di Marco Bisogni, Sostituto procuratore della repubblica, Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catania, in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la Costituzione

Gli emendamenti al disegno di legge AC 2681 (“Deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario”) approvati dal Governo in data 11 febbraio 2022 hanno apportato sostanziali modifiche alla riforma c.d. Bonafede e, se approvati nei termini proposti, incideranno profondamente sull’Ordinamento Giudiziario (e questo al netto delle riforme proposte sull’organo di Autogoverno e sul relativo sistema elettorale).

1) Valutazioni di professionalità

L’introduzione di giudizi “parascolastici” quali “discreto, buono o ottimo”nelle valutazioni di professionalità (giudizi che assumeranno necessariamente rilevanza nella progressione in carriera), pur rispondendo all’esigenza di valorizzare impegno e capacità individuali, rischia di accentuare ulteriormente l’influenza dei semidirettivi e dei direttivi sui magistrati addetti all’ufficio (art. 3 dell’AC 2681 come integrato dalla CdM). La necessaria distinzione meritocratica tra magistrati avrebbe, invece, dovuto essere affidata ad indicatori oggettivi con la conseguente riduzione degli spazi di discrezionalità dei direttivi nella fase della predisposizione delle valutazioni di professionalità.

Con particolare attenzione deve essere poi valutata la prevista valorizzazione dell’esito degli affari nelle successive fasi di giudizio (art. 3 lett. b quinquies) dell’AC 2681 come integrato dalla CdM). Tale valorizzazione, se non adeguatamente descritta e circostanziata, condurrà verso un sempre maggiore conformismo giudiziario introducendo surrettiziamente criteri gerarchici tra i diversi gradi di giurisdizione.

Parimenti la partecipazione dei laici alle deliberazioni dei Consigli giudiziari nel settore delle valutazioni di professionalità (con diritto di tribuna e, in alcuni casi, anche di voto – art. 3 dell’AC 2681 come integrato dalla CdM) rischia di pregiudicare la normale dialettica tra le parti processuali incidendo sull’indipendenza del Giudice e sull’autonomia del magistrato del Pubblico Ministero.

2) Carichi esigibili e modelli 37

La sostituzione del concetto di carico esigibile con un quello di “risultato atteso” va nella direzione opposta a quella nella quale il legislatore avrebbe dovuto muoversi una volta costatata l’elevata produttività della magistratura italiana.

L’introduzione di “risultati attesi” omette, infatti, di confrontarsi con la necessità di ridurre l’enorme domanda di giustizia proveniente dal paese (nelle procure italiane ogni anno vengono introitati 4,92 procedimenti ogni 100 abitanti a fronte di una media europea di 3, 10 procedimenti ogni 100 abitanti – dati CEPEJ 2020) partendo dal presupposto che la magistratura italiana possa fronteggiare un numero imprecisato di affari civili e penali (senza considerare che già ora il numero di magistrati è inadeguato alla gestione dei flussi di lavoro – 11,6 ogni 100.000 abitanti a fronte di una media europea di 17,7 magistrati ogni 100.000 abitanti – dati CEPEJ 2020). 

Appare a questo punto indispensabile che l’Autogoverno e l’Associazione Nazionale Magistrati, nell’ambito delle proprie competenze, agiscano per salvaguardare l’indipendenza interna ed esterna della magistratura riavviando immediatamente una seria riflessione interna sui carichi sostenibili (al di fuori dei modelli 37 e dei carichi esigibili o dei risultati attesi) idonea a fronteggiare laderiva burocratica ed efficientistica assunta dalla programmazione del lavoro dei magistrati così come strutturata dal combinato disposto del disegno di legge AC2681 e dagli interventi previsti dal PNRR (che pure si risolveranno in un necessario incremento di produttività individuale).

3) Procure ed osmosi tra funzioni requirenti e giudicanti

Il disegno di legge procedimentalizza l’adozione del progetto organizzativo delle Procure riportandolo – condivisibilmente – sotto il diretto controllo del CSM (art. 10 bis dell’AC 2681 come integrato dalla CdM).

Nessun intervento è, però, previsto per attenuare l’organizzazione gerarchica degli uffici di Procura (con il necessario ritorno alla distribuzione diffusa della titolarità dell’azione penale ai diversi magistrati addetti all’ufficio del Pubblico Ministero secondo il modello antecedente alla riforma c.d. Mastella del 2006).  Il ruolo del Procuratore capo continuerà così ad essere sovraesposto restando oggetto di quella particolare attenzione mediatica e organizzativa che è stata tra i motori delle degenerazioni correntizie degli ultimi anni.

L’ulteriore riduzione dell’osmosi tra funzioni requirenti e funzioni giudicanti (art. 10 dell’AC 2681 come integrato dalla CdM) appare, poi, del tutto contraria all’esigenza di mantenere il PM all’interno della giurisdizione, circostanza questa indispensabile per garantire un più ponderato e corretto esercizio dei poteri connessi all’attività inquirente e requirente.

