale non lascia spazio per alcuna interpretazione diversa quanto alla identificazione del tribunale competente a decidere l’impugnazione quale unico ufficio ove depositare l’atto impugnatorio. D’altronde, la scelta legislativa di obbligo al deposito presso l’ufficio competente è anche ragionevolmente ben sostenibile, in relazione alla natura cautelare del procedimento, e dunque alle necessità di semplificazione e di accelerazione che lo connotano.

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Delibera CSM 11 novembre 2015: Parere su ddl n. 2798 in materia di esecuzioni penali

I. Premessa.

Nel corso degli ultimi anni è stata fortemente avvertita la necessità di porre al centro dell’azione politico-istituzionale una solida iniziativa riformatrice in grado di fronteggiare, con la efficacia imposta dalla gravità della situazione, il fenomeno del sovraffollamento carcerario con i suoi riflessi in termini di  mancato rispetto dei diritti fondamentali delle persone private della libertà personale.

E così, voci autorevolissime del nostro panorama costituzionale (dall’ex Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che in data 8 ottobre 2013 inviò un messaggio alle Camere sulla questione carceraria, alla stessa Corte costituzionale, in specie con la sentenza n. 279 del 2013), hanno rivolto al legislatore ed al governo l’auspicio di incisive iniziative di modifica del quadro normativo e delle scelte di politica amministrativa, tanto più che la Corte europea dei diritti dell’Uomo, con la sentenza Torreggiani vs Italia in data 8 gennaio 2013, ha riconosciuto l’aperto conflitto tra le condizioni di vita dei nostri istituti penitenziari e il principio fondamentale del necessario rispetto della dignità della persona.

Su questa base, il Governo ed il Parlamento hanno quindi promosso una serie di iniziative di modifica normativa.

Tali iniziative, raccogliendo i frutti del lavoro di alcune commissioni ministeriali (quali la Commissione di studio in tema di ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione e la Commissione di studio in tema di interventi in materia penitenziaria costituite, rispettivamente, con D.M. 2 luglio 2013 e con D.M. 13 giugno 2013), hanno introdotto significative novità nell’ambito della disciplina delle misure cautelari e dell’esecuzione penale. Tra queste: il decreto legge 1 luglio 2013, n. 78, convertito con legge 9 agosto 2013, n. 94 (concernente “Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena”) e il decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con legge 21 febbraio 2014, n. 10 (riguardante le “Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria”).

Con tali interventi, è stata introdotta una pluralità di misure, destinate ad affiancarsi agli interventi di edilizia penitenziaria, volte ad incidere, per un verso, sul numero degli ingressi in carcere e, per un altro verso, a favorire le uscite dagli istituti penitenziari.

Si va dalle corpose modifiche in materia di custodia cautelare, all’ampliamento delle possibilità applicative per le misure alternative; dall’introduzione della cd. liberazione anticipata speciale alla stabilizzazione della disposizione che consente di scontare presso il domicilio la pena detentiva non superiore a 18 mesi, anche se parte residua di maggior pena; fino ad arrivare all’estensione dell’ambito applicativo dell’espulsione come sanzione alternativa alla detenzione, prevista dal t.u. 286/98, finalizzata al rimpatrio di buona parte dei circa 29.000 detenuti stranieri, presenti al marzo 2014.

Va poi ricordato il d.l. 26 giugno 2014, n. 92, convertito in legge 11 agosto 2014, n. 117 («Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati»), che ha introdotto l’art. 35-bis ord. penit. con cui il legislatore ha inteso dare specifica attuazione alle richieste della Corte europea, avanzate con la ricordata sentenza Torreggiani, di introdurre rimedi preventivi e compensativi allalesione di diritti dei detenuti.

L’effetto complessivo degli interventi fin qui riassunti è consistito, da un lato, in una drastica diminuzione del numero dei detenuti (ivi compresi quelli in custodia cautelare) e, dall’altro lato, in un significativo aumento delle persone sottoposte a misure alternative al carcere.

Infatti, mentre al 31 dicembre 2009 (subito dopo l’importante sentenza Sulejmanovič della Corte EDU), i detenuti erano 64.791, arrivando nel primo semestre del 2010 a poco meno di 70.000 unità (ed ancora al 30 giugno 2013 a 66.008 presenze), le persone presenti negli istituti penitenziari italiani (compresi i detenuti in regime semilibertà e gli internati per misura di sicurezza), alla data del 30 giugno 2015, erano scese a 52.754. Assai rilevante, in particolare, è la riduzione dei ristretti in custodia cautelare che il 30 giugno 2015 erano 18.478, a fronte dei 29.809 del 31 dicembre 2009 (con un calo corrispondente a 11 punti in percentuale: dal 46% al 35%).
Parallelamente, per le misure alternative alla detenzione si è registrato un aumento di circa 11.500 soggetti rispetto al dato del 31 dicembre 2009 (pari a 12.455 unità), atteso che alla data del 30 giugno 2015 le misure alternative in esecuzione avevano raggiunto il numero di 23.377 (di cui 12.717 affidati al servizio sociale, 747 in semilibertà e 9.913 in detenzione domiciliare).

In questo contesto, peraltro, il C.S.M. ha seguito con particolare attenzione il processo riformatore, pronunciandosi, in più occasioni, attraverso pareri – resi ai sensi dell’art. 10 della legge 24 marzo 1958, n. 195 – sui disegni e le proposte di legge concernenti lamateria in esame.

Con detti contributi, il CSM ha saputo fornire, in un’ottica di leale collaborazione, un importante contributo di analisi e di proposta. Si pensi, tra gli altri, al Parere sul testo del decreto legge 1 luglio 2013, n. 78, convertito con legge 9 agosto 2013, n. 94, concernente: “Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena” (approvato con delibera del 30 luglio 2013); al Parere sul decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con legge 21 febbraio 2014, n. 10, riguardante le “misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria” (approvato con delibera del 23 gennaio 2014); nonché al Parere sul decreto legge 26 giugno 2014, convertito con legge 11 agosto 2014, n. 117, in materia di “Disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subìto un trattamento in violazione dell’art. 3 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché di modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, all’ordinamento del Corpo di Polizia penitenziaria e all’ordinamento penitenziario, anche minorile”, trasmesso dal Ministro della Giustizia con nota pervenuta in data 8 luglio 2014 (approvato con delibera del 30 luglio 2014).

E, del resto, il Consiglio Superiore, nel corso dell’ultimo quindicennio, avvertendo la centralità della questione penitenziaria, si è fatto promotore di numerose iniziative volte a stimolare il confronto con i suoi interlocutori naturali, in primo luogo il Ministro della Giustizia, nell’ottica, appunto, di addivenire a proposte condivise di modifica normativa ovvero, sul versante di sua competenza, di adottare le più opportune misure di riorganizzazione degli uffici giudiziari (in specie quelli di sorveglianza e gli uffici d’esecuzione delle procure).

Di fondamentale importanza, sotto questo profilo, è stata, ad esempio, l’attività svolta dalla Commissione mista per lo studio dei problemi della Magistratura di Sorveglianza, istituita con delibera 28 maggio 1998 e successivamente ricostituita con risoluzione del 26 luglio 2010, il cui contributo di analisi e di proposta è stato condiviso dal C.S.M. rispettivamente con le delibere del 2 luglio 2003 e del 21 novembre 2012, con la quale le relazioni sono state trasmesse anche al Ministro della Giustizia. In specie con l’ultima delibera, infatti, la Commissione mista aveva elaborato delle soluzioni in ambito ordinamentale, organizzativo e normativo, dirette ad affrontare alcune tra le principali criticità che in genere caratterizzano la fase esecutiva; e su quella base, con la risoluzione del 24 luglio 2013 (“Risoluzione in ordine a soluzioni organizzative e diffusione di buone prassi in materia di magistratura di sorveglianza”), il C.S.M. ha formulato una serie di proposte in tema di soluzioni organizzative degli uffici di sorveglianza, che dovrebbero semplificare le procedure e accelerarne la definizione; proposte in parte riprese dai successivi interventi normativi del legislatore e del governo, prima ricordati[1].

La presente riflessione, dunque, si colloca nel solco di una consolidata interlocuzione tra C.S.M. e Governo-Parlamento, volta a realizzare, nel rispetto delle prerogative di ciascuno degli Attori istituzionali ed in un’ottica di leale collaborazione, un dialogo proficuo capace di realizzare quella svolta positiva che, anche a livello europeo, viene fortemente richiesta al nostro Paese nella materia dell’esecuzione penale.


II. L’analisi della cd. delega penitenziaria.

1. Profili generali del D.D.L.

Di particolare importanza, nell’ottica riformatrice intrapresa dal Governo italiano sui temi dell’esecuzione penale, è il d.d.l. 2798 (“Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore contrasto del fenomeno corruttivo, oltre che all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della
pena”), presentato alla camera il 23 dicembre 2014, che all’art. 26 detta una serie di principi e criteri direttivi per una risistemazione organica dell’ordinamento penitenziario.

Sul punto, giova sottolineare che, come già ricordato, il C.S.M. si è espresso sui contenuti della cd. delega penitenziaria con la Delibera del 20 maggio 2015, che ha approvato, su proposta dalla Sesta Commissione referente, il “Parere, ai sensi dell’art. 10 legge n. 195/58, sulle modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore contrasto al fenomeno corruttivo, oltre che all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena”. Nondimeno, in tale frangente il parere non ha affrontato funditus le molteplici questioni fatte oggetto dell’intervento normativo, rinviando all’adozione di una separata delibera una più articolata riflessione.

Prima di affrontare, nel dettaglio, i contenuti della delega giova sottolineare due profili di notevole importanza.

In primo luogo, va evidenziato come l’iniziativa dell’Esecutivo in commento sia complementare rispetto ad un altro intervento di matrice governativa, sfociato nella l. 28 aprile 2014 n. 67 dal titolo «Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili», con il quale da un lato si introducono modifiche al sistema sanzionatorio, prevedendo la detenzione domiciliare come pena principale da applicare a tutte le contravvenzioni attualmente punite con l’arresto e a tutti i delitti la cui pena edittale massima è di 3 anni di reclusione, con la possibilità ulteriore, nel caso di pene il cui massimo edittale è tra 3 e 5 anni, di una decisione rimessa al giudice, tenuto conto della gravità del reato e della capacità a delinquere del condannato, alla possibilità per la detenzione non carceraria di avere durata per singoli giorni della settimana o fasce orarie, con l’eventuale applicazione di braccialetto elettronico; alla possibilità di affiancare la detenzione domiciliare con la sanzione del lavoro di pubblica utilità; e dall’altro lato si avvia una importante attività di riduzione della penalità, attraverso una massiccia depenalizzazione di alcune fattispecie di minor allarme sociale. Una prospettiva, questa, che non può che essere salutata con favore, considerato che ogni seria prospettiva di riforma dell’attuale assetto dell’esecuzione penale, non può che passare attraverso il superamento della costosa ed economicamente ormai insostenibile opzione carcerocentrica accolta dal Codice Rocco, favorendo il ricorso, fin dalla fase della cognizione, alle sanzioni alternative alla pena carceraria, tra le quali sarebbe stato  opportuno prevedere anche le ulteriori misure oggi contemplate soltanto nella fase esecutiva.

In secondo luogo, e sotto un profilo affatto diverso, va segnalato come il processo normativo di attuazione della delega, che costituirà la fase successiva alla prossima approvazione del d.d.l., viene accompagnato da un innovativo percorso di riflessione collettiva all’interno dei cd. stati generali dell’esecuzione penale, che
rappresentano un luogo istituzionale, aperto al contributo di operatori ed associazioni, di elaborazione di proposte secondo un modello innovativo di partecipazione e confronto “dal basso”.

Venendo al dettaglio, l’art. 26 del D.D.L. definisce i “princìpi e criteri direttivi” ai quali nell’esercizio della delega di cui all’art. 24[2], devono uniformarsi i decreti legislativi al fine di realizzare una “risistemazione organica dell’ordinamento penitenziario”. Un intervento che, secondo la relazione di accompagnamento, sarebbe necessario al fine di restituire “coerenza” ad un comparto interessato, nel tempo, da numerosi interventi normativi, che attraverso successive stratificazioni ne avrebbero compromesso l’organicità complessiva.

In particolare, il prevalere di istanze di tutela della collettività, talvolta riconducibili al manifestarsi di aggressivi fenomeni criminali, ha spesso disegnato, all’interno dei singoli istituti, un regime speciale destinato ad applicarsi a determinate categorie di reati o di condannati, nei cui confronti le esigenze rieducative sono state conseguentemente sacrificate, impedendo o rendendo assai più impervio l’accesso alle misure alternative al carcere.

Tale linea di evoluzione, che ha caratterizzato la nostra legislazione penitenziaria in specie nel corso degli ultimi dieci anni, ha subito un arresto a seguito del manifestarsi, in tutta la sua drammatica evidenza, del fenomeno del sovraffollamento penitenziario, per contrastare il quale sono state introdotte, come in precedenza rilevato, misure finalizzate ad intervenire sui flussi penitenziari, sia in ingresso che in uscita, favorendo un maggiore ricorso alle soluzioni alternative al carcere e, più in generale, ai benefici penitenziari.

Di fronte al manifestarsi, nell’arco dell’ultimo decennio, di opzioni di politica legislativa di segno contrastante, il Governo ha dunque avvertito la necessità di un intervento di rivisitazione complessiva della materia, nella prospettiva di un consolidamento delle opportunità di accesso alle misure extracarcerarie, di una maggiore valorizzazione di alcune risorse, umane e materiali, nel percorso rieducativo intramurario e, in generale, in una ottica di semplificazione dell’attività della magistratura di sorveglianza, oggi più che mai investita di competenze sempre crescenti.

Le linee generali di questo intervento, da realizzarsi, come detto, attraverso il conferimento di una delega legislativa al Governo sono espresse, dalle disposizioni contenute all’art. 26, attraverso proposizioni che talvolta disegnano una cornice molto ampia, a tratti scarsamente delineata. Ciò, peraltro, in più di un frangente rende non agevole la valutazione delle soluzioni proposte.

Trattandosi, in ogni caso, di un ambito ordinamentale nel quale si sono succeduti, nel breve periodo, numerosi provvedimenti legislativi, spesso originati da ragioni contingenti prettamente emergenziali, è fortemente auspicabile che la profonda opera riformatrice, che s’intenderebbe ora avviare, arrivi effettivamente a concretizzare, nei risultati prevedibili, una reale “risistemazione organica” della materia, definendo finalmente un sistema coerente e durevole.



2. L’analisi delle singole disposizioni della delega.

“a) semplificazione delle procedure, anche con la previsione del contraddittorio differito ed eventuale, per le decisioni di competenza del magistrato e del Tribunale di sorveglianza, fatta eccezione di quelle relative alla revoca delle misure alternative alla detenzione”.

Il condivisibile proposito di semplificazione delle cadenze dei vari procedimenti di sorveglianza è già stato perseguito con il D.L. n. 146/13 (convertito con la legge n. 10/14), che ha introdotto il comma 1-bis all’art. 678 c.p.p., a mente del quale è stata prevista una procedura camerale a contr ddittorio differito ed eventuale per le materie di competenza della magistratura di sorveglianza (quali la remissione del debito, la rateizzazione e conversione delle pene pecuniarie, la declaratoria di estinzione pena a seguito dell’affidamento in prova e la riabilitazione), salvo il ricorso al procedimento, più garantito, di cui all’art. 666 c.p.p. in relazione alle istanze direttamente involgenti la libertà personale delle persone detenute.

Non è dunque ben chiaro a quali ambiti la delega intenda riferirsi nel prevedere ulteriori forme di semplificazione attraverso la previsione di una procedura a contradditorio “differito ed eventuale”, che rischia di modificare in profondità alcuni caratteri tipici della “giurisdizione rieducativa” della magistratura di sorveglianza, caratterizzata dal pieno contraddittorio e dalla conseguente possibilità di interlocuzione tra l’interessato ed un Organo collegiale composto anche da giudici “esperti” a garanzia di un approccio multidisciplinare al giudizio prognostico. E del resto, l’Organo monocratico può già oggi assumere, de plano, decisioni d’urgenza destinate poi ad essere sottoposte, nel pieno contraddittorio, al vaglio definitivo del Tribunale di sorveglianza.

Se, quindi, la proposta di semplificazione delle procedura intende corrispondere all’esigenza di sgravare la magistratura di sorveglianza, le cui competenze sono sempre più cresciute nel corso degli ultimi due anni per effetto dei ricordati interventi di contrasto al sovraffollamento penitenziario, sarebbe forse preferibile percorrere altre soluzioni, tra le quali, come suggerito nelle conclusioni dei lavori della Commissione mista del Consiglio Superiore della Magistratura e del Ministero della Giustizia nel 2012, devolvere alla competenza del giudice dell’esecuzione una serie di materie non riconducibili all’ambito della “giurisdizione rieducativa” (come ad es. la remissione del debito o la rateizzazione ed alla conversione delle pene pecuniarie).

“b) revisione dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi che con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse”[3].

Nel sottolineare l’opportunità di rafforzare, coerentemente a linee di politica legislativa accolte in tutti gli ordinamenti occidentali, il ricorso a strumenti alternativi al carcere, sia per contrastare il fenomeno del sovraffollamento penitenziario, sia per individuare percorsi di riabilitazione più efficaci rispetto allo strumento della detenzione intramuraria, si evidenzia, con specifico riferimento ai
limiti di pena, come gli interventi succedutisi nel tempo abbiano determinato alcune aporie. Sul punto si sottolinea l’esigenza di realizzare un coordinamento tra la nuova ipotesi di affidamento in prova al servizio sociale, introdotta dall’art. 47, comma 3-bis, ord. penit., (oggi concedibile, a particolari condizioni, fino al limite dei 4 anni di pena, anche residua) ed i meccanismi generali di sospensione dell’esecuzione dell’ordine di carcerazione di cui all’art. 656, comma 5, c.p.p., che invece ad oggi prevede, in termini generali e salvo le eccezioni ivi contemplate, la sospensione soltanto fino a 3 anni di pena. Peraltro, l’introduzione, in occasione della seduta della Commissione giustizia della Camera del 24 luglio 2015, di un nuovo principio di delega (alla nuova lettera c, v. infra) che concerne l’innalzamento a quattro anni di pena detentiva del limite per la sospensione dell’esecuzione della pena dovrebbe portare a superare la disarmonia segnalata. Ed anzi tale novità sembra preludere ad un abbassamento a quattro anni dei limiti di pena detentiva richiesti per l’accesso all’affidamento in prova al servizio sociale.
Tale opzione legislativa, che di fatto accentua la divaricazione tra il momento della inflizione della pena e quello della sua esecuzione, rende ancor più urgente una riflessione sul complessivo assetto del nostro sistema sanzionatorio, che, come già osservato, dovrebbe auspicabilmente arricchirsi di nuove tipologie di sanzioni principali, applicabili già nel giudizio di cognizione (come ad esempio la detenzione domiciliare ed altre), cosi’ superando la rigida dicotomia tra pena detentiva-carceraria e pena pecuniaria, retaggio del codice Rocco.

Sempre in occasione della seduta della Commissione giustizia della Camera del 24 luglio 2015 è stata modificata anche la formulazione del principio di delega in esame (lettera b), specificandosi che la scelta a favore di una estensione dell’ambito applicativo delle misure alternative non impedisce di mantenere un regime maggiormente restrittivo per “i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale”, con esclusione dei condannati per i delitti di cui al comma 1 dell’art 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario.


In relazione alla modifica dei presupposti soggettivi si rinvia alla successiva lettera c).

“c) eliminazione di automatismi e preclusioni che impediscono o rendono molto difficile, sia per i recidivi che per gli autori di determinate categorie di reati, l’individualizzazione del trattamento rieducativo e revisione della disciplina di preclusione ai benefici alla pena dell’ergastolo”[4];

La legislazione introdotta verso la metà degli anni 2000 ha segnato l’inserimento, nel corpo dell’ordinamento penitenziario, di meccanismi automatici che non consentivano l’accesso ai benefici penitenziari a favore dei soggetti recidivi cd. reiterati e di quanti fossero incorsi nella violazione delle prescrizioni inerenti alle misure cautelari o alternative (cfr. art. 58-quater ord. penit.). A tale linea di evoluzione ha corrisposto l’introduzione, anche nella fase della cognizione, di un regime di particolare rigore per i recidivi reiterati che, soprattutto sul versante degli automatismi introdotti nel giudizio di bilanciamento delle circostanze, ha non di rado determinato, nella pratica giudiziaria, l’applicazione di pene assai elevate anche per fatti di non particolare gravità, nonché l’aumento dei termini di prescrizione.

Il riferimento alla “eliminazione di automatismi e preclusioni” sembrerebbe orientare verso la soluzione di una integrale abrogazione dell’art. 58-quater ord. penit., che oggi rappresenta la fattispecie più significativa del nostro panorama normativo tra quelle in origine fondate sulla presunzione di pericolosità a carico dei recidivi “qualificati” di cui all’art. 99 comma 4, c.p.; anche se la genericità della previsione contenuta nella delega non offre univoche indicazioni. Incidentalmente si osserva, peraltro, che una modifica della disciplina del regime applicabile ai recidivi in fase esecutiva dovrebbe essere accompagnata da una rimeditazione dell’istituto anche
sul versante sostanziale, restituendo al giudice della cognizione una maggiore discrezionalità nella determinazione del concreto trattamento sanzionatorio, in modo da adattare la pena applicata all’effettivo disvalore del singolo episodio criminoso.

Inoltre, nel corso degli anni, a partire dal D.L. n. 306/92, il legislatore penitenziario ha previsto, all’art. 4-bis, un articolato catalogo di reati per i quali sono previste significative limitazioni all’accesso dei benefici, in taluni casi (approssimativamente collocabili nell’ambito dei fenomeni di criminalità organizzata) subordinati alla prestazione di forme di collaborazione con la giustizia. Tale regime, il quale sostanzialmente codifica un doppio binario che percorre gran parte degli istituti del diritto penitenziario, è stato sottoposto, nel tempo, a critiche sempre più serrate da parte della cultura giuridica; ed anche la già citata Commissione mista aveva sottolineato, nel 2012, l’opportunità di un ripensamento che fosse in grado di raggiungere un nuovo equilibrio tra le scelte di politica criminale e penitenziaria e la sfera di discrezionalità giudiziale chiamata a coniugare le istanze di tutela della collettività con quelle di individualizzazione del trattamento, auspicando un complessivo riesame del sistema del ‘doppio binario’, restituendo alla magistratura di sorveglianza il compito di vagliare, in concreto, la posizione di tutti i soggetti in esecuzione penale, anche se appartenenti alle categorie più problematiche.

A seguito della modifica introdotta al testo della delega in occasione della seduta della Commissione giustizia della Camera del 24 luglio 2015, appare improbabile che l’art. 4-bis sia destinato ad una integrale abolizione, quanto piuttosto ad semplice ristrutturazione del catalogo dei reati-presupposto, il quale nel tempo ha assunto un carattere di spiccata eterogeneità, venendo a ricomprendere fattispecie che non presentano alcun collegamento con l’area della criminalità organizzata. In ogni caso, infatti, viene fatta salva la previsione di un regime speciale di maggiore rigore in relazione ai “casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale”.

Ciò premesso, non è facilmente prevedibile la concreta soluzione tecnica attraverso cui si intenda rimuovere gli automatismi preclusivi attualmente in essere, potendo astrattamente ipotizzarsi un superamento dei meccanismi ispirati a presunzioni assolute di persistenza della pericolosità sociale in assenza di collaborazione con la giustizia, per fare spazio a meccanismi fondati su presunzioni relative di persistente pericolosità, superabile con l’accertamento della rottura dei rapporti con il sodalizio criminale.

Tra le possibili novità sarebbe auspicabile che venga definitivamente superata la preclusione alla concessione della detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, comma 1-bis ord. penit. ai condannati per i reati di cui all’art. 4-bis ord. penit. (con l’ovvia esclusione di quelli di cui al comma 1, per i quali già vige il divieto di
concessione dei benefici ove non abbiano collaborato con la giustizia), considerato che ad essi è, invece, concedibile l’affidamento in prova, misura che presenta, sul piano degli spazi di libertà, una maggiore ampiezza ed estensione.

Sullo stesso versante potrebbe ipotizzarsi l’eliminazione del divieto di concessione della detenzione domiciliare per gli ultrasettantenni recidivi (art. 47-ter, comma 01, ord. penit.), la soppressione dell’art. 30-quater ord. penit. e dell’art. 47-ter, comma 9-bis, ord. penit. (secondo gli auspici della Commissione ministeriale presieduta dal prof. Giostra, istituita nel 2013 presso l’Ufficio legislatvo del Ministero della giustizia), nonché dell’art. 30-ter comma 5, ord. penit.

Tali novità vanno escluse con riguardo ai condannati per i delitti di cui al comma 1 dell’art. 4 bis O.P., norma quest’ultima a protezione di beni costituzionalmente rilevanti di altissimo pregio, nel nostro Paese sovente messi in pericolo dall’attività di potenti organizzazioni criminali nazionali e transnazionali, di stampo mafioso e terroristico.

Si potrebbe, semmai, convenire solo su una revisione in minima parte dell’elenco dei reati individuati al comma 1 dell’art. 4 bis O.P., senza toccare le fattispecie sintomatiche delle attività di pericolose organizzazioni criminali.

Infine, la delega sembra orientare verso l’eliminazione delle ipotesi di c.d. ergastolo “ostativo” che oggi obiettivamente pone, secondo le posizioni della più attenta dottrina, oggettivi problemi di compatibilità costituzionale, sancendo l’impossibilità di accesso a qualunque beneficio per coloro i quali, pur potendo a suo tempo collaborare con la giustizia, non lo abbiano volontariamente fatto. E’ noto, infatti, che la Corte costituzionale ha “salvato” l’istituto dell’ergastolo, sospettato di incompatibilità con i principi del finalismo rieducativo di cui all’art. 27, comma 3 Cost., proprio in quanto il sistema conosce la astratta possibilità che il condannato alla pena perpetua possa comunque accedere, alla fine di un articolato percorso, a misure di carattere extramurario (cfr. Corte Costituzionale, sent. n. 264 del 1974)[5].

Una soluzione tecnicamente percorribile al fine di contemperare opposte esigenze, tutte radicate nel testo costituzionale, potrebbe essere quella di prevedere, anche per i condannati per reati di cui alla cd. prima fascia dell’art. 4-bis, la possibilità di concedere la liberazione condizionale, oggi invece preclusa al pari di tutti gli altri benefici per coloro i quali non abbiano mai collaborato con la giustizia e si trovino, a volte a distanza di molti decenni, nella impossibilità di farlo. A meno che non si voglia percorrere la strada, più radicale, di una sostituzione del requisito della collaborazione
con la giustizia ai fini dell’accesso ai benefici penitenziari, con il raggiungimento della prova positiva della dissociazione del soggetto dall’organizzazione criminale (v. sul punto quanto proposto dalla Commissione ministeriale, presieduta dal Prof. Palazzo, istituita il 10 giugno 2013 per Elaborare proposte di interventi in tema di sistema sanzionatorio penale).

Nondimeno va segnalato che a seguito della modifica introdotta al testo della delega in occasione della seduta della Commissione giustizia della Camera del 24 luglio 2015, sembrerebbe che il legislatore non intenda rimuovere l’ergastolo ostativo in relazione ai “casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale”.
Sul punto si osserva come la locuzione adoperata, facendo riferimento ai concetti di “eccezionale gravità e pericolosità”, presenti un carattere di marcata elasticità, che rischia di affidare esclusivamente al Governo, in sede di attuazione della delega, la concreta determinazione delle fattispecie di reato ad essa pertinenti.

In ordine al c.d. “ergastolo ostativo”, ferma restando sul punto la genericità del d.d.l. in esame, si deve rimarcare che lo stesso non possa essere eliminato nei casi eccezionali in cui attualmente si realizza, nell’ottica di una razionale, effettiva e mirata strategia di contrasto alla criminalità organizzata (come più volte ribadito
dalla Corte Costituzionale e dalla C.E.D.U.).

“d) previsione di attività di giustizia riparativa e delle relative procedure, quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell’esecuzione delle misure alternative”;

Il nostro ordinamento è da tempo orientato verso l’implementazione di modalità alternative al paradigma carcerocentrico, secondo i canoni della cd. “giustizia riparativa”, presenti, sia pure in forma embrionale, già nella legge penitenziaria (cfr. l’art. 47, ord. penit., contenente la prescrizione di iniziative riparatorie da parte dell’affidato). Una prospettiva, questa, che appare complementare alla previsione di forme alternative di definizione della vicenda penale, che hanno da tempo fatto capolino nella nostra legislazione: si pensi, dopo l’introduzione di forme conciliative previste dalla giurisdizione del Giudice di pace, alla recente previsione dell’istituto della sospensione del processo con messa alla prova, mutuato dal processo penale minorile. In questo senso l’introduzione di meccanismi di Restorative Justice in fase esecutiva è coerente con la previsione dell’art. 1 del presente D.D.L., che prevede meccanismi estintivi del reato fin dalla fase della cognizione (v. supra).

La strada intrapresa risponde alla fondamentale esigenza di recuperare il ruolo della vittima,sia sul piano sostanziale che sul piano processuale, spesso del tutto marginale nel nostro sistema penale, ovviamente attraverso il ricorso ad idonei strumenti tecnico-professionali, atti ad evitare che la stessa possa sviluppare il rifiuto di un qualsivoglia contatto con l’autore; ed eventualmente con il coinvolgimento di enti istituzionali o associazioni in vista della realizzazione di forme di riparazione indiretta (opere di solidarietà sociale, lavori di pubblica utilità o forme di volontariato).

Va nondimeno scongiurato il rischio che tale paradigma possa caricarsi di valenze neo-retributive, ponendosi quale presupposto necessario per l’ammissione del condannato delle misure alternative, laddove appare preferibile che la giustizia riparativa costituisca una modalità di esplicazione del percorso rieducativo del condannato, quale momento qualificante del programma di trattamento predisposto in esito all’osservazione scientifica della personalità svolta in ambito intramurario.

In quest’ottica sarebbe auspicabile l’avvio della mediazione penale.
Tale istituto, infatti (sinora sperimentato solo per i minorenni e necessariamente gestito da personale altamente specializzato), pone, ove se ne realizzino le condizioni, il reo al cospetto della sua vittima, così rendendo possibile che, da una parte, il condannato prenda piena coscienza del male fatto con la sua condotta e inizi per questo un processo di profonda riflessione e, dall’altra, la persona offesa assuma un ruolo centrale nel processo rieducativo, così magari riuscendo anche a comprendere le ragioni per cui la giustizia non si soddisfa necessariamente attraverso l’espiazione della pena in carcere.

“e) maggiore valorizzazione del lavoro, in ogni sua forma intramuraria ed esterna, quale strumento di responsabilizzazione individuale e di reinserimento sociale dei condannati”[6];

Il lavoro carcerario, da elemento che connotava la pena in senso punitivo e di ulteriore afflizione, è ora diventato uno degli strumenti fondamentali del trattamento rieducativo dei detenuti, stimolando un positivo cambiamento nella loro vita e favorendone, per questa via, la risocializzazione (cfr. art. 15, ord. penit. e art. 20, comma 2, secondo cui esso non ha carattere afflittivo e non rappresenta, dunque, un inasprimento della pena).

Per tale motivo la legge penitenziaria stabilisce che negli istituti penitenziari deve essere favorita la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e alla loro partecipazione a corsi di formazione professionale. Al detenuto lavoratore sono riconosciuti diritti e tutele: (orario di lavoro giornaliero, riposo festivo, copertura assicurativa e previdenziale).

Al fine di favorire il lavoro carcerario, il legislatore italiano ha, nel tempo, introdotto numerose misure incentivanti, tra cui merita particolare menzione la cd. legge Smuraglia, che ha accordato particolari agevolazioni concesse a ditte esterne per l’organizzazione di attività lavorative all’interno delle carceri ovvero all’esterno a beneficio dei detenuti autorizzati al lavoro al di fuori del carcere.

L’ordinamento penitenziario, infatti, consente all’art. 21 la prestazione di attività a favore di imprese che operano al di fuori delle mura dell’istituto carcerario. Il contratto di lavoro è stipulato direttamente tra il detenuto e l’impresa esterna, che può essere sia pubblica che privata.

Nella pratica, peraltro, l’accesso al lavoro è garantito ad una bassissima percentuale di detenuti (anche nella forma del cd. lavoro di tipo domestico, prestato negli istituti penitenziari), attesa la scarsità delle risorse disponibili e la rigidità del sistema delle mercedi, agganciato alle previsioni del trattamento retributivo dei C.C.N.L..

A seguito della modifica introdotta al testo in occasione della seduta della Commissione giustizia della Camera del 24 luglio 2015 la delega è stata integrata dal riferimento al “potenziamento del ricorso al lavoro domestico” nonché “a quello con committenza esterna, aggiornando quanto il detenuto deve a titolo di mantenimento”.
Quest’ultima previsione fa propria la positiva sperimentazione svolta in altri contesti europei, ove viene effettuata la compensazione degli importi spettanti al detenuto a titolo di retribuzione con le spese di mantenimento in carcere gravanti sullo stesso, con salvezza dei contributi previdenziali.

Ulteriore possibilità estensiva dell’ambito di operatività della delega rimane quello di una valorizzazione, accanto all’attività lavorativa, di altre attività di valore morale o sociale corrispondenti alle inclinazioni ed alle attitudini del singolo detenuto, capaci di consentirgli una partecipazione al processo di crescita materiale o spirituale della società ed in ogni caso di consolidarne il percorso di responsabilizzazione.

La delega andrà coordinata con le disposizioni introdotte, anche recentemente, allo scopo di estendere il ricorso al lavoro all’interno delle carceri attraverso incentivi fiscali e previdenziali a favore delle imprese.

“f) previsione di un più ampio ricorso al volontariato sia all’interno del carcere, sia in collaborazione con gli Uffici di esecuzione penale esterna”[7];

Il volontariato penitenziario costituisce uno strumento fondamentale nel favorire i rapporti con la comunità esterna, che la legge n. 354 del 1975 individua quale un fondamentale strumento trattamentale del percorso rieducativo. L’art. 17, infatti, consente l’ingresso in carcere a tutti coloro che “avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera”.

Secondo l’art. 78 ord. penit., inoltre, il magistrato di sorveglianza può ai Provveditorati regionali dell’Amministrazione penitenziaria il nominativo di alcuni volontari al fine di coinvolgerli nelle attività trattamentali e risocializzanti in collaborazione con le figure istituzionali degli istituti penitenziari e degli uffici di esecuzione penale esterna (educatori, assistenti sociali, psicologi, polizia penitenziaria).

Tale disciplina è coerente con l’art. 62 delle regole penitenziarie europee che stabilisce di “ricorrere per quanto possibile, alla cooperazione di organizzazioni della comunità per aiutare il personale dello stabilimento nel recupero sociale dei detenuti”.

Il valore della presenza dei volontari nel circuito dell’esecuzione penale è stato riconosciuto anche recentemente dal D.L. n. 92/14, che all’art. 1 comma 2 prevede la possibilità di stipulare intese tra i Tribunali di sorveglianza, le Università, le associazioni e gli enti locali per il riconoscimento di borse di studio a giovani laureati, grazie alle quali consentire loro di lavorare nelle cancellerie degli uffici di sorveglianza.

“g) disciplina dell’utilizzo dei collegamenti audiovisivi sia a fini processuali, nel rispetto del diritto di difesa, sia per favorire le relazioni familiari”[8];

La delega prevede il ricorso ai collegamenti audiovisivi in relazione a due situazioni molto diverse: la prima costituita “dall’ambito processuale” e la seconda dalla necessità di “favorire le relazioni familiari”.

Mentre con riferimento a quest’ultima ipotesi non può che esprimersi una indicazione assolutamente favorevole, onde consentire, in specie con riferimento ai casi in cui i familiari del detenuto risiedano in luoghi distanti o addirittura all’estero, il mantenimento di adeguate relazioni, con riferimento al primo ambito, pur riconosciuta la compatibilità costituzionale (Corte cost. 342/1999) e convenzionale (Corte EDU, 5 ottobre 2006, Viola /c. Italia) dello strumento telematico, la scelta della delega si presta ad alcune considerazioni problematiche.

Benché la norma faccia riferimento all’utilizzazione di tali collegamenti “a fini processuali”, sembra comunque verosimile che l’ambito di applicazione sia, considerata la sedes materiae della disposizione, tendenzialmente quello dei procedimenti di competenza della magistratura di sorveglianza.

Tra questi è possibile articolare una distinzione fondamentale, a seconda che essa eserciti le sue tipiche attribuzioni di giurisdizione sulla fase esecutiva, ovvero quella di Organo giudiziario delegato allo svolgimento di atti afferenti ad un procedimento cautelare o di cognizione (cfr. art. 666, comma 4, c.p.p. relativo alla possibilità per il magistrato di sorveglianza di acquisire per rogatoria le dichiarazioni dell’interessato).

Mentre in quest’ultimo caso la misura proposta renderebbe inutile la stessa delega al magistrato di sorveglianza, atteso che le dichiarazioni potrebbero essere acquisite con il collegamento audiovisivo dallo stesso giudice che procede, nel caso dei procedimenti tipici di competenza della magistratura di sorveglianza occorre distinguere.

In tutti i casi in cui il giudizio abbia ad oggetto valutazioni personologiche che presuppongono un contatto diretto dell’interessato con il Tribunale, non a caso composto anche dai cd. “esperti” (psicologi, medici, criminologi), l’estensione della possibilità di svolgere i collegamenti audiovisivi si presenta come problematico.
Così come nella materia dei reclami giurisdizionali, che possono avere ad oggetto comportamenti dell’Amministrazione penitenziaria che ledono diritti fondamentali del detenuto ed in relazione ai quali è opportuno che il reclamante possa avere un contatto diretto con il proprio giudice.

Diverso è il caso in cui il thema decidendum abbia ad oggetto materie diverse da quelle implicanti valutazioni sulla persona (si pensi, a mero titolo esemplificativo, ai procedimenti in materia di remissioni del debito). In relazione a queste ipotesi, la modifica prospettata può essere valutata favorevolmente.

Va nondimeno riconosciuto che il ricorso ai collegamenti audiovisivi è certamente idoneo a garantire un contenimento dei rischi per la sicurezza e degli oneri economici connessi alle traduzioni dei detenuti.

“h) riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e delle condizioni generali di esercizio”[9];

La delega si esprime, in maniera generica, sul riconoscimento del diritto dei detenuti al mantenimento delle relazioni affettive. Si tratta, secondo quanto riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 301/2012, di un diritto fondamentale della persona che, in un contesto peculiare come quello detentivo, assume una precipua valenza trattamentale, coerentemente con la generale impostazione della legge penitenziaria, volta alla conservazione dei rapporti con la comunità esterna ed in particolare con la famiglia, assicurata, nel vigente ordinamento, dall’istituto dei colloqui  telefonici e visivi (cfr. art. 15 ord. penit., secondo cui “Il trattamento del condannato e dell’internato è svolto…omissis… agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia”), oltre che dall’istituto dei permessi premio, previsto dall’art. 30-ter della legge n. 354 del 1975, la cui fruizione – stanti i presupposti soggettivi ed oggettivi – resta però di fatto preclusa a larga parte della popolazione carceraria.

La vigente normativa penitenziaria, peraltro, non sembra consentire che tale diritto possa estrinsecarsi finanche attraverso l’effettuazione in istituto dei c.d. ‘colloqui intimi’. Ciò in quanto l’art. 18, comma 2, ord. penit., nel disciplinare i colloqui visivi, precisa che essi “si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia”. E’ infatti evidente che tale forma di controllo non è compatibile con un pieno esercizio delle relazioni affettive anche a carattere sessuale.

La delega sembra orientarsi, invece, per l’introduzione di una siffatta possibilità, nella prospettiva di allineare la nostra legislazione a quanto previsto dalla normativa penitenziaria di molti Paesi europei ed extraeuropei, ove vengono approntate idonee misure, anche di natura logistica e regolamentare, volte a consentire una più completa fruizione dei rapporti affettivi. Una soluzione, questa, che è inoltre coerente con la Raccomandazione n. 11/1/2006 del Consiglio d’Europa ove anzi si sottolinea l’opportunità che vengano consentite visite coniugali “di lunga durata”, onde consentire il mantenimento di relazioni complessive, sul presupposto che visite più brevi, e quindi finalizzate unicamente all’espletamento di pratiche di tipo sessuale, “possono avere un effetto umiliante per entrambi i partner” (v. regola 24 punto 4 e relativo commento in calce alla stessa).

Ovviamente, come già sottolineato dalla Corte Costituzionale nella sentenza citata, al fine di consentire l’esercizio di tale diritto fondamentale non appare sufficiente ipotizzare la mera eliminazione del controllo visivo, dovendo necessariamente addivenirsi ad una disciplina che stabilisca termini e modalità di esplicazione del diritto: in particolare individuandone i destinatari, definendo i presupposti per l’autorizzazione delle “visite intime”, fissandone il numero e la durata, determinando dunque le necessarie misure organizzative. Ciò che, in definitiva, postula un intervento legislativo[10] e non ha dunque consentito alla Corte Costituzionale di pervenire ad una modifica del quadro normativo vigente attraverso una propria pronuncia.

A seguito della modifica introdotta al testo in occasione della seduta della Commissione giustizia della Camera del 24 luglio 2015 è stata opportunamente prevista l’estensione del riconoscimento del diritto alla affettività anche alle persone internate.

“i) adeguamento delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze rieducative dei detenuti minori di età”[11].

L’articolo 79 dell’ordinamento Penitenziario disciplina in modo transitorio l’applicazione delle regole penitenziarie per gli adulti ai minori in attesa di una legge organica che non è mai stata approvata.

La notevole genericità della formulazione originaria del testo è stata colmata in occasione della seduta della Commissione giustizia della Camera del 24 luglio 2015, nel corso della quale la norma è stata integrata in maniera assai articolata.

Principi cardine sono il mantenimento di una giurisdizione  specializzata affidata al tribunale per i minorenni e la estensione della disciplina prevista per i minorenni anche ai detenuti giovani adulti (in linea con la previsione dell’art. 5 del D.L. n. 92/14 conv. in L. 117/14[12], che ha modificato l’art. 24 del D.Lgs. n. 272/1989),
in modo da garantire “i processi educativi in atto” e, dunque, la continuità dell’azione trattamentale già avviata.

Sul versante penitenziario è prevista l’introduzione di disposizioni riguardanti l’organizzazione penitenziaria degli istituti penali per minorenni nell’ottica della socializzazione, della responsabilizzazione e della promozione della persona, con un rafforzamento dell’istruzione e della formazione professionale quali elementi centrali del trattamento dei detenuti minorenni; e, soprattutto, con un rafforzamento dei contatti con il mondo esterno quale criterio guida nell’attività trattamentale in funzione del reinserimento sociale. In tale prospettiva viene fortemente sottolineato il ruolo strategico delle misure alternative alla detenzione, le quali non potranno essere ostacolate da meccanismi preclusivi, dovranno essere “conformi alle istanze educative del condannato minorenne”, e non potranno essere revocate automaticamente se ciò possa configgere con la particolare funzione educativa e con il principio dell’individualizzazione del trattamento.

Gli emendamenti approvati al d.d.l. in Commissione Giustizia alla Camera.

Nella seduta del 24 luglio scorso della Commissione Giustizia alla Camera, il testo del d.d.l. è stato emendato. Ac anto alla interpolazione di alcuni tra i criteri di delega già analizzati (v. supra), sono stati inseriti dei nuovi criteri, che di seguito si riportano.

c) revisione della disciplina concernente le procedure di accesso alle misure alternative, prevedendo che il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione sia fissato in ogni caso a quattro anni e che il procedimento di sorveglianza garantisca il diritto alla presenza dell’interessato e la pubblicità dell’udienza;

Il legislatore delegante ha inteso, innanzitutto, stabilire la regola generale per la quale l’ordine di carcerazione di una pena detentiva, anche residua, non superiore ai quattro anni debba essere sospeso dal pubblico ministero (secondo la disciplina dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen.), in modo da consentire al condannato di chiedere, da libero, la concessione di una misura alternativa alla detenzione.
Considerato, peraltro, che la misura di più frequente applicazione, l’affidamento in prova al servizio sociale, può essere accordata, di regola, in relazione alle pene non superiori ai tre anni, la modifica in esame potrebbe preludere ad un mutamento dei presupposti di applicazione delle misure alternative, coerentemente con la previsione di cui alla lettera b).

Non si condivide la delega, nella parte in cui intende rendere pubblica l’udienza nel procedimento di sorveglianza.

Si tratta, infatti, di un procedimento che, siccome incentrato a studiare la personalità del condannato, le sue risorse personali e familiari, comporta l’esposizione di circostanze concernenti la vita non solo del soggetto da giudicare, ma anche dei suoi familiari, spesso con il racconto di fatti estremamente delicati e intimi.

La pubblicità generalizzata dell’udienza renderebbe, quindi, tutti gli indicati contenuti, chiaramente sensibili, conoscibili a tutti, con grave lesione della privacy del condannato ed anche di terze persone.

Peraltro, il diritto del condannato a chiedere che l’udienza si svolga in forma pubblica è già stato garantito dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 97/2015.

Il sistema, quindi, è auspicabile rimanga quello attuale, che bilancia il diritto alla privacy con quello di difesa, ossia udienza in camera di consiglio con possibilità del condannato di accedere su richiesta alla pubblicità dell’udienza

d) previsione di una necessaria osservazione scientifica della personalità da condurre in libertà, stabilendone tempi, modalità e soggetti chiamati a intervenire; integrazione delle previsioni sugli interventi degli uffici dell’esecuzione penale esterna; previsione di misure per rendere più efficace il sistema dei controlli, anche mediante il coinvolgimento della polizia penitenziaria;

Il principio contenuto alla lettera d) è pienamente condivisibile. Occorre, però, evidenziare, per quanto riguarda gli Uffici Esecuzione Penale Esterna, che tutto quanto previsto nella delega nel suo nucleo essenziale già esiste nel nostro ordinamento. La ragione per la quale un’osservazione scientifica della personalità da condurre in libertà è a volte impossibile non nasce da una carenza normativa, ma dalla drammatica scopertura su tutto il territorio nazionale degli Uffici in questione, che sono letteralmente al collasso, anche perché gravati da sempre maggiori compiti (si pensi all’istituto di recente introduzione della messa alla prova nel processo di cognizione). Tutto questo comporta che i Tribunali di Sorveglianza o debbano fare a meno della relazione del servizio sociale, ove questo sia accettabile ad esempio per la scarsa caratura criminale di chi devono giudicare, o debbano più volte rinviare le procedure della libertà in attesa della relazione in questione. Peraltro, posto che la relazione degli Uffici Esecuzione Penale Esterna è necessaria anche per stilare la relazione di sintesi all’esito dell’osservazione scientifica della personalità in carcere, i Tribunali di Sorveglianza si vedono a volte costretti a rinviare anche le procedure concernenti i detenuti.

E’ necessaria, quindi, una seria volontà politica di porre gli Uffici in questione in grado di lavorare, dotandoli di risorse umane e materiali, eventualmente anche attraverso un intervento ad hoc del legislatore che stanzi a tal fine le risorse finanziarie necessarie, essendo il d.d.l. in esame munito di una clausola di invarianza finanziaria che risulta in proposito inadeguata rispetto alle finalità che si vogliono perseguire.

l) revisione delle disposizioni dell’ordinamento penitenziario alla luce del riordino della medicina penitenziaria disposto dal decreto legislativo 22 giugno 1999, n. 230;

Il nuovo principio di delega, da apprezzarsi favorevolmente, rinvia ad una complessiva revisione delle norme dell’ordinamento Penitenziario e del regolamento di esecuzione relative all’assistenza sanitaria, in modo da adeguarle all’avvenuto passaggio delle competenze al Servizio Sanitario Nazionale. In tale contesto, sarebbe opportuno rimarcare il principio della separazione delle funzioni di sicurezza da quelle sanitarie.

n) previsione di norme che considerino i diritti e i bisogni sociali, culturali, linguistici, sanitari, affettivi e religiosi specifici delle persone detenute straniere.

La nuova previsione di delega prende atto del tumultuoso incremento della popolazione detentiva straniera nelle carceri italiane, ormai stabilmente assestata oltre il 30%. Il legislatore, dunque, sembra farsi carico, opportunamente, della Raccomandazione n. 12 del 2012 del Consiglio d’Europa, attraverso l’introduzione di una norma ad hoc che ne specifichi bisogni e diritti, ponendo le condizioni, attraverso la previsione di equipes multiculturali ed un accesso reale alle informazioni su diritti e doveri nel contesto penitenziario, per l’attuazione, anche in questo ambito, del principio di uguaglianza posto dall’art. 3, comma 2, della Costituzione.

III. Alcune ulteriori proposte.

Nel complesso l’iniziativa riformatrice, come anticipato, va accolta con sicuro favore; e tuttavia va altresì riconosciuta l’esistenza di un margine non esiguo di ulteriore miglioramento dei suoi contenuti.

Prescindendo da un’analisi più ampia sull’ormai indifferibile esigenza di una riforma del codice penale del 1930, finalizzata da un lato a ridefinire l’area della penalità in termini di reale offesa di beni costituzionalmente protetti e, dall’altro lato, a superare definitivamente la centralità del carcere a favore delle “pene di comunità”, andrebbe innanzitutto re-impostato il sistema dell’esecuzione penale, nel senso di assicurare che il ricorso alla pena detentiva debba (rectius possa) avvenire nell’effettivo rispetto dei principi di umanità e dignità (cfr. la sentenza n. 26 del 1999 della Corte Costituzionale, secondo cui il detenuto è titolare di tutti i diritti compatibili con il suo stato di detenzione).

Andrebbero, quindi, introdotte norme in grado di riscrivere la quotidianità della vita in carcere non più come passiva e rassegnata attesa di un tempo (in)definito da trascorrere nell’ozio, quanto piuttosto come reale opportunità di un processo di responsabilizzazione e di reinserimento; processo che dovrebbe essere connotato dalla effettiva presenza di attività di lavoro e di studio (da implementare anche grazie alle opportunità delle nuove tecnologie), da maggiori contatti con il mondo esterno, attraverso colloqui in orari accessibili alle famiglie (anche in videoconferenza, specie per gli stranieri) e comunicazioni telefoniche più frequenti e fruibili, da una socialità, nei reparti detentivi, che dovrebbe essere garantita per un numero di ore corrispondenti quantomeno a quelle notturne: il tutto nel contesto di un modello organizzativo interno agli istituti penitenziari definitivamente ispirato alla cd. “sorveglianza dinamica”. Le norme in materia di lavoro andrebbero poi riscritte in modo da assicurare che esso possa essere, oltre che una fonte di reddito equamente garantito, una reale opportunità di qualificazione professionale e di reinserimento sociale, sottratta ad una logica premiale e a modalità di selezione talvolta poco trasparenti. Opportuna, in tale prospettiva, sarebbe la previsione normativa dell’obbligo di affidare ai detenuti taluni servizi che attualmente l’amministrazione penitenziaria è solita a soggetti esterni (es. servizi di pulizia dei locali, di giardinaggio e di manutenzione ordinaria). L’istruzione va ricondotta al suo ambito proprio: non un elemento del trattamento ma un diritto fondamentale, che deve essere garantito dalla presenza, in ogni istituto, di corsi scolastici di primo e secondo grado; e in ogni regione, di un polo universitario, con possibilità di seguire a distanza le lezioni e di tenere gli esami. Analogo discorso va poi fatto per i diritti religiosi, anch’essi oggi considerati, anacronisticamente, come parte del trattamento e non come diritti che dovrebbero essere garantiti a tutti i detenuti, senza differenze a seconda dei luoghi di detenzione.
Quanto al nuovo ordinamento penitenziario per i minori, esso andrà costruito in maniera da corrispondere alle specificità dei bisogni affettivi, educativi, formativi dei ragazzi; ed andrà concretamente implementato in istituti che, sul piano edilizio, abbiano caratteri di più accentuata apertura rispetto al modello attuale ed al cui interno operino figure qualificate ed esperte.

Ulteriore ambito di intervento potrebbe essere quello delle sanzioni disciplinari, le quali dovrebbero costituire l’extrema ratio a disposizione delle autorità penitenziarie e nei soli casi di minaccia alla sicurezza interna, secondo quanto previsto alla Regola 56 delle Regole Penitenziarie Europee. Considerato che esse incidono sulla possibilità di accesso ai permessi premio ed alla liberazione anticipata, sarebbe poi opportuno uno sforzo di maggiore tipizzazione delle relative fattispecie.

Con specifico riferimento alle misure alternative, sarebbe utile prevedere che all’esito positivo della misura corrisponda la revoca automatica di eventuali misure di sicurezza in precedenza applicate, secondo il principio generale previsto dall’art. 210, comma 2, c.p.; che il meccanismo di applicazione provvisoria della detenzione domiciliare da parte del Magistrato di Sorveglianza venga esteso anche
agli istituti previsti dagli artt. 47-quater e 47-quinquies ord. penit.; che sia eliminata dai requisiti di ammissibilità della domanda di affidamento in casi particolari l’allegazione del programma terapeutico; che sia superato il divieto di reiterata concessione della sospensione della pena ex art. 90 d.p.r. n. 309/1990, in linea con l’abrogazione del comma 5 dell’art. 94, operato dalla legge n. 10/2014, in materia di affidamento terapeutico; che vengano introdotte misure specifiche di esecuzione penale esterna in favore dei condannati per i quali sia sopravvenuta un’infermità psichica, ai sensi dell’art. 148 c.p. (nonché per i condannati a pena diminuita per infermità di mente) e che si estenda ai casi di infermità psichica l’istituto del differimento della pena di cui all’art. 147 c.p..

Inoltre, le numerose criticità che hanno caratterizzato, sul piano applicativo, l’ingresso dell’istituto dei “rimedi risarcitori” di cui all’art. 35-ter ord.penit., introdotto dal d.l. n. 92/2014 (quali, in particolare, il controverso significato della “attualità del pregiudizio”, la fruibilità del rimedio da parte dei condannati all’ergastolo, degli internati e dei condannati successivamente ammessi a misure alternative alla detenzione o al differimento della pena), renderebbero opportuno un intervento normativo chiarificatore.

Da ultimo, va evidenziata la necessità che il legislatore preveda un trattamento personalizzato anche per chi è detenuto in custodia cautelare in carcere.

Non vi è dubbio che si tratti di una “riforma di sistema”, anche perché il trattamento ha una funzione rieducativa, non esercitabile nei confronti di chi non è stato condannato in via definitiva.

Non di meno, però, risulta urgente una riflessione, in ragione della presenza di numerosi imputati in attesa di giudizio, anche per periodi consistenti, che richiedono un trattamento personalizzato non in funzione rieducativa, ma a tutela della dignità della persona, valore costituzionalmente imprescindibile, non legato alla definitività della condanna.

In conclusione: codificazione per legge dei circuiti penitenziari e previsione di un effettivo controllo giurisdizionale, sia al momento dell’inserimento del detenuto, sia in quello della eventuale declassificazione; ripensamento del sistema organizzativo degli Uffici di esecuzione penale esterna e rivitalizzazione del ruolo di coordinamento con le realtà sociali ed istituzionali territorio dei Consigli di aiuto sociale per l’assistenza penitenziaria e post-penitenziaria previsti dall’art. 75 ord. penit.; rafforzamento degli organici della magistratura di sorveglianza (oggi viepiù
impegnata dalla piena giurisdizionalizzazione delle procedure di tutela dei diritti) e del personale penitenziario (in specie direttori e funzionari pedagogico-giuridici) e dell’esecuzione penale esterna, negli anni non adeguatamente rafforzato ed anzi spesso interessato dai “tagli” conseguenti agli interventi di risanamento della spesa pubblica e, più in generale, revisione degli ordinamenti professionali del personale penitenziario, con l’introduzione di nuove qualifiche professionali; adozione di misure dirette a garantire che l’esecuzione della custodia cautelare abbia luogo in strutture realmente distinte dalle strutture penitenziarie: sono tutti ambiti ulteriori di un possibile intervento normativo, su cui è opportuno che il legislatore, in futuro, avvii una consapevole riflessione”.




[1] Né va dimenticata la delibera del 27 luglio 2006 con cui il C.S.M. ha approvato la relazione finale della Commissione di studio sulla pena e le sue alternative, istituita con delibera del 6 luglio 2005, che muovendo dalla ricognizione della situazione carceraria, anche all’epoca caratterizzata dal sovraffollamento e dalla presenza di detenuti non facilmente collocabili all’interno di percorso riabilitativi (in primis stranieri e tossicodipendenti), e constatando una situazione di sofferenza della magistratura di sorveglianza, sul piano organizzativo e degli organici del personale di magistratura ed amministrativo, formulò articolate proposte in materia di organizzazione degli uffici e di formazione.

[2] Tale disposizione che prevede che i decreti siano adottati dal Ministro della Giustizia entro il termine di un anno dall’entrata in vigore della legge-delega, previa acquisizione dei pareri delle competenti Commissioni parlamentari, da rendersi nei termini ivi indicati.

[3] Di seguito il testo approvato in Commissione giustizia della Camera nella seduta del 24 luglio 2015 (in neretto le modifiche): b) revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse, salvo i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale;

[4] Di seguito il testo approvato in Commissione giustizia della Camera nella seduta del 24 luglio 2015 (in neretto le modifiche): c) eliminazione di automatismi e preclusioni che impediscono o rendono molto difficile, sia per i recidivi che per gli autori di determinate categorie di reati, l’individualizzazione del trattamento rieducativo e revisione della disciplina di preclusione ai benefici penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo, salvo i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale;

[5] Né va dimenticato, al riguardo, come la Corte europea dei diritti umani abbia affermato che l’ergastolo viola i diritti umani quando la possibilità di misure esterne al carcere sia espressamente esclusa o quando non sia previsto nell’ordinamento che, non oltre i 25 anni di detenzione, il condannato possa chiedere una revisione della sentenza o un alleggerimento di pena (cfr. CEDU, sent. 9 luglio 2013, n. 3896, Vinter e a. c. Regno Unito, ric. n. 66069/09, 130/10 e 3896/10).

[6] Di seguito il testo approvato in Commissione giustizia della Camera nella seduta del 24 luglio 2015 (in neretto le modifiche): g) maggiore valorizzazione del lavoro, in ogni sua forma intramuraria ed esterna, quale strumento di responsabilizzazione individuale e di reinserimento sociale dei condannati, anche attraverso il potenziamento del ricorso al lavoro domestico e a quello con committenza esterna, aggiornando quanto il detenuto deve a titolo di mantenimento;

[7] Di seguito il testo approvato in Commissione giustizia della Camera nella seduta del 24 luglio 2015 (in neretto le modifiche): h) previsione di una maggior valorizzazione del volontariato sia all’interno del carcere, sia in collaborazione con gli uffici di esecuzione penale esterna;

[8] Di seguito il testo approvato in Commissione giustizia della Camera nella seduta del 24 luglio 2015 (in neretto le modifiche): i) disciplina dell’utilizzo dei collegamenti audiovisivi sia a fini processuali, con modalità che garantiscano il rispetto del diritto di difesa, sia per favorire le relazioni familiari;

[9] Di seguito il testo approvato in Commissione giustizia della Camera nella seduta del 24 luglio 2015 (in neretto le modifiche): m) riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e internate e disciplina delle condizioni generali per il suo esercizio;

[10] Giova ricordare che la possibilità di esercitare, per i detenuti, il diritto all’affettività con il partner è stata prevista da numerose proposte di legge (dapprima su iniziativa del deputato Folena, in data 13 giugno 1996, poi dell’on. Pisapia, presentata il 28 febbraio 1997 ed infine, con la proposta n. 3020 del 12 luglio 2002 su iniziativa dei deputati Boato e Ruggeri).

[11] Di seguito il testo approvato in Commissione giustizia della Camera nella seduta del 24 luglio 2015 (in neretto le modifiche): o) adeguamento delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze educative dei detenuti minori di età secondo i seguenti criteri direttivi: 1) giurisdizione specializzata e affidata al tribunale per i minorenni, fatte salve le disposizioni riguardanti l’incompatibilità del giudice di sorveglianza che abbia svolto funzioni giudicanti nella fase di cognizione; 2) previsione di disposizioni riguardanti l’organizzazione penitenziaria degli istituti penali per minorenni nell’ottica della socializzazione, della responsabilizzazione e della promozione della persona; 3) previsione dell’applicabilità della disciplina prevista per i minorenni quantomeno ai detenuti giovani adulti, nel rispetto dei processi educativi in atto; 4) previsione di misure alternative alla detenzione conformi alle istanze educative del condannato minorenne; 5) ampliamento dei criteri per l’accesso alle misure alternative alla detenzione; 6) eliminazione di ogni automatismo e preclusione per la revoca o per la concessione dei benefìci penitenziari, in contrasto con la funzione rieducativa della pena e con il principio dell’individuazione del trattamento; 7) rafforzamento dell’istruzione e della formazione professionale quali elementi centrali del trattamento dei detenuti minorenni; 8) rafforzamento dei contatti con il mondo esterno quale criterio guida nell’attività trattamentale in funzione del reinserimento sociale.

[12] Tale norma, infatti, al fine di consentire il completamento di percorsi rieducativi modulati sulle specifiche esigenze di tale categoria di condannati ha, infatti, stabilito che le misure cautelari, le misure alternative, le sanzioni sostitutive, le pene detentive e le misure di sicurezza si eseguano, secondo le norme e con le modalità previste per i minorenni, anche nei confronti di coloro che nel corso dell’esecuzione abbiano compiuto il diciottesimo ma non il 25° anno di età, sempre che, per quanti abbiano già compiuto il ventunesimo anno, non ricorrano particolari ragioni di sicurezza valutate dal giudice competente, tenuto conto altresì delle finalità rieducative.

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a cura di Pietro Molino, Luigi Barone, Alessandro D’Andrea, Maria Emanuela Guerra

C O R T E   D I   C A S S A Z I O N E

UFFICIO DEL MASSIMARIO

Settore penale

Rel. n. III/01//2016                                                             Roma, 2 febbraio 2016

Novità legislative: Decreto Legislativo 15 Gennaio 2016, N. 7; Decreto Legislativo 15 Gennaio 2016, N. 8 (in G.U. n.17 del 22 gennaio 2016, entrata in vigore 6 febbraio 2016) 

Rif. Norm.:

Decreto Legislativo 15 Gennaio 2016, N. 7 

Decreto Legislativo 15 Gennaio 2016, N. 8

Legge 24 novembre 1981, n. 689

Gli interventi di depenalizzazione e di abolitio criminis del 2016: una prima lettura.

Sommario: 1. Introduzione. – 2. L’intervento di depenalizzazione (D. Lgs. n. 8 del 2016).- 3. La depenalizzazione “cieca”. – 3.1. L’esclusione dei reati del codice penale.- 3.2. L’intervento sulle fattispecie aggravate. – 3.3. La disciplina delle fattispecie aggravate dalla ripetizione dell’illecito amministrativo. – 3.4. Le tre fasce edittali di sanzioni amministrative pecuniarie. – 4. La depenalizzazione “nominativa”. – 4.1. Le tre fasce di sanzioni amministrative e le eccezioni. – 5. I casi di mancato esercizio della delega. 6.  Le sanzioni accessorie. – 7. Profili procedimentali dei nuovi illeciti. – 8. Profili di diritto intertemporale. – 9. Il rapporto tra depenalizzazione, illecito amministrativo e tenuità del fatto. 10. L’intervento di abrogazione (D. Lgs. n. 7 del 2016). – 10.1. L’abrogazione degli artt. 485 e 486 cod. pen. – 10.2. L’abrogazione dell’ingiuria. – 10.3. L’abrogazione degli artt. 627 e 647 cod. pen.. – 10.4. La “riscrittura” del reato di danneggiamento. – 11. Le sanzioni pecuniarie civili. – 11.1. (segue) La disciplina.

1. Introduzione.

Con i decreti legislativi nn. 7 e 8 del 15 gennaio 2016 viene data esecuzione all’art. 2 della legge 28 aprile 2014, n. 67, che ha conferito delega al Governo per la “Riforma della disciplina sanzionatoria” di reati; nel comma 2 e nel comma 3, lettera b), dell’art. 2 della legge delega sono contenuti i criteri e i principi direttivi per la trasformazione di reati in illeciti amministrativi, mentre le restanti disposizioni del comma 3 contengono criteri e principi direttivi per l’abrogazione di alcuni reati, con contestuale previsione, per i fatti corrispondenti, di sanzioni pecuniarie civili aggiuntive rispetto al risarcimento del danno.

Come evidenziato nelle relazioni governative di accompagnamento agli schemi dei due decreti, con questi interventi il legislatore intende dare concretezza ad una scelta politica volta a deflazionare il sistema penale, sostanziale e processuale, in ossequio ai principi di frammentarietà, offensività e sussidiarietà della sanzione criminale: l’idea condivisa è che una penalizzazione generalizzata, seppure formalmente rispondente a intenti di maggiore repressività, si risolve di fatto in un abbassamento della tutela degli interessi coinvolti, nella misura in cui la macchina repressiva penale non è (e non può essere) calibrata per sanzionare un numero elevato di fatti, specie quando questi siano minori per grado di offensività.

Il primo strumento utilizzato è quello della depenalizzazione, cioè della trasformazione di taluni reati in illeciti amministrativi: l’affidamento all’autorità amministrativa dell’intervento punitivo per condotte di ridotta gravità rappresenta – nel pensiero del legislatore – la soluzione privilegiata, perché evita le inefficienze e le storture cui inevitabilmente va incontro il sistema penale quando il carico degli affari diventa numericamente eccessivo. Attraverso la riduzione del catalogo dei reati, inoltre, si intende combattere l’effetto di disorientamento che l’eccesso di prescrizioni provoca nei consociati, riducendo il rischio che l’incorrere nella commissione di un reato finisca col dipendere sempre più dal caso, con quanto ne consegue in termini di perdita di legittimazione dell’intervento punitivo.

Nella stessa ottica si pone, quale seconda modalità di intervento, la scelta di abrogare alcuni reati previsti da disposizioni del codice penale, con contemporanea sottoposizione dei corrispondenti fatti a “sanzioni pecuniarie civili” che si aggiungono al risarcimento del danno.

Con i limiti e le approssimazione di una prima lettura, la presente relazione intende offrire un rapido inquadramento delle linee portanti del duplice intervento normativo, tentando di indicare le possibili problematiche interpretative.

2. L’intervento di depenalizzazione (D. Lgs. n. 8 del 2016).

L’ambito applicativo della depenalizzazione è individuato dalla legge delega in base a due diversi criteri di selezione: uno di carattere formale, legato al tipo di trattamento sanzionatorio; l’altro di carattere sostanziale, dipendente dal riconoscimento che determinati comportamenti, pur mantenendo il carattere illecito, non sono più tuttavia ritenuti meritevoli di pena, potendo essere sanzionati in via amministrativa.

Il primo criterio è esplicitato nella lettera a) del comma 2 dell’articolo 2 della legge delega che, riferendosi a <<tutti i reati per i quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda>>, costituisce una clausola generale di depenalizzazione cd. “cieca”: il decreto legislativo n. 8/2016 dà attuazione al criterio attraverso l’art. 1, comma 1, che prevede, appunto, che <<Non costituiscono reato e sono soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro tutte le violazioni per le quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda>>.

Il secondo criterio, contenuto nelle lettere b), c) e d) del comma 2 dell’articolo 2 della delega, opera invece una depenalizzazione cd. “nominativa”, indicando specificamente le fattispecie su cui intervenire: il decreto legislativo in commento attua tale previsione attraverso gli artt. 2 (Depenalizzazione dei reati del codice penale) e 3 (Altri casi di depenalizzazione).  

3. La depenalizzazione “cieca”.

La clausola generale di depenalizzazione “cieca” – già in passato[1] utilizzata dal legislatore  – incontra limiti ulteriori rispetto a quello costituito dal tipo di pena.

In particolare, il decreto – recependo le indicazioni della legge delega, che aveva (lettera adel comma 2 dell’art. 2) già individuato una lunga serie di materie[2] escluse dalla depenalizzazione, in considerazione dell’importanza dei beni giuridici tutelati – ha proceduto all’individuazione delle leggi disciplinanti quelle materie, raggruppandole nell’elenco allegato al decreto. Seguendo, poi, una tecnica legislativa già adoperata nel decreto legislativo n. 507/1999, in presenza di corpi normativi dal contenuto eterogeneo, quindi concernente solo in parte una materia esclusa, il legislatore delegato ha provveduto a precisare singolarmente le disposizioni di quella legge sottratte alla depenalizzazione: tale criterio potrebbe peraltro ingenerare qualche problema interpretativo, laddove si dovessero rinvenire fattispecie di reato rientranti nelle materie “eccettuate” ma non ricomprese, per effetto di imprecisione legislativa, nei testi normativi richiamati nell’elenco.    

Al contrario, la netta formulazione della clausola generale di depenalizzazione ha impedito al Governo di operare mediante la previa individuazione specifica, una per una, delle fattispecie destinate ad essere colpite dalla degradazione in illecito amministrativo, individuazione che viene dunque rimessa all’operazione ermeneutica dell’interprete.

3.1. L’esclusione dei reati del codice penale.

Ai sensi del comma 3 dell’art. 1 del decreto delegato, la depenalizzazione generale di cui al comma 1 non si applica ai reati previsti dal codice penale.

La disposizione non trova immediato riscontro nella legge delega, nella quale la clausola generale di depenalizzazione sembra fare indistinto riferimento a “tutti” i reati puniti con sola pena pecuniaria, senza distinzione fra fattispecie contemplate nel codice penale e ipotesi previste dalle leggi penali speciali.

I motivi di tale scelta sono esplicitati nella relazione governativa, dove si afferma che a favore della esclusione milita un duplice ordine di argomenti.

In primo luogo, si evidenzia che nel momento in cui lo stesso legislatore delegante, nel dettare alla lettera b) del comma 2 le direttive specifiche relative al codice penale, ha inserito nell’elenco dei reati da depenalizzare anche talune fattispecie codicistiche punite con la sola pena pecuniaria (segnatamente, gli artt. 659, comma 2[3] e 726[4]), ciò sta a significare che la clausola generale non è da ritenere operativa nei confronti del codice, poiché in caso contrario – in presenza, cioè, di una depenalizzazione dei reati codicistici puniti con sola pena pecuniaria – non avrebbe avuto alcun senso l’inserimento di tali ipotesi contravvenzionali tra quelle da depenalizzare.

Per altro verso, si sottolinea che, se la clausola generale di depenalizzazione operasse nei confronti del codice, si produrrebbero risultati vistosamente asistematici, in quanto <<…l’effetto depenalizzante andrebbe a colpire fattispecie delittuose, bensì sanzionate con la sola multa, ma facenti parte di complessi normativi organicamente deputati alla tutela di beni molto significativi, come ad esempio l’amministrazione della giustizia; mentre alcune fattispecie contravvenzionali sicuramente meno significative non sarebbero depenalizzate in quanto rientranti nelle materie escluse, come ad esempio quelle previste dagli artt. 727-bis, comma 2, e 703, comma 1, cod. pen…>>.

Le ragioni indicate dal legislatore delegato a sostegno della operata esclusione dei reati codicistici, pur a fronte di alcune obiezioni sollevate nei primi commenti[5], non paiono in ogni caso rappresentare – su un piano meramente formale – un travalicamento dei poteri conferiti dal Parlamento, alla luce del constante insegnamento del giudice delle leggi[6] in ordine alla possibilità, nelle situazioni (quale quella in esame) di scarsa chiarezza del legislatore delegante, di individuareper relationem i principi ed i criteri direttivi non espressamente indicati nella delega: la Corte costituzionale ha sempre affermato[7], infatti, che l’indicazione dei principi e dei criteri direttivi di cui all’art. 76 della Carta non elimina ogni discrezionalità nell’esercizio della delega, ma la circoscrive, in modo che resti salvo il potere di valutare le specifiche e complesse situazioni da disciplinare[8]; peraltro, già nella sentenza n. 158 del 1985, la Corte costituzionale aveva chiarito che <<le direttive, i principi ed i criteri servono, per un verso, a circoscrivere il campo della delega, sì da evitare che essa venga esercitata in modo divergente dalle finalità che l’hanno determinata, per un altro, devono, però, consentire al potere delegato la possibilità di valutare le particolari situazioni giuridiche da regolamentare>>.

3.2. L’intervento sulle fattispecie aggravate.

Affrontando il problema dei reati puniti nella fattispecie base con la sola pena pecuniaria, la cui ipotesi aggravata è però sanzionata con pena detentiva – sola, alternativa o congiunta a quella pecuniaria – il legislatore delegato, nell’intento di attribuire il massimo ambito applicativo alla clausola generale, ed in assenza di limitazioni previste in tal senso dalla legge delega[9], ha scelto (articolo 1) di mantenere la previsione di depenalizzazione per le fattispecie base, precisando che, in questo caso, le ipotesi aggravate sono da ritenersi fattispecie autonome, in ragione del venir meno della natura penale di quella base.

Come sottolineato dallo stesso Presidente della Commissione ministeriale incaricata della redazione degli schemi di decreti delegati[10], la trasformazione in fattispecie autonome risponde alla evidente necessità di eliminare ogni incertezza sulla sorte delle fattispecie aggravate, potendo altrimenti ritenersene – con gravi ed intollerabili conseguenze sul piano della certezza del diritto – sia la caducazione per effetto del venir meno dell’illecito penale di base, sia, all’opposto, la loro sopravvivenza, in tal caso facendo dipendere il confine fra illecito amministrativo e reato dall’esito del giudizio di bilanciamento; un giudizio che, invece, d’ora in avanti non è più suscettibile, in caso di riconosciuta presenza e prevalenza delle attenuanti, di ricondurre la risposta punitiva sul piano della mera sanzione pecuniaria.

Nonostante l’assenza di una indicazione specifica nel testo della legge n. 67 del 2014, anche in questa occasione la scelta adottata dal decreto non sembra – ad una prima cauta analisi – oltrepassare, sul piano formale, i principi ed i criteri direttivi della delega, che devono comunque consentire al potere delegato di valutare le particolari situazioni giuridiche da regolamentare nella fisiologica attività di “riempimento” che lega i due livelli normativi; al riguardo, può essere utile richiamare l’insegnamento della Corte costituzionale[11], per il quale la delega legislativa non elimina ogni discrezionalità del legislatore delegato (i cui margini risultano più o meno ampi a seconda del grado di specificità dei principi e criteri direttivi fissati dal legislatore delegante): di modo che per valutare, di volta in volta, se il legislatore delegato abbia ecceduto tali margini, occorre individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia ad essa rispondente, nella misura in cui il controllo di costituzionalità riguarda le difformità della norma delegata rispetto a quella delegante e non le scelte del legislatore che investono il merito della legge delegata.