4) Selezione e conferma dei magistrati addetti a funzioni direttive e semidirettive.

La selezione (e la conferma) dei direttivi e dei semidirettivi ha rappresentato una delle principali criticità alla base della recente crisi del governo autonomo della magistratura.

La riforma interviene apportando modifiche sostanziali sulle procedure di individuazione e conferma dei magistrati addetti a tali funzioni.

Nello specifico:

  • viene prevista l’applicazione della legge 241/90 ai procedimenti per la copertura dei posti direttivi e semidirettivi con pubblicazione degli atti dei procedimenti nel sito intranet istituzionale del Consiglio superiore della magistratura (art. 2 lett. a) dell’AC 2681 come integrato dalla CdM);
  • viene prevista la necessaria trattazione secondo l’ordine temporale di vacanza dei posti direttivi e dei posti semidirettivi (con possibilità di deroga soltanto per gravi e giustificati motivi e fatta comunque salva la trattazione prioritaria dei procedimenti relativi alla copertura dei posti di primo presidente della Corte di Cassazione e di Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione (art. 2 lett. b) dell’AC 2681 come integrato dalla CdM);
  • viene prevista la necessaria audizione dei candidati da parte del CSM nella procedura di selezione del direttivo (art. 2 lett. c) dell’AC 2681 come integrato dalla CdM);
  • viene previsto che, nell’assegnazione degli incarichi direttivi e semidirettivi, venga valorizzata la capacità di analisi ed elaborazione dei dati statistici, la conoscenza delle norme ordinamentali e la capacità di efficiente organizzazione del lavoro giudiziario e che non si tenga conto delle esperienze maturate nel lavoro non giudiziario a seguito del collocamento fuori del ruolo della magistratura (art. 2 lett. d ed e) dell’AC 2681 come integrato dalla CdM);
  • viene previsto il criterio dell’anzianità come criterio residuale a parità di valutazione risultante dagli indicatori del merito e delle attitudini (art. 2 lett. f) dell’AC 2681 come integrato dalla CdM);
  • viene previsto che nella procedura di conferma si tenga conto anche dei pareri espressi dai magistrati dell’ufficio, acquisiti con le modalità definite dallo stesso Consiglio, del parere del presidente del tribunale o del procuratore della Repubblica, rispettivamente quando la conferma riguarda il Procuratore della Repubblica o il Presidente del Tribunale, e delle osservazioni del consiglio dell’ordine degli avvocati e che valuti i provvedimenti tabellari e organizzativi redatti dal magistrato in valutazione, nonché, a campione, i rapporti redatti ai fini delle valutazioni di professionalità dei magistrati dell’ufficio o della sezione (art. 2 lett. g) dell’AC 2681 come integrato dalla CdM);
  • viene previsto che il magistrato titolare di funzioni direttive o semidirettive, anche quando non chiede la conferma, non possa partecipare a concorsi per il conferimento di un ulteriore incarico direttivo o semidirettivo prima di sei anni dall’assunzione delle predette funzioni (art. 2 lett. h) dell’AC 2681 come integrato dalla CdM);
  • viene prevista la riduzione del numero di semidirettivi (art. 2 lett. n) dell’AC 2681 come integrato dalla CdM).

Il sistema delineato – sebbene presenti alcuni apprezzabili elementi di novità – non pare del tutto convincente. La previsione del solo obbligo di permanenza di sei anni (introdotto nella prospettiva di evitare la continua ricerca di un ruolo direttivo di maggiore prestigio) non è, infatti, da solo sufficiente a garantire il necessario avvicendamento tra magistrati che ricoprono ruoli direttivi (o semidirettivi) e quelli che ne sono privi (anche considerando l’introduzione della residualità del criterio di anzianità, circostanza questa che agevolerà ulteriormente il conferimento di incarichi a magistrati relativamente giovani con lunghe prospettive di carriera).

Le soluzioni possibili sono diverse e già oggetto di dibattito:

  • reintroduzione delle classi di anzianità (come peraltro parzialmente previsto dal disegno di legge Bonafede);
  • introduzione della previsione dell’obbligo di permanenza, dopo la conferma, per il quadriennio residuo;
  • previsione di un adeguato periodo di funzioni non direttive tra un incarico apicale ed il successivo.

Deve, invece, essere salutato con particolare favore il previsto contributo dei magistrati dell’ufficio nella procedura di conferma del direttivo (anche se molto dipenderà dall’attuazione delle delega sul punto). Si tratta del recepimento di un principio già conosciuto e praticato in quasi tutte le organizzazioni complesse e che prevede il coinvolgimento dei soggetti diretti nella valutazione della capacità gestionali della persona cui sono affidati incarichi di direzione o coordinamento.

Parimenti apprezzabile appare la valorizzazione – nel momento del conferimento delle funzioni semidirettive e direttive – del lavoro giudiziario effettivamente svolto nonché delle capacità organizzative e delle conoscenze statistiche.

Così come attualmente congegnata la riforma rischia, dunque, di essere un’occasione persa per intervenire efficacemente sulle criticità emerse negli ultimi anni nel governo autonomo della magistratura introducendo, al contrario, ulteriori profili di burocratizzazione e gerarchia all’interno dell’ordinamento giudiziario. In tal contesto occorreva invece allargare la partecipazione dei singoli nella gestione degli uffici salvaguardando, nella valutazione del lavoro del magistrato, la rilevazione di indici qualitativi e riducendo la portata e la rilevanza della funzione direttiva e semidirettiva nell’iter professionale individuale.  Il ritorno ad un potere giudiziario realmente diffuso è, infatti, l’antidoto più efficace per ridurre le ambizioni improprie che rischiano di inquinare il trasparente governo autonomo della magistratura. 

Scarica il pdf

  1. Il fallimento del sistema elettorale vigente.

Ancorchè mirata a circoscrivere l’egemonia correntizia nella gestione delle candidature e nel governo delle susseguenti dinamiche elettorali, la l. 28 marzo 2002, n. 44 ha tangibilmente mancato il proprio bersaglio. I gruppi associativi all’ANM hanno finito per essere, non tanto rafforzati, quanto sottoposti ad una mutazione genetica, tanto di senso, quanto di prospettiva. Infatti, sono state indotte ad assumere un impronosticato ruolo di “centri di potere”, al quale erano ontologicamente persino impreparate.

La matrice culturale e valoriale dei gruppi, tesa a guidare un approccio critico e consapevole dei singoli alle questioni connesse all’esercizio della giurisdizione, è tragicamente sbiadita. A scolorirla, nell’immaginario collettivo, è stata l’assunzione, a monte, ad opera delle correnti, di compiti di controllo sulla designazione dei candidati per il CSM – sempre riconducibili organicamente ad esse – e di incombenze “contabili” sui voti necessari a condizionare favorevolmente gli esiti della competizione, se non a prepararla “a tavolino”.

A valle, è grevemente venuta in auge una chiave di approccio ai compiti correlati all’autogoverno, infettata in misura esiziale da condotte di carattere lottizzatorio o di “smistamento” di ruoli, nomine, designazioni.

Le ragioni di una divaricazione tanto netta fra scopo della legge e risultato raggiunto non sono, se si guarda al contesto premesso, di disagevole lettura.

Di certo, ha inciso la drastica riduzione, da 20 a 16, dei seggi elettivi assegnati ai magistrati togati, resa ancor più deleteria dalla relativa suddivisione per fasce. La prima di tali storture viene efficacemente corretta dal ddl in itinere; la seconda si presta ad essere raddrizzata dalla soluzione che appresso si proporrà.

Nel novero delle cause del tracollo del sistema elettorale in vigore si è poi iscritto, a pieno titolo, il conio di un unico collegio nazionale, la diretta conseguenza del quale si è sostanziata nell’innalzamento del quorum necessario all’elezione. Ciò ha finito per imporre agli aspiranti candidati l’esigenza di fare appello all’appoggio di gruppi organizzati sul piano nazionale, come tali in grado di aggregare – quindi sostanzialmente di “pilotare” – i suffragi indispensabili, sul presupposto dell’appartenenza alla corrente, prima che sul piano (ormai recessivo) della credibilità personale e della statura professionale del singolo nel contesto di provenienza e di riferimento.

Senza il supporto “strutturato” della corrente, in un ambito territoriale lungo e largo quanto la penisola, utopisticamente un candidato, pure localmente apprezzato per le proprie qualità personali e professionali, ma giustamente lontano dalle ribalte giornalistiche e televisive, è in grado di ottenere i consensi sufficienti alla nomina e, a ben guardare, addirittura di sostenere economicamente una campagna elettorale in giro per l’Italia.

Gli elettori, dal canto loro, in quanto chiamati ad eleggere candidati geograficamente distanti, sono stati indotti ad affidarsi alle indicazioni “di schieramento”, più che al voto d’opinione che sorge dalla consapevolezza del curriculum e del valore di candidati eleggibili a loro finanche ignoti.

  • La riforma come occasione da cogliere.

L’attenuazione del proprio peso specifico in rapporto all’autogoverno è per le correnti un’occasione da cogliere, non uno scotto che la congiuntura storica impone.