Una volta risolta, per effetto della espressa qualificazione normativa, la questione della natura delle “nuove” fattispecie, il passaggio da elemento circostanziale ad elemento costitutivo del reato è suscettibile di incidere, quanto meno sul piano teorico e fatta salva la verifica delle effettive ricadute sulle fattispecie concretamente interessate:

–                   sul regime di imputazione, passando da quello stabilito dall’art. 59 commi 1 e 2 cod. pen. (tendenziale necessità almeno della colpa, se si tratta di aggravanti; tendenziale sufficienza della loro oggettiva presenza, se si tratta di attenuanti), a quello risultante dall’art. 42 comma 2 cod. pen. (per i quali è di regola necessario il dolo, salva espressa previsione della colpa);

–                   sul luogo e sul tempo del reato, e dunque sulla individuazione del momento consumativo e del dies a quo, nella prescrizione ai sensi dell’art. 158 cod. pen.;

–                   sul regime di contestazione all’imputato, diverso da quello previsto per gli elementi costitutivi (v. artt. 417 lett. b e 516-518 cod. proc. pen.);

–                   sulla disciplina del concorso di persone nel reato (laddove, mentre l’art. 118 cod. pen. si occupa delle sole circostanze, i precedenti artt. 116 e 117 riguardano i soli elementi costitutivi del reato).

Scarsissime se non nulle ripercussioni sono da attendersi – considerato il generale modesto livello edittale delle nuove ipotesi autonome – sul piano della determinazione della competenza processuale basata sulla misura della pena ai sensi dell’art. 4 cod. proc. pen., dell’applicazione delle misure cautelari ai sensi dell’art. 278 cod. proc. pen., dell’arresto in flagranza e del fermo di indiziato di delitto ai sensi dell’art. 379 cod. proc. pen., sulla chiamata in giudizio mediante citazione diretta o tramite udienza preliminare.

3.3. La disciplina delle fattispecie aggravate dalla ripetizione dell’illecito amministrativo.

Come ampiamente sottolineato nella relazione governativa, la scelta operata dal decreto ha comportato la necessità di una disposizione di coordinamento per disciplinare le ipotesi in cui la fattispecie aggravata – punita con pena detentiva – sia fondata sulla reiterazione dell’illecito depenalizzato: anche in questo caso, l’assenza di una norma di raccordo avrebbe comportato incertezze, potendosi ragionevolmente ritenere[12] che la fattispecie aggravata decada per effetto del venir meno dell’elemento costitutivo, rappresentato appunto dalla “recidiva” in senso tecnico penalistico, ossia per l’assenza di un illecito penale accertato e ascrivibile all’autore della nuova infrazione.

L’art. 5 dispone dunque che <<quando i reati trasformati in illeciti amministrativi  ai  sensi del  presente  decreto  prevedono  ipotesi  aggravate  fondate  sulla recidiva ed  escluse  dalla  depenalizzazione,  per  recidiva è da intendersi la reiterazione dell’illecito depenalizzato>>[13].

Il termine “recidiva” menzionato nell’art. 5 del decreto è dunque da intendersi in senso improprio; una rapida ricognizione in ambiti extrapenalistici consente, peraltro, di evidenziare che la perseveranza nell’illecito non mantiene sempre la stessa denominazione, adoperandosi talvolta il lemma “recidiva”[14], talora invece l’espressione “reiterazione”, in modo da abbinare quest’ultima all’illecito amministrativo e quella di “recidiva” esclusivamente al reato[15].

Gli aspetti di problematicità non si arrestano, tuttavia, al solo profilo lessicale.

Un primo interrogativo, su un piano più generale, concerne la sufficienza della norma di coordinamento a porre la previsione incriminatrice al riparo da possibili dubbi di costituzionalità per effetto della costruzione di un reato il cui elemento oggettivo consiste, nella sostanza, in un mero illecito amministrativo, sia pure ripetuto; in questa sede, si può solo prudentemente osservare che nella valutazione complessiva potrebbe trovare rilievo la nozione fluida e sostanzialistica della “natura penale” di una disposizione interna, per come emergente dalla giurisprudenza della Corte EDU e della stessa CGUE[16].

Ulteriori quesiti si prospettano con riferimento alla portata concettuale e all’ambito applicativo della recidiva.

In merito al primo profilo, ci si domanda se, al fine di accertare, in concreto, la situazione di ripetizione della violazione amministrativa che integra la fattispecie di reato, debba farsi riferimento – considerato per un verso l’utilizzo del termine “reiterazione” e, per altro aspetto, il rimando generale alle disposizioni delle sezioni I e II del capo I della legge 24 novembre 1981, n. 689, operato dall’art. 6 del d. lgs. n. 8 del 2016 ai fini della applicazione delle (nuove) sanzioni amministrative in esso previste – all’art. 8-bis[17] della legge n. 689/81, introdotto dal d. l.vo. 30 dicembre 1999, n. 507, che disciplina, appunto, la “reiterazione” degli illeciti amministrativi.

Secondo tale disposizione, infatti, si ha reiterazione (reiterazione generica) quando in capo allo stesso soggetto vengono accertate con provvedimento esecutivo più sanzioni amministrative della stessa indole nell’arco del medesimo quinquennio, anche se accertate con un unico provvedimento esecutivo. Il comma 2 dell’art. 8-bis precisa, poi, che sono della stessa indole <<le violazioni della medesima disposizione e quelle di disposizioni diverse che, per la natura dei fatti che le costituiscono o per le modalità della condotta, presentano una sostanziale omogeneità o caratteri fondamentali comuni>>. Vale a dire che, per aversi reiterazione, gli illeciti amministrativi devono vertere sulla medesima materia e le condotte ivi previste devono essere in qualche modo connesse.La reiterazione è specifica se è violata più volte la medesima disposizione di legge (comma 3), implicando una maggiore gravità.

Queste previsioni non dovrebbero interferire – ad un primo sommario esame – con l’oggetto delle “nuove” ipotesi penali, costituite sempre da reiterazione “specifica”, ossia dalla reiterazione della identica condotta, che prima costituiva reato anche se commessa singolarmente e che d’ora in avanti integra solo un illecito amministrativo.

Sempre a mente dell’art. 8-bis, la reiterazione non opera, poi, se le violazionisuccessive alla prima sono commesse in tempi ravvicinati e sono <<riconducibili ad una programmazione unitaria>>(comma 4). Tale norma introduce una sorta di “mini continuazione” nell’illecito amministrativo, istituto che, di regola, è proprio solo dell’ordinamento penale. La norma, pur non ritenendo di estendere al sistema sanzionatorio amministrativo l’istituto della continuazione, ha disposto che il medesimo disegno nella violazione delle leggi amministrative escluda l’applicabilità della reiterazione.

A fronte di tale disposizione, allora, la previsione di fattispecie penali costituite dalla mera reiterazione della stessa violazione amministrava suscita qualche interrogativo sul se il giudice penale, posto di fronte ad un secondo illecito amministrativo riconducibile, secondo il suo apprezzamento, ad una programmazione unitaria con un primo illecito già accertato e sanzionato, abbia o meno il potere di escludere la reiterazione e dunque di ritenere insussistente il nuovo reato, che in quella “recidiva” si sostanzia;  allo stesso modo, nel caso in cui due o più violazioni riconducibili ad una programmazione unitaria siano già state oggetto di un accertamento amministrativo che ne abbia ritenuto la natura unitaria (e dunque non reiterata), e il giudice penale sia chiamato a valutare un’ulteriore infrazione parimenti omogenea che però, per qualsivoglia ragione, sia sfuggita al processo amministrativo già concluso.

Come noto, infatti, in ambito penale l’intervenuta irrevocabilità della decisione sul primo o sui primi reati non impedisce che il giudice, tanto della cognizione quanto della esecuzione, possa applicare la continuazione, posto che <<la disciplina del reato continuato deve trovare applicazione tutte le volte che le diverse violazioni della legge penale siano state commesse in esecuzione di un medesimo disegno criminoso. Ove tale requisito sia accertato, il reato continuato non può essere escluso per il fatto che tra i vari episodi sia intervenuta una sentenza di condanna o sia sopraggiunta l’irrevocabilità di una tale sentenza>> (così testualmente, Sez. 1, n. 930 del 16 febbraio 1995, Modolo, Rv. 200506).

Nel silenzio legislativo, potrebbero dunque sorgere conflitti interpretativi sulla sussistenza di una matrice unitaria ed omogenea delle violazioni – di per sé idonea, ai sensi dell’art. 8-bis sopra citato, a determinare una reductio ad unitatem del duplice o multiplo illecito – difficilmente potendosi ipotizzare, peraltro, che il giudice penale sia privato, in omaggio ad un dato meramente formale quale quello del precedente accertamento amministrativo, del potere/dovere di verificare l’esistenza stessa di un illecito amministrativo “reiterato” (e non legato dalla mini-continuazione, che tale reiterazione invece esclude), che  rappresenta l‘in sé delle nuove fattispecie penali disegnate dalla novella.

Il secondo ordine di problemi, sollecitati dalla riforma con specifico riguardo alla recidiva, attiene al suo ambito operativo.

Secondo, invero, l’insegnamento della Suprema Corte, affermatosi in materia di guida senza patente (fra le altre: Sez. 4, n. 40617, 30/04/2014, Mauro, Rv. 260304), ai fini della configurabilità della circostanza aggravante della “recidiva nel biennio”, di cui al comma 13 dell’art. 116 del Cod. della Strada, rileva la data del passaggio in giudicato della sentenza relativa al fatto-reato precedente rispetto a quello per il quale si procede, e non la data di commissione dello stesso.

Quid iuris, dunque, a seguito della depenalizzazione del primo reato e della conseguente assenza, d’ora in avanti, di una sentenza irrevocabile relativa a tale fatto di reato?

In assenza di elementi contrari, ragioni logiche e sistematiche depongono nel senso che il presupposto del (nuovo) reato costituito dalla reiterazione di un illecito amministrativo consiste, sul piano formale, nella esistenza di una provvedimento irrevocabile che abbia accertato la (prima) violazione amministrativa e abbia irrogato la conseguente (nuova) sanzione.

I dubbi interpretativi evidenziati si intersecano – evidentemente – con le incertezze sul versante applicativo/processuale, posto che il legislatore delegato, mentre regola in modo articolato il passaggio dall’ambito penale a quello amministrativo, individuando l’autorità competente per l’irrogazione delle nuove sanzioni amministrative e disciplinando la trasmissione degli atti per le violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore del decreto (di cui si dirà più oltre), non fornisce indicazioni in ordine alla procedimentalizzazione della situazione opposta, in cui dalla commissione del secondo illecito amministrativo deriva la competenza del giudice penale.

3.4. Le tre fasce edittali di sanzioni amministrative pecuniarie.

Con riferimento alla clausola generale di depenalizzazione, il legislatore delegato (articolo 1, comma 5) ha fissato tre gruppi di reati puniti con la multa o l’ammenda: non superiore nel massimo a 5.000 euro il primo, a 20.000 euro il secondo, ovvero superiore a 20.000 euro il terzo. Ad essi corrispondono tre fasce sanzionatorie comprese, nell’ambito della più generale cornice edittale stabilita al comma 2, lett. e) della legge delega, rispettivamente, tra 5.000 e 10.000 euro, tra 5.000 e 30.000 euro, ovvero tra 10.000 e 50.000 euro.

L’art. 1 comma 6 del decreto in commento stabilisce, inoltre, che se per le violazioni attinte dalla clausola di depenalizzazione generale è prevista una pena pecuniaria proporzionale, anche senza la determinazione dei limiti minimi o massimi, la somma dovuta a titolo di sanzione amministrativa è pari all’ammontare della multa o dell’ammenda, ma non può, in ogni caso, essere inferiore a euro 5.000 né superiore a euro 50.000.

4. La depenalizzazione “nominativa”.

Come già anticipato, l’ambito della depenalizzazione non coincide con la sfera di operatività della clausola generale (“cieca”), estendendosi anche ad altre fattispecie criminose, oggetto di specifica indicazione nominativa da parte del legislatore delegante, come detto recepite, sia pur non integralmente, dal legislatore delegato negli artt. 2 e 3 del decreto in commento.

In dottrina[18] è stato evidenziato come, nonostante la tendenziale eterogeneità delle figure di reato interessate, al loro interno sia comunque possibile distinguere alcuni nuclei tipologici, e cioè:

a)          specifiche figure di reato collocate nel codice penale, originariamente punite con pena detentiva, sola, alternativa o congiunta a quella pecuniaria, ovvero punite con la sola pena pecuniaria ma escluse, per quanto anzidetto, dalla depenalizzazione generale: si tratta dei delitti previsti dagli articoli 527, co.1, e 528 cod. pen., limitatamente alle ipotesi di cui al primo e al secondo comma, in materia di atti osceni e pubblicazioni e spettacoli osceni, nonché delle contravvenzioni previste dagli articoli 652, 661, 668 e 726 cod. pen., concernenti specificamente le ipotesi di rifiuto di prestare la propria opera in occasione di un tumulto, di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone, di abuso della credulità popolare, di rappresentazioni teatrali o cinematografiche abusive e, infine, di atti contrari alla pubblica decenza;

b)          delitto di omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali, di cui all’art. 2, comma 1-bis d.l. 12.9.1983 n. 463, conv. in l. 11.11.1983 n. 638, sostituito dalla seguente formulazione: <<L’omesso versamento delle ritenute di cui al comma 1, per un importo superiore a euro 10.000 annui, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032. Se l’importo omesso non è superiore a euro 10.000 annui, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000. Il datore di lavoro non è punibile, né assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento  delle  ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto della violazione>>[19].

a)          determinate contravvenzioni punite con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, previste nella legislazione complementare. Nello specifico si tratta della contravvenzione prevista dall’art. 11, comma 1, legge 8 gennaio 1931, n. 234[20] (Norme per l’impianto e l’uso di apparecchi radioelettrici privati e per il rilascio delle licenze di costruzione, vendita e montaggio di materiali radioelettrici); della contravvenzione prevista dall’art.171-quater della legge sul diritto d’autore (legge n. 633/1941); della contravvenzione prevista dall’art. 3 d. lgs. lgt. 10.8.1945 n. 506 (Disposizioni circa la denunzia dei beni che sono stati oggetto di confische, sequestri o altri atti di disposizione adottati sotto l’impero del sedicente governo repubblicano), della contravvenzione prevista dall’articolo 15, comma 2, legge 28.11.1965 n. 1329 (Provvedimenti per l’acquisto di nuove macchine utensili); della contravvenzione prevista dall’articolo 16, comma 4, d.l. 745/1970, in tema di abusiva installazione o esercizio di impianti di distribuzione automatica di carburanti per uso di autotrazione; della contravvenzione prevista dall’articolo 28, comma 2, d.P.R. 309/1990, in materia di coltivazione di piante proibite nel territorio nazionale, senza le prescritte autorizzazioni[21].

4.1. Le tre fasce di sanzioni amministrative e le eccezioni.

Circa le nuove cornici edittali delle sanzioni amministrative, sia con riguardo ai reati del codice penale (di cui all’articolo 2) che agli altri casi di depenalizzazione (di cui all’articolo 3), il legislatore delegato ha fissato limiti sulla base di un criterio generale ispirato a principi di proporzione, ragionevolezza e coerenza sistematica: 1) sanzione amministrativa da 5.000 a 15.000 euro per le contravvenzioni punite con l’arresto fino a sei mesi; 2) sanzione amministrativa da 5.000 a 30.000 euro per le contravvenzioni punite con l’arresto fino a un anno; 3) sanzione amministrativa da 10.000 a 50.000 euro per i delitti e le contravvenzioni puniti con una pena detentiva superiore a un anno.

Il criterio predetto fa peraltro eccezione in alcune circostanze.

In primo luogo, con riguardo al reato di cui all’articolo 527 cod. pen., per il quale – a giudizio del legislatore delegato, nell’esercizio del potere di compiere simili valutazioni conferitogli dall’articolo 2, comma 2, lettera e) della legge delega – la cornice edittale rivela una severità non più aderente all’attuale disvalore sociale dell’illecito: il decreto dispone, pertanto, che l’originaria pena prevista nel primo comma, della reclusione da tre mesi a tre anni, sia sostituita dalla sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro 30.000; per l’ipotesi di reato aggravata di cui al secondo comma, trasformata in reato autonomo, è stabilita la pena della reclusione da quattro mesi a quattro anni e sei mesi.

Secondariamente, quando l’illecito da depenalizzare, pur essendo riconducibile all’ipotesi sanzionatoria più severa, è stato provvisto di un massimo edittale inferiore, e ciò allo scopo di consentire l’operatività degli aumenti stabiliti per le ipotesi aggravate, nel rispetto del limite massimo di 50.000 euro imposto dalla delega.

5. I casi di mancato esercizio della delega.

Il legislatore delegato non ha esercitato la delega in riferimento ai reati di cui agli articoli 659 cod. pen. e 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. 

Nella relazione di accompagnamento si giustifica la scelta effettuata, in entrambi i casi, affermando che si tratta di fattispecie che intervengono su materie “sensibili” per gli interessi coinvolti, in cui lo strumento penale appare come indispensabile per la migliore regolazione del conflitto con l’ordinamento innescato dalla commissione della violazione.

Sempre nella relazione governativa, si fa richiamo all’assenza di pericoli di infedeltà alla delega passibili di censure di incostituzionalità, posto che ciascuna previsione di depenalizzazione ha autonomia strutturale rispetto all’intero contesto di prescrizioni impartite al legislatore delegato.

6.  Le sanzioni accessorie.

Nel silenzio della delega, il legislatore delegato ha ritenuto di non comminare sanzioni accessorie per gli illeciti risultanti dalla clausola generale di depenalizzazione c.d. “cieca”, nella dichiarata difficoltà di formulare, sia sul piano redazionale che di compatibilità con i limiti derivanti dalla delega, una disposizione altrettanto generale di conversione delle (eventuali) originarie pene accessorie.

L’articolo 4 comma 1 del decreto prevede, invece, le sanzioni amministrative accessorie della sospensione della concessione, della licenza, dell’autorizzazione o di altro provvedimento  amministrativo che consente l’esercizio dell’attività da un minimo di dieci giorni a un massimo di tre mesi, nel caso di reiterazione specifica di uno dei seguenti illeciti depenalizzati: articolo 668 cod. pen.; articolo 171-quater della legge 22 aprile 1941, n. 633; articolo  28, comma  2,  d.P.R. n. 309 del 1990). Al comma 2 è previsto che, allo stesso modo, provvede il giudice con la sentenza di condanna qualora sia competente, ai sensi dell’articolo 24 della legge 24 novembre 1981, n. 689, a decidere su una  delle violazioni indicate nel comma 1. 

Non sono state interessate, invece, le fattispecie di illecito depenalizzate nominativamente quando inserite in un più generale contesto normativo in cui siano presenti illeciti non depenalizzabili: per queste ipotesi il legislatore ha ritenuto di non prevedere pene accessorie, al fine di evitare l’incongruente compresenza, nello stesso corpo normativo, di illeciti amministrativi muniti di sanzioni accessorie e di illeciti penali sprovvisti di tali pene[22].

Sempre per quanto riguarda gli illeciti risultanti dalla depenalizzazione c.d. “nominativa”, il legislatore delegato è intervenuto su quelle norme che già prevedevano la pena accessoria, trasformandola in sanzione amministrativa, limitatamente all’illecito depenalizzato e in quanto corrispondente al contenuto sanzionatorio indicato dalla delega: ciò è avvenuto con la modifica dell’articolo 8 della legge n. 234 del 1931, che contempla provvedimenti di sospensione o di revoca delle licenze in presenza di fatti costituenti reato, previsione che è stata estesa allo scopo di renderla applicabile anche con riguardo all’illecito depenalizzato.

7. Profili procedimentali dei nuovi illeciti. 

Con riferimento agli aspetti sostanziali e procedimentali dei nuovi illeciti amministrativi, le indicazioni di delega contenute nella lettera e) del comma 2 dell’articolo 2 della legge n. 67/2014 sono in linea con la disciplina fornita dalla legge 24 novembre 1981, n. 689; nello specifico, il legislatore delegato ha optato, per disciplinare i “nuovi” illeciti depenalizzati, per il richiamo, ove compatibili, alle disposizioni delle sezioni I e II del capo I della citata legge n. 689 del 1981 (articolo 6 del decreto).

In particolare, quanto alla competenza, l’articolo 7 del decreto n. 8/2016 prevede, al comma 1, che per le violazioni di cui all’articolo 1 sono tenuti a ricevere il rapporto – e ad applicare le relative sanzioni – le autorità competenti ad irrogare le altre sanzioni amministrative già previste dalle leggi che contemplano le violazioni stesse, ricorrendosi, nel caso di mancata previsione, al criterio residuale a norma dell’art. 17 della legge 24 novembre 1981, n. 689; al comma 2, che per le violazioni di cui all’articolo 2, il prefetto è competente a ricevere il rapporto e ad irrogare le sanzioni amministrative; al comma 3, che per le violazioni di cui all’articolo 3 sono competenti a ricevere il rapporto e ad irrogare le sanzioni amministrative: a) le autorità competenti ad irrogare le sanzioni amministrative già indicate nella legge 22 aprile 1941, n. 633, nel decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre  1983,  n.  638,  e  nel  decreto  del  Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309; b) il Ministero dello sviluppo economico in relazione all’articolo 11 della legge 8 gennaio 1931, n. 234; c) l’autorità comunale competente al rilascio dell’autorizzazione all’installazione o all’esercizio di impianti  di distribuzione  di  carburante  di  cui all’articolo 1 del decreto legislativo 11 febbraio 1998, n. 32; d) il Prefetto per le restanti leggi indicate all’articolo 3.

8. Profili di diritto intertemporale.

Il legislatore delegato si è dichiaratamente confrontato con l’assenza, nella legge delega, di una disciplina transitoria e, di conseguenza, con il dubbio interpretativo se tale mancanza fosse il segno della volontà del delegante di affidarsi alle regole fissate dall’articolo 2 cod. pen. e dall’articolo 1 legge n. 689 del 1981: con la conseguenza – consacrata in plurime sentenze di legittimità, anche nella massima composizione (Sez. U, n. 25457/2012)[23] – che, in assenza di disposizioni transitorie, l’infrazione commessa non è più sanzionabile, nemmeno a livello amministrativo, se successivamente depenalizzato.

Il silenzio della delega è stato interpretato in senso opposto, ritenendosi che l’assenza di indicazioni non implicasse il divieto di apporre una disposizione transitoria: e ciò allo scopo – espressamente affermato nella relazione di accompagnamento – di scongiurare il rischio di una sperequazione tra chi ha commesso il fatto depenalizzato prima della riforma e chi lo ha commesso dopo, posto che, nel silenzio normativo, soltanto a quest’ultimo (e non al primo) sarebbe, come detto, applicabile (alla luce della cennata giurisprudenza) la sanzione amministrativa prevista per il nuovo illecito.

Sul piano della legittimità formale dell’intervento, possono richiamarsi le considerazioni già in precedenza espresse sul potere del legislatore delegato di valutare le specifiche e complesse situazioni da disciplinare, esercitando una discrezionalità che – secondo la ricordata giurisprudenza costituzionale – travalica la delega conferita solo quando si pone in modo divergente rispetto alle finalità che l’hanno determinata: in tale prospettiva, pare di poter solo affermare che il silenzio, sul punto specifico, del legislatore delegante non sia inequivocabilmente interpretabile come un divieto espresso, dal quale consegua automaticamente l’illegittimità costituzionale della previsione di una disciplina transitoria.  

Nel merito, la scelta legislativa parte dalla considerazione che il rango costituzionale del principio di irretroattività delle sanzioni punitive amministrative presuppone l’omogeneità della natura dell’illecito penale e di quello (punitivo) amministrativo, convergenti nell’identica “materia penale”[24], come delineata, altresì, dalla giurisprudenza della Corte EDU. Muovendo, dunque, da tale omogeneità, la depenalizzazione di reati “degradati” a illeciti amministrativi dà luogo ad una vicenda sostanzialmente di successione di leggi, nella quale trova attuazione il principio di retroattività in mitius, pienamente realizzato dall’applicazione retroattiva delle più favorevoli sanzioni amministrative in luogo di quelle originarie penali, sempre che sia garantito (come in questo frangente avviene per espressa previsione del comma 3 dell’articolo 8 del decreto, di cui appena oltre) che la nuova sanzione sia irrogata in un ammontare non superiore al massimo di quella originaria.

Sulla base di tali dichiarate opzioni interpretative, nel decreto n. 8/2016 sono stati inseriti gli articoli 8 e 9, rispettivamente dedicati all’applicabilità delle sanzioni amministrative agli illeciti commessi anteriormente e alla trasmissione degli atti del procedimento penale all’autorità amministrativa, traendo decisiva ispirazione dalle già collaudate disposizioni contenute nel citato decreto legislativo n. 507 del 1999 (articoli 100-102).

L’art. 8 (comma 1) dispone, in particolare, che le disposizioni che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto stesso, sempre che il procedimento penale non sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili. 

Come già prima osservato, ai fatti commessi prima della data di entrata in vigore del decreto non può tuttavia essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’articolo 135 cod. pen.. A tali fatti non si applicano le sanzioni amministrative accessorie introdotte dal decreto, salvo che le stesse sostituiscano corrispondenti pene accessorie.

Se, invece, i procedimenti penali per i reati depenalizzati dal decreto sono stati definiti, prima della sua entrata in vigore, con sentenza di condanna o decreto irrevocabile, il giudice dell’esecuzione, procedendo nei modi indicati dall’articolo 667, comma 4, del codice di rito (cioè con ordinanza emessa senza formalità e comunicata alla parti), revoca la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti.

Queste le scansioni procedurali individuate dall’art. 9:

–                   nei casi previsti dalla disciplina transitoria, l’autorità giudiziaria, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, dispone la trasmissione all’autorità competente  degli atti dei procedimenti penali relativi ai reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato risulti prescritto o estinto per altra causa alla medesima data;

–                   se l’azione penale non è stata esercitata, la trasmissione degli atti è disposta direttamente dal pubblico ministero che, in caso di procedimento già iscritto, l’annota nel registro delle notizie di reato. Se invece il reato risulta estinto per qualsiasi causa, il pubblico ministero richiede l’archiviazione al Gip competente;

–                   qualora l’azione penale sia stata già esercitata, il giudice pronuncia, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen.[25], sentenza inappellabile perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa competente;

–                   quando, infine, è stata pronunciata sentenza di condanna, il giudice dell’impugnazione dichiara che il fatto non è previsto dalla legge come reato[26], decidendo sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili.

9. Il rapporto tra depenalizzazione, illecito amministrativo e tenuità del fatto.

Il tema appena affrontato sollecita, a chiusura del breve esame delle norme contenute nel d. lgs. n. 8/2016, una breve riflessione sul rapporto fra l’intervento di depenalizzazione e l’istituto della particolare tenuità del fatto, introdotto recentemente – attraverso l’introduzione dell’art. 131-bis, cod. pen. – su input, anch’esso, della legge n. 67 del 2014[27].

Sul piano teorico, questa seconda forma di intervento si distingue nettamente da quella della depenalizzazione, per la quale, tutti i reati, a prescindere dalle modalità attraverso cui in concreto sono stati consumati, vengono meno; laddove con la “tenuità del fatto” non sono punibili, in via astratta, quei reati, sanzionati nel massimo con la pena di cinque anni di reclusione o con la pena pecuniaria, soltanto se nel concreto siano risultati di scarsa offensività.

Nel primo caso, il legislatore stabilisce a priori le condotte che non costituiscono più reato; nel secondo caso, il legislatore attribuisce al giudice il potere di decidere se il fatto sottoposto al suo esame non meriti di essere punito, verificando se esso, per le modalità esecutive, per la sua occasionalità, per la lievità del danno o del pericolo cagionato abbia arrecato un’offesa troppo lieve per meritare una sanzione penale.

Entrambi gli istituti muovono dall’esigenza di scremare l’area penale dai reati cd. bagatellari, colpendo, il primo (la depenalizzazione), quelli cd. bagatellari propri, ritenuti ormai privi di offensività[28]; il secondo (la tenuità del fatto) quelli bagatellari impropri, attraverso il meccanismo deflattivo della diversion, quando essi mostrano in concreto una esigua lesività, tale da far perdere l’interesse ad un loro perseguimento penale[29].

Il punto di possibile criticità attiene alla coesistenza sistemica tra il fatto ritenuto non più di interesse penale, ma pur sempre sanzionato a livello amministrativo, e quello, in via astratta più grave e quindi ritenuto ancora bisognoso della tipizzazione penale, ma in concreto non punito, ove ritenuto inoffensivo: l’effetto che in concreto può presentarsi è che il soggetto autore di un determinato fatto rientrante tra quelli oggetto della depenalizzazione in commento, se prima di tale intervento poteva beneficiare della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen., a seguito dell’entrata in vigore del decreto n. 8/2014 è comunque destinatario – in ragione della clausola intertemporale inserita dal legislatore delegato – di una sanzione amministrativa di carattere afflittivo.  

L’eccentricità potrebbe accentuarsi con riferimento a tutte quelle fattispecie (ad esempio, la guida senza patente) che, come sopra evidenziato, nella forma, un tempo aggravata ed adesso autonoma, continuano ad appartenere alla sfera del penalmente rilevante, ma che potrebbero in concreto, in presenza dei presupposti di legge, non comportare la punibilità del reo se ritenuti di particolare tenuità, a fronte delle meno gravi ipotesi base della medesima fattispecie, oggi depenalizzate, che non sottraggono l’autore da una sanzione amministrativa.

Della questione, la Corte ha avuto modo di occuparsene indirettamente nella recente sentenza Sez. 4, n. 44132 del 9 settembre 2015, Longoni, Rv. 264829, che, nell’affrontare la connessa e controversa questione attualmente rimessa al vaglio delle Sezioni Unite[30], relativa all’applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. ai reati per i quali sono previste soglie di non punibilità, ha evidenziato come sul piano funzionale i due illeciti, amministrativo e penale, presentino differenze evidenti e rilevanti, che definiscono autonomi statuti[31].

Sarà interessante verificare, allora, la tenuta di una tale impostazione ricostruttiva, di fronte alla speculare situazione derivante dalla depenalizzazione di illeciti potenzialmente attingibili dalla “tenuità” ed ora puniti con inevitabili sanzioni pecuniarie, il cui carattere afflittivo può risultare in concreto gravoso, in dipendenza dell’ammontare della somma.  

10.L’intervento di abrogazione (D. Lgs. n. 7 del 2016).

L’art 2, comma 3, lett. a) della legge n. 67 del 2014 ha conferito delega al Governo per procedere all’abrogazione dei reati previsti da specifiche disposizioni del codice penale; la successiva lett. c) della disposizione, <<fermo il diritto al risarcimento del danno>>, ha dato mandato al Governo di<<istituire adeguate sanzioni pecuniarie civili in relazione ai reati di cui alla lettera a)>>.

Come evidenziato nella relazione di accompagnamento, il Parlamento mira a espungere dall’alveo del penalmente rilevante alcune ipotesi delittuose previste nel codice penale a tutela della fede pubblica, dell’onore e del patrimonio, che sono accomunate dal fatto di incidere su interessi di natura privata e di essere procedibili a querela, ricollocandone il disvalore sul piano delle relazioni private; al contempo, il legislatore delegante intende riconsiderare il ruolo tradizionalmente compensativo attribuito alla responsabilità civile nel nostro ordinamento, affiancando alle sanzioni punitive dì natura amministrativa un ulteriore e innovativo strumento di prevenzione dell’illecito, nella prospettiva del rafforzamento dei principi di proporzionalità, sussidiarietà ed effettività dell’intervento penale.

I reati oggetto di abrogazione devono, dunque, essere trasformati in illeciti sottoposti a (inedite) sanzioni pecuniarie civili, chiamate a svolgere una finalità preventiva e repressiva tipica delle sanzioni punitive[32], testimoniata dai principi e criteri direttivi previsti per la commisurazione, di cui alla successiva lett. e): si prevede, infatti, che le sanzioni civili siano “proporzionate” non all’entità del danno inferto, quanto <<alla gravità della violazione, alla reiterazione dell’illecito, all’arricchimento del soggetto responsabile, all’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle sue conseguenze nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche>>.

In applicazione della delega, l’art. 1 del decreto n. 7 del 2016 dispone l’abrogazione di una serie di delitti del codice penale.

In dettaglio.

10.1. L’abrogazione degli artt. 485 e 486 cod. pen.

L’art. 2, comma 3, lett. a), n. 1) della legge n. 67/2014 prescrive al legislatore delegato di abrogare i <<delitti di cui al libro secondo, titolo VII, capo H, limitatamente alle condotte relative a scritture private, ad esclusione delle fattispecie previste all’articolo 491, ossia dei documenti privati equiparati ad atti pubblici agli effetti della pena>>: in adempimento della delega, il decreto n. 7/2016 dispone (art. 1, lett.aeb) l’abrogazione dei delitti codicistici di falsità in scrittura privata, di cui all’art. 485, e di falsità di foglio firmato in bianco, di cui all’art. 486.

Questi gli adattamenti (contenuti nell’art. 2 del decreto ed illustrati nella relazione di accompagnamento) delle norme collegate a quelle abrogate, resisi necessari per effetto della sopravvenuta irrilevanza penale delle condotte aventi ad oggetto scritture private diverse dal testamento olografo o dalla cambiale o titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore:

a)          è stato riformulato l’art. 488, eliminando il riferimento alle “scritture private” e circoscrivendo il richiamo (in precedenza esteso ai “due articoli precedenti”, in funzione di applicazione “residuale”) al solo art. 487;

b)          in conseguenza della soppressione dell’art. 485, è stato abrogato il secondo comma dell’art. 489, avente ad oggetto l’ipotesi di uso di atto falso in scrittura privata, da parte di chi non sia concorso nella falsità; l’ipotesi particolare dell’uso di testamento olografo o di cambiale o titolo di credito falso, da parte di chi non sia concorso nella falsità, è invece presa in considerazione dall’art. 491, comma 2;

c)          il riferimento alla scrittura privata vera, contenuto nell’art. 490, è stato sostituito dal richiamo al testamento olografo o alla cambiale o titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore, in aggiunta al dolo specifico contemplato dall’art. 489, comma 2 (in origine applicabile in virtù dell’art, 490, comma 2);

d)          anche il secondo comma dell’art. 490 è stato oggetto di abrogazione, risultando ormai privo di qualunque funzionalità in rapporto alle falsità in scritture private eccettuate dalla depenalizzazione (alle quali la previsione in tema di dolo specifico risultade planoapplicabile, per effetto della riformulazione degli artt. 490 e 491);

e)          in sede di riformulazione dell’art. 491 cod. pen. (la cui nuova rubrica è: «Falsità in testamento olografo, cambiale o titoli di credito»), la rilevanza penale delle condotte di falsificazione prese in considerazione agli artt. 476 (482), 487 e 488, con riferimento agli atti pubblici, è stata estesa agli oggetti materiali presi in considerazione dalla legge delega in funzione limitativa della depenalizzazione, ossia il testamento olografo, la cambiale o il titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore. Per effetto dell’abrogazione degli artt. 485 e 486 (e della riscrittura dell’art. 488), la natura giuridica della disposizione di cui all’art. 491, comma 1, è destinata, dunque, a mutare: al posto dell’originaria circostanza aggravante (applicabile agli artt. 485, 488 e 490), subentra una nuova fattispecie autonoma. Viene, inoltre, confermato il trattamento sanzionatorio già previsto nella formulazione originaria dell’art. 491 (in luogo della pena stabilita dall’articolo 485 cod. pen. per le falsità materiali in scrittura privata), ossia l’applicabilità delle pene rispettivamente stabilite nella prima parte dell’articolo 476 e nell’articolo 482 (a seconda che il fatto sia commesso dal pubblico ufficiale oppure da un soggetto privato). Il capoverso dell’art. 491 concerne la disciplina applicabile al soggetto che, non avendo preso parte alla falsificazione, faccia uso degli atti suddetti (testamento olografo, cambiale, ecc.), rinviando –quod poenam– alla previsione di cui all’art. 489 (uso di atto pubblico falso);

f)          in conseguenza del venir meno della rilevanza penale delle falsità aventi ad oggetto scritture private (e della sostanziale inapplicabilità della disposizione alle falsità in scritture private eccettuate dalla depenalizzazione), è stato eliminato dalla formulazione dell’art. 491-bis (Documenti informatici) il riferimento ai documenti informatici privati aventi efficacia probatoria;

g)          infine, il disposto dell’art. 493-bis (Casi di perseguibilità a querela) è stato adeguato:  all’abrogazione degli artt. 485 e 486, eliminando, appunto, il riferimento ai predetti articoli; alla riformulazione degli artt. 488, 489, 490 e 491, con la conseguente limitazione del campo di applicazione dell’art. 493-bis alle sole disposizioni aventi ad oggetto condotte incidenti su un testamento olografo o su una cambiale o titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore (artt. 490 e 491), prevedendo la procedibilità d’ufficio, nel primo caso, e la punibilità a querela della persona offesa, nel secondo.

10.2. L’abrogazione dell’ingiuria.

L’art. 2, comma 3, lett. a), n. 2) della legge n. 67/2014 prescrive di abrogare il delitto di cui all’art. 594 cod. pen.; nel compiere la delega (art. 1, lett.c), il legislatore delegato ha proceduto ai necessari adattamenti – cfr. articolo 2, comma 1, lett. g), h), i) del decreto n. 7/2016 – degli artt. 596 (Esclusione della prova liberatoria), 597 (Querela della persona offesa ed estinzione del reato) e 599 (Ritorsione e provocazione), circoscrivendo il raggio di operatività delle previsioni in essi contenute alla sola fattispecie di diffamazione.

10.3. L’abrogazione degli artt. 627 e 647 cod. pen.

In esecuzione della delega contenutanell’art. 2, comma 3, lett. a), n. 3 e n. 6) della legge n. 67/2014, il decreto n. 7/2016 (art. 1 lett. d) ed e) dispone l’abrogazione dei delitti di sottrazione di cose comuni e di appropriazione di cose smarrite, del tesoro o di cose avute per errore o caso fortuito.

L’abolizione dei reati di cui agli artt. 627 e 647 cod. pen. potrebbe avere ripercussioni concrete sul delitto di cui all’art. 648 cod. pen., tutte le volte in cui l’oggetto della condotta di ricettazione è costituito da cose a loro volta oggetto dei primi delitti, ora espunti dal catalogo penale; al riguardo, deve peraltro ricordarsi come la costante giurisprudenza di legittimità confina tale effetto alle sole condotte di ricettazione commesse successivamente alla entrata in vigore della soppressione dei reati presupposti, sul principio che <<la provenienza da delitto dell’oggetto materiale del reato è elemento definito da norma esterna alla fattispecie incriminatrice, di talché l’eventuale abrogazione o le modifiche di tale norma non assumono rilevanza ai sensi dell’art. 2 cod. pen., e la rilevanza del fatto, sotto il profilo in questione, deve essere valutata con esclusivo riferimento al momento in cui è intervenuta la condotta tipica di ricezione della cosa od intromissione affinché altri la ricevano>>[33].

Si è ritenuto che potrebbero esservi riflessi anche sul delitto di calunnia, per esempio nella tipica ipotesi di falsa denuncia di smarrimento di assegno dopo la sua consegna al prenditore (proposta per impedire la riscossione dello stesso o il protesto in mancanza di provvista), in quanto la natura di reato di pericolo della fattispecie di cui all’art. 368 cod. pen. potrebbe far escludere la configurabilità della calunnia per effetto del venire meno del reato ex art. 647 cod. pen., sia quando esso costituisce l’oggetto diretto della falsa incolpazione, sia quando opera come reato presupposto della falsa accusa di ricettazione: in attesa delle prime pronunce della giurisprudenza, dalla più volte[34] ritenuta sufficienza, per l’integrazione del reato di pericolo ex art. 368 cod. pen., della possibilità che l’autorità giudiziaria dia inizio al procedimento per accertare il reato incolpato con danno per il normale funzionamento della giustizia, potrebbe derivare la permanenza della perseguibilità per la calunnia già consumata prima della intervenuta depenalizzazione; salvo non ritenere, in linea con diversa opinione, che nella particolare ipotesi di falsa denuncia di smarrimento di assegno, in ragione della certa rintracciabilità del soggetto emittente (per effetto dei dati riportati sul mezzo di pagamento), il reato oggetto della falsa incolpazione sia sempre e soltanto il furto, e non quello di cui all’art. 647 o 648 cod. pen., e che quindi l’intervenuta depenalizzazione non incida, tanto per il passato che il futuro, sul delitto di calunnia.

10.4. La “riscrittura” del reato di danneggiamento.

Il decreto legislativo n. 7/2016 contiene, infine, alcune modifiche delle disposizioni codicistiche concernenti i delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose.

Va premesso che l’art. 2, comma 3, lett. a), n. 4, della legge delega contempla l’abrogazione delle ipotesi di cui agli artt. 631 (Usurpazione), 632 (Deviazione di acque e modificazioni dello stato dei luoghi) e 633 (Invasione di terreni o edifici), primo comma, cod. pen., <<escluse le ipotesi di cui all’art. 639-bis>> (Casi di esclusione della perseguibilità a querela), ovvero i casi in cui le condotte tipiche riguardino acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico.

Il legislatore delegato ha ritenuto, tuttavia, di non esercitare la delega con riferimento alla abrogazione delle fattispecie di reato di cui agli articoli 631, 632, 633 procedibili a querela aventi ad oggetto acque, fondi o immobili privati, rimarcandone la natura di condotte che, seppur attualmente ancora di scarsa incidenza sul carico giudiziario, meritano di conservare rilievo penale, in quanto attengono a fenomeni di occupazione di luoghi privati purtroppo in via di espansione.

Il decreto ha inteso, poi, dare attuazione all’art. 2, comma 3, lett. a), n. 5, della delega, che prevede l’abrogazione del (solo) primo comma dell’art. 635 cod. pen. (Danneggiamento), non attraverso una formale previsione di soppressione (al pari di quelle precedenti), bensì mediante la riformulazione di tale disposizione, con la contestuale “trasformazione” delle ipotesi circostanziali di cui al comma secondo di tale articolo in corrispondenti fattispecie autonome (articolo 2, comma 1, lett.l).

Nella relazione di accompagnamento si rende ragione di tale scelta metodologica, rivendicando trattarsi non di una riscrittura arbitraria delle disposizioni incriminatrici ad opera del legislatore delegato (teoricamente chiamato dalla legge delega soltanto ad un’opera di depenalizzazione e non a quella di una diversa costruzione delle fattispecie penali non toccate dall’intervento depenalizzante), quanto piuttosto del tenere conto, nella scrittura materiale di quanto delegato dal Parlamento, delle espunzioni che sono conseguenza della previsione di depenalizzazione, al fine di assicurare la piena intellegibilità della disposizione incriminatrice; valgono – anche in questo caso – le osservazioni in precedenza formulate in ordine ai margini di discrezionalità e di scelta nell’esercizio della delega, alla luce della giurisprudenza costituzionale.

In concreto, il nuovo art. 635 cod. pen. (Danneggiamento) dispone che <<Chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili  cose  mobili  o  immobili  altrui  con violenza  alla  persona  o  con  minaccia  ovvero  in  occasione   di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico o del delitto previsto dall’articolo 331, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni>>. Il legislatore delegato ha, dunque, ritenuto di indicare come condotta di danneggiamento che conserva rilievo penale quella commessa su beni, sia pubblici che privati, in occasione dello svolgimento di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, reputando che l’esecuzione del danneggiamento durante lo svolgimento di una manifestazione pubblica sia una condotta intrinsecamente minacciosa, dì particolare effetto intimidatorio e pericolosità sociale, tale da meritare una espressa menzione.

Il nuovo comma 2 dell’art. 635 contempla ora – come detto – ipotesi autonome di reato, laddove dispone che alla stessa pena prevista dal primo comma soggiace chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili le categorie di beni già previste nella precedente formulazione della norma.

Le modifiche, infine, apportate in chiave di coordinamento agli artt. 635-bis, 635-ter, 635-quater e 635­-quinquies cod. pen., dipendono dal fatto che il riferimento normativo alla circostanza di cui al numero 1) del secondo comma dell’articolo 635 non è più attuale, in quanto “superato” dalla nuova formulazione della incriminazione (articolo 2, comma 1, lett.m,n,o,p).

11. Le sanzioni pecuniarie civili.

L’elemento di evidente novità del decreto recante l’abrogazione di alcune fattispecie di reato è la previsione di una inedita figura sanzionatoria, quella delle “sanzioni pecuniarie civili”.

In particolare, il Capo secondo del decreto n. 7/2016 (artt. 3-13), intitolato <<Illeciti sottoposti a sanzioni pecuniarie civili>>, ha ad oggetto sia la tipizzazione degli illeciti sottoposti a sanzioni pecuniarie civili, in attuazione dell’art. 2, comma 3, lett. c) e d), della legge delega, sia le norme di disciplina di carattere sostanziale e processuale.

Il carattere informativo e ricognitivo della presente relazione circoscrive l’analisi alla descrizione delle principali caratteristiche della nuova figura introdotta (sulla falsariga della relazione di accompagnamento allo schema del decreto), cui si aggiunge una limitata esplorazione dei primi profili di problematicità evidentemente legati all’assenza di sicuri conforti normativi e giurisprudenziali.  

L’articolo 3 (Responsabilità civile per gli illeciti sottoposti a sanzione pecuniaria) costituisce la norma fondante del nuovo sistema: il primo comma della disposizione prevede che, qualora i fatti previsti dal successivo comma 4 siano commessi dolosamente, obblighino, oltre che alle restituzioni e al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, a norma delle leggi civili, anche al pagamento della sanzione civile pecuniaria stabilita dalla legge. Il legislatore ha dunque previsto che solo la commissione di uno di tali illeciti in forma dolosa può comportare l’applicazione aggiuntiva di una sanzione punitiva di natura civile, adottando una scelta disciplinare omogenea rispetto al coefficiente soggettivo d’imputazione in origine previsto in sede penale ai fini della responsabilità.

Il secondo comma chiarisce che il termine prescrizionale per l’obbligo del pagamento della sanzione pecuniaria civile è lo stesso di quello concernente il risarcimento del danno (richiamando espressamente l’art. 2947, comma 1, cod. civ.).

La puntuale tipizzazione degli illeciti – contenuta, come detto, nell’art. 4 del decreto – tiene conto del tenore letterale della legge delega e, cioè, da un lato, della previsione dell’istituzione di sanzioni pecuniarie civili <<in relazione ai reati di cui alla lettera a)>> e, dall’altro, di quanto prescritto dalla delega a proposito dell’individuazione tassativa <<delle condotte alle quali si applica>> la sanzione pecuniaria civile; nel dare contenuto alle fattispecie, il legislatore delegato ha tuttavia – in linea di principio – mantenuto immutati i confini delle fattispecie abrogate[35].

Per quanto concerne, invece, la determinazione dei limiti edittali, in conformità alla prescrizione proveniente dal delegante di indicare tassativamente <<l’importo minimo e massimo della sanzione>>, il legislatore ha ritenuto preferibile, considerata la natura civilistica delle sanzioni pecuniarie, prevedere due distinte clausole generali sanzionatorie, caratterizzate da un grado di crescente afflittività: la prima spazia da euro cento ad euro ottomila; la seconda da euro duecento ad euro dodicimila; conseguentemente, gli illeciti civili sono stati ripartiti in due gruppi corrispondenti alle due previsioni sanzionatorie sopraindicate, secondo la loro diversa gravità desunta dalle originarie pene.

Con particolare riferimento all’illecito di ingiuria, il decreto ha adattato i contenuti normativi dell’art. 599 cod. pen. al nuovo contesto della tutela sanzionatoria civile: si prevede, infatti, che il giudice possa non applicare la sanzione pecuniaria civile sia in caso di ritorsione (articolo 4, comma 2), che in caso di provocazione (articolo 4, comma 3). Il legislatore delegato ha giudicato, inoltre, inopportuno prevedere per l’illecito civile di ingiuria una disposizione analoga a quella contemplata dall’art. 596 cod. pen. in tema di esclusione della prova liberatoria: alla base di tale scelta sono state poste sia esigenze di semplificazione, sia, soprattutto, la convinzione che, a seguito della depenalizzazione dell’ingiuria, sia preferibile rimettere la questione al prudente apprezzamento del giudice civile. Infine, il decreto prevede un trattamento sanzionatorio più afflittivo (articolo 4, comma 4, lett e), per le ipotesi di “ingiuria qualificata”, in cui l’offesa consista nell’attribuzione di un fatto determinato o sia commessa in presenza di più persone (originariamente previste dall’art. 594, commi 3 e 4, cod. pen.).

Con particolare riguardo agli illeciti civili aventi ad oggetto falsità in scritture private (articolo 4, comma 4, lett.a,b,c,d), il legislatore delegato ha stimato conveniente – in considerazione della stretta connessione con l’azione di risarcimento del danno – eliminare i riferimenti normativi al fine di profitto, circoscrivendo la punibilità alle sole ipotesi effettivamente produttive di danno.

11.1. (segue) La disciplina.

Nel silenzio della legge delega in ordine alla disciplina dei nuovi illeciti civili, il legislatore delegato ha provveduto ad individuare due aspetti fondamentali caratterizzanti il nuovo istituto.

La prima scelta è quella di affidare al giudice civile la competenza ad irrogare le sanzioni pecuniarie civili, ritenendola logica conseguenza del ruolo accessorio attribuito dal delegante all’istanza punitiva rispetto al profilo compensativo.

La seconda opzione concerne la previsione della devoluzione delle somme esatte a titolo di sanzioni pecuniarie civili in favore dello Stato, sub specie della Cassa delle ammende.

La disposizione non trova riscontro in una direttiva della legge delega, che però sul punto è stata interpretata in senso quanto meno non ostativo, pur nel contesto di un quadro normativo caratterizzato da scelte dissonanti (posto che nell’ordinamento sono previste anche ipotesi in cui del provento della pena privata beneficia la persona offesa dall’illecito, come nel caso, ad esempio, dell’art. 12 l.n. 47 del 1948, c.d. legge sulla stampa, in riferimento alla riparazione pecuniaria, prevista in aggiunta rispetto al risarcimento dei danni): a favore della destinazione pubblicistica della sanzione, la relazione governativa di accompagnamento allo schema di decreto pone la funzione general-preventiva e compensativa sottesa alla minaccia della sanzione pecuniaria civile, nonché la vocazione pubblicistica di quest’ultima, che renderebbe incoerente la destinazione del provento alla persona offesa.

Il decreto fissa, poi, le regole essenziali alle quali deve uniformarsi il giudice civile in sede di accertamento della responsabilità, dal punto di vista sostanziale.

L’art. 5 (criteri di commisurazione delle sanzioni pecuniarie) stabilisce che, in sede di determinazione dell’importo, il giudice si attenga ad un parametro di proporzionalità alla gravità della violazione, alla reiterazione dell’illecito, all’arricchimento del soggetto responsabile, all’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze della propria azione, alla personalità e alle condizioni economiche dell’agente.

L’espresso riferimento all’indice di commisurazione rappresentato dalla reiterazione dell’illecito ha reso, perciò, indispensabile disciplinare i presupposti e le condizioni necessarie perché l’illecito sia considerato “reiterato”: l’art. 6 (Reiterazione dell’illecito) prevede che si abbia reiterazione quando l’illecito civile è compiuto entro quattro anni dalla commissione, da parte dello stesso soggetto, di un’altra violazione sottoposta a sanzione pecuniaria civile che sia della stessa indole e che sia stata accertata con provvedimento esecutivo. Sempre in rapporto alla reiterazione quale indice di commisurazione della sanzione, i commi 2 e 3 della disposizione in esame precisano, rispettivamente, la nozione di “violazioni della stessa indole” in termini sostanzialmente omogenei alle indicazioni normative di cui all’art. 8-bis l. n. 689 del 1981, in tema di reiterazione della violazione amministrativa.

L’articolo 7 (Concorso di persone) prende, invece, in considerazione l’eventualità che alla realizzazione di uno o più illeciti previsti all’articolo 4 cooperino più individui, disponendo –  in linea con quanto stabilito dall’art. 5 l.n. 689 del 1981 – che, in tal caso, ciascun concorrente soggiaccia alla correlativa sanzione pecuniaria civile.

Gli articoli 8 e 9 sono dedicati alla disciplina processuale.


Il legislatore delegato, anche tenuto conto della funzione marcatamente general-preventiva sottesa alla comminatoria della sanzione pecuniaria civile e delle connotazioni pubblicistiche del profilo “punitivo”, ha inteso non far dipendere l’applicazione della sanzione pecuniaria dalla volontà della “persona offesa”, ritenendo tale opzione sostanzialmente imposta dalla previsione della destinazione pubblicistica del provento della stessa. E’ previsto, dunque, che il giudice possa irrogare la sanzione pecuniaria civile solo nel caso in cui accolga la domanda di risarcimento del danno. 
Nel silenzio del legislatore delegante, non è stata introdotta alcuna norma di disciplina volta a incidere sul quantum di prova necessario ai fini dell’inflizione della sanzione punitiva, ritenendosi sufficiente il raggiungimento del livello probatorio normalmente occorrente in un processo civile e, in particolare, ai fini della decisione sulla domanda di risarcimento del danno: la scelta di uniformare lo standard probatorio, allineandolo a quello contemplato nell’ordinamento civile, è giustificata – nella relazione di accompagnamento – da esigenze di coerenza e di funzionalità pratico-applicativa.

Il terzo comma dell’articolo 8 in esame stabilisce che il giudice non possa applicare la sanzione pecuniaria civile qualora l’atto introduttivo sia stato notificato nella peculiare forma stabilita dal codice di procedura civile in caso di persona irreperibile.
Poiché nel processo penale la stessa legge n. 67 del 2014 ha introdotto norme che consentono di pervenire alla condanna solo laddove l’imputato abbia avuto conoscenza certa del procedimento a suo carico, al fine di assicurare analoghe garanzie nell’ambito della tutela sanzionatoria civile, si è escluso che il giudice possa irrogare la sanzione laddove la notifica dell’atto introduttivo sia avvenuta nelle forme di cui all’art. 143 cod. proc. civ., concernente le modalità di notificazione a persona irreperibile. Peraltro, le predette garanzie e cautele vengono meno laddove, anche nel corso del giudizio, emerga con certezza che il convenuto, sebbene non costituitosi, abbia avuto conoscenza della pendenza del procedimento.


In funzione di “chiusura” delle norme di disciplina di natura processuale, il comma 4 dell’articolo 8 stabilisce che, ai fini dell’applicazione della sanzione pecuniaria civile, si osservano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili: il riferimento all’applicazione delle disposizioni del codice di procedura civile è spiegato anche come mezzo di assicurazione circa il rispetto delle garanzie processuali minime per l’irrogazione di una sanzione che, per quanto di natura civilistica[36], ha una ineliminabile componente afflittiva che, in qualche modo, potrebbe assimilarla ad una sanzione tipica della “materia penale”, alla stregua della giurisprudenza della Corte EDU sui diritti convenzionali all’equo processo.

L’articolo 9 (Pagamento della sanzione) rinvia ad un successivo decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, per quel che concerne la disciplina delle modalità e del termine di pagamento, nonché delle forme di riscossione dell’importo dovuto; la medesima disposizione prevede, altresì, la possibilità e le modalità di rateizzazione dell’adempimento, il divieto di copertura assicurativa e la non trasmissibilità agli eredi dell’obbligo di pagamento (sulla falsariga di quanto già previsto dall’art. 7 legge n.689/1981, in tema di illeciti amministrativi), in considerazione del carattere “personale” della responsabilità da illecito sottoposto a sanzione civile pecuniaria.

Si è prevista espressamente la rateizzazione per ragioni di omogeneità con le sanzioni amministrative, stante comunque la successiva previsione della devoluzione dei proventi alla Cassa delle ammende quale istituto pubblico, e non ai privati.

Come già accennato, nel silenzio della delega, il decreto (art. 10 – Destinazione del provento della sanzione) ha ritenuto maggiormente in linea con la finalità general-preventiva attribuita dal legislatore all’istituto delle sanzioni pecuniarie civili prevedere che i proventi di queste ultime siano devoluti a favore della Cassa delle ammende. Peraltro, a favore della soluzione adottata, si è pure indicata la necessità di non accrescere il contenzioso civile che, invero, sarebbe alimentato facendo intravedere all’offeso una seria possibilità di arricchimento[37].

Al fine di assicurare la concreta operatività della disposizione in materia di reiterazione, l’articolo 11 (Registro informatizzato dei provvedimenti in materia di sanzioni pecuniarie civili) stabilisce che, con decreto del Ministro della Giustizia, siano adottate norme aventi ad oggetto la tenuta di un registro, in forma automatizzata, per l’iscrizione dei provvedimenti con cui il giudice applica la sanzione pecuniaria civile.

Nel silenzio della legge delega riguardo alla disciplina intertemporale, il legislatore – analogamente a quanto operato in sede di depenalizzazione – ha ritenuto di introdurre (articolo 12) una disciplina transitoria per i fatti commessi in epoca anteriore alla data di entrata in vigore del decreto, per i quali non sia già intervenuta una pronuncia irrevocabile, prevedendo, in deroga alla regola generale sull’efficacia della legge nel tempo indicata dall’art. 11 disp. prel. cod. civ., l’applicazione della sanzione pecuniaria civile quando la parte danneggiata decida di agire in sede civile per ottenere il risarcimento del danno e disponendo in tal caso l’applicazione delle disposizioni relative al processo civile.

In ordine ai procedimenti penali in corso, se ancora in fase di indagine il Pubblico Ministero dovrà evidentemente procedere secondo le forme consuete, richiedendo l’archiviazione perché il fatto non è (più) previsto come reato; se invece l’azione penale è stata esercitata, trova applicazione la regola generale dell’art. 129 cod. proc. pen., per la quale il giudice, “in ogni stato e grado del processo”, dichiara di ufficio con sentenza che il fatto non è (più) previsto dalla legge come reato.

L’ipotesi invece di già intervenuta condanna irrevocabile per uno dei reati oggetto di abrogazione è specificamente regolata dal comma secondo dell’art. 12 del d. lgs. n. 7/2016, secondo il quale <<Se i procedimenti penali  per  i  reati  abrogati  dal  presente decreto sono stati definiti, prima della sua entrata in  vigore,  con sentenza   di   condanna   o   decreto   irrevocabili,   il   giudice dell’esecuzione revoca la sentenza o il decreto, dichiarando  che  il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti. Il giudice  dell’esecuzione  provvede  con l’osservanza delle  disposizioni  dell’articolo  667,  comma  4,  del  codice   di procedura penale>>.

Un ultimo interrogativo riguarda la possibilità per il giudice penale, contestualmente alla sentenza di proscioglimento perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, di provvedere sul risarcimento del danno reclamato dall’eventuale parte civile e, congiuntamente, sulle parallele nuove sanzioni pecuniarie civili; facoltà che risponderebbe al fine di non costringere la parte civile a coltivare una nuova defatigante azione davanti al giudice civile, con quanto ne consegue anche in termini di pericolo di prescrizione dell’illecito civile medesimo.

Al riguardo, l’assenza di una disposizione transitoria analoga a quella indicata dall’art. 9, comma 3, del decreto legislativo n. 8 del 2016 – secondo cui nei procedimenti penali per i reati depenalizzati da quel decreto, quando  è  stata  pronunciata  sentenza  di  condanna, il  giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è  previsto  dalla legge come reato, decide sull’impugnazione  ai  soli  effetti  delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli  interessi civili – sembrerebbe far propendere per la opposta soluzione secondo cui il giudice deve limitarsi alle statuizioni penali, essendo onere della parte offesa (anche ove costituita come parte civile nel processo penale così definito), di promuovere eventuale azione davanti al giudice civile, competente anche per l’irrogazione delle sanzioni pecuniarie civili; la parallela regola individuata per la depenalizzazione pare, infatti, costituire un’eccezione, nominativamente prevista (al pari dell’art. 578 cod. proc. pen.), alla disciplina generale di cui all’art. 538 cod. proc. pen. – secondo cui il giudice penale decide anche sulla responsabilità civile solo quando pronuncia sentenza di condanna – e come tale, dunque, non suscettibile di applicazione analogica.

Redattori:

Pietro Molino

Luigi Barone

Alessandro D’Andrea

Maria Emanuela Guerra

                                                                 Il vice direttore

                                                                 Giorgio Fidelbo

DECRETO LEGISLATIVO 15 gennaio 2016, n. 7

Disposizioni in materia di abrogazione di  reati  e  introduzione  di illeciti con sanzioni pecuniarie civili,  a  norma  dell’articolo  2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67.

(GU n.17 del 22-1-2016, vigente al: 6-2-2016) 

Capo I
ABROGAZIONE DI REATI E MODIFICHE AL CODICE PENALE

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

  Visti gli articoli 76 e 87 della Costituzione;

  Vista la legge 28 aprile 2014, n. 67, recante «Deleghe  al  Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del  sistema sanzionatorio.   Disposizioni   in   materia   di   sospensione   del procedimento  con  messa   alla   prova   e   nei   confronti   degli irreperibili», e in particolare l’articolo 2, comma 3;

  Visto  il  regio  decreto  19  ottobre  1930,  n.   1398,   recante «Approvazione del testo definitivo del codice penale»;

  Vista la legge 24 novembre 1981,  n.  689,  recante  «Modifiche  al sistema penale»;

  Visto l’articolo 14 della legge 23 agosto 1988, n. 400;

  Vista la preliminare  deliberazione  del  Consiglio  dei  ministri, adottata nella riunione del 13 novembre 2015;

  Acquisiti i pareri delle competenti Commissioni  della  Camera  dei deputati e del Senato della Repubblica;

  Vista la deliberazione del Consiglio dei ministri,  adottata  nella riunione del 15 gennaio 2016;

  Su proposta del  Ministro  della  giustizia,  di  concerto  con  il Ministro dell’economia e delle finanze;

E m a n a

il seguente decreto legislativo:

Art. 1

Abrogazione di reati

  1. Sono abrogati i seguenti articoli del codice penale:

    a) 485;

    b) 486;

    c) 594;

    d) 627;

    e) 647.

Art. 2

Modifiche al codice penale

  1. Al regio decreto 19 ottobre 1930, n.  1398,  sono  apportate  le seguenti modificazioni:

    a)  l’articolo  488  e’  sostituito  dal  seguente:  «488.  Altre falsita’  in  foglio  firmato   in   bianco.   Applicabilita’   delle disposizioni sulle falsita’ materiali. – Ai casi di  falsita’  su  un foglio firmato in bianco diversi da  quelli  preveduti  dall’articolo 487 si applicano le disposizioni sulle  falsita’  materiali  in  atti pubblici.»;

    b) all’articolo 489, il secondo comma e’ abrogato;

    c) all’articolo 490:

      1) il primo comma e’ sostituito  dal  seguente:  «Chiunque,  in tutto o in parte, distrugge, sopprime od  occulta  un  atto  pubblico vero o, al fine di recare a se’ o ad altri un vantaggio o  di  recare ad altri un danno,  distrugge,  sopprime  od  occulta  un testamento olografo, una cambiale o un altro titolo di credito trasmissibile per girata o  al  portatore  veri,  soggiace  rispettivamente  alle  pene stabilite negli articoli 476, 477 e 482, secondo  le  distinzioni  in essi contenute.»;

      2) il secondo comma e’ abrogato;

    d) l’articolo 491 e’ sostituito dal seguente: «491.  Falsita’  in testamento olografo, cambiale o titoli di credito. – Se alcuna  delle falsita’ prevedute dagli articoli precedenti riguarda  un  testamento olografo,  ovvero  una  cambiale  o  un  altro  titolo   di   credito trasmissibile per girata o al portatore e il  fatto  e’  commesso  al fine di recare a se’ o ad altri un vantaggio o di recare ad altri  un danno, si applicano le pene  rispettivamente  stabilite  nella  prima parte dell’articolo 476 e nell’articolo 482.

  Nel caso di contraffazione o alterazione degli atti di cui al primo comma, chi ne fa uso, senza essere concorso nella falsita’,  soggiace alla pena stabilita nell’articolo 489  per  l’uso  di  atto  pubblico falso.»;

    e) l’articolo  491-bis  e’  sostituito  dal  seguente:  «491-bis.

Documenti informatici.  –  Se  alcuna  delle  falsita’  previste  dal presente capo  riguarda  un  documento  informatico  pubblico  avente efficacia probatoria, si applicano le disposizioni  del  capo  stesso concernenti gli atti pubblici.»;

    f) l’articolo 493-bis e’ sostituito dal seguente: «493-bis.  Casi di perseguibilita’ a querela. – I delitti previsti dagli articoli 490 e 491,  quando  concernono  una  cambiale  o  un  titolo  di  credito trasmissibile per girata o al  portatore,  sono  punibili  a  querela della persona offesa.

  Si procede d’ufficio, se i fatti previsti dagli articoli di cui  al precedente comma riguardano un testamento olografo.»;

    g) all’articolo 596:

      1) al comma primo, le parole «dei  delitti  preveduti  dai  due articoli precedenti» sono sostituite  dalle  seguenti:  «dal  delitto previsto dall’articolo precedente»;

      2) al comma quarto,  le  parole  «applicabili  le  disposizioni dell’articolo 594,  primo  comma,  ovvero  dell’articolo  595,  primo comma» sono sostituite dalle seguenti: «applicabile  la  disposizione dell’articolo 595, primo comma»;

    h) all’articolo 597, comma primo, le parole «I delitti  preveduti dagli articoli  594  e  595  sono  punibili»  sono  sostituite  dalle seguenti: «Il delitto previsto dall’articolo 595 e’ punibile»;

    i) all’articolo 599:

      1) la rubrica e’ sostituita dalla seguente: «Provocazione.»;

      2) i commi primo e terzo sono abrogati;

      3) nel secondo comma, le parole «dagli  articoli  594  e»  sono sostituite dalle seguenti: «dall’articolo»;

    l)   l’articolo   635   e’   sostituito   dal   seguente:   «635.

Danneggiamento. – Chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili  cose  mobili  o  immobili  altrui  con violenza  alla  persona  o  con  minaccia  ovvero  in  occasione   di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico o del delitto previsto dall’articolo 331, e’ punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

  Alla stessa pena soggiace chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili le seguenti cose altrui:

    1. edifici pubblici o destinati a uso pubblico o all’esercizio di un culto o cose  di  interesse  storico  o  artistico  ovunque  siano ubicate o immobili compresi nel perimetro dei centri storici,  ovvero immobili  i  cui  lavori  di  costruzione,  di  ristrutturazione,  di recupero o di risanamento sono in corso o risultano ultimati o  altre delle cose indicate nel numero 7) dell’articolo 625;

    2. opere destinate all’irrigazione;

    3. piantate di viti, di alberi o arbusti  fruttiferi,  o  boschi, selve o foreste, ovvero vivai forestali destinati al rimboschimento;

    4. attrezzature  e  impianti  sportivi  al  fine  di  impedire  o interrompere lo svolgimento di manifestazioni sportive.

  Per i reati di cui al primo e  al  secondo  comma,  la  sospensione condizionale  della  pena  e’  subordinata   all’eliminazione   delle conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero, se il  condannato non si oppone, alla prestazione di attivita’ non retribuita a  favore della collettivita’ per un tempo determinato, comunque non  superiore alla durata della pena sospesa, secondo  le  modalita’  indicate  dal giudice nella sentenza di condanna.»;

    m) l’articolo 635-bis, secondo comma, e’ sostituito dal seguente:

«Se il fatto e’ commesso con violenza alla  persona  o  con  minaccia ovvero con abuso della qualita’ di operatore del sistema, la pena  e’ della reclusione da uno a quattro anni.»;

    n) l’articolo 635-ter, terzo comma, e’ sostituito  dal  seguente:

«Se il fatto e’ commesso con violenza alla  persona  o  con  minaccia ovvero con abuso della qualita’ di operatore del sistema, la pena  e’ aumentata.»;

    o)  l’articolo  635-quater,  secondo  comma,  e’  sostituito  dal seguente: «Se il fatto e’ commesso con violenza alla  persona  o  con minaccia ovvero con abuso della qualita’ di operatore del sistema, la pena e’ aumentata.»;

    p) l’articolo  635-quinquies,  terzo  comma,  e’  sostituito  dal seguente: «Se il fatto e’ commesso con violenza alla  persona  o  con minaccia ovvero con abuso della qualita’ di operatore del sistema, la pena e’ aumentata.».

Capo II
ILLECITI SOTTOPOSTI A SANZIONI PECUNIARIE CIVILI

Art. 3

Responsabilita’ civile per gli illeciti sottoposti

a sanzioni pecuniarie

  1. I fatti previsti dall’articolo seguente, se  dolosi,  obbligano, oltre che alle restituzioni e al risarcimento del  danno  secondo  le leggi civili, anche al pagamento della sanzione pecuniaria civile ivi stabilita.

  2. Si osserva la  disposizione  di  cui  all’articolo  2947,  primo comma, del codice civile.

Art. 4

Illeciti civili sottoposti a sanzioni pecuniarie

  1. Soggiace alla sanzione pecuniaria civile da euro  cento  a  euro ottomila:

    a) chi offende l’onore o  il  decoro  di  una  persona  presente, ovvero mediante comunicazione telegrafica, telefonica, informatica  o telematica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa;

    b) il comproprietario, socio o coerede che, per procurare a se’ o ad altri un profitto, s’impossessa della cosa comune, sottraendola  a chi la detiene, salvo che il fatto sia commesso su cose  fungibili  e il valore di esse non ecceda la quota spettante al suo autore;

    c) chi distrugge, disperde, deteriora o  rende,  in  tutto  o  in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui,  al  di  fuori  dei casi di  cui  agli  articoli  635,  635-bis,  635-ter,  635-quater  e 635-quinquies del codice penale;

    d) chi, avendo trovato denaro o cose da  altri  smarrite,  se  ne appropria,  senza  osservare  le  prescrizioni  della  legge   civile sull’acquisto della proprieta’ di cose trovate;

    e) chi, avendo trovato un tesoro, si appropria,  in  tutto  o  in parte, della quota dovuta al proprietario del fondo;

    f) chi si appropria di cose delle quali sia  venuto  in  possesso per errore altrui o per caso fortuito.

  2. Nel caso di cui alla lettera a) del primo comma,  se  le  offese sono reciproche, il giudice puo’ non applicare la sanzione pecuniaria civile ad uno o ad entrambi gli offensori.

  3. Non e’ sanzionabile chi ha commesso il fatto previsto dal  primo comma,  lettera  a),  del  presente  articolo,  nello   stato   d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso.

  4. Soggiace alla sanzione pecuniaria civile da euro duecento a euro dodicimila:

    a) chi, facendo uso o lasciando  che  altri  faccia  uso  di  una scrittura privata da lui falsamente formata o da lui alterata, arreca ad altri un danno.  Si  considerano alterazioni  anche  le  aggiunte falsamente  apposte  a  una  scrittura  vera,  dopo  che  questa   fu definitivamente formata;

    b) chi, abusando di un foglio firmato in bianco, del quale  abbia il possesso per un titolo che importi  l’obbligo  o  la  facolta’  di riempirlo, vi scrive o fa scrivere  un  atto  privato  produttivo  di effetti  giuridici,  diverso  da  quello  a  cui  era   obbligato   o autorizzato, se dal fatto di farne uso o di lasciare che se ne faccia uso, deriva un danno ad altri;

    c)  chi,  limitatamente  alle  scritture   private,   commettendo falsita’ su un foglio firmato in bianco diverse  da  quelle  previste dalla lettera b), arreca ad altri un danno;

    d) chi, senza essere concorso nella falsita’, facendo uso di  una scrittura privata falsa, arreca ad altri un danno;

    e) chi, distruggendo, sopprimendo od occultando  in  tutto  o  in parte una scrittura privata vera, arreca ad altri un danno;

    f) chi commette il fatto di cui  al  comma  1,  lettera  a),  del presente   articolo,   nel   caso   in    cui    l’offesa    consista nell’attribuzione di un fatto determinato o sia commessa in  presenza di piu’ persone;

  5. Le disposizioni di cui alle lettere a), b), c),  d)  ed  e)  del comma 4, si applicano anche nel caso in cui le falsita’ ivi  previste riguardino  un  documento  informatico privato   avente   efficacia probatoria.

  6. Agli effetti delle disposizioni di cui al comma 4,  lettere  a), b), c), d) ed  e)  del  presente  articolo,  nella  denominazione  di «scritture private» sono compresi  gli  atti  originali  e  le  copie autentiche di essi, quando a  norma  di  legge  tengano  luogo  degli originali mancanti.

  7. Nei casi di cui al  comma  4,  lettere  b)  e  c)  del  presente articolo, si  considera  firmato  in  bianco  il  foglio  in  cui  il sottoscrittore abbia lasciato bianco un qualsiasi spazio destinato  a essere riempito.

  8. Le disposizioni di cui ai commi 2 e 3 del presente  articolo  si applicano anche nel caso di cui al comma 4, lettera f), del  medesimo articolo.

Art. 5

Criteri di commisurazione delle sanzioni pecuniarie

  1. L’importo della sanzione pecuniaria civile  e’  determinato  dal giudice tenuto conto dei seguenti criteri:

    a) gravita’ della violazione;

    b) reiterazione dell’illecito;

    c) arricchimento del soggetto responsabile;

    d) opera svolta dall’agente  per  l’eliminazione  o  attenuazione

delle conseguenze dell’illecito;

    e) personalita’ dell’agente;

    f) condizioni economiche dell’agente.

Art. 6

Reiterazione dell’illecito

  1. Si ha reiterazione nel  caso  in  cui  l’illecito  sottoposto  a sanzione pecuniaria civile sia  compiuto  entro  quattro  anni  dalla commissione, da parte dello stesso soggetto, di  un’altra  violazione sottoposta a sanzione pecuniaria civile, che sia della stessa  indole e che sia stata accertata con provvedimento esecutivo.

  2. Ai fini della presente legge, si considerano della stessa indole le violazioni della medesima disposizione e  quelle  di  disposizioni diverse che, per la natura dei fatti che le costituiscono  o  per  le modalita’ della condotta, presentano una  sostanziale omogeneita’  o caratteri fondamentali comuni.