Il futuro dei gruppi associativi fa fulcro su due concomitanti e irrinunciabili premesse: la prima coincide con la negazione, nell’immagine e nello stile, della magistratura più tetra, che è quella disvelata dai cortocircuiti consiliari e dai corridoi paraconsiliari; la seconda attiene al recupero doveroso della dimensione delle origini, quella che vedeva nelle correnti altrettante comunità, a loro modo custodi delle buone regole per tutti, con addosso un sentimento civile della giurisdizione vissuto come moralmente impegnativo.

I gruppi sopravvivono solo se tornano ad essere luoghi di confronto permanente tra i magistrati; contesti indispensabili di approfondimento delle questioni interpretative e problematiche organizzative connesse alla giurisdizione; mezzi formidabili di maturazione di sensibilità individuali, quindi pure collettive; ambiti necessari di conoscenza plurale delle interazioni tra i fenomeni sociali ed economici e l’attività giudiziaria. L’efficienza della giurisdizione, l’efficacia dei controlli di legalità, l’effettività della tutela dei diritti trovano solo in questa rinnovata prospettiva il proprio imprescindibile baricentro sistemico.

In un quadro siffatto, è perfino fisiologico che le correnti circoscrivano il raggio della propria incidenza sull’autogoverno, sol che si consideri la rispondenza di quest’ultimo a finalità che – costituzionalmente – sono altre e radicalmente diverse rispetto a quelle dianzi espresse.

  • Una possibile soluzione.

Un’opzione percorribile postula il mantenimento di un solo collegio nazionale esclusivamente con riferimento ai due magistrati di legittimità da eleggere. Costoro, d’altronde, appartengono all’unico ufficio a giurisdizione nazionale: la Suprema Corte di Cassazione. Pertanto, è naturale che i seggi di legittimità sèguitino ad essere attribuiti con sistema maggioritario su un collegio ritagliato sui confini dello Stato, secondo il regime già in atto vigente.

Avuto riguardo, per converso, ai seggi da attribuirsi ai magistrati di merito, si addiverrà alla composizione di collegi elettorali in numero corrispondente a quello dei giudici e/o dei pubblici ministeri da nominare.

È opportuno, secondo una prospettiva di semplificazione e di neutralità di accosto ai delicatissimi compiti consiliari, che nel singolo collegio uninominale possa indifferentemente candidarsi un pubblico ministero o un giudice.

In tal senso, la ridefinizione del sistema elettorale passa per la soppressione del collegio unico nazionale dei pubblici ministeri. Quest’ultimo ha dato plasticamente pessima prova di sé, nella misura in cui ha concretamente svilito l’ultima tornata elettorale, dissolvendola in un simulacro imbarazzante di competizione fra quattro magistrati per quattro posti: i candidati sono stati in tal modo proclamati vincitori dal “cartello” fra le correnti, di fatto in anticipo rispetto alla vigilia del voto.

Il riallineamento del regime elettorale alle previsioni anteriori all’entrata in vigore della novella ex l. n. 44 del 2002 consentirà a ciascun magistrato di merito in quanto tale, quali che siano in atto le funzioni esercitate, di accedere alla competizione. Il sistema verrà in tal modo depurato dalla ambigua ed endemica tendenza del singolo candidato a rispondere, anziché alle esigenze di efficienza dell’autogoverno e della giurisdizione in sé e per sé considerati, ad una scala precostituita, se non preconcetta di priorità, correlate all’appartenenza all’uno anziché all’altro ambito giurisdizionale, secondo un’impostazione affatto contemplata dalla Carta costituzionale.

I collegi uninominali di nuova introduzione saranno comprensivi di una cifra complessiva di elettori tendenzialmente equivalente ed omogenea nei 18 collegi previsti dal ddl di riforma, il quale opportunamente riporta a 20 complessivi gli attuali 16 seggi previsti dalla l. n. 44 del 2002.

In tal guisa, i titolari del diritto di elettorato attivo di ciascun collegio assommeranno a 500 unità circa, con conseguente abbassamento del quorum utile all’elezione. Dal che deriverà, per attributo congenito, un ampliamento degli spazi di partecipazione diretta dei magistrati nella selezione dei candidati, i quali verranno supportati e “promossi” sulla base del prestigio e delle qualità personali, piuttosto che “blindati” dall’esibita appartenenza correntizia.

In virtù della dimensione geograficamente circoscritta dei collegi, gli elettori potranno apprezzare il collega candidato in base ad un rapporto fiduciario, giammai condizionato da logiche di schieramento. Ne discenderà, in convergenza, una compressione dell’impatto dei gruppi associativi nelle dinamiche elettorali, le quali ultime saranno di fatto depurate dal congegno dei “travasi” di voti da un “territorio” all’altro al fine di favorire il “militante” di corrente.

Il collegio uninominale permetterebbe, inoltre, di salvaguardare il tessuto delle esperienze maturate dal candidato nel territorio di provenienza e la conoscenza