Art. 7

Concorso di persone

  1. Quando piu’ persone concorrono in un illecito di cui al presente capo, ciascuna di esse soggiace alla sanzione pecuniaria  civile  per esso stabilita.

Art. 8

Procedimento

  1.  Le  sanzioni  pecuniarie  civili  sono  applicate  dal  giudice competente a conoscere dell’azione di risarcimento del danno.

  2.  Il  giudice  decide  sull’applicazione  della  sanzione  civile pecuniaria al termine del giudizio, qualora  accolga  la  domanda  di risarcimento proposta dalla persona offesa.

  3. La sanzione pecuniaria civile non puo’ essere  applicata  quando l’atto introduttivo del giudizio e’ stato notificato nelle  forme  di cui all’articolo 143 del codice di procedura  civile,  salvo  che  la controparte si sia costituita in giudizio o risulti con certezza  che abbia avuto comunque conoscenza del processo.

  4. Al procedimento, anche ai fini dell’irrogazione  della  sanzione pecuniaria  civile,  si  applicano  le  disposizioni  del  codice  di procedura civile, in quanto compatibili con  le  norme  del  presente capo.

Art. 9

Pagamento della sanzione

  1. Con decreto del Ministro della giustizia,  di  concerto  con  il Ministro dell’economia e delle finanze, da emanarsi entro il  termine di sei  mesi  dall’entrata  in  vigore  del  presente  decreto,  sono stabiliti  termini  e  modalita’  per  il  pagamento  della  sanzione pecuniaria civile, nonche’ le forme per la  riscossione  dell’importo dovuto.

  2.  Il  giudice  puo’  disporre,  in  relazione   alle   condizioni economiche del condannato, che il pagamento della sanzione pecuniaria civile sia effettuato in rate mensili da due a  otto.  Ciascuna  rata non puo’ essere inferiore ad euro cinquanta.

  3. Decorso inutilmente, anche per una sola rata, il termine fissato per il pagamento, l’ammontare residuo della  sanzione  e’  dovuto  in un’unica soluzione.

  4. Il condannato puo’ estinguere la sanzione civile  pecuniaria  in ogni momento, mediante un unico pagamento.

  5. Per il pagamento della sanzione pecuniaria civile non e’ ammessa alcuna forma di copertura assicurativa.

  6. L’obbligo  di  pagare  la  sanzione  pecuniaria  civile  non  si trasmette agli eredi.

Art. 10

Destinazione del provento della sanzione

  1. Il provento della  sanzione  pecuniaria  civile  e’  devoluto  a favore della Cassa delle ammende.

Art. 11

Registro informatizzato dei provvedimenti

in materia di sanzioni pecuniarie

  1. Con apposito decreto del Ministro della giustizia sono  adottate le disposizioni  relative  alla  tenuta  di  un  registro,  in  forma automatizzata, in cui sono iscritti i provvedimenti  di  applicazione delle sanzioni pecuniarie civili, per gli effetti di cui all’articolo 6.

Art. 12

Disposizioni transitorie

  1. Le disposizioni relative alle  sanzioni  pecuniarie  civili  del presente decreto si applicano anche ai fatti  commessi  anteriormente alla  data  di  entrata  in  vigore  dello  stesso,  salvo   che   il procedimento penale sia stato definito con  sentenza  o  con  decreto divenuti irrevocabili.

  2. Se i procedimenti penali  per  i  reati  abrogati  dal  presente decreto sono stati definiti, prima della sua entrata in  vigore,  con sentenza   di   condanna   o   decreto   irrevocabili,   il   giudice dell’esecuzione revoca la sentenza o il decreto, dichiarando  che  il fatto non e’ previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti. Il giudice  dell’esecuzione  provvede  con  l’osservanza delle  disposizioni  dell’articolo  667,  comma  4,  del  codice   di procedura penale.

Art. 13

Disposizioni finanziarie

  1. Con riferimento alle minori entrate derivanti dalle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e  12,  valutate  in  euro  129.873,00  per l’anno 2016 e in euro 86.582,00 annui a decorrere dall’anno 2017,  si provvede con quota parte dei risparmi derivanti dall’attuazione degli articoli 1 e 2.

  Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sara’ inserito nella  Raccolta  ufficiale  degli  atti  normativi  della  Repubblica Italiana. E’ fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.

DECRETO LEGISLATIVO 15 gennaio 2016, n. 8

Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67.

(GU n.17 del 22-1-2016, vigente al: 6-2-2016) 

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

  Visti gli articoli 76 e 87 della Costituzione;

  Vista la legge 28 aprile 2014, n. 67, recante «Deleghe  al  Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del  sistema sanzionatorio.   Disposizioni   in   materia   di   sospensione   del procedimento  con  messa   alla   prova   e   nei   confronti   degli irreperibili», e in particolare l’articolo 2, comma 2;

  Visto  il  regio  decreto  19  ottobre  1930,  n.   1398,   recante «Approvazione del testo definitivo del codice penale»;

  Vista  la  legge  8  gennaio  1931,  n.  234,  recante  «Norme  per l’impianto e l’uso di apparecchi  radioelettrici  privati  e  per  il rilascio  delle  licenze  di  costruzione,  vendita  e  montaggio  di materiali radioelettrici»;

  Vista la legge 22 aprile 1941,  n.  633,  recante  «Protezione  del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio»;

  Visto il decreto legislativo luogotenenziale  10  agosto  1945,  n. 506, recante «Disposizioni circa la denunzia dei beni che sono  stati oggetto  di  confische,  sequestri,  o  altri  atti  di  disposizione adottati sotto l’impero del sedicente governo repubblicano»;

  Vista la legge 28 novembre 1965, n.  1329,  recante  «Provvedimenti per l’acquisto di nuove macchine utensili»;

  Visto il decreto-legge 26 ottobre 1970,  n.  745,  convertito,  con modificazioni,  dalla  legge  18  dicembre  1970,  n.  1034,  recante «Provvedimenti straordinari per la ripresa economica»;

  Visto il decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463,  convertito,  con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, recante  «Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e  per  il  contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari  settori  della  pubblica amministrazione e proroga di tali termini»;

  Visto il decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, recante «Testo unico delle leggi in materia di disciplina  degli stupefacenti   e   sostanze   psicotrope,   prevenzione,    cura    e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza»;

  Visto il decreto legislativo 11 febbraio 1998, n.  32,  recante  la «Razionalizzazione del sistema di  distribuzione  dei  carburanti,  a norma dell’articolo 4, comma 4, lettera  c),  della  legge  15  marzo 1997, n. 59»;

  Vista la legge 24 novembre 1981,  n.  689,  recante  «Modifiche  al sistema penale»;

  Visto l’articolo 14 della legge 23 agosto 1988, n. 400;

  Vista la preliminare  deliberazione  del  Consiglio  dei  ministri, adottata nella riunione del 13 novembre 2015;

  Acquisiti i pareri delle competenti Commissioni  della  Camera  dei Deputati e del Senato della Repubblica;

  Vista la deliberazione del Consiglio dei ministri,  adottata  nella riunione del 15 gennaio 2016;

  Sulla proposta del Ministro della giustizia,  di  concerto  con  il Ministro dell’economia e delle finanze;

E m a n a

il seguente decreto legislativo:

Art. 1

Depenalizzazione di reati puniti  con  la  sola  pena  pecuniaria  ed

 esclusioni

  1.  Non  costituiscono  reato  e  sono   soggette   alla   sanzione amministrativa  del  pagamento  di  una  somma  di  denaro  tutte  le violazioni per le quali e’  prevista  la  sola  pena  della  multa  o dell’ammenda.

  2. La disposizione del comma 1 si applica anche ai  reati  in  esso previsti che, nelle  ipotesi  aggravate,  sono  puniti  con  la  pena detentiva, sola, alternativa o congiunta a quella pecuniaria. In  tal caso, le ipotesi aggravate sono da ritenersi fattispecie autonome  di reato.

  3. La disposizione del comma 1 non si applica ai reati previsti dal codice penale, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 2, comma  6, e a quelli compresi nell’elenco allegato al presente decreto.

  4. La disposizione del comma 1 non si applica ai reati  di  cui  al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.

  5. La sanzione amministrativa pecuniaria, di cui al primo comma, e’ cosi’ determinata:

    a) da euro 5.000 a euro 10.000 per i reati puniti con la multa  o l’ammenda non superiore nel massimo a euro 5.000;

    b) da euro 5.000 a euro 30.000 per i reati puniti con la multa  o l’ammenda non superiore nel massimo a euro 20.000;

    c) da euro 10.000 a euro 50.000 per i reati puniti con la multa o l’ammenda superiore nel massimo a euro 20.000.

  6. Se per le violazioni previste dal comma 1 e’ prevista  una  pena pecuniaria proporzionale, anche senza la  determinazione  dei  limiti minimi o massimi, la somma dovuta e’ pari all’ammontare della multa o dell’ammenda, ma non puo’, in ogni  caso,  essere  inferiore  a  euro 5.000 ne’ superiore a euro 50.000.

Art. 2

Depenalizzazione di reati del codice penale

  1. All’articolo 527 del codice penale sono  apportate  le  seguenti modificazioni:

    a) nel primo comma, le parole «e’ punito con la reclusione da tre mesi a tre anni» sono sostituite dalle seguenti:  «e’  soggetto  alla sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro 30.000»;

    b) nel secondo comma, le parole «La pena e’ aumentata da un terzo alla meta’» sono sostituite dalle seguenti: «Si applica la pena della reclusione da quattro mesi a quattro anni e sei mesi.».

  2. All’articolo 528 del codice penale sono  apportate  le  seguenti modificazioni:

    a) nel primo comma, le parole «e’ punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con  la  multa  non  inferiore  a  euro  103»  sono sostituite dalle seguenti: «e’ soggetto alla sanzione  amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000»;

    b)  nel  secondo  comma,  le  parole  «Alla  stessa  pena»   sono sostituite dalle seguenti: «Alla stessa sanzione»;

    c) nel terzo comma, le parole «Tale pena si applica inoltre» sono sostituite dalle seguenti: «Si applicano la reclusione da tre mesi  a tre anni e la multa non inferiore a euro 103».

  3. All’articolo 652 del codice penale sono  apportate  le  seguenti modificazioni:

    a) nel primo comma, le parole «e’ punito con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 309» sono sostituite dalle seguenti: «e’ soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000  a euro 15.000»;

    b) nel secondo comma, le parole «e’ punito con l’arresto da uno a sei mesi ovvero con l’ammenda da euro 30 a euro 619» sono  sostituite dalle seguenti: «e’ soggetto alla sanzione amministrativa  pecuniaria da euro 6.000 a euro 18.000».

  4. All’articolo 661 del codice penale, le parole «e’  punito»  sono sostituite con le seguenti: «e’ soggetto» e le parole «con  l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro  1.032»  sono  sostituite dalle seguenti: «alla  sanzione  amministrativa  pecuniaria  da  euro 5.000 a euro 15.000».

  5. All’articolo 668 del codice penale sono  apportate  le  seguenti modificazioni:

    a) nel primo comma, le parole «e’ punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a euro 309» sono sostituite dalle seguenti: «e’ soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000  a euro 15.000»;

    b)  nel  secondo  comma,  le  parole  «Alla  stessa  pena»   sono sostituite dalle seguenti: «Alla stessa sanzione»;

    c) nel terzo comma, le parole  «la  pena  pecuniaria  e  la  pena detentiva  sono  applicate  congiuntamente»  sono  sostituite   dalle seguenti: «si applica la sanzione amministrativa pecuniaria  da  euro 10.000 a euro 30.000».

  6. L’articolo 726 del codice penale  e’  sostituito  dal  seguente:  «Chiunque, in un luogo pubblico  o  aperto  o  esposto  al  pubblico, compie atti contrari alla pubblica decenza e’ soggetto alla  sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro 10.000».

Art. 3

Altri casi di depenalizzazione

  1. Alla legge 8 gennaio 1931, n. 234, sono  apportate  le  seguenti modificazioni:

    a) all’articolo 8, primo comma, in fine, dopo la  parola  «reato» sono  aggiunte  le  seguenti:  «,  o  delle  sanzioni  amministrative pecuniarie, qualora si tratti di illeciti amministrativi»;

    b) all’articolo 11:

      1) al primo comma, le parole «reato piu’ grave, con una ammenda da lire 40.000 a lire 400.000 o con l’arresto fino a due  anni»  sono sostituite dalle seguenti: «reato,  con  la  sanzione  amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000»;

      2) il secondo  comma  e’  sostituito  dal  seguente:  «Chiunque commette la violazione indicata nel primo comma, dopo avere  commesso la stessa violazione accertata con provvedimento esecutivo, e’ punito con l’arresto fino a tre anni o con  l’ammenda  da  euro  30  a  euro 309.»;

      3) al terzo comma dell’articolo 11, le parole «Si fa luogo alla confisca, a termini del Codice di procedura penale»  sono  sostituite dalle seguenti: «Si fa luogo a confisca amministrativa»;

    c) l’articolo 12 e’ abrogato.

  2. Alla legge 22 aprile 1941, n. 633, sono  apportate  le  seguenti modificazioni:

    a) all’articolo 171-quater, primo comma, le  parole  «piu’  grave reato, e’ punito con l’arresto sino ad un anno  o  con  l’ammenda  da lire un milione a lire dieci milioni» sono sostituite dalle seguenti:

«reato, e’ soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria  da  euro 5.000 a euro 30.000»;

    b) all’articolo 171-sexies, comma  2,  le  parole  «e  171-ter  e 171-quater» sono sostituite dalle  seguenti:  «171-ter  e  l’illecito amministrativo di cui all’articolo 171-quater».

  3. All’articolo 3 del decreto legislativo luogotenenziale 10 agosto 1945, n. 506, sono apportate le seguenti modificazioni:

    a) le parole «e’ punito con l’arresto non inferiore nel minimo  a sei mesi o  con  l’ammenda  non  inferiore  a  lire  2.000.000»  sono sostituite dalle seguenti: «e’ soggetto alla sanzione  amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000»;

    b) le parole «la pena e’ dell’arresto non inferiore a tre mesi  o dell’ammenda non inferiore a lire 1.000.000»  sono  sostituite  dalle seguenti: «si applica la sanzione amministrativa pecuniaria  da  euro 10.000 a euro 30.000».

  4. All’articolo 15 della legge 28 novembre 1965, n.  1329,  secondo comma, le parole «e’ punito con la pena dell’ammenda da lire  150.000 a lire 600.000 o con l’arresto fino a tre mesi» sono sostituite dalle seguenti: «e’ soggetto alla  sanzione  amministrativa pecuniaria  da euro 5.000 a euro 15.000».

  5. L’articolo 16, quarto comma, del decreto-legge 26 ottobre  1970, n. 745, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre  1970, n.  1034,  e’   sostituito   dal   seguente:   «All’installazione   o all’esercizio di impianti in mancanza di concessione  si  applica  la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000.».

  6. L’articolo 2, comma 1-bis, del decreto-legge 12 settembre  1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre  1983, n. 638, e’ sostituito dal seguente:

  «1-bis. L’omesso versamento delle ritenute di cui al comma  1,  per un importo superiore a euro 10.000 annui, e’ punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032. Se l’importo omesso non e’  superiore  a  euro  10.000  annui,  si  applica  la  sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000. Il datore  di lavoro  non   e’   punibile,   ne’   assoggettabile   alla   sanzione amministrativa, quando provvede al versamento  delle  ritenute  entro tre  mesi  dalla  contestazione  o   dalla   notifica   dell’avvenuto accertamento della violazione.».

  7. All’articolo 28, comma  2,  del  decreto  del  Presidente  della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, le parole «e’ punito, salvo che il fatto costituisca reato piu’ grave, con l’arresto sino ad un  anno  o con l’ammenda da  lire  un  milione  a  lire  quattro  milioni»  sono sostituite  dalle  seguenti:  «e’  soggetto,  salvo  che   il   fatto costituisca reato, alla sanzione amministrativa  pecuniaria  da  euro 5.000 a euro 30.000».

Art. 4

Sanzioni amministrative accessorie

  1. In caso di reiterazione specifica di  una  delle  violazioni  di seguito  indicate,   l’autorita’   amministrativa   competente,   con l’ordinanza   ingiunzione,   applica   la   sanzione   amministrativa accessoria  della  sospensione  della  concessione,  della   licenza, dell’autorizzazione  o  di  altro  provvedimento  amministrativo  che consente l’esercizio dell’attivita’ da un minimo di dieci giorni a un massimo di tre mesi:

    a) articolo 668 del codice penale;

    b) articolo 171-quater della legge 22 aprile 1941, n. 633;

    c) articolo  28,  comma  2,  del  decreto  del  Presidente  della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309.

  2. Allo stesso modo provvede il giudice con la sentenza di condanna qualora sia competente, ai sensi  dell’articolo  24  della  legge  24 novembre 1981, n. 689, a decidere su una  delle  violazioni  indicate nel comma 1.

  3. Per gli illeciti amministrativi di cui al comma 1,  in  caso  di reiterazione specifica, non e’ ammesso il pagamento in misura ridotta ai sensi dell’articolo 16 della legge 24 novembre 1981, n. 689.

Art. 5

Disposizione di coordinamento

  1. Quando i reati trasformati in illeciti amministrativi  ai  sensi del  presente  decreto  prevedono  ipotesi  aggravate  fondate  sulla recidiva ed  escluse  dalla  depenalizzazione,  per  recidiva  e’  da intendersi la reiterazione dell’illecito depenalizzato.

Art. 6

Disposizioni applicabili

  1.   Nel   procedimento   per   l’applicazione    delle    sanzioni amministrative previste dal presente decreto si osservano, in  quanto applicabili, le disposizioni delle sezioni I e II del  capo  I  della legge 24 novembre 1981, n. 689.

Art. 7

Autorita’ competente

  1. Per le violazioni di  cui  all’articolo  1,  sono  competenti  a ricevere il rapporto e ad applicare  le  sanzioni  amministrative  le autorita’ amministrative competenti ad  irrogare  le  altre  sanzioni amministrative  gia’  previste  dalle  leggi   che   contemplano   le violazioni stesse; nel caso  di  mancata  previsione,  e’  competente l’autorita’ individuata a  norma  dell’articolo  17  della  legge  24 novembre 1981, n. 689.

  2. Per le  violazioni  di  cui  all’articolo  2,  e’  competente  a ricevere il rapporto e ad  irrogare  le  sanzioni  amministrative  il prefetto.

  3. Per le violazioni di  cui  all’articolo  3,  sono  competenti  a ricevere il rapporto e ad irrogare le sanzioni amministrative:

    a) le autorita’ competenti ad irrogare le sanzioni amministrative gia’ indicate nella legge 22 aprile 1941, n. 633,  nel  decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre  1983,  n.  638,  e  nel  decreto  del Presidente  della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309;

    b)  il  Ministero   dello   sviluppo   economico   in   relazione all’articolo 11 della legge 8 gennaio 1931, n. 234;

    c)    l’autorita’     comunale     competente     al     rilascio dell’autorizzazione all’installazione o all’esercizio di impianti  di distribuzione  di  carburante  di  cui  all’articolo  1  del  decreto legislativo 11 febbraio 1998, n. 32;

    d)  il  prefetto  con  riguardo  alle  restanti  leggi   indicate all’articolo 3.

Art. 8

Applicabilita’ delle sanzioni amministrative

alle violazioni anteriormente commesse

  1. Le disposizioni del presente decreto che sostituiscono  sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata  in  vigore  del  decreto stesso, sempre che il procedimento penale non sia stato definito  con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili.

  2. Se i procedimenti penali per i reati depenalizzati dal  presente decreto sono stati definiti, prima della sua entrata in  vigore,  con sentenza   di   condanna   o   decreto   irrevocabili,   il   giudice dell’esecuzione revoca la sentenza o il decreto, dichiarando  che  il fatto non e’ previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti. Il giudice  dell’esecuzione  provvede  con  l’osservanza delle  disposizioni  dell’articolo  667,  comma  4,  del  codice   di procedura penale.

  3. Ai fatti commessi prima della data  di  entrata  in  vigore  del presente   decreto   non   puo’   essere   applicata   una   sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al  massimo  della pena originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’articolo 135 del codice penale. A tali fatti non si applicano le sanzioni amministrative accessorie introdotte dal presente decreto, salvo che le  stesse  sostituiscano  corrispondenti pene accessorie.

Art. 9

Trasmissione degli atti all’autorita’ amministrativa

  1.  Nei  casi  previsti  dall’articolo  8,  comma  1,   l’autorita’ giudiziaria, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente   decreto,    dispone    la   trasmissione    all’autorita’ amministrativa competente degli atti dei procedimenti penali relativi ai reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che  il  reato risulti prescritto o estinto per altra causa alla medesima data.

  2.  Se  l’azione  penale  non  e’  stata  ancora   esercitata,   la trasmissione  degli  atti  e’  disposta  direttamente  dal   pubblico ministero che, in caso  di  procedimento  gia’  iscritto,  annota  la trasmissione nel registro delle notizie di reato. Se il reato risulta estinto  per  qualsiasi  causa,  il   pubblico   ministero   richiede l’archiviazione a norma del codice di procedura penale; la  richiesta ed il decreto del giudice che la accoglie possono  avere  ad  oggetto anche elenchi cumulativi di procedimenti.

  3. Se l’azione penale e’ stata esercitata, il giudice pronuncia, ai sensi dell’articolo 129 del  codice  di  procedura  penale,  sentenza inappellabile perche’ il fatto  non  e’  previsto  dalla  legge  come reato, disponendo la trasmissione degli atti a  norma  del  comma  1.

Quando  e’  stata  pronunciata  sentenza  di  condanna,  il   giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non e’ previsto  dalla legge come reato, decide  sull’impugnazione  ai  soli  effetti  delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono  gli  interessi civili.

  4. L’autorita’ amministrativa notifica gli estremi della violazione agli interessati residenti nel territorio della Repubblica  entro  il termine di novanta giorni e a quelli residenti  all’estero  entro  il termine di trecentosettanta giorni dalla ricezione degli atti.

  5. Entro sessanta giorni dalla notificazione  degli  estremi  della violazione l’interessato e’ ammesso al pagamento in  misura  ridotta, pari alla meta’ della sanzione, oltre alle spese del procedimento. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui all’articolo 16 della legge 24 novembre 1981, n. 689.

  6. Il pagamento determina l’estinzione del procedimento.

Art. 10

Disposizioni finanziarie

  1.  Le  amministrazioni  interessate  provvedono  agli  adempimenti previsti dal presente decreto, senza nuovi o maggiori oneri a  carico della  finanza  pubblica,  con  le  risorse  umane,   strumentali   e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

  Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sara’ inserito nella  Raccolta  ufficiale  degli  atti  normativi  della  Repubblica Italiana. E’ fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.

Allegato

(Art. 1)

ELENCO  DELLE  LEGGI  CONTENENTI  REATI  PUNITI  CON  LA  SOLA   PENA PECUNIARIA ESCLUSI DALLA DEPENALIZZAZIONE A NORMA DELL’ART. 2 DELLA LEGGE N. 67/2014

    AVVERTENZA: i riferimenti agli atti normativi si intendono estesi agli  eventuali,  successivi   provvedimenti   di   modifica   o   di integrazione.

Edilizia e urbanistica

    1. Decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, recante “Testo unico delle disposizioni legislative  e  regolamentari in materia edilizia”.

    2. Legge 2 febbraio 1974, n. 64, recante  “Provvedimenti  per  le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche”.

    3. Legge  5  novembre  1971,  n.  1086,  recante  “Norme  per  la disciplina delle opere in conglomerato cementizio armato,  normale  e precompresso ed a struttura metallica”.

Ambiente, territorio e paesaggio

    1.  Decreto  legislativo  6  novembre  2007,  n.   202,   recante “Attuazione  della  direttiva  2005/35/CE  relativa  all’inquinamento provocato dalle navi e conseguenti sanzioni”.

    2. Decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante  “Norme  in materia ambientale”.

    3.  Decreto  legislativo  11  maggio  2005,   n.   133,   recante “Attuazione della direttiva 2000/76/CE, in materia  di  incenerimento dei rifiuti”.

    4. Decreto legislativo 14 marzo 2003, n. 65, recante  “Attuazione delle   direttive   1999/45/CE    e    2001/60/CE    relative    alla classificazione, all’imballaggio  e  all’etichettatura  di  preparati pericolosi”, limitatamente all’art. 18, comma 1, quando ha ad oggetto le sostanze  e  i  preparati  pericolosi  per  l’ambiente,  per  come definiti dall’art. 2, comma 1, lettera q).

    5.  Decreto  legislativo  25  febbraio  2000,  n.  174,   recante “Attuazione della direttiva 98/8/CE  in  materia  di  immissione  sul mercato di biocidi”.

    6.  Decreto  legislativo  3  febbraio  1997,   n.   52,   recante “Attuazione della  direttiva  92/32/CE  concernente  classificazione, imballaggio   ed   etichettatura    delle    sostanze    pericolose”, limitatamente all’art. 36, comma 1, quando ha ad oggetto le  sostanze e i preparati pericolosi per l’ambiente, per come definiti  dall’art. 2, comma 1, lettera q).

    7. Legge  11  febbraio  1992,  n.  157,  recante  “Norme  per  la protezione  della  fauna  selvatica  omeoterma  e  per  il   prelievo venatorio”.

    8.  Legge  26  aprile  1983,  n.   136,   recante   norme   sulla “Biodegradabilita’ dei detergenti sintetici”.

    9. Legge 31 dicembre 1962, n. 1860, concernente “Impiego pacifico dell’energia nucleare”.

Alimenti e bevande

    1. Decreto-legge 24 giugno 2014, n. 91, convertito dalla legge 11 agosto 2014, n. 116, recante “Disposizioni  urgenti  per  il  settore agricolo,  la  tutela  ambientale  e   l’efficientamento   energetico dell’edilizia scolastica e universitaria, il rilancio e  lo  sviluppo delle imprese, il  contenimento  dei  costi  gravanti  sulle  tariffe elettriche, nonche’  per  la  definizione  immediata  di  adempimenti derivanti dalla normativa europea”, limitatamente all’art.  4,  comma 8.

    2.  Decreto  legislativo  21  maggio  2004,   n.   169,   recante “Attuazione della  direttiva  2002/46/CE  relativa  agli  integratori alimentari”.

Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro

    1. Decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, recante  “Attuazione dell’art. 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia  di  tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro”.

    2. Legge 27 marzo 1992, n.  257,  recante  “Norme  relative  alla cessazione dell’impiego dell’amianto”.

    3. Legge  16  giugno  1939,  n.  1045,  recante  “Condizioni  per l’igiene  e  l’abitabilita’  degli  equipaggi  a  bordo  delle   navi mercantili  nazionali”,  con  riguardo  alla  violazione,  sanzionata dall’art. 90,  delle  disposizioni  di  cui  agli  articoli  34,  39, limitatamente ai locali di lavoro, 40, 41, 44, comma 2, limitatamente alla  installazione  di  impianti  per  la  distribuzione   di   aria condizionata nella sala nautica e nei  locali  della  timoneria,  45, limitatamente ai locali destinati al  lavoro,  66,  limitatamente  ai posti fissi di lavoro, 73, 74, 75, 76.

Sicurezza pubblica

    1. Regio decreto 18 giugno 1931, n.  773,  recante  “Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza”.

Giochi d’azzardo e scommesse

    1. Regio decreto-legge 19 ottobre 1938, n. 1933, recante “Riforma delle leggi sul lotto pubblico”.

Armi ed esplosivi

    1. Legge  9  luglio  1990,  n.  185,  recante  “Nuove  norme  sul controllo delle esportazioni, importazioni e transito  dei  materiali di armamento”.

    2. Legge 18 aprile 1975, n. 110, recante “Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle  armi,  delle  munizioni  e degli esplosivi”.

    3. Legge 23 dicembre 1974, n. 694,  recante  la  “Disciplina  del porto delle armi a bordo degli aeromobili”.

    4. Legge 23 febbraio 1960, n. 186, recante “Modifiche  al  R.D.L. 30 dicembre 1923, n. 3152, sulla  obbligatorieta’  della  punzonatura delle armi da fuoco portatili”.

Elezioni e finanziamento ai partiti

    1. Legge  21  febbraio  2014,  n.  13,  recante  “Abolizione  del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e  la democraticita’  dei  partiti   e   disciplina   della   contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore”.

    2. Legge 27 dicembre 2001, n. 459, recante “Norme per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero”.

    3. Decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533,  recante  “Testo unico delle leggi recanti  norme  per  l’elezione  del  Senato  della Repubblica”.

    4. Legge 10 dicembre 1993,  n.  515,  recante  “Disciplina  delle campagne elettorali per l’elezione della Camera  dei  deputati  e  al Senato della Repubblica”.

    5. Legge 25 marzo 1993, n. 81, concernente “Elezione diretta  del Sindaco, del Presidente della Provincia, del Consiglio comunale e del Consiglio provinciale”.

    6.  Legge  18  novembre  1981,  n.  659,  recante  “Modifiche  ed integrazioni alla legge 2 maggio 1974, n. 195, sul  contributo  dello Stato al finanziamento dei partiti politici”.

    7. Legge 24 gennaio 1979, n. 18, concernente “Elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia”.

    8. Legge 25 maggio 1970, n. 352, recante  “Norme  sui  referendum previsti  dalla  Costituzione  e  sulla  iniziativa  legislativa  del popolo”.

    9. Legge 17 febbraio 1968, n. 108, recante “Norme per la elezione dei Consigli regionali delle Regioni a statuto normale”.

    10. Decreto del Presidente della Repubblica  20  marzo  1967,  n. 223, recante  “Approvazione  del  testo  unico  delle  leggi  per  la disciplina dell’elettorato attivo e per  la  tenuta  e  la  revisione delle liste elettorali”.

    11. Decreto del Presidente della Repubblica 16  maggio  1960,  n. 570, recante “Testo unico  delle  leggi  per  la  composizione  e  la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali”.

    12. Decreto del Presidente della Repubblica  30  marzo  1957,  n. 361, recante “Approvazione del testo unico delle leggi recanti  norme per la elezione della Camera dei deputati”.

    13. Legge 8 marzo 1951, n. 122, recante “Norme  per  le  elezioni dei Consigli provinciali”.

Proprieta’ intellettuale e industriale

    1. Legge 22 aprile 1941, n. 633, concernente la  “Protezione  del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio”.

[1] Ad esempio, nell’articolo 32 della legge 24 novembre 1981, n. 689.

[2] Si tratta delle seguenti materie: edilizia e urbanistica; ambiente, territorio e paesaggio; alimenti e bevande; salute e sicurezza nei luoghi di lavoro; sicurezza pubblica; giochi d’azzardo e scommesse; armi ed esplosivi; elettorale e finanziamento ai partiti; proprietà intellettuale e industriale. Pur non essendo formalmente inclusa tra le eccezioni riduttive, la materia dell’immigrazione (di cui al d.lgs. 25.7.1998 n.286) rimane esclusa – sia pur indirettamente – dalla operatività della clausola generale, per effetto dell’espressa previsione di cui all’art. 2, co. 3, lett. b, che mantiene la rilevanza penale delle condotte di violazione dei provvedimenti amministrativi adottati in tale materia, che siano punite con la sola pena pecuniaria.

[3] Nel d. lgs. n. 8 del 2016 l’art. 659 comma 2 cod. pen. non è indicato tra i reati depenalizzati, significando dunque che sul punto specifico il governo non ha inteso esercitare la delega.

[4] Seppure quest’ultimo a seguito del passaggio alla competenza del giudice di pace.

[5] A. Gargani, Tra sanzioni amministrative e nuovi paradigmi punitivi: la legge delega di riforma della disciplina sanzionatoria (art.2 l.28.4.2014 n. 67), in La legislazione penale, 2015, 7, pag. 14, che sottolinea come “…sul piano logico-sistematico, l’argomento secondo cui l’esclusione dei reati previsti dal codice penale dalla sfera di operatività della clausola generale troverebbe implicita conferma nell’inclusione – tra le c.d. eccezioni espansive di cui all’art. 2 co. 2 lett. b – di due contravvenzioni già trasformabili in illeciti amministrativi, ai sensi della clausola generale, non dà conto della ragione per la quale il legislatore abbia indicato tassativamente le materie escluse dalla depenalizzazione, senza prevedere espressamente un’esclusione così significativa come quella concernente i reati codicistici…”; lo stesso Autore sottolinea come faccia propendere per la tesi estensiva anche la lettura dei lavori preparatori (cfr. Scheda di lettura n.7/2 in riferimento al progetto di legge A.C. 331 927-B; Camera dei Deputati del 4.2.2014).

[6] Tra le tante, cfr. Corte costituzionale, sentenze nn. 87 del 1989, 126 del 1996, 383 del 1998.

[7] Cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 156 del 1987.

[8] Nella sentenza n. 224 del 1990 la Consulta evidenzia che i «principi e criteri direttivi» presentano nella prassi una fenomenologia estremamente variegata, che oscilla da ipotesi in cui la legge delega pone finalità dai confini molto ampi e sostanzialmente lasciate alla determinazione del legislatore delegato, a ipotesi in cui la stessa legge fissa «principi» a basso livello di astrattezza, finalità specifiche, indirizzi determinati e misure di coordinamento definite o, addirittura, pone principi inestricabilmente frammisti a norme di dettaglio disciplinatrici della materia o a norme concretamente attributive di precise competenze.

[9] Limitazioni che erano state inserite, invece, in analoghi provvedimenti legislativi: ad es., l’art. 32 co. 2 l. 689/1981, esclude espressamente dalla depenalizzazione i reati per i quali sia prevista la sola pena della multa o dell’ammenda, “che, nelle ipotesi aggravate, siano puniti con pena detentiva, anche se alternativa a quella pecuniaria”.

[10] F. Palazzo, Nel dedalo delle riforme recenti e prossime venture (a proposito della legge n. 67/2014), in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 4, 2014, pag. 1693 e ss..

[11] Cfr. Corte cost., sentenza n. 163 del 2000

[12] Nel passato, in materia di contrabbando, Sez. 3, n. 7582, 30 marzo 1994, Cola, Rv. 198407 aveva affermato che “Devono ritenersi depenalizzati ai sensi dell’art. 39 legge 24 novembre 1981, n. 689, come modificato dall’art. 2 legge 28 dicembre 1993, n. 562, i delitti di contrabbando puniti con la sola multa, nonostante sia per essi prevista, nelle ipotesi aggravate (art. 295 d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43), anche la pena detentiva; né osta alla (subentrata) previsione del fatto come illecito amministrativo la circostanza che sia stata eventualmente contestata all’imputato la speciale recidiva di cui all’art. 296 del suddetto d.P.R., che aggrava la sanzione con la previsione della reclusione congiunta alla multa, in quanto, attesa la generale depenalizzazione dei delitti predetti, tale recidiva non è più configurabile, ne’ nell’ipotesi di recidiva semplice (comma primo) ne’ in quella di recidiva reiterata (comma secondo), entrambe collegate alla commissione “di un altro delitto di contrabbando per il quale la legge stabilisce la sola multa”, vale a dire ad un fatto che ora non è più previsto come reato”.

[13] Fa eccezione a tale clausola generale di coordinamento, di cui all’articolo 5 del decreto, l’ipotesi di depenalizzazione “nominativa” che riguarda l’articolo 11 della legge n. 234 del 1931. Il primo comma del citato articolo è stato depenalizzato (in attuazione dell’articolo 2, comma 2, lettera d), n. 1, della delega), mentre il secondo comma prevede un aumento di pena per la recidiva con riferimento alla reiterazione della violazione descritta nel primo comma: pertanto, per assicurare l’operatività della disposizione del secondo comma, il legislatore delegato ha provveduto a riformularlo, individuando (art. 3, comma 1, lettera b), n. 2, del decreto) la pena applicabile.

[14] Nel codice della navigazione (art. 1218 bis r.d. 30 marzo 1942, n. 327), nel codice della strada (cfr., verbi gratia, gli artt. 82, comma 10, e 143, comma 12, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285), nel codice delle assicurazioni private (art. 329, comma 1, d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209), nel codice del consumo (artt. 62, comma 2, e 67 septies decies, comma 2, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206), nel codice dell’ambiente (artt. 279, comma 7, e 296, comma 5, d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152), nel codice delle pari opportunità tra uomo e donna (art. 41, comma 1, d.lgs. 11 aprile 2006, 198), nel codice dell’ordinamento militare (cfr., exempli gratia, artt. 1359, comma 4, e 2106, comma 2, d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66), nel testo unico di pubblica sicurezza (art. 31 bis, comma 3, r.d. 18 giugno 1931, n. 773), nel testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (art. 196, comma 1, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), nella disciplina del commercio (artt. 22, comma 2, e 29, comma 3, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114; art. 57 r.d.l. 15 ottobre 1925, n. 2033[11]) e in numerosi c.c.n.l..

[15] Emblematica di questa tendenza ondivaga è la legge 24 novembre 1981, n. 689, Modifiche al sistema penale.

[16] Cfr., sul punto, Rel. n. 35/2014, Uff. Massimario, Considerazioni sul principio del ne bis in idemnella recente giurisprudenza europea: la sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri contro Italia.

[17] Art. 8-bis della legge n. 689/81: «Salvo quanto previsto da speciali disposizioni di legge, si ha reiterazione quando, nei cinque anni successivi alla commissione di una violazione amministrativa, accertata con provvedimento esecutivo, lo stesso soggetto commette un’altra violazione della stessa indole. Si ha reiterazione anche quando più violazioni della stessa indole commesse nel quinquennio sono accertate con unico provvedimento esecutivo. Si considerano della stessa indole le violazioni della medesima disposizione e quelle di disposizioni diverse che, per la natura dei fatti che le costituiscono o per le modalità della condotta, presentano una sostanziale omogeneità o caratteri fondamentali comuni. La reiterazione è specifica se è violata la medesima disposizione. Le violazioni amministrative successive alla prima non sono valutate, ai fini della reiterazione, quando sono commesse in tempi ravvicinati e riconducibili ad una programmazione unitaria. La reiterazione determina gli effetti che la legge espressamente stabilisce. Essa non opera nel caso di pagamento in misura ridotta. Gli effetti conseguenti alla reiterazione possono essere sospesi fino a quando il provvedimento che accerta la violazione precedentemente commessa sia divenuto definitivo. La sospensione è disposta dall’autorità amministrativa competente, o in caso di opposizione dal giudice, quando possa derivare grave danno. Gli effetti della reiterazione cessano di diritto, in ogni caso, se il provvedimento che accerta la precedente violazione è annullato».

[18] A. Gargani, op. cit., pag. 10.

[19]Si attua in tal modo una previsione che aveva più volte (da ultimo, Sez. 3, n. 20547 del 14/04/2015, Carnazza, Rv. 263632) costretto la Cassazione, nel vigore della sola legge delega, a ricordare che <<Il delitto previsto dall’art. 2, comma primo bis, D.L. 12 settembre 1983, n. 463, convertito con modificazioni in legge 11 novembre 1983, n. 638, che punisce l’omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, non può ritenersi abrogato per effetto diretto della legge 28 aprile 2014, n. 67, posto che tale atto normativo ha conferito al Governo una delega, implicante la necessità del suo esercizio, per la depenalizzazione di tale fattispecie e che, pertanto, quest’ultimo, fino all’emanazione dei decreti delegati, non potrà essere considerato violazione amministrativa>>.

[20] Nel trasformare in illecito amministrativo la contravvenzione prevista dall’articolo 11 della legge n. 234 del 1931 (che detta norme per l’impianto e l’uso di apparecchi radioelettrici privati e per il rilascio delle licenze di costruzione, vendita e montaggio di materiali radioelettrici), l’art. 3, comma 1, del d. lgs. n. 8 del 2016 ha conseguentemente abrogato (lettera c) l’articolo 12 della legge n. 234 del 1931, che si riferisce ai controlli che gli ufficiali di pubblica sicurezza e gli ufficiali di polizia giudiziaria, in caso di fondato sospetto di contravvenzione alle disposizioni dell’articolo 1 del regio decreto 8 febbraio 1923, n. 1067, possono eseguire, sotto forma di perquisizioni domiciliari, secondo le formalità prescritte dagli articoli 167 e 171 del codice di procedura penale: è stata così accolta la condizione, posta dalla Commissione giustizia della Camera dei deputati, di abrogare l’articolo 12 della legge n. 234 del 1931, e non semplicemente espungere il richiamo all’illecito depenalizzato, perché altrimenti (in caso cioè di semplice espunzione del richiamo) l’articolo 12 si riferirebbe unicamente ad una disposizione priva di efficacia, in quanto il regio decreto n. 1067 del 1923, recante “Norme per il servizio delle comunicazioni senza filo”, è stato abrogato dal c.d. “taglia leggi” del 2008 (D.L. n. 112 del 1998, articolo 24).

[21] E’ appena il caso di evidenziare che la fattispecie, ora depenalizzata, di cui all’art. 28, comma 2, del d.P.R. n. 309 del 1990, attiene alla sola inosservanza delle prescrizioni dettate in materia di autorizzazione alla coltivazione di piante da stupefacenti (cioè alla coltivazione “lecita”, oggi affidata ad alcuni centri di ricerca autorizzati), mentre non presenta alcuna interferenza, vista anche la clausola di riserva presente nella disposizione (<<Salvo che il fatto costituisca reato>>), con la coltivazione illecita sanzionata ex art. 73 del d.P.R. medesimo.    

[22] Nella relazione di accompagnamento si cita il caso dell’articolo 528 cod. pen., del quale sono stati depenalizzati, in attuazione della delega, il primo e il secondo comma, che pure avrebbero potuto comportare la previsione di una sanzione amministrativa accessoria, che non è stata tuttavia introdotta, proprio per evitare una asimmetria con la disposizione del terzo comma, che mantiene la rilevanza penale, pur in assenza di una pena accessoria.

[23] Sez. U, n. 25457 del 29 marzo 2012, Campagne Rudie, Rv. 252694.

[24] Cfr. Corte cost., sentenza n. 104 del 2014.

[25] In sede di stesura definitiva del decreto è stato eliminato il riferimento alla mancata opposizione delle parti alla pronuncia della sentenza inappellabile di assoluzione o di non luogo a procedere per intervenuta depenalizzazione, risultando di maggiore chiarezza espositiva il riferimento all’articolo 129 c.p.p. che, per giurisprudenza consolidata, deve trovare collocazione negli ordinari momenti processali che consentono l’emanazione di una sentenza, con le garanzie per le parti di volta in volta previste.

[26] Con specifico riguardo ai giudizi pendenti in Cassazione, l’esito ordinario dovrebbe, salvo errori, individuarsi nell’annullamento senza rinvio, salva l’ipotesi di rinvio per la rideterminazione della pena quanto la condanna abbia riguardato altri reati non toccati dal decreto in oggetto. Più problematica l’ipotesi in cui la Corte debba apprezzare la depenalizzazione a fronte di ricorso manifestamente infondato o comunque inammissibile: al riguardo, (si cfr. le indicazioni operative formulate dalla Procura di Trento, in www.penalecontemporaneo.it), l’operatività della previsione intertemporale sembrerebbe da escludere nel solo caso di ricorso inammissibile perchè tardivamente proposto, in quanto inidoneo ad instaurare un valido rapporto processuale (cfr. Sez. U., n. 33040 del 26 febbraio 2015, Jazouli, Rv. 264207), con conseguente necessità di agire in sede esecutiva per far rilevare che il fatto non è più previsto come reato.

[27] Tra le deleghe conferite al Governo nel Capo I, in chiave di razionalizzazione del sistema sanzionatorio e di deflazione del sistema penale, la legge n. 67/2014 contemplava anche la previsione di una causa di non punibilità, incentrata sulla scarsa rilevanza del fatto (art. 1 co. 1 lett. m).

[28] Con riferimento ai reati degradati ad illeciti amministrativi, oggetto del decreto delegato in commento, nella Relazione si chiarisce che sono stati presi in considerazione “sia l’impatto dell’intervento sul carico giudiziario sia la necessità di espungere dal sistema penale fattispecie desuete o non più conformi ai principi di laicità e pluralismo del nostro ordinamento costituzionale.

[29] In dottrina, G. Fidelbo, Giudice di Pace (nel dir. proc. pen.) in D. disc. pen., Agg., Torino, 2004, pag. 36.

[30] Sez. IV, Ordinanza n. 49824 del 3 dicembre 2015, Tushaj.

[31] Nel dichiarare che la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen., è applicabile anche al reato di guida in stato di ebbrezza, non essendo incompatibile con il giudizio di particolare tenuità la previsione di diverse soglie di rilevanza penale all’interno della fattispecie tipica, la sentenza Longoni rammenta che già con la sentenza n. 7394/1994[31] le S.U. hanno affermato che l’illecito amministrativo è dotato di piena autonomia normativa rispetto all’illecito penale, facendo propria la c.d. “teoria della diversità” che nega qualsiasi rapporto di continuità tra illecito penale ed illecito amministrativo, e che la già citata sentenza Sez. U. n. 25457/2012, Campagne Rudie, Rv. 252694 ha escluso ogni sospetto di contrasto della diversa soluzione con l’ art. 3 Cost. per irragionevolezza “di una disciplina giuridica che preveda la totale impunità di coloro che hanno commesso un illecito penale, successivamente depenalizzato, e la responsabilità – sia pure solo sul piano dell’illecito amministrativo – di coloro che hanno commesso la stessa violazione dopo la depenalizzazione”; secondo inoltre la pronunciaLongoni, inoltre, l’interpretazione avallata dalle Sezioni Unite non trova ostacolo nella giurisprudenza della Corte EDU, che sembra esprimere invece adesione alla tesi di una distinzione unicamente di grado tra illecito penale ed illecito amministrativo, in quanto l’insegnamento del giudice sovranazionale è dettato al solo fine di estendere le garanzie della Convenzione ad ogni forma di espressione di un diritto punitivo.

[32] Colloca l’intervento all’interno di “…unprocesso di crescente eticizzazione della responsabilità civile…”  A. Gargani, op. cit., pag. 14.

[33] Sez. 2, n. 36281 del 4 luglio 2003, Paperini, Rv. 228412; Sez. 3, n. 30591 del 3 giugno 2014, Seck, Rv. 259957

[34]  Così Sez. 6, n. 12673 del 21 novembre 1988, Caronna, Rv. 180011; Sez. 6, n. 8142 del 10 dicembre 1991 (dep. 22 luglio 1992), De Donato, Rv. 191392; Sez. 6, n. 35800 del 29 marzo 2007, Acefalo, Rv. 237421.

[35] Danno luogo a sanzione pecuniaria civile le seguenti condotte:

a) chi offende l’onore o  il  decoro  di  una  persona  presente, ovvero mediante comunicazione telegrafica, telefonica, informatica o telematica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa;

b) il comproprietario, socio o coerede che, per procurare a sé o ad altri un profitto, s’impossessa della cosa comune, sottraendola  a chi la detiene, salvo che il fatto sia commesso su cose  fungibili  e il valore di esse non ecceda la quota spettante al suo autore;

c) chi distrugge, disperde, deteriora o  rende,  in  tutto  o  in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui,  al  di  fuori  dei casi di  cui  agli  articoli  635,  635-bis,  635-ter,  635-quater  e 635-quinquies del codice penale;

d) chi, avendo trovato denaro o cose da  altri  smarrite,  se  ne appropria,  senza  osservare  le  prescrizioni  della  legge   civile sull’acquisto della proprietà di cose trovate;  e) chi, avendo trovato un tesoro, si appropria,  in  tutto  o  in parte, della quota dovuta al proprietario del fondo; 

f) chi si appropria di cose delle quali sia  venuto  in  possesso per errore altrui o per caso fortuito

[36] L’entità massima delle sanzioni pecuniarie civili non è – nella relazione di accompagnamento – ritenuta tale che le stesse sanzioni possano essere qualificate sostanzialmente penali ai fini delle necessarie verifiche di conformità, del procedimento con le quali sono irrogate, alle previsioni convenzionali sull’equo processo.

[37] Così, F. Palazzo,Nel dedalo delle riforme…, cit., pag. 1699.

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a cura di Mariaemanuela Guerra

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Ufficio del Massimario e del Ruolo

Servizio Penale

Rel. III/02/2016                                                           Roma, 2 febbraio 2016

Novità legislative: d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212

Rif. Norm: d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212;

Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012.

Norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato: prima lettura del d.lgs. 212 del 2015

Sommario: 1. Premessa. – 2. Le modifiche all’art. 90 cod. proc. pen: a) la perizia per l’accertamento della minore età. – b) (segue) L’estensione dei soggetti che possono esercitare le facoltà e i diritti in caso di decesso della persona offesa in conseguenza del reato. – 3. Il diritto all’informazione. – 3.1. (segue). La comunicazione dell’evasione e della scarcerazione alle persone offese dei delitti commessi con violenza alla persona.-  4. La particolare vulnerabilità della persona offesa. – 5. Il diritto all’interpretazione e alla traduzione. – 6. Le modifiche alle disposizioni di attuazione del cod. proc. pen. in tema di presentazione di denuncia e proposizione di querela. – 7. Brevi osservazioni sui profili intertemporali e sulle conseguenze processuali in caso di inosservanza delle nuove disposizioni.

1.   Premessa.

Il Decreto legislativo 15 dicembre 2015, n. 212 [1] attua la delega normativa conferita al Governo dalla legge 6 agosto 2013, n. 96, in particolare dall’articolo 1 nonché dall’allegato B, per il recepimento della Direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012,che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.

Preliminarmente è da precisare che a differenza delle fonti convenzionali ed europee, il nostro ordinamento non utilizza il termine “vittima” bensì quelli di “persona offesa dal reato” o di  “danneggiato” (posizioni non sempre sovrapponibile in capo allo stesso soggetto), concentrando l’attenzione più sull’effetto lesivo subito – rispettivamente la lesione o messa in pericolo del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice violata, ovvero il danno risarcibile cagionato dal reato – che sulla posizione soggettiva della vittima[2].

L’articolo 2 della Direttiva definisce la vittima come la «persona fisica che ha subìto un danno, anche fisico, mentale o emotivo o perdite economiche causati direttamente dal reato»[3]. Tale nozione appare più estesa rispetto a quella di “persona offesa” accolta nel nostro ordinamento, ben potendo ricomprendere anche “il danneggiato”, ossia colui che subisce in modo diretto un danno dal reato senza essere il titolare del bene giuridico leso.  

Comunemente ritenuto lo Statuto dei diritti delle vittime[4], la Direttiva 2012/29/UE mira a realizzare, con uno strumento più efficace rispetto alla decisione quadro 2001/220/GAI utilizzata in precedenza, l’armonizzazione nei Paesi dell’Unione dei diritti delle vittime lungo tutto l’arco del procedimento penale, dalle indagini al processo e anche successivamente allo stesso.

Tra le diverse fonti europee nella materia penale, dedicate alle vittime  sono da ricordare: la Direttiva 2004/80/CE relativa all’indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti; la Direttiva 2011/36/UE, che stabilisce norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni nell’ambito della tratta di esseri umani e introduce disposizioni comuni in materia di protezione delle vittime; la Direttiva 2011/99/UE, volta ad istituire l’Ordine di protezione europeo (OPE); la Direttiva 2011/92/UE relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile. 

L’obiettivo primario della direttiva 2012/29/UE è assicurare a tutte le vittime, e non soltanto a particolari gruppi di esse, parità di condizioni in materia di informazione, assistenza e protezione, indipendentemente dal luogo di svolgimento del processo: l’esistenza di differenze ed impedimenti legati alla diversa cittadinanza o al diverso luogo di residenza della vittima rispetto a quello di commissione del reato, infatti, non solo si tradurrebbe in una violazione del principio di libera circolazione delle persone – che rappresenta una delle basi giuridiche degli interventi europei in materia di tutela delle vittime già prima del Trattato di Lisbona – ma costituirebbe anche un ostacolo alla realizzazione del programma di Stoccolma, volto al consolidamento di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nell’Unione[5].

Ebbene, il recepimento delle diverse prescrizioni contenute in materia di diritti e facoltà riconosciute alle vittime segna senza dubbio un importante segnale di mutamento di prospettiva del nostro modello  processuale  che tradizionalmente attribuisce alla persona offesa poteri incisivi solo quando risulta portatrice di interessi civilistici, sfocianti nella costituzione di parte civile.

Peraltro, la sostanziale marginalizzazione del ruolo della persona offesa nel processo penale non è stata superata nemmeno a seguito della riforma costituzionale sul giusto processo del 1999, che nel declinare i caratteri del “fair trail”, nell’art. 111 fa esclusivo riferimento alla persona accusata senza alcun cenno ai diritti o ai poteri della persona offesa.

E se non può disconoscersi come negli ultimi anni, anche sotto la spinta degli impegni sovranazionali assunti dal nostro Paese, il legislatore abbia progressivamente introdotto importanti modifiche nella disciplina penale, sostanziale e processuale, con la precipua finalità di ampliare i diritti e le facoltà esercitabili nel processo dalle persone offese, nondimeno è da evidenziare che si tratta sempre di interventi mirati alle persone offese di specifici reati nominativamente indicati, come, appunto, la legge n. 172 del 2012 di ratifica della Convenzione di Lanzarote, per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale; il d.lgs. n. 24 del 2014 relativo alle vittime di tratta; il d.l. n. 93 del 2013, convertito dalla l. n. 119 del 2013, riguardante le vittime della violenza di genere e domestica. 

Il decreto n. 212 del 2015 contiene esclusivamente modifiche di natura processuali; in particolare, all’articolo 1 sono previste le modifiche al codice e all’art. 2 alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice stesso. 

Le ragioni del carattere così “snello” di tale provvedimento normativo sono spiegate nella relazione di accompagnamento del decreto che, appunto, precisa: «Il diritto interno, già fortemente orientato a garantire diritti, assistenza e protezione alle vittime di reato, viene modificato solo marginalmente dal decreto, ritenendosi, all’esito di un capillare lavoro di analisi e di verifica della relativa concordanza, che molte delle disposizioni di tutela previste dalla Direttiva siano già presenti e che, per l’effetto, l’ordinamento sia sostanzialmente conforme, fatte salve le specifiche disposizioni introdotte.».

2.   Le modifiche all’art. 90 cod. proc. pen.: a) la perizia per l’accertamento della minore età.

Il riconoscimento della minore età della persona offesa assume particolare rilievo non solo ai fini della qualificazione giuridica del fatto contestato o della specificazione della sua maggiore o minore gravità (con rifermento, appunto, alla configurabilità di determinate fattispecie o circostanze aggravanti che incentrano il disvalore del fatto sulla minore età della vittima), ma anche dal punto di vista processuale, ai fini della adozione delle specifiche misure di protezione per le vittime minori di età.

Come noto, le tecniche scientifiche normalmente utilizzate per stabilire l’età fanno ricorso all’auxologia, che si avvale di accertamenti radiologici per valutare la maturazione scheletrica e gli stadi di sviluppo dentale della persona.

L’art. 1, comma 1, lettera a),n. 1), del d. lgs. 212 del 2015 aggiunge il comma 2-bis all’art. 90 cod. proc. pen., introducendo l’obbligo per il giudice, in caso di dubbio sulla minore età della persona offesa, di procedere ad accertamento tecnico, sancendo al contempo che, ove l’incertezza permanga pur all’esito della verifica disposta, la minore età si presume ai fini della applicazione delle norme processuali.

Pare evidente, nell’ottica del necessario equilibrio tra le garanzie dell’imputato e quelle della parte offesa, che la presunzione della minore età avrà rilievo soltanto con riferimento all’applicazione delle norme previste a protezione della parte offesa, con esclusione, pertanto, di quelle che possono aggravare la posizione dell’imputato (come, a titolo esemplificativo, la contestazione di una circostanza aggravante).

Con la nuova previsione il legislatore, dunque, ha stabilito un meccanismo processuale di salvaguardia che, da un lato obbliga il giudice ad effettuare una perizia sull’età della persona offesa e, quindi, a non accontentarsi di altri accertamenti più generici, dall’altro, impone di considerare la persona offesa come appartenente alla fascia di età che gli riconosce maggiore tutela, nel caso i dubbi non vengano fugati.

E’ evidente l’analogia di tale disposizione con quella contenuta nell’articolo 8 delle disposizioni  sul processo minorile, d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, volta, però, a disciplinare l’ipotesi di dubbio sull’età dell’imputato.

La nuova disposizione intende colmare una lacuna del sistema, peraltro, già emersa in sede di attuazione della direttiva n. 2011/36/UE in tema di tratta; in quell’occasione, infatti, il d.lgs. n. 24 del 2014, all’art. 4, ha previsto che nei casi in cui sussistano fondati dubbi sulla minore età del minore non accompagnato vittima di tratta e l’età non sia accertabile da documenti identificativi, è da attivare una procedura multidisciplinare volta alla determinazione dell’età, le cui fasi e la distribuzione delle competenze dei soggetti istituzionali coinvolti sono da definirsi nel dettaglio con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (ad oggi, tuttavia, non ancora adottato). Ebbene, suddetta attività, che prevede il coinvolgimento di personale specializzato e, se del caso, delle autorità diplomatiche, pare collocarsi in un momento diverso e verosimilmente anteriore rispetto a quello in cui il giudice dispone l’accertamento tecnico. Più precisamente, infatti, quanto previsto dal d.lgs. del 2014 sembra riferirsi al momento del primo contatto con i minori non accompagnati vittime di tratta, per l’accesso immediato all’assistenza, al sostegno e alla protezione, mentre la perizia di cui al comma 2-bis dell’art. 90 cod. proc. pen. si colloca evidentemente in una prospettiva processuale.

Il nuovo comma 2-bisprevede la possibilità che il giudice disponga la perizia anche d’ufficio: pare potersi ragionevolmente affermare che l’autorità sia da identificare di volta in volta nel giudice procedente e che tale accertamento tecnico possa essere sollecitato anche dalle parti, soprattutto nei casi in cui il giudice non sia ancora venuto a conoscenza del problema (come a titolo esemplificativo in fase di indagini preliminari).

E’ da rilevare come il riferimento all’istituto della perizia richiami la disciplina contenuta negli artt. 220 e ss. del codice di rito, e, di conseguenza, implichi la necessità degli avvisi e delle garanzie per le parti; ed allora, nell’ipotesi di incertezza sulla minore età della vittima nella fase iniziale delle indagini, il pubblico mistero potrebbe trovarsi nella necessità di valutare se proseguire nel segreto le attività investigative, per non pregiudicarne gli esiti, oppure provocare l’intervento del giudice perché disponga l’accertamento peritale con la conseguente discovery.

La nuova disposizione potrebbe porre problemi applicativi con riferimento alla fase delle indagini preliminari. Ed infatti, se intesa in modo rigoroso si potrebbe ritenere che a seguito di tale novella l’accertamento “auxologico” possa essere disposto soltanto dal giudice, ricorrendo all’incidente probatorio. Secondo questa prospettiva, tuttavia, potrebbe sorgere la questione del coordinamento della nuova norma sia con l’art. 360 cod. proc. pen., che attribuisce al pubblico ministero la facoltà di disporre accertamenti tecnici non ripetibili, sia con l’art. 349 cod. proc. pen., che individua tra le attività della polizia giudiziaria finalizzate all’identificazione delle persone in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti, i rilievi dattiloscopici, fotografici e antropometrici nonché “altri accertamenti”.

Inoltre, gli accertamenti tecnici oggetto della perizia, potrebbero sollevare, sul piano giuridico, gli ulteriori problemi, da un lato, della idoneità degli stessi a fornire una riposta sufficientemente attendibile per superare la presunzione di minore età di cui al secondo periodo dell’art. 90, comma 2-bis, cod. proc. pen., dall’altro, della possibilità di eseguirli coattivamente.

Ed invero, riguardo alla prima tematica, è da richiamare la giurisprudenza, che, in materia di accertamento della minore età dell’imputato, si è espressa nel senso di considerare gli accertamenti radiologici sul polso uno strumento che permette di superare ogni incertezza sull’età in quanto consentono di valutare il processo di accrescimento dell’organismo nell’età evolutiva.[6]

Par quanto attiene alla seconda questione, è da ricordare come la Corte Costituzionale abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 224, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui consente che il giudice, nell’ambito delle operazioni peritali, disponga misure che comunque incidano sulla libertà personale dell’indagato o dell’imputato o di terzi. In sostanza, ha ritenuto che la disposizione in questione, stante la sua genericità e la conseguente indeterminatezza delle misure coattive che possono essere disposte nell’ambito degli accertamenti peritali, consente ogni tipo di provvedimento coercitivo astrattamente riconducibile alla nozione di “provvedimento necessario per l’esecuzione delle operazioni peritali”, ponendosi, dunque, in contrasto con la riserva di legge prevista dall’art. 13 Cost., comma 2, disposizione che non ammette forma alcuna di limitazione della libertà personale se non “nei casi e modi stabiliti dalla legge”.[7]

Inoltre, è da menzionare che la Corte di Cassazione, con riferimento all’accertamento radiologico effettuato nei confronti dell’imputato, ha affermato la legittimità della «coercizione personale per l’espletamento di una perizia medica (nella specie indagine radiologica) alla quale l’imputato rifiuti di sottoporsi»  [8]; ed, ancora, in occasione di accertamenti radiologici effettuati per scoprire la sostanza stupefacente nascosta all’interno del corpo, ricomprendendo tale attività nell’ambito delle facoltà inerenti all’ispezione personale dell’indagato, ha ritenuto che «possa rientrare nelle modalità esecutive dell’ispezione dato che la radiografia consente soltanto una estensione del controllo attuabile che, attraverso l’uso della tecnica radiologica (o anche di altra tecnica), non è limitato al solo aspetto esterno dell’indagato ma è esteso anche all'”ispezione” all’interno del corpo umano.».[9]

Tuttavia, è da rammentare che in seguito alla ratifica del Trattato di Prum[10] è stato introdotto nel codice di procedura penale l’art. 224-bis cod. proc. pen., che stabilisce le condizioni per poter effettuare perizie coattive che richiedono il compimento di atti idonei ad incidere sulla libertà personale, finalizzate al prelievo di campioni biologici o a scopi identificativi. [11]

Ebbene, è da notare che quest’ultima disposizione elenca tra gli atti idonei ad incidere sulla libertà personale gli “accertamenti medici” senza altra specificazione, ovvero senza distinguere tra quelli più o meno invasivi; una lettura rigorosa di tale norma potrebbe, pertanto, far propendere per ritenere che l’accertamento auxologico, in quanto accertamento medico, possa essere effettuato coattivamente solo nei limiti e con le forme dell’art. 224-bis cod. proc. pen. 

D’altro lato, invece, si potrebbe pure sostenere che la specifica indicazione normativa contenuta nell’art. 90, comma 2-bis, cod. proc. pen., sia sufficiente per legittimare accertamenti coattivi nel rispetto del principio della riserva di legge e di giurisdizione di cui all’art. 13 Cost.

b)  (segue) L’estensione dei soggetti che possono esercitare le facoltà e i diritti in caso di decesso della persona offesa in conseguenza del reato.

L’art. 1, comma 1, lett a), n. 2, novella il comma 3 dell’art. 90 cod. proc. pen.,in attuazione della disposizione di cui all’articolo 2, lettera b), della Direttiva che impone di includere nella nozione di familiari, oltre al coniuge, anche “la persona che convive con la vittima in una relazione intima, nello stesso nucleo familiare e in modo stabile e continuo”. In particolare, viene aggiunta la previsione che, in caso di decesso della persona offesa in conseguenza del reato, estende le facoltà e i diritti esercitabili anche «alla persona alla medesima legata da relazione affettiva e con essa stabilmente convivente.».

Tale norma è di particolare interesse in quanto riconosce valore giuridico ad una situazione di fatto, rimandando, necessariamente, per la concreta individuazione della stessa, ad una valutazione effettuata caso per caso sulla base degli elementi offerti dall’interessato che ben potranno avere forma e contenuto estremamente diversificati.

3.   Il diritto all’informazione.

L’articolo 1, comma 1, lett. b) introduce nel codice di rito due articoli che disciplinano il diritto all’informazione della persona offesa.

Sul presupposto che l’accesso all’informazione sia la condizione fondamentale affinché il processo penale possa svolgere le funzioni di “scudo” e di “spada” a favore della parte offesa[12], e cioè sia in grado, non solo di garantire la protezione dall’imputato e dalla violenza del processo (la c.d. vittimizzazione secondaria), ma anche di offrire la possibilità di una efficace difesa delle proprie ragioni, viene codificato un obbligo generale di fornire alla parte offesa un’informazione dettagliata sui diritti riconosciutigli dalla legge.

In primo luogo, viene aggiunto l’articolo 90-bis, rubricato “Informazioni alla persona offesa”  : la norma recepisce le disposizioni della Direttiva, finalizzate a mettere la persona offesa in condizione di comprendere ed essere compresa sin dal primo contatto con l’autorità procedente.

Ed infatti, l’articolo contiene l’elenco di una serie di informazioni tecnico-giuridiche da comunicare in una lingua comprensibile, utili ad orientare la persona offesa durante lo svolgimento delle indagini e nell’eventuale fase processuale.

In particolare, tali informazioni riguardano: le modalità di presentazione degli atti di denuncia o querela, il ruolo che assume nel corso delle indagini e del processo, il diritto ad avere conoscenza della data, del luogo del processo e della imputazione e, ove costituita parte civile, il diritto a ricevere notifica della sentenza, anche per estratto;la facoltà di ricevere comunicazione dello stato del procedimento e delle iscrizioni di cui all’articolo 335, commi 1 e 2, cod. proc. pen.;la facoltà di essere avvisata della richiesta di archiviazione;la facoltà di avvalersi della consulenza legale e del patrocinio a spese dello Stato; le modalità di esercizio del diritto all’interpretazione e alla traduzione di atti del procedimento; le eventuali misure di protezione che possono essere disposte in suo favore;i diritti riconosciuti dalla legge nel caso in cui risieda in uno Stato membro dell’Unione europea diverso da quello in cui è stato commesso il reato; le modalità di contestazione di eventuali violazioni dei propri diritti; le autorità cui rivolgersi per ottenere informazioni sul procedimento; le modalità di rimborso delle spese sostenute in relazione alla partecipazione al procedimento penale;la possibilità di chiedere il risarcimento dei danni derivanti da reato; la possibilità che il procedimento sia definito con remissione di querela di cui all’articolo 152 cod. pen. o attraverso la mediazione, prevista dagli articoli 464-bis e seguenti cod proc. pen. e relative disposizioni di attuazione (articoli 4 e 5 della legge 22 aprile 2014, n. 67); le facoltà spettanti nei procedimenti in cui l’imputato formula richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova o in quelli in cui è applicabile la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto; le strutture sanitarie presenti sul territorio, le case famiglia, i centri antiviolenza e le case rifugio.

Si tratta di una comunicazione molto ampia volta, evidentemente, a rendere la persona offesa  pienamente consapevole dei diritti e facoltà che la legge le riconosce, che, secondo la normativa europea, costituiscono lo standard minimo che la legislazione di ogni Stato membro deve prevedere.[13] 

Invero, la norma ripropone alcuni degli obblighi informativi già contemplati nel codice: l’art. 101, comma 2, infatti, a seguito della modifica del 2013, già assicurava che «Al momento dell’acquisizione della notizia di reato il pubblico ministero e la polizia giudiziaria informano la persona offesa dal reato di tale facoltà(di nominare un difensore).La persona offesa è altresì informata della possibilità dell’accesso al patrocinio a spese dello Stato ai sensi dell’articolo 76 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, e successive modificazioni.

Ed ancora, con riferimento alle forme di protezione e sostegno, l’ordinamento già ne imponeva la comunicazione all’atto della denuncia di alcune categorie di reati: più precisamente, l’attenzione del legislatore era concentrata alle persone offese, ritenute particolarmente vulnerabili, dei delitti di maltrattamenti in famiglia, tratta di persone, sfruttamento sessuale di minori, violenza sessuale, atti sessuale con minorenne, corruzione di minorenne e atti persecutori, stabilendo, all’art. 11 del d.l. n. 11 del 2009 – convertito dalla legge n. 38 del 2009 –  come modificato dal d.l. n. 93 del 2013, che «Le forze  dell’ordine, i  presidi  sanitari  e  le  istituzioni pubbliche …. hanno l’obbligo di fornire  alla  vittima stessa tutte le informazioni relative ai centri antiviolenza presenti sul territorio e, in  particolare,  nella  zona  di  residenza  della vittima. Le forze dell’ordine, i presidi sanitari  e  le  istituzioni pubbliche provvedono a mettere in contatto la vittima  con  i  centri antiviolenza, qualora ne faccia espressamente richiesta.».

Di conseguenza, il nuovo art. 90-bis si può ritenerenorma generale, ad un tempo fonte di nuovi obblighi informativi e ricognitiva di quelli già esistenti, che sostanzialmente controbilancia la comunicazione indicata nell’art. 369-bis c.p.p. della facoltà e dei diritti attribuiti dalla legge alla persona sottoposta alle indagini. 

La maggior parte dei diritti e delle facoltà costituenti oggetto di avviso ai sensi dell’art. 90-biserano già assicurati dal codice di rito [14], per altri indicati dalla Direttiva, invece, si è reso necessario un intervento sul codice processuale: così è stato con riferimento al diritto all’interprete e al traduttore e al diritto di informazione, su richiesta, della scarcerazione o evasione dell’imputato, del condannato o dell’internato.

Con particolare riferimento al procedimento di archiviazione, appare opportuno ricordare che il codice, accanto al procedimento ordinario – che prevede a favore della parte offesa il diritto ad essere avvisata della richiesta del P.M., qualora abbia dichiarato di volere essere informata, di estrarre copia degli atti del fascicolo e di proporre opposizione al giudice – riconosce una tutela rafforzata ad una particolare categoria di vittime, aggiuntiva rispetto alle garanzie minime prescritte dalla normativa europea. Ed infatti, il comma 3-bis dell’art. 408 cod. proc. pen., introdotto dal d.l. n. 93 del 2013, convertito dalla l. n. 119 del 2013, stabilisce l’obbligatorietà della notifica dell’avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa dei delitti commessi con violenza alla persona, da effettuarsi, appunto, anche in assenza di richiesta della medesima. [15]

Da un punto di vista pratico la polizia giudiziaria e il pubblico ministero forniranno, sin dal primo contatto con la vittima, l’insieme delle sopraindicate comunicazioni in un atto scritto predisposto nella lingua comprensibile all’interessato.

Tuttavia, per garantire effettività alla previsione codicistica sarà importante che gli operatori che vengono in contatto con le persone offese nelle diverse fasi processuali vengano adeguatamente formati, in modo da poter offrire un servizio di effettiva assistenza e informazione alle singole persone offese, affinché possano essere messe nella condizione di essere coscienti delle conseguenze della propria denuncia e di prendere consapevoli decisioni in merito alla loro partecipazione al procedimento.

Peraltro, è da evidenziare come alcune delle comunicazioni elencate nell’art. 90-bis sono espresse con formule generiche che non sono di agevole riduzione in un avviso predisposto in forma standardizzata: basti pensare alle informazioni in merito al «ruolo che assume rispetto alle indagini e al processo» (lett. a), «alle misure di protezione attivabili» (lett. f), «alle modalità di contestazione di eventuali violazioni dei diritti» (lett. h), od ancora «alle autorità cui rivolgersi per ottenere informazioni sul procedimento» (lett. i).

La Direttiva dedica particolare attenzione non solo alla formazione degli operatori che entrano in contatto con le vittime – dagli agenti di polizia al personale amministrativo giudiziario, dall’autorità giudiziaria agli avvocati – ma, altresì, raccomanda espressamente lo sviluppo di “punti unici di accesso” o “sportelli unici” dedicati ai bisogni delle vittime, nonché incoraggia gli Stati membri a sostenere analoghi servizi di assistenza privati (artt. 8 e 25 e considerando 61, 62, 63).

E’ da rilevare come attualmente non esistano uffici o strutture di sostegno all’iniziativa legale della persona offesa istituzionalizzate. Per questa ragione in sede di esame parlamentare, la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, nell’esprimere il parere sullo schema di decreto legislativo predisposto dal Governo, ha espresso l’opportunità di introdurre disposizioni volte a prevedere la costituzione, all’interno di ogni tribunale, di un apposito ufficio per le vittime di reato, al cui funzionamento preporre un magistrato, con la facoltà di avvalersi della collaborazione dei servizi sociali e delle associazioni in favore delle vittime.[16]

Tale osservazione, tuttavia, non è stata accolta dal Governo in considerazione della non sostenibilità nell’immediatezza degli oneri economici conseguenti alla istituzione di un nuovo  “sportello delle vittime” che presuppone necessariamente una sinergia tra diverse amministrazioni.

3.1. (segue). La comunicazione dell’evasione e della scarcerazione alle persone offese dei delitti commessi con violenza alla persona.

La seconda norma aggiunta al codice di rito in tema di informazione è l’articolo 90-ter, rubricato “Comunicazioni dell’evasione e della scarcerazione”, che integra l’attuale regime delle comunicazioni di cui all’articolo 299, commi 2-bis, 3 e 4-bis, cod. proc. pen.,in tema di sostituzione o revoca di misure cautelari, prevedendo che «fermo quanto previsto dall’articolo 299, nei procedimenti per delitti commessi con violenza alla persona sono immediatamente comunicati alla persona offesa che ne faccia richiesta, con l’ausilio della polizia giudiziaria, i provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misura di sicurezza detentiva, ed è altresì data tempestiva notizia, con le stesse modalità, dell’evasione dell’imputato in stato di custodia cautelare o del condannato, nonché della volontaria sottrazione dell’internato all’esecuzione della misura di sicurezza detentiva». Tale disposizione attua l’articolo 6, par. 5, della Direttiva che, infatti, obbliga gli Stati membri a garantire alla vittima la possibilità, su richiesta, di essere informata senza ritardo della scarcerazione o dell’evasione della persona indagata, imputata o condannata. Sempre conformemente alla Direttiva, la previsione reca un inciso che legittima la mancata comunicazione, anche se richiesta, quando «….risulti il pericolo concreto di un danno per l’autore del reato»: in sostanza, il legislatore ha individuato quale motivo ostativo l’emergenza di concreti elementi da cui desumere la possibilità di azioni ritorsive contro l’imputato, il condannato o l’internato in stato di libertà.

In merito alla interpretazione del termine “scarcerazione”, ci si chiede se possa intendersi in senso ampio e, quindi, riferirsi a tutti i casi in cui si verifichi una modifica del regime detentivo che comporti l’uscita dell’autore del reato dallo stato custodiale, anche per brevi periodi, a seguito della concessione di misure alternative alla detenzione o di benefici penitenziari, quali i permessi-premio o licenze. La maggiore o minore estensione inciderebbe in modo significativo sulla quantità di avvisi da effettuare alla persona offesa che ne abbia fatto richiesta così come la sua più ampia applicazione richiederebbe un costante coordinamento e scambio di informazioni aggiornate tra i diversi soggetti istituzionali coinvolti.

Riguardo alla finalità di tale comunicazione ci si è chiesti se, accanto all’immediato effetto di “messa in stato di allerta” della persona offesa, il legislatore abbia voluto consentire un’interlocuzione della stessa, soprattutto nei casi di scarcerazione per concessione di misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario; in altri termini, se l’informazione alla parte offesa, che persegue l’evidente finalità di una maggiore tutela e adeguata partecipazione della stessa al procedimento, possa tradursi anche in un suo coinvolgimento nelle vicende evolutive della pena o delle misure applicate all’autore del reato, magari tramite la presentazione di memorie per esprimere le proprie osservazioni, questione che solleva il tema delicatissimo del limite sino a cui possa spingersi il riconoscimento di un ruolo agli interessi privati della persona offesa nella giustizia penale.

In proposito, può essere utile richiamare la pronuncia della Corte di giustizia, Gueye e Sanchez del 15 settembre 2011[17] secondo cui non è riconosciuto alla vittima alcun diritto nella determinazione della pena da irrogare e dell’entità della stessa, sottolineando come la Decisione quadro 2001/220/GAI (successivamente sostituita con la Direttiva 2001/29/UE)  riconosca in capo alle vittime unicamente diritti di natura processuale, non estendendo la tutela al diritto sostanziale.

E’ da evidenziare, inoltre, come l’obbligo di comunicazione sia comunque circoscritto ai procedimenti per “delitti commessi con violenza alla persona”, intendendo il legislatore tradurre con tale espressione l’indicazione contenuta nella direttiva al par. 6 dell’art. 6, che prescrive la comunicazione della scarcerazione o dell’evasione, «almeno nei casi in cui sussista un pericolo o un rischio concreto di danno» nei confronti della vittima. Sul punto si può osservare come il d.lgs. n. 212 in sostanza richiami una categoria di reati ritenuti come tali pericolosi per la vittima, mentre, invece, la direttiva pare orientata ad una valutazione della situazione di rischio personale che possa essere in concreto riconosciuta sulla base della natura e gravità del reato e il rischio di ritorsioni, con l’unica esclusione dei reati minori per i quali, appunto, esiste un debole rischio di danno per le vittime (minor offences, nel testo ufficiale inglese, che nel diritto europeo si riferisce ad una categoria di reati paragonabili alle nostre contravvenzioni). (v. considerando 32). 

Ebbene, tale espressione potrebbe creare problemi nella sua pratica applicazione in quanto non pare affatto pacifica l’identificazione di quali siano i soggetti vittime di “delitti commessi con violenza alla persona”.

Più in generale, sulla nozione di violenza alla persona, infatti, si registrano diversi orientamenti; ed infatti, è controverso in primo luogo, se tale categoria comprenda soltanto i reati le cui fattispecie legali astratte siano connotate dall’elemento della violenza alla persona, ovvero anche tutti quelli che, in concreto, si siano manifestati con atti di violenza in danno della persona offesa; in secondo luogo, se per violenza debba intendersi soltanto quella fisica o anche quella morale o minaccia; in terzo luogo, se la “violenza alla persona” come limite al diritto all’informazione della persona offesa debba ritenersi circoscritta soltanto a quella manifestatasi nelle relazioni interpersonali di tipo domestico o affettivo, ovvero riferita a tutte le forme di condotte  violente anche con vittima occasionale.

In particolare, si segnala un contrasto interpretativo in merito all’ambito di applicazione degli artt. 299, 408, comma 3-bis cod. proc. pen. che limitano gli obblighi di informazione della revoca o sostituzione della misura cautelare, da un lato, e del deposito dell’avviso di archiviazione, dall’altro, ai delitti commessi con violenza alla persona.

Nello specifico, è da menzionare che le Sezioni Unite, con sentenza n. 4305 del 29/01/2015, Fossati, hanno affermato che  i delitti di cui all’art. 612-bis e 572 cod. pen. siano da ricomprendere tra quelli commessi con violenza alla persona, per i quali l’art. 408, comma 3-bis, cod. proc. pen. prevede la notifica obbligatoria alla persona offesa dell’avviso di richiesta di archiviazione.[18]

Analoga questione si registra anche riguardo all’ambito di operatività della clausola che esclude il regime di favore, della non punibilità e della perseguibilità a querela, dei delitti contro il patrimonio commessi ai danni di congiunti, di cui all’art.. 649, terzo comma,  cod. pen., quando si tratta di  “delitti commessi con violenza alle persone”. [19]

In primo luogo, infatti, in base ad una lettura estensiva teleologicamente orientata alla protezione della persona nella sua integrità, l’espressione “violenza alla persona” dovrebbe essere intesa come riferita ad una categoria generale di reati connotati dalla violenza, fisica o morale, esercitata nei confronti delle vittime, in grado, pertanto di ricomprendere delitti quali gli atti persecutori o i maltrattamenti contro familiari o conviventi che non prevedono necessariamente quali modalità di estrinsecazione della condotta la violenza fisica.

Secondo altra prospettiva, invece, si potrebbe profilare una diversa interpretazione più rigorosa alla lettera della legge, e ritenere che l’estensione della locuzione “violenza alla persona” anche alla violenza morale snaturerebbe il concetto giuridico di violenza quale estrinsecazione di energia fisica da tenere distinta dalla minaccia, alla quale viene, proprio per questo, affiancata quale modalità alternativa di estrinsecazione della condotta illecita in diverse fattispecie.

Si può evidenziare, peraltro, che l’espressione “violenza alla persona”, intesa con riferimento ai delitti chesi manifestano con violenza fisica, potrebbe risultare troppo ristrettaed estesa al contempo.

Da un lato, infatti, escluderebbe oltre che i delitti di atti persecutori o maltrattamenti in famiglia anche tutti quelli, realizzabili per tipizzazione normativa indifferentemente con violenza o minaccia, nei quali la condotta si estrinsecasse esclusivamente nelle forme della minaccia, come a titolo esemplificativo l’ipotesi di violenza sessuale o di violenza privata. Dall’altro, invece, ricomprenderebbe i delitti commessi con violenza esercitata non in modo mirato nei confronti di una determinata persona, per i quali, pertanto, il rischio residuo di per­sistente recidiva riguarda non tanto la vittima occasionalmente coinvolta, quanto piuttosto la rei­terazione di fatti analoghi in dan­no di altri, come per i delitti di rapina o resistenza a pubblico ufficiale. Ed invero, desta qualche perplessità sul piano della ragionevolezza sia escludere la notifica nei primi casi, sia consentirla negli ultimi.

In proposito, si ritiene che rivestano particolare interesse le prime applicazioni da parte della giurisprudenza del concetto “violenza alla persona” che perimetra l’ambito applicativo degli obblighi informativi alle persone offese nella materia cautelare, contenuti nell’art. 299 cod. proc. pen., stante la identità diratiodi quelli introdotti dal nuovo art. 90-ter  cod. proc. pen.

La sentenza, Sez. 1, n. 49339 del 29/10/2015, Gallani, ha affermato che: “L’ampiezza del riferimento lessicale alla “violenza alla persona” che deve connotare le modalità commissiva dell’azione delittuosa non può consentire sul piano ermeneutico alcuna distinzione tra le diverse forme di violenza-fisica, psicologica, morale in cui la stessa può concretizzarsi, né fra fattispecie consumate o tentate, sempre che queste ultime siano pervenute ad uno stadio tale di attuazione della condotta da aver dato luogo alla concreta estrinsecazione di atti di violenza, che costituiscano elemento qualificante imprescindibile dell’insorgenza dell’obbligo di notifica previsto dalla legge, la cui finalità è quella di apprestare uno strumento di tutela sul piano processuale a una platea indifferenziate di persone offese da una ampia gamma di delitti e non permette alcun automatico recepimento, ai relativi effetti, dei risultati dell’elaborazione giurisprudenziale della nozione di “violenza alle persona” operata da questa Corte in tema di delitti contro il patrimonio commessi in danno di congiunti – ai diversi e più limitati effetti di diritto sostanziale di circoscrivere l’operatività della speciale causa di non punibilità prevista dall’art 649 c.p., la cui giustificazione razionale costituisce oggetto di critiche sempre più serrate da parte della dottrina e della giurisprudenza sotto il profilo dei suoi contenuto anacronistici”.

E’, altresì, opportuno menzionare una pronuncia di merito che, muovendo nella stessa pro­spettiva interpretativa, diretta, appunto, a circoscrivere il portato della disciplina normati­va in modo coerente con la fina­lità dell’intervento normativo, ha contenuto la disciplina degli obblighi informativi in merito alla richiesta di revoca o di sostituzione della misura coercitiva per i delitti commessi con violenza alla persona, a quelli esclusivamente maturati in un contesto di relazioni fra persona offesa e prevenuto. In particolare, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino, con ordinanza 4/11/2013, Laazizi [20], ha ritenuto che la comunicazione prescritta dal comma 2-bis dell’art. 299 cod. proc. pen. si applica solo nelle ipotesi di delitti in cui la violenza alla persona non è occasionalmente diretta nei confronti della vitti­ma, ma lo è in modo mirato, evi­dentemente in ragione di tali pregressi rapporti. Pertanto, ha precisato il giudice, solo in tale evenienza è giusto e doveroso che la vittima sappia del mutamento del regime caute­lare, proprio perché tale mutamento può riflettere i propri effetti sul rischio possibile di recidiva. Per converso, un’informativa indiscriminata, anche per fatti che si caratterizzino per l’occa­sionalità del rapporto tra l’auto­re e la vittima, apparirebbe del tutto ultronea. In tali situazioni, infatti, il rischio residuo di per­sistente recidiva riguarda non tanto la vittima occasionalmente coinvolta, quanto piuttosto la rei­terazione di fatti analoghi in dan­no di altri.

Infine, può essere utile citare la circolare n. 13/2013 emessa dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Trento  che, sulla stessa linea del Tribunale di Torino, ritiene di limitare l’ambito applicativo degli obblighi informativi ai reati connotati di violenza domestica e di genere, ivi compresi i delitti di maltrattamenti in famiglia e di atti persecutori in quanto ascrivibili a tale contesto oggettivo.[21]

Per ricostruire tale nozione una indicazione importante, comunque, pare potersi trarre dalla Direttiva che il d.lgs 212 è volto ad attuare.

Ebbene, l’art. 2 ne individua l’ambito di applicazione avendo riguardo alle vittime da intendersi come le persone fisiche che hanno subito un danno non soltanto fisico ma anche mentale, emotivo o economico; i considerando 17, 18, richiamano le nozioni di “violenza di genere” e “violenza nell’ambito di relazioni strette”, quali situazioni che giustificano una particolare protezione delle vittime, le quali includono, accanto alla violenza fisica, quella “sessuale, psicologica o economica”; inoltre, il considerando 38 individua tra le vittime esposte ad un rischio elevato di danno quelle della violenza reiterata nelle relazioni strette e della violenza di genere, condotte illecite che richiamano senza dubbio il reato di atti persecutori e di maltrattamenti contro familiari e conviventi. 

Per completezza, inoltre, può essere utile richiamare altre fonti convenzioni o di diritto europeo vincolanti per il nostro Paese che hanno affrontato e definito il concetto di violenza personale.

Con legge 27 giugno 2013 n. 77, il Parlamento ha autorizzato la ratifica della Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa dell’11 maggio 2011  sulla prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.[22]

Per quanto attiene alla definizione di violenza che rientra nel campo di applicazione della Convenzione, all’art. 3  sono descritte tre diverse tipologie: violenza nei confronti delle donne, violenza domestica e violenza di genere.[23] Il tratto che le accomuna è con tutta evidenza la completa parificazione tra violenza fisica e psicologica all’interno del più generale concetto di violenza, da cui, conseguentemente, discende una nozione di vittima riferita a qualsiasi persona fisica che subisce tali forme di violenza. Da rilevare, inoltre, che gli artt. 33 e 34 prevedono la necessaria penalizzazione da parte degli Stati firmatari delle condotte di violenza psicologica e di atti persecutori (stalking).[24]

L’aspirazione fondamentale, enunciata nei considerando, di “vivere liberi dalla violenza” implica, quindi, il diritto alla conservazione dell’integrità psico-fisica della propria persona di fronte ad attacchi ingiustificati; è da sottolineare, inoltre, che i diversi percorsi indirizzati alla protezione delle vittime di violenza individuati dalla Convenzione si incentrano sulla necessità di salvaguardare la sicurezza della persona, parte integrante dell’integrità psichica dell’individuo. [25]

La Direttiva 2011/36/UE per la prevenzione e la re­pressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, ha indicato quali “violenze gravi alla persona” la tortura, l’uso forzato di droghe, lo stupro e altre forme di violenza psicologica, fisica o sessuale. Ebbene, tale disposizione è stata integralmente recepita nel nostro ordinamento dall’articolo 1 del decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 24, recante, appunto, “Attuazione della direttiva 2011/36UE relativa alla prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime e che sostituisce la decisione quadro del Consiglio 2002/629/GAI”.[26]

Ed ancora, in merito alle politiche di contrasto nei confronti della violenza viene in rilievo laDirettiva 2011/99/UE, volta ad istituire l’Ordine di protezione europeo (OPE), attuata con decreto legislativo 11 febbraio 2015, n. 9.[27]

Ebbene, è importante sottolineare che i destinatari delle misure di protezione sono le vittime (anche potenziali, così come dispone il considerando n. 11 della direttiva 2011/99) di reati che mettano in pericolo la vita, l’integrità fisica o psichica, la libertà personale, la sicurezza o l’integrità sessuale del soggetto da proteggere. E’ da evidenziare, altresì, come la citata direttiva, attribuisca posizione di particolare rilievo alle vittime della violenza di genere o nelle relazioni strette, quali violenze fisiche, molestie, aggressioni sessuali, stalking, intimidazioni o altre forme indirette di coercizione. (v. considerando n. 9 della direttiva).

In definitiva, dalla lettura delle fonti sovranazionali sopracitate emerge come il l’espressione “violenza alla persona” sia sempre intesa in senso ampio, comprensiva non solo delle aggressioni fisiche ma anche morali o psicologiche e che lo stalking rientri tra le ipotesi “significative” di violenza di genere che richiedono particolari forme di protezione a favore delle vittime.

Ebbene, tali indicazioni, rientrando tra le regole vincolanti per gli Stati che delineano il diritto dell’Unione delle vittime, costituiscono un fondamentale riferimento per addivenire aduna interpretazione delle norme interne conforme al diritto europeo.[28]

4.   La condizione di particolare vulnerabilità

L’art. 1, comma 1, lett. b), accogliendo le osservazioni formulate dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, ha introdotto l’art. 90-quater cod. proc. pen.  che, in un’ottica di rafforzamento della protezione delle vittime di reato non solo “dall’autore del reato” ma anche “dal processo”, con riferimento ai fenomeni di c.d. vittimizzazione secondaria, definisce la “condizione di particolare vulnerabilità”. In particolare, vengono indicati gli indici in base ai quali desumere tale particolare condizione, agli effetti delle disposizioni processuali; essi si identificano: nell’età e nello stato di infermità o di deficienza psichica, nel tipo di reato, nelle modalità e circostanze del fatto per cui si procede. Per la valutazione di tale condizione, inoltre, si tiene conto se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio razziale, se è riconducibile ad ambiti di criminalità organizzata o di terrorismo, anche internazionale, o di tratta degli esseri umani, se si caratterizza per finalità di discriminazione, e se la persona è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall’autore del reato.

Da tale previsione emerge la volontà di costruire un concetto di vulnerabilità della persona offesa aspecifico, cioè “sganciato”, dalla tipologia dei reati per cui si procede o dalle caratteristiche personali della vittima. E se ciò risponde alle precise indicazioni di fonte europea, tuttavia, è da puntualizzare che la Direttiva all’art. 22, nell’introdurre il concetto elastico di “specifiche esigenze di protezione” della singola persona offesa, pare configurare una sorta di microprocedimento per la valutazione delle stesse in cui un ruolo fondamentale è affidato ai servizi di assistenza alle vittime (artt. 8 e 9).

Nell’art. 90-quater cod. proc. pen., invece, non viene specificato quale sia il soggetto abilitato a fornire gli elementi di valutazione della particolare vulnerabilità, che pare, pertanto, rimessa agli operatori giudiziari che di volta in volta vengono in contatto con la parte offesa.

E’ da ricordare che su questo punto la Camera dei Deputati aveva invitato il Governo a considerare l’opportunità di attribuire tale specifico compito al Pubblico Ministero, chiamato a dichiarare la particolare vulnerabilità con decreto, su comunicazione della polizia giudiziaria, avvalendosi pure dei servizi sociali, anche tramite accertamento tecnico psicologico. In particolare, nel parere reso la rubrica dell’art. 90-quater c.p.p. si intitolava, “Dichiarazione dello stato di vulnerabilità della vittima e del testimone”; la proposta era indirizzata all’introduzione di un provvedimento dichiarativo che poteva riguardare anche i testimoni, da notificarsi alle parti, revocabile in ogni momento in cui fossero mutati gli elementi alla base della valutazione.

Tale osservazione non è stata, tuttavia, accolta dal Governo che ha considerato tale previsione superflua, ritenendo che l’autorità giudiziaria che procede possa comunque apprezzare lo stato di vulnerabilità ai fini specifici dell’atto da compiere, senza che l’emissione anticipata di un provvedimento dichiarativo della particolare vulnerabilità possa accrescerne le potenzialità di tutela. Inoltre, sempre nella relazione governativa si è osservato, come la previsione di provvedimento aprirebbe la questione della sua eventuale impugnabilità con le conseguenti connesse problematiche relative alla durata del procedimento e all’appesantimento della procedura. Anche la proposta estensione delle tutele e delle protezioni ai testimoni vulnerabili è stata esclusa dal momento che la Direttiva, cui il d.lgs. n. 212 dà attuazione, è circoscritta alla tematica delle vittime di reati.

L’accertamento dello stato di particolare vulnerabilità ha importanti ricadute sul piano processuale  poiché il d.lgs. in esame, adeguando l’ordinamento alle prescrizioni dell’art. 23 della Direttiva, fa derivare numerose misure a tutela della persona offesa dai rischi di vittimizzazione secondaria, intimidazioni o ritorsioni, originariamente previste solo per i procedimenti penali relativi a specifici reati, oggetto di preventiva elencazione da parte del legislatore.

In particolare, a seguito del riconoscimento di tale stato:

a)    è assicurata in ogni caso la possibilità della riproduzione audiovisiva delle dichiarazioni della persona offesa: in proposito, pare potersi affermare che la particolare vulnerabilità della persona offesa integri una situazione di “assoluta indispensabilità” (che, in base al comma 4 dell’art. 134 cod. proc. pen., consente tale tipologia di documentazione degli atti) tipizzata dal legislatore (art. 1, comma 1, lett. c).

E’ da precisare che in questo caso il nostro legislatore ha esteso una garanzia che la Direttiva imponeva soltanto per le audizioni della persona offesa minore (art. 24, par. 1, lett. a).

La registrazione audiovisiva, direttamente fruibile da tutte le parti del processo ha indubbiamente un positivo effetto sulla semplificazione e velocizzazione dei procedimenti, in quanto verosimilmente consente di contenere nel minimo il numero delle audizioni del soggetto vulnerabile. Inoltre, riprendendo le argomentazioni della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, è «una misura coerente anche con le indicazioni della giurisprudenza della Corte di legittimità che assegna un valore inquinante alle domande suggestive (che possono essere poste anche all’inizio della progressione dichiarativa, ovvero durante le audizioni investigative, senza che la correttezza dell’esame sia controllabile). La misura si manifesta opportuna anche in relazione al fatto che le difese spesso (legittimamente) basano le loro strategie difensive proprio sul dubbio circa l’eteroinduzione dei contenuti accusatori in fase investigativa. Fase a volte «oscura», che la videoregistrazione renderebbe finalmente fruibile a garanzia dell’accusato e della parte lesa»;

b)    è sancita l’irripetibilità delle dichiarazioni della persona offesa che sia stata sentita in sede di incidente probatorio o in dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate: il ri-esame è ammesso solo – in linea con le altre situazioni “a rischio” già previste dall’art. 190-bis cod. proc. pen. – se riguarda fatti o circostanze diversi o se il giudice o una parte lo ritengono necessario in base a specifiche esigenze (art. 1, comma  1, lett. e);

c)    la polizia giudiziaria e il pubblico ministero, quando devono assumere a sommarie informazioni la persona offesa, possono avvalersi di un esperto; devono assicurare che la stessa non abbia contatti con la persona accusata (in occasione della richiesta di s.i.t.) e che non sia chiamata più volte a rendere tali informazioni (art. 1, comma  1, lett. f) e g),  d.lgs. n. 212 del 2015 che hanno novellato rispettivamente gli artt. 351 e 362 cod. proc. pen.);

d)    il pubblico ministero – anche su richiesta della persona offesa – o l’accusato possono chiedere che si proceda con incidente probatorio all’assunzione della testimonianza dell’offeso (art. 1, comma  1, lett. h),  d.lgs. n. 212 del 2015 che ha novellato l’art. 392 comma 1-bis cod. proc. pen.);

e)    il giudice, su istanza della persona offesa o del suo difensore, dispone l’adozione di modalità protette (art. 1, comma  1, lett. i) e art. 1, comma 1, lett. i) n. 1,  d.lgs. n. 212 del 2015, che hanno rispettivamente aggiunto il comma 5-quater all’art. 398  e sostituito il  comma 4-quater dell’art. 498 cod. proc. pen.).

In un prospettiva più ampia, sembra potersi sostenere che suddette misure, pur costituendo indubbiamente una forma di protezione per le vittime, mirando a scongiurare i condizionamenti e le suggestioni, concorrono a garantire, anche nell’interesse nell’imputato, la genuinità della prova su cui si basa un giusto processo.

5.   Il diritto all’interpretazione e alla traduzione

L’articolo 1, comma 1, lettera d), con la finalità di potenziare il diritto di effettiva e consapevole partecipazione al processo delle parti offese, interviene sulla materia dell’interpretariato e della traduzione, dettando specifiche disposizioni, in attuazione dell’art. 7 della Direttiva, che vanno ad integrare e completare quelle introdotte con il decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 32,di attuazione della direttiva 2010/64/UE sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali, con riferimento alla posizione dell’imputato.

Il nuovo articolo 143-bis cod. proc. pen., rubricato “Altri casi di nomina dell’interprete”  prevede che l’autorità procedente (quindi non soltanto il giudice ma anche il pubblico ministero o la polizia giudiziaria, a seconda della fase in cui si trova il procedimento) nomini interpreti e traduttori al fine di permettere alla persona offesa che non comprende la lingua del processo di parteciparvi sin dalla fase iniziale delle indagini preliminari. Si ritiene, pertanto, che tale disposizione proceda lungo il percorso teso alla valorizzazione della figura dell’interprete e del traduttore nel processo penale, da considerarsi non più soltanto come ausiliario del giudice ma soprattutto in veste di garante tecnico dell’equità del processo, accanto all’ufficio difensivo, per assicurare effettività alla partecipazione dei soggetti coinvolti qualunque sia la lingua da loro conosciuta.

Alla luce della relazione illustrativa del testo legislativo e della rubrica dell’art. 143-bis si può trarre la volontà del legislatore di conferire a tale disposizione una portata complementare rispetto a quella di cui all’art. 143, che, oltre alle prescrizioni a tutela dell’imputato, contiene, pertanto, anche quelle generali in tema di interpretariato e traduzione. Di conseguenza, nonostante l’assenza di un richiamo espresso, non pare azzardato affermare che siano applicabili anche agli interpreti ed i traduttori nominati per la parte offesa le previsioni di cui ai commi 4, 5 e 6 dell’art. 143 cod. proc. pen., ovvero che: l’accertamento sulla conoscenza della lingua italiana è compiuto dall’autorità giudiziaria; la conoscenza della lingua italiana è presunta fino a prova contraria per chi sia cittadino italiano; l’interprete e il traduttore sono nominati anche quando il giudice, il pubblico ministero o l’ufficiale di polizia giudiziaria ha personale conoscenza della lingua o del dialetto da interpretare; la nomina del traduttore per gli adempimenti di cui ai commi 2 e 3 è regolata dagli articoli 144 e seguenti del titolo quarto del libro secondo; la prestazione dell’ufficio di interprete e di traduttore è obbligatoria.

Il primo comma del nuovo articolo 143-bis riproduce il vecchio testo del secondo comma dell’articolo 143 cod. proc. pen., stabilendo che l’autorità procedente nomini un interprete quando occorre tradurre uno scritto in lingua straniera o in un dialetto non facilmente intellegibile, ovvero quando la persona che vuole o deve fare una dichiarazione non conosce la lingua italiana. Si tratta di una previsione che completa la disciplina generale in materia di interpretariato e traduzione degli atti a cui, pertanto, va coordinata: per quanto concerne la traduzione delle dichiarazioni, si ritiene che la disposizione riguardi le dichiarazioni dei testimoni e dei soggetti diversi dall’imputato e dalla persona offesa, poiché per questi ultimi opera la disciplina, rispettivamente, di cui all’art. 143, come modificato dal d.lgs. n. 32 del 2014, e 143-bis, commi 2, 3, e 4 cod. proc. pen., di nuova introduzione; per quanto attiene alla traduzione dei documenti, si osserva che tale previsione sia comunque da coordinare con l’art. 242, comma 1, cod. proc. pen., in base al quale la traduzione di un documento redatto in lingua diversa da quella italiana è disposta dal giudice solo «se ciò è necessario alla sua comprensione»

Il secondo comma prevede che l’autorità procedente nomina, anche d’ufficio, un interprete quando occorre procedere all’audizione della persona offesa che non conosce la lingua italiana, nonché nei casi in cui la stessa intenda partecipare all’udienza e abbia fatto richiesta di essere assistita dall’interprete.

L’assistenza linguistica si fonda sulla non conoscenza della lingua italiana che, alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte, non discende automaticamente dal mero status di straniero o apolide ma presuppone necessariamente un accertamento di fatto.[29]

Per rispondere alle esigenze di celerità e di immediatezza, inoltre, il terzo comma consente che l’assistenza dell’interprete possa essere assicurata, ove possibile, anche mediante l’utilizzo delle tecnologie di comunicazione a distanza, sempreché la presenza fisica dell’interprete non sia necessaria per permettere alla persona offesa di esercitare correttamente i propri diritti o comprendere il procedimento. Tale previsione consentirebbe, pertanto di poter fruire più facilmente e con minori costi dell’assistenza linguistica senza che l’interprete, specie se di una lingua o un dialetto rari, si debba spostare frequentemente sul territorio. 

Infine, al quarto comma si prevede il diritto della parte offesa allogolotta di ottenere la traduzione gratuita, anche per estratto, di atti o parti di atti del procedimento, utili per l’esercizio dei suoi diritti. La disposizione consente la traduzione in forma orale se l’autorità procedente ritiene che non ne derivi pregiudizio ai diritti della persona offesa, in conformità al par. 6 dell’art. 7 della Direttiva.  

La norma sancisce la gratuità per la parte offesa dell’assistenza dell’interprete e del traduttore, in precisa attuazione di quanto richiede la Direttiva. Tuttavia, pare potersi affermare che stante la attuale previsione contenuta nell’art. 5 del Testo unico delle spese di giustizia, d.P.R. 30 maggio 2002, n.115, tali costi integrino comunque spese processuali ripetibili dal condannato. Ed infatti, a seguito della modifica introdotta con il d.lgs n. 32 del 2014 le spese degli ausiliari del magistrato sono ripetibili, ad eccezione di quelle per gli interpreti e traduttori nominati nei casi previsti dall’art. 143 cod. proc. pen., che riguarda esclusivamente l’assistenza linguistica assicurata all’imputato.     

6.   Le modifiche alle norme di attuazione del codice di procedura penale in tema di proposizione o presentazione di denuncia o querela.

L’articolo 2 del decreto reca le modifiche alle disposizioni di attuazione, coordinamento e transitorie al codice di procedura penale.

In particolare, alla lettera a) viene inserito l’articolo 107-ter disp. att.,rubricato “Assistenza dell’interprete per la proposizione o presentazione di denuncia o querela”,che prevede in favore della persona offesa che non conosce la lingua italiana, la facoltà di presentare la denuncia o proporre la querela utilizzando una lingua a lei conosciuta, sempre che presentazione o proposizione avvengano dinnanzi alla Procura della Repubblica presso il Tribunale del capoluogo del distretto. Oltre a ciò, viene stabilito che, negli stessi casi e previa richiesta, la parte offesa può ottenere la traduzione, in una lingua a lei conosciuta, dell’attestazione della ricezione della denuncia o della querela.

In sostanza, il legislatore in ragione degli oneri organizzativi e finanziari che comporta, ha regolato l’esercizio del diritto di proposizione o presentazione di denuncia o querela della parte offesa alloglotta, individuando nelle Procure della Repubblica del capoluogo del distretto gli uffici giudiziari maggiormente capaci sul territorio di dotarsi della necessaria traduzione.

L’art. 2, comma 1, lett. b), introduce l’articolo 108-ter disp. att., (“Denunce e querele per reati commessi in altro Stato dell’unione europea”)  secondo il quale, per reati commessi in altri Stati dell’Unione europea quando la persona offesa denunciante o querelante sia residente o abbia il domicilio nel territorio dello Stato, il Procuratore della Repubblica trasmette al Procuratore generale presso la Corte di appello le denunce o le querele, affinché ne curi l’invio all’autorità giudiziaria competente. La disposizione dà attuazione alla previsione di cui all’articolo 17, par. 3, della Direttiva, che espressamente impone agli Stati membri di provvedere affinché l’autorità competente dinanzi alla quale la vittima presenta la denuncia la trasmetta senza indugio all’autorità competente dello Stato membro in cui è stato commesso il reato, qualora la competenza ad avviare il procedimento non sia esercitata dallo Stato membro in cui è stata presentata la denuncia.

Pare evidente che tale disposizione sia da coordinare con le norme che disciplinano l’ambito di applicazione della legge penale italiana (artt. 6 e ss cod. pen.) in quanto la condizione per trasmettere la notizia di reato è che non ricorra la giurisdizione dello Stato ricevente la denuncia o la querela.

7.   Brevi osservazioni sui profili intertemporali e sulle conseguenze processuali in caso di inosservanza delle nuove disposizioni.

Per quanto attiene agli aspetti di diritto intertemporale, è da evidenziare come il decreto non contenga una disciplina transitoria e, pertanto, le nuove norme sono applicabili dalla data della loro entrata in vigore (20 gennaio 2016), in base al generale principio tempus regist actum che regola la successione nel tempo delle norme processuali.

Infine, in merito alle conseguenze della nuova disciplina sul piano processuale, si rileva che il legislatore non ha previsto specifiche sanzioni processuali a presidio delle disposizioni introdotte, rimanendo perciò invariato il quadro normativo vigente.  

Peraltro, stante il principio di tassatività dei casi di nullità, eventuali inosservanze non parrebbe che possano nemmeno integrare casi di nullità di ordine generale, ai sensi dell’art. 178, primo comma, lett. c)[30], e cioè lesioni concernenti «l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza» nel processo, non solo perché l’offeso assume la veste di “parte privata” solo successivamente alla eventuale costituzione di parte civile, ma soprattutto perché i casi di nullità riferiti alla posizione della parte offesa sono normativamente circoscritti alla violazione delle norme concernenti la sua citazione in giudizio.

Sarà, pertanto, in sede di applicazione che si misureranno le conseguenze pratiche delle eventuali violazioni, fermo restando il generale obbligo di osservanza delle norme, sancito all’art. 124 cod. proc. pen.

Oltre a ciò si può osservare che le eventuali ordinanze emesse nel corso del processo con le quali il giudice si sia pronunciato nel senso di negare la necessità dell’assistenza linguistica alla parte offesa oppure l’applicazione delle regole per l’audizione della persona offesa “particolarmente vulnerabile”, potrebbero essere contestate esclusivamente con l’impugnazione della sentenza, ai sensi dell’art. 586 cod. proc. pen., con i limiti e le condizioni che il codice, all’art. 572 cod. proc. pen., prevede in tema di impugnazione per la parte offesa anche costituitasi parte civile.

In ogni caso, non può escludersi che le eventuali inosservanze delle norme in tema di assunzione “protetta” o “assistita” delle dichiarazioni della parte offesa “particolarmente vulnerabile”, incidendo sulla regolarità dell’istruttoria, potrebbero rilevare per valutare l’attendibilità e la genuinità delle stesse, in applicazione delle regole generali in tema di prova dichiarativa.

Il redattore

Mariaemanuela Guerra

Il vice direttore

Giorgio Fidelbo

DECRETO LEGISLATIVO 15 dicembre 2015, n. 212

 Attuazione della direttiva 2012/29/UE del Parlamento  europeo  e  del Consiglio, del 25  ottobre  2012,  che  istituisce  norme  minime  in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato  e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI. (15G00221) (GU n.3 del 5-1-2016) 

Vigente al: 20-1-2016   

 IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

    Visti gli articoli 76 e 87 della Costituzione;  

Vista  la  direttiva  2012/29/UE  del  Parlamento  europeo  e   del Consiglio, del 25  ottobre  2012,  che  istituisce  norme  minime  in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato  e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI;  

Visto l’articolo 14 della legge 23 agosto 1988, n. 400;  

Visto il decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 447, recante approvazione del codice di procedura penale;

   Vista la legge 6 agosto 2013, n. 96, recante delega al Governo  per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di  altri  atti dell’Unione europea –  Legge  di  delegazione  europea  2013,  e  in particolare l’articolo 1 nonche’ l’allegato B;  

Vista la preliminare  deliberazione  del  Consiglio  dei  ministri, adottata nella riunione del 4 settembre 2015;  

Acquisiti i pareri delle competenti Commissioni  della  Camera  dei deputati e del Senato della Repubblica;

   Vista la deliberazione del Consiglio dei ministri,  adottata  nella riunione dell’11 dicembre 2015;

   Sulla proposta del Presidente del  Consiglio  dei  ministri  e  del Ministro della giustizia, di concerto con  i  Ministri  degli  affari esteri e della cooperazione internazionale e  dell’economia  e  delle finanze;

Emana

 il seguente decreto legislativo:

 Art. 1

Modifiche al codice di procedura penale

    1. Al codice di procedura penale,  approvato  con  il  decreto  del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 447, sono apportate le seguenti modificazioni:

     a) all’articolo 90:

       1) dopo il comma 2, e’ inserito il seguente:

         «2-bis. Quando vi  e’  incertezza  sulla  minore  eta’  della persona offesa dal reato,  il  giudice  dispone,  anche  di  ufficio, perizia. Se, anche dopo la perizia, permangono dubbi, la minore  eta’ e’ presunta, ma soltanto ai fini dell’applicazione delle disposizioni processuali.»;

       2) al comma 3, dopo le parole: «prossimi  congiunti  di  essa», sono aggiunte le seguenti: «o da  persona  alla  medesima  legata  da relazione affettiva e con essa stabilmente convivente»;

     b) dopo l’articolo 90 sono inseriti i seguenti:       «Art. 90-bis. (Informazioni alla persona  offesa).  –  1.  Alla persona offesa, sin dal primo contatto  con  l’autorita’  procedente, vengono fornite, in una lingua a lei comprensibile,  informazioni  in merito:

         a) alle modalita’ di presentazione degli atti di  denuncia  o querela, al ruolo che assume nel corso delle indagini e del processo, al diritto ad avere conoscenza della data, del luogo del  processo  e della imputazione e,  ove  costituita  parte civile,  al  diritto  a ricevere notifica della sentenza, anche per estratto;

         b) alla facolta’ di ricevere comunicazione  dello  stato  del procedimento e delle iscrizioni di cui all’articolo 335, commi 1 e 2;

         c) alla  facolta’  di  essere  avvisata  della  richiesta  di archiviazione;

         d) alla facolta’ di avvalersi della consulenza legale  e  del patrocinio a spese dello Stato;

         e)    alle    modalita’    di    esercizio    del     diritto all’interpretazione e alla traduzione di atti del procedimento;

         f) alle eventuali misure di  protezione  che  possono  essere disposte in suo favore;

         g) ai diritti  riconosciuti  dalla  legge  nel  caso  in  cui risieda in uno Stato membro dell’Unione europea diverso da quello  in cui e’ stato commesso il reato;

         h) alle modalita’ di contestazione  di  eventuali  violazioni dei propri diritti;

         i) alle autorita’ cui rivolgersi  per  ottenere  informazioni sul procedimento;

         l) alle  modalita’  di  rimborso  delle  spese  sostenute  in relazione alla partecipazione al procedimento penale;

         m) alla possibilita’ di chiedere il  risarcimento  dei  danni derivanti da reato;

         n) alla possibilita’ che il  procedimento  sia  definito  con remissione di querela di cui all’articolo 152 del codice penale,  ove possibile, o attraverso la mediazione;

         o) alle facolta’ ad essa spettanti nei  procedimenti  in  cui l’imputato formula richiesta  di  sospensione  del  procedimento  con messa alla prova o in quelli  in  cui  e’  applicabile  la  causa  di esclusione della punibilita’ per particolare tenuita’ del fatto;

         p) alle strutture sanitarie  presenti  sul  territorio,  alle case famiglia, ai centri antiviolenza e alle case rifugio.

       Art.    90-ter. (Comunicazioni    dell’evasione     e     della scarcerazione). – 1. Fermo quanto  previsto  dall’articolo  299,  nei procedimenti per delitti commessi con  violenza  alla  persona  sono immediatamente  comunicati  alla  persona offesa   che   ne   faccia richiesta, con l’ausilio della polizia giudiziaria,  i provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misura di sicurezza detentiva,ed e’ altresi’ data tempestiva  notizia,  con  le  stesse  modalita’, dell’evasione dell’imputato in stato  di  custodia  cautelare  o  del condannato,  nonche’  della volontaria  sottrazione   dell’internato all’esecuzione  della  misura  di  sicurezza detentiva,  salvo   che risulti, anche nella ipotesi di cui  all’articolo  299,  il pericolo concreto di un danno per l’autore del reato.

       Art. 90-quater.  (Condizione di particolare vulnerabilita’).  –

1. Agli effetti delle disposizioni del presente codice, la condizione di particolare vulnerabilita’ della persona offesa e’ desunta,  oltre che dall’eta’ e dallo stato di infermita’ o di  deficienza  psichica, dal tipo di reato, dalle modalita’ e circostanze del fatto per cui si procede. Per la valutazione della condizione si  tiene  conto  se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio razziale, se e’ riconducibile  ad  ambiti  di  criminalita’  organizzata  o  di terrorismo, anche internazionale, o di tratta degli esseri umani,  se si caratterizza per finalita’ di discriminazione,  e  se  la  persona offesa   e’   affettivamente,   psicologicamente o   economicamente dipendente dall’autore del reato.»;

     c) al comma 4 dell’articolo 134 e’ aggiunto, in fine, il seguente periodo:  «La  riproduzione  audiovisiva  delle  dichiarazioni  della persona offesa in condizione di particolare vulnerabilita’ e’ in ogni caso  consentita,  anche  al  di  fuori  delle  ipotesi  di  assoluta indispensabilita’.»;

     d) dopo l’articolo 143 e’ inserito il seguente:

       «Art. 143-bis. (Altri  casi  di  nomina  dell’interprete).-  1. L’autorita’ procedente nomina un interprete quando  occorre  tradurre uno scritto in lingua straniera  o  in  un  dialetto  non  facilmente intellegibile ovvero quando la persona che  vuole  o  deve  fare  una dichiarazione non conosce la lingua italiana. La  dichiarazione  puo’ anche essere fatta per iscritto  e  in  tale  caso  e’ inserita  nel verbale con la traduzione eseguita dall’interprete.

       2. Oltre che nei casi di cui al comma 1 e di  cui  all’articolo 119, l’autorita’ procedente nomina, anche  d’ufficio,  un  interprete quando occorre procedere all’audizione della persona offesa  che  non conosce la lingua italiana nonche’ nei casi in cui la stessa  intenda partecipare all’udienza e abbia fatto richiesta di essere  assistita dall’interprete.

       3. L’assistenza dell’interprete  puo’  essere  assicurata,  ove possibile,   anche mediante   l’utilizzo   delle   tecnologie    di comunicazione   a   distanza, sempreche’   la    presenza    fisica dell’interprete non sia necessaria per consentire alla persona offesa di  esercitare  correttamente  i  suoi  diritti  o   di comprendere compiutamente lo svolgimento del procedimento.

       4. La persona offesa che non  conosce  la  lingua  italiana  ha diritto alla traduzione gratuita di atti, o parti degli  stessi,  che contengono informazioni utili all’esercizio  dei  suoi  diritti.  La traduzione puo’ essere disposta sia in forma orale che per  riassunto se l’autorita’ procedente ritiene che non ne  derivi pregiudizio  ai diritti della persona offesa.»;

     e) al comma 1-bis dell’articolo 190-bis dopo  le  parole:  «degli anni sedici» sono inserite le seguenti:  «e,  in  ogni  caso,  quando l’esame  testimoniale richiesto  riguarda  una  persona  offesa   in condizione di particolare vulnerabilita’»;

     f) al comma 1-ter  dell’articolo  351  e’  aggiunto  il  seguente periodo: «Allo stesso modo  procede  quando  deve  assumere  sommarie informazioni da una persona offesa, anche maggiorenne, in  condizione di particolare vulnerabilita’. In ogni caso assicura che  la  persona offesa particolarmente vulnerabile, in occasione della  richiesta  di sommarie informazioni, non abbia contatti con la persona  sottoposta ad indagini  e  non  sia  chiamata  piu’  volte  a  rendere sommarie informazioni, salva l’assoluta necessita’ per le indagini.»;

     g) al comma 1-bis  dell’articolo  362  e’  aggiunto  il  seguente periodo: «Allo stesso modo provvede  quando  deve  assumere  sommarie informazioni da una persona offesa, anche maggiorenne, in  condizione di particolare vulnerabilita’. In ogni caso assicura che  la  persona offesa particolarmente vulnerabile, in occasione della  richiesta  di sommarie informazioni, non abbia contatti con la persona  sottoposta ad indagini  e  non  sia  chiamata  piu’  volte  a  rendere sommarie informazioni, salva l’assoluta necessita’ per le indagini.»;

     h) al comma 1-bis  dell’articolo  392  e’  aggiunto  il  seguente periodo: «In ogni caso, quando la persona offesa versa in  condizione di  particolare vulnerabilita’,  il  pubblico  ministero,  anche  su richiesta della stessa, o la persona sottoposta alle indagini possono chiedere che si proceda con incidente probatorio all’assunzione della sua testimonianza.»;

     i) all’articolo 398, dopo il comma 5-ter e’ aggiunto il seguente:«5-quater. Fermo quanto previsto  dal  comma  5-ter,  quando  occorre procedere all’esame di una persona offesa che versa in condizione  di particolare vulnerabilita’  si  applicano  le  diposizioni  di   cui all’articolo 498, comma 4-quater.»;

     l)  all’articolo  498,  il  comma  4-quater  e’  sostituito   dal seguente: «4-quater. Fermo  quanto  previsto  dai  precedenti  commi, quando occorre procedere all’esame di una persona offesa che versa in condizione di particolare vulnerabilita’, il giudice, se  la  persona offesa o il suo difensore ne  fa  richiesta, dispone  l’adozione  di modalita’ protette.». 

Art. 2

 Modifiche alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale

    1. Alle norme di attuazione, di  coordinamento  e  transitorie  del codice di procedura penale, approvate con il decreto  legislativo  28 luglio 1989, n. 271, sono apportate le seguenti modificazioni:

     a) dopo l’articolo 107-bis e’ inserito il seguente:

       «Art. 107-ter. (Assistenza dell’interprete per la  proposizione o presentazione di denuncia o querela).- 1. La persona offesa che non conosce la lingua italiana, se presenta denuncia  o  propone  querela dinnanzi alla  procura  della  Repubblica  presso  il  tribunale  del capoluogo del distretto, ha diritto di utilizzare una  lingua  a  lei conosciuta.  Negli  stessi  casi  ha  diritto  di  ottenere,   previarichiesta,  la  traduzione   in   una   lingua   a   lei   conosciuta dell’attestazione di ricezione della denuncia o della querela.»;

     b) dopo l’articolo 108-bis e’ inserito il seguente:

       «Art. 108-ter. (Denunce e querele per reati commessi  in  altro Stato dell’Unione europea). – 1. Quando la persona offesa denunciante o querelante sia residente o abbia il domicilio nel territorio  dello Stato, il  procuratore  della  Repubblica  trasmette  al  procuratore generale presso la Corte di appello le denunce o le querele per reati commessi in  altri  Stati  dell’Unione  europea, affinche’  ne  curi l’invio all’autorita’ giudiziaria competente.».

Art. 3

Disposizioni finanziarie

    1. Agli  oneri  derivanti  dall’attuazione  del  presente  decreto, valutati in euro 1.280.000,00 annui, a decorrere dall’anno  2016,  si provvede  mediante corrispondente  riduzione  del   Fondo   per   il recepimento della normativa europea di cui all’articolo 41-bis  della legge 24 dicembre 2012, n. 234.

   2. Ai sensi dell’articolo 17, comma 12,  della  legge  31  dicembre 2009, n. 196, il Ministro della giustizia  provvede  al  monitoraggio degli oneri di cui al presente decreto  e  riferisce  in  merito  al Ministro dell’economia e delle finanze. Nel  caso si  verifichino  o siano in procinto di verificarsi scostamenti rispetto alle previsionidi cui al comma 1, il Ministro dell’economia e delle finanze, sentito il Ministro della giustizia,  provvede,  con  proprio  decreto,  alla riduzione, nella misura necessaria alla  copertura  finanziaria  del maggior  onere  risultante  dall’attivita’  di monitoraggio,   delle dotazioni  finanziarie  rimodulabili  di  parte   corrente   di cui all’articolo 21, comma 5, lettera b), della legge 31  dicembre  2009, n. 196, nell’ambito del programma «Giustizia civile e  penale»  della missione «Giustizia» dello stato di previsione  del  Ministero  della giustizia.

   3. Il Ministro dell’economia e  delle  finanze  e’  autorizzato  ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.   Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sara’ inserito nella  Raccolta  ufficiale  degli  atti  normativi  della  Repubblica italiana. E’ fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.

     Dato a Roma, addi’ 15 dicembre 2015

MATTARELLA

Renzi, Presidente del Consiglio dei ministri

Orlando, Ministro della giustizia

Gentiloni Silveri, Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale

Padoan, Ministro dell’economia e delle finanze

Visto, il Guardasigilli: Orlando 

[1] recante “Attuazione della direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI.”, pubblicato sulla G.U. Serie Generale n.3 del 5.01.2016,entrato in vigore il 20 gennaio 2016.

[2] Sottolinea come l’introduzione del concetto di vittima sia avvenuta in settori ancillari del diritto processuale: così, infatti, nella normativa sulla competenza del giudice di pace, con gli istituti del ricorso immediato e della mediazione; nella disciplina penitenziaria, per il tramite dei parametri di concessione delle misure alternative e di scelta del luogo di detenzione domiciliare, L. LUPARIA, L’Europa e una certa idea di vittima (ovvero come una direttiva può mettere in discussone il nostro modello processuale), in L’integrazione europea attraverso il diritto processuale penale, (a cura di) R. MASTROIANNI, D. SAVY, Editoriale scientifica, 2013, pag. 91.

[3] Direttiva 2012/29/UE, art. 2, par. 1, lett.a) e b): «Articolo 2. Definizioni.1. Ai fini della presente direttiva si intende per: a) «vittima»: una persona fisica che ha subito un danno, anche fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche che sono stati causati direttamente da un reato; un familiare di una persona la cui morte è stata causata direttamente da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona; «familiare»: il coniuge, la persona che convive con la vittima in una relazione intima, nello stesso nucleo familiare e in modo stabile e continuo, i parenti in linea diretta, i fratelli e le sorelle, e le persone a carico della vittima…..omissis».

[4] La base giuridica della direttiva è l’art. 82, par. 2, lett. c) del Trattato di Lisbona sul funzionamento dell’Unione, in base al quale i diritti delle vittime della criminalità rientrano tra le materie in cui il Parlamento europeo ed il Consiglio possono stabilire norme minime attraverso direttive di armonizzazione penale: «Art. 82.…omissis…2.Laddove necessario per facilitare il riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziari e la cooperazione di polizia e giudiziaria nelle materia penali aventi dimensioni transnazionale, il Parlamento europeo ed il Consiglio possono stabilire norme minime deliberando mediante direttive secondo la procedura legislativa ordinaria. Queste tengono conto delle differenze tra le tradizioni giuridiche e gli  ordinamenti giuridici degli Stati membri. Esse riguardano:….. omissis; c) i diritti delle vittime della criminalità;….».

[5] adottato dal Consiglio europeo del 10 e 11 dicembre 2009. La relativa tabella di marcia è stata approvata con risoluzione 10 giugno 2011 del Consiglio (la c.d. tabella di marcia di Budapest), in G.U.U.E. n. 187 del 28/06/2010.

[6] cfr. Sez. 4, sent. n. 16946 del 20/03/2015, M., Rv. 263448; Sez. 4, sent. n. 8164 del 03/02/2006, Duric, Rv. 233914.  

[7] Corte cost., sent. n. 238 del 1996.

[8]Sez.1, sent. n. 498 del 27/02/1989, Salvan, Rv. 180898.

[9] Sez. 4, sent. n. 6284 del 02/12/2005, dep. 17/02/2006, Euchi, Rv. 232959; Sez. 7, sent. n. 32547 del 7/06/2012, Euchi.

[10] con legge 30 giugno 2009, n. 85.

[11] «ART. 224-bis. (Provvedimenti del giudice per il compimento su persone viventi di prelievi di campioni biologici o accertamenti medici). 1. Se per l’esecuzione della perizia è necessario procedere al prelievo di capelli, di peli o di mucosa del cavo orale su persone viventi, ovvero ad accertamenti medici e non vi è il consenso della persona sottoposta all’esame del perito, il giudice, anche d’ufficio, dispone con ordinanza motivata l’esecuzione obbligatoria del prelievo o dell’accertamento, se esso risulta assolutamente indispensabile per la prova dei fatti e si procede per taluno dei delitti per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o per un delitto non colposo, consumato o tentato, per il quale è prevista la reclusione superiore nel massimo a tre anni. 2. L’ordinanza che dispone il prelievo obbligatorio contiene, a pena di nullità rilevabile anche di ufficio:

a) le generalità della persona sottoposta all’esame o quanto altro valga ad identificarla; b) la descrizione sommaria del fatto con l’indicazione delle norme di legge che si assumono violate;
c) l’indicazione specifica del prelievo o dell’accertamento da effettuare e delle ragioni che lo rendono assolutamente indispensabile per l’accertamento del fatto; d) l’indicazione del luogo, del giorno e dell’ora stabiliti per il compimento dell’atto e delle modalità di compimento; e) l’avviso che l’interessato può farsi assistere da una persona di fiducia;
f) l’avviso che, in caso di mancata comparizione non dovuta a legittimo impedimento, potrà essere ordinato l’accompagnamento coattivo.

3. L’ordinanza è notificata all’interessato, alla persona sottoposta alle indagini e al suo difensore almeno tre giorni prima di quello stabilito per l’esecuzione delle operazioni peritali.

4. Le operazioni sono eseguite nel rispetto della dignità e del pudore di chi vi è sottoposto.

5. Non possono in alcun caso essere disposte operazioni che contrastano con espressi divieti previsti dalla legge, ovvero che mettono in pericolo la vita, l’integrità fisica, la salute della persona o del nascituro, o che, secondo la scienza medica, possono provocare sofferenze di non lieve entità.

6. Qualora il soggetto invitato a presentarsi per essere sottoposto alle attività indicate nel comma 1 non compare senza addurre un legittimo impedimento, il giudice dispone che sia accompagnato, anche coattivamente, nel luogo, nel giorno e nell’ora stabiliti. L’uso di mezzi di coercizione fisica è consentito per il solo tempo strettamente necessario all’esecuzione del prelievo o dell’accertamento. Si applicano le disposizioni dell’articolo 132, comma 2.».

[12] Cfr. S. ALLEGREZZA, La riscoperta della vittima nella giustizia penale europea, in S. ALLEGREZZA, H. BELLUTA – M. GIALUZ, L. LUPARIA, Lo scudo e la spada. Esigenze di protezione e poteri delle vittime nel processo penale tra Europa e Italia, Giappichelli, 2012, pag.1. 

[13] Singolarmente la norma non prevede tra gli avvisi quelli relativi al diritto di richiedere di essere avvisati della richiesta di revoca o sostituzione delle misure cautelari (art. 299, commi 3 e 4-bis cod. proc. pen.), nonché della scarcerazione o evasione del condannato internato (art. 90-ter cod. proc. pen.).

[14] così, infatti, il diritto a presentare memorie in ogni stato e grado del procedimento e di indicare elementi di prova (con esclusione del giudizio di cassazione) (art. 90); di richiedere ed ottenere la comunicazione delle iscrizioni contenute nel registro delle notizie di reato (art. 335); di ricevere l’informazione di garanzia (art. 369); di nominare un difensore e accedere al patrocinio a spese dello Stato (art. 101); di essere informata della revoca o sostituzione delle misure cautelari (e della relativa richiesta) (art. 299); di richiedere al pubblico ministero di promuovere l’incidente probatorio e prendere visione dei relativi atti (artt. 390 e 401); di assistere agli atti garantiti del pubblico ministero e ricevere l’avviso del loro deposito (artt. 360 e 366); di interloquire sulla proroga del termine di durata delle indagini (art. 406); di intervenire in merito alla richiesta del P.M. di archiviazione (art. 409); di richiedere al Procuratore generale l’avocazione delle indagini (art. 413); di essere citata per l’udienza preliminare (art. 419); di essere informata del rinvio a giudizio immediato (art. 456) e del giudizio abbreviato (art. 438); di sollecitare il pubblico ministero affinché proponga impugnazione agli effetti penali (art. 572).

[15] L’art. 11 della Direttiva prescrive agli Stati membri di garantire, almeno alle vittime di gravi reati (serious crimes, nel testo ufficiale inglese), il diritto di impugnare una decisione di non esercitare l’azione penale secondo le norme del diritto nazionale. Al par. 3, inoltre, impone agli Stati membri di assicurare che le vittime siano comunque informate, senza indebito ritardo, del proprio diritto di ricevere e di ottenere, previa richiesta, (upon request, nel testo ufficiale inglese), informazioni sufficienti per decidere se chiedere il riesame di una decisione di non esercitare l’azione penale. «Articolo 11. Diritti in caso di decisione di non esercitare l’azione penale. 1. Gli Stati membri garantiscono alla vittima, secondo il ruolo di quest’ultima nel pertinente sistema giudiziario penale, il diritto di chiedere il riesame di una decisione di non esercitare l’azione penale. Le norme procedurali per tale riesame sono determinate dal diritto nazionale. 2 Laddove, a norma del diritto nazionale, il ruolo della vit­tima nel pertinente sistema giudiziario penale è stabilito soltanto in seguito alla decisione di esercitare l’azione penale contro l’autore del reato, gli Stati membri garantiscono almeno alle vittime di gravi reati il diritto di chiedere il riesame di una decisione di non esercitare l’azione penale. Le norme procedurali per tale riesame sono determinate dal diritto nazionale. 3 Gli Stati membri provvedono a che la vittima sia infor­mata, senza indebito ritardo, del proprio diritto di ricevere e di ottenere informazioni sufficienti per decidere se chiedere il rie­same di una decisione di non esercitare l’azione penale, previa richiesta. 4 Qualora la decisione di non esercitare l’azione penale sia adottata dalla massima autorità responsabile dell’esercizio del­l’azione penale avverso le cui decisioni non è possibile chiedere la revisione secondo il diritto nazionale, la revisione può essere svolta dalla stessa autorità. 5  I paragrafi 1, 3 e 4 non si applicano a una decisione di non esercitare l’azione penale se tale decisione si traduce in una composizione extragiudiziale, sempre che il diritto nazionale disponga in tal senso.».

[16] Il parere espresso dalla Commissione II Giustizia della Camera dei Deputati il 27 ottobre 2015 è consultabile sul sito istituzionale della Camera dei deputati: http://documenti.camera.it/leg17/resoconti/commissioni/bollettini/pdf/2015/10/27
/leg.17.bol0529.data20151027.com02.pdf 

[17] Corte giustizia, 15/09/ 2011, Cause C-483 e C-1/10, Guye e Sanchez. La questione rimessa alla Corte  ha preso le mosse da due casi di violazione del divieto di avvicinamento e comunicazione con la persona offesa: in entrambi i casi le vittime si opponevano all’irrogazione della sanzione manifestando l’intento sia di riprendere i contatti con i condannati sia di accedere alla mediazione penale. Dall’autorità giudiziaria spagnola è stato chiesto alla Corte di giustizia se il diritto europeo, con la Decisione quadro 2001/220/GAI, riconosca alle vittime il diritto di incidere sulle scelte punitive degli Stati membri.

[18] Di tale pronuncia si conosce soltanto l’informazione provvisoria. La questione era stata rimessa con ordinanza della Sez. 5,  n. 42220 del 9 luglio 2015, F. in proc. C.; cfr., L. PIRAS, L’espressione “violenza alla persona” e il suo significato. La parola è rimessa alle Sezioni Unite, in Diritto & Giustizia, 2015, fasc. 30, pag. 4.

[19] Un primo orientamento, condiviso dalla giurisprudenza maggioritaria, sostiene che con la formula di chiusura dell’art. 649 cod. pen. il legislatore, richiamando soltanto la violenza alle persone, avrebbe inteso la violenza esclusivamente materiale o fisica, manifestando, pertanto, l’intenzione di conservare il regime di favore della non punibilità o della perseguibilità a querela, di cui ai primi due commi, con riferimento ai delitti contro il patrimonio commessi con minaccia (Sez. 2, n. 636 del 9/04/1965, Pulin, Rv. 099588; Sez. 2, n. 3718 del 18/05/1990, Belgiorno, Rv. 186762; Sez. 2, n. 8470 del 26/07/1995, Pozzobon, Rv. 202336; Sez. 2, n. 20110 del 5/04/2002, Bernini, Rv. 221854; Sez. 2, n. 13694 del 15/03/2005, Scibile, Rv. 231051; Sez. 2, n. 16023 del 17/03/2005, Loritto, Rv. 231785; Sez. 2, n. 12403 del 27/02/2009, Freguglia, Rv. 244054; Sez. 2, n. 18273 del 19/01/2011, Frigerio, Rv. 250083; Sez. 2, n. 24643 del 21/03/2012, Errini, Rv. 252833; Sez. 2, n. 32354 del 10/05/2013, Gallano, Rv.255982; Sez. 2, n. 19298 del 15/04/2015, Di Domenico, non mass. sul punto.); altro indirizzo, maggioritario in dottrina, invece, assegna all’inciso “violenza alle persone” un significato inclusivo anche della violenza psichica o morale e, quindi, della minaccia, purché si tratti di violenza effettiva e non soltanto presunta, come nell’ipotesi di cui all’articolo 634, secondo comma, cod. pen. (Sez. 2, n. 8428 del 9/06/1988, Bruni, Rv. 178968; Sez. 6, n. 19299 del 18/12/2007, dep. 14/05/2008, Casale, RV 240500; Sez. 6, n. 35528 del 4/07/2008, Paskovic e altri, Rv. 241512).

[20] Pubblicata on line in http://www.procuratrento.it/allegatinews/A_2829.pdf

[21] Consultabile on line in: http://www.procuratrento.it/allegatinews/A_2549.pdf

[22] Tale Convenzione è entrata in vigore dall’1 agosto 2014, dopo aver raggiunto il numero minimo di Paesi firmatari e, pertanto, attualmente è a tutti gli effetti atto vincolante per il nostro Paese.

[23] «Articolo 3 – Definizioni.Ai fini della presente Convenzione: a) con l’espressione “violenza nei confronti delle donne” si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata; b) l’espressione “violenza domestica” designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima; c) con il termine “genere” ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini; d) l’espressione “violenza contro le donne basata sul genere” designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato; e) per “vittima” si intende qualsiasi persona fisica che subisce gli atti o i comportamenti di cui ai precedenti commi a e b; f) con il termine “donne” sono da intendersi anche le ragazze di meno di 18 anni.

[24] pur lasciando alle Parti la possibilità di esprimere riserva di prevedere sanzioni non penali (art. 78, par. 3).

[25] Cfr. G. BATTARINO, Note sull’attuazione in ambito penale e processuale penale della convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, in   http://www.penalecontemporaneo.it.

[26] «Articolo 1.  Principi generali. 1. Nell’attuazione  delle  disposizioni   del   presente   decreto legislativo,  si  tiene  conto,  sulla  base   di   una   valutazione individuale della vittima, della specifica situazione  delle  persone vulnerabili quali i minori, i minori non accompagnati, gli anziani, i disabili, le donne, in particolare  se  in  stato  di  gravidanza,  i genitori singoli con figli minori, le persone con disturbi  psichici, le persone che hanno subito torture, stupri o altre  forme  gravi  di violenza psicologica, fisica, sessuale o di genere.».

[27] In estrema sintesi, l’OPE è una decisione con la quale l’autorità di un Paese dell’Unione dispone che gli effetti di una misura di protezione – disposta a tutela di una persona vittima di reato – si estendano al territorio di un altro Paese membro nel quale la persona protetta risieda o soggiorni o dichiari di voler risiedere o soggiornare (artt. 1 e 2, n. 1, Direttiva 2011/99/UE e art. 2, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 9 del 2015). Si tratta evidentemente di un importante strumento di cooperazione giudiziaria finalizzato a rafforzare la protezione di quelle vittime che vogliano esercitare il loro diritto di cittadini dell’Unione di circolare e risiedere liberamente nel territorio degli Stati membri(considerandon. 6 Dir. 2011/99/UE e art. 1 d.lgs. 9/2015).

Il decreto legislativo di recepimento n. 9 del 2015, agli artt. 5 e 9, circoscrive il riconoscimento dell’OPE alle misure cautelari dell’allontanamento della casa familiare (art. 282 bis c.p.p.) e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282 ter c.p.p.).

[28] Sul tema della interpretazione conforme, cfr., per tutti, F.CHERUBINI, L’obbligo di interpretazione conforme “sconfina” nel terzo pilastro: note a margine della sentenza Pupino, inStudi sull’integrazione europea, 2006, fasc. 1, pag. 157; M. CAIANIELLO, Il Caso Pupino, riflessioni sul nuovo ruolo riconosciuto al giudice, in L’interpretazione conforme al diritto comunitario in materia penale, a cura di F. SGUBBI e G. INSOLERA, B.U.P., 2007, 89; da ricordare,  altresì, la fondamentale pronuncia Corte giustizia, 21/06/2005, causa C-105/03, Pupino, che ha affermato, la doverosità della interpretazione conforme della normativa processuale in materia di garanzie per le vittime di reato per adeguare il diritto interno alle prescrizioni contenute nel diritto europeo, sempreché tale interpretazione non aggravii la responsabilità penale dell’imputato o comunque non si traduca in un interpretazione contra legem.

Senza dimenticare la possibilità per il giudice nazionale di richiedere alla Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 267 del TFUE, una pronuncia pregiudiziale sulla compatibilità della norma interna, che limita gli obblighi informativi a favore delle persone offese dei delitti commessi con violenza fisica alla persona, con le prescrizioni derivanti dal diritto europeo in tema di tutela delle vittime, con particolare riferimento alle disposizioni della Direttiva 2001/29/UE.      

In dottrina si è anche prospettato che l’interpretazione del concetto di violenza alla persona in chiave restrittiva, potrebbe giustificare il ricorso per illegittimità alla Corte costituzionale, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., delle norme che la contengono, per omessa previsione delle condotte minaccia o violenza morale, doverosa, invece, stante il carattere vincolante della direttiva 2012/29/UE (il cui termine di recepimento è scaduto il 16 novembre 2015) e delle altri fonti europee vincolanti, G.SEPE, Violenza di genere e consultazioni della persona offesa nelle vicende estintive delle misure cautelari, in http://www.dirittopenalecontemporaneo.it .

[29] Sez. 3, sent. n. 11514 del 27/02/2015, Morante Zarate, Rv. 262980; Sez. F, sent. n. 44016 del 04/09/2014, Vjerdha, Rv. 260997.

La Corte ha, altresì, affermato che «In tema di traduzione degli atti, l’accertamento relativo alla conoscenza da parte dell’imputato della lingua italiana, previsto dall’art. 143, cod. proc. pen., come modificato dal D.Lgs n. 32 del 2014, non deve necessariamente essere compiuto personalmente dall’autorità giudiziaria, in quanto la conoscenza della lingua italiana può essere verificata anche sulla base degli elementi risultanti dagli atti di polizia giudiziaria, rimanendo comunque salva la facoltà per il giudice di compiere ulteriori verifiche ove tali elementi non siano concludenti.(Fattispecie in cui la Corte ha considerato immune da vizi l’ordinanza del Tribunale del riesame che aveva ritenuto accertata la conoscenza della lingua italiana sulla base della annotazione della polizia giudiziaria in cui si dava atto che l’indagato aveva in italiano declinato le proprie generalità, risposto alle domande rivoltegli, affermato di non voler sottoscrivere alcun atto se non alla presenza del difensore, ed aveva intrattenuto con questi un colloquio di circa quindici minuti in lingua italiana).»,Sez. 5, sent. n. 52245 del 09/10/2014, Viharev, Rv. 262101.

[30] «Art. 178. (Nullità di ordine generale) -È sempre prescritta a pena di nullità l’osservanza delle disposizioni concernenti: a) le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi stabilito dalle leggi di ordinamento giudiziario ; b) l’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale e la sua partecipazione al procedimento; c) l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato e delle altre parti private nonché la citazione in giudizio della persona offesa dal reato e del querelante.».

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di David Mancini

Legge 23 marzo 2016 n. 41 – Introduzione del reato di omicidio stradale e del reato di lesioni personali stradali, nonché disposizioni di coordinamento al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e al decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274.  (in G.U. 24 marzo 2016)

Il 24 marzo 2016 è stata pubblicata la tanto attesa legge sull’omicidio stradale, la cui entrata in vigore è avvenuta il giorno successivo, 25 marzo 2016. E’ un provvedimento normativo invocato a gran voce dall’opinione pubblica, che riguarda fatti, purtroppo, molto frequenti, che spesso interessano l’operato dei Pubblici Ministeri e adesso anche dei Giudici per le indagini preliminari, che dovranno cimentarsi con le convalide di arresti obbligatori e facoltativi per reati colposi.

Sono stati introdotti nel codice penale i reati autonomi di omicidio stradale (art. 589bis) e lesioni personali stradali gravi e gravissime (art. 590 bis), con tre livelli di pena che corrispondono a comportamenti di diversa gravità: 

  • la pena va da 8 a 12 anni di reclusione per l’omicidio stradale in stato di ebbrezza superiore a 1,5 grammi per litro e in caso di assunzione di stupefacenti; 
  • la pena va da 5 a 10 anni di reclusione in caso di tasso alcolemico compreso tra 0,8 e 1,5 grammi per litro, ed altre gravi violazioni delle regole della circolazione stradale; 
  • la pena va da 2 a 7 anni di reclusione in tutti gli altri casi. 

Le primissime e superficiali considerazioni riguardano proprio le possibilità di procedere all’arresto dell’indagato. Infatti, per il reato omicidio stradale ovvero aggravato ai sensi dei commi 4 e 5 (per cui è prevista la pena massima di anni 10 di reclusione) si applica l’arresto facoltativo in flagranza, ma per quello aggravato ai sensi dei commi 2 e 3 (per cui è prevista la pena massima di anni 12 di reclusione) vige l’arresto obbligatorio.

Al riguardo, diviene ininfluente la condotta operosa del responsabile; infatti, va segnalata la modifica dell’art. 189, comma 8, del codice della strada che escludeva l’arresto in flagranza di reato sempre che il conducente si fermasse e prestasse assistenza: ora la norma vale solo per le lesioni, ma non per l’omicidio. Ciò potrebbe determinare la conseguenza non voluta di aumentare le fughe successive al sinistro.

Per quanto concerne le lesioni gravi o gravissime derivanti da sinistro stradale e aggravate vige l’arresto facoltativo in flagranza di reato.  

Per quanto attiene al reato di omicidio colposo derivante da sinistro stradale, aggravato per grave stato di ebbrezza o di assunzione di sostanze stupefacenti (o anche in caso di ebbrezza lieve nei casi di cui all’art. 186bis c.d.s.) la competenza è del tribunale in composizione collegiale ed anche in caso di omicidio stradale aggravato per la sola fuga (per cui è irrogabile la pena massima di anni 11 e mesi 8 di reclusione);

I nuovi reati di lesioni colpose gravi o gravissime derivanti da sinistro stradale sono ora procedibili d’ufficio (mentre resta procedibile a querela il solo reato di lesioni lievi, la cui disciplina va ricercata ancora nell’art. 590 c.p. e che resta tuttora di competenza del giudice di pace) ed il rito è quello della citazione diretta.

Il nuovo art. 590bis c.p. prevede due distinte fattispecie autonome per le lesioni gravi e gravissime stradali. Insomma in questo caso la creazione di fattispecie autonome non riguarda solo la violazione delle norme sulla circolazione stradale ma anche il fatto che si verifichino lesioni lievi, gravi o gravissime, mentre in tutti gli altri ambiti le lesioni gravi o gravissime costituiscono mere circostanze aggravanti.

Per riepilogo, il reato autonomo di lesioni personali stradali si caratterizza per una fascia sanzionatoria che varia in funzione del tasso alcolemico rilevato e della gravità della violazione:

  • in caso di ebbrezza superiore a 1,5 grammi per litro e uso di stupefacenti, per le lesioni gravi la pena va da 3 a 5 anni e per quelle gravissime da 4 a 7 anni; 
  • in caso di ebbrezza tra 0,8 e 1,5 gr e per comportamenti particolarmente gravi (eccesso di velocità, attraversamento con il semaforo rosso, circolazione contromano, inversione di marcia in prossimità di incroci curve o dossi, sorpasso con linea continua) le lesioni gravi vanno da 1 anno e mezzo a 3 anni e per le gravissime da 2 a 4 anni;
  • negli altri casi le lesioni gravi sono punite da 3 mesi a 1 anno e le gravissime da 1 a 3 anni;
  • anche per le lesioni l’aggravante per la fuga va da un terzo a due terzi, ed in ogni caso la pena non può essere inferiore a 3 anni; 
  • sia per l’omicidio che per le lesioni, se l’evento è conseguenza anche di un comportamento colposo della vittima il giudice può diminuire la pena fino alla metà.

Sussistono problemi di coordinamento tra i nuovi reati di lesioni colpose stradali, aggravate dalla fuga del responsabile ed il reato di cui all’art. 189, comma 7 c.d.s.. Ci si interroga se vi sia un concorso di reati o un assorbimento; forse è preferibile la seconda soluzione, con la conseguenza che l’art. 189, comma 7 c.d.s. si applica solo in caso di lesioni lievi ovvero in caso in cui il fuggitivo non è responsabile del sinistro (quando, ad esempio,  la fuga è una reazione di paura, ma non costituisce anche fuga dalla propria responsabilità di causazione dell’evento).

Qualche problema può causare il rapporto tra le varie circostanze aggravanti ad effetto speciale. La ricorrenza di più circostanze previste dai commi 4 e 5 dovrebbe integrare una  sola aggravante, mentre per la ricorrenza delle circostanze di cui ai commi 2 e 5 si dovrebbe applicare l’art. 63, comma 4  (con aumento solo eventuale e solo sino ad un terzo sulla pena prevista dall’aggravante più grave) così come nel caso di contemporanea ricorrenza dell’art. 589ter c.p..

L’art. 590quater c.p. qualifica l’art. 583ter c.p. (per il caso della fuga) come una circostanza aggravante,  che prevede in linea generale un aumento da 1/3 a 2/3 ma con un limite edittale minimo di 5 anni di reclusione (pari a quello previsto per le aggravanti di cui ai commi 4 e 5 dell’art. 589bis c.p.). Tuttavia,  tale limite minimo è sproporzionato rispetto alla pena edittale minima del reato base (2 anni di reclusione) cosicchè, in caso di quantificazione per l’evento morte da parte del giudice di una pena di anni 2 di reclusione, la maggiora conseguenza sanzionatoria sarebbe connessa non alla causazione del fatto, bensì alla conseguente fuga. Tale sproporzione (tra punizione per il fatto commesso e punizione per la circostanza aggravante connessa) tradisce una concessione eccessiva all’emotività del clamore pubblico, rispetto alla ragionevolezza della pena.

Come ormai è consuetudine, anche l’art. 590quater c.p. prevede la deroga al criterio del bilanciamento delle circostanze aggravanti con le circostanze attenuanti. L’esclusione dalla deroga delle attenuanti previste dagli artt. 98 (minore età) e 114 (minima importanza dell’opera prestata da chi agisce in concorso colposo) nella materia della circolazione stradale può avere rilievo in virtù della frequenza con cui tali condizioni si verificano in concreto, con la conseguenza che il giudice, ritenendo prevalenti queste circostanze attenuanti, può applicare pene più ragionevoli e proporzionate, quali quelle previste per il reato base.

Inoltre, in tema di revoca della patente, sono previste sanzioni accessorie rilevanti, poiché, in caso di omicidio stradale è prevista la revoca della patente per una durata variabile, a seconda della gravità del fatto, ma per periodi temporali significativi:

  • revoca per 10 anni in caso di omicidio “semplice”;
  • per 15 anni 15 anni in tutti gli altri casi;
  • fino a 20 se il colpevole ha precedenti per droga ed alcol;
  • fino a 30 anni in caso di fuga. 
  • Per le lesioni la revoca è per 5 anni, che salgono fino a 10 in caso di precedenti per droga ed alcol e a 12 anni in caso di fuga. 

Infine, nell’ottica del coordinamento con le disposizioni penali sostanziali e processuali, si segnalano le modifiche al codice di procedura penale in materia di operazioni peritali e di prelievo coattivo di campioni biologici, di particolare interesse nella materia in questione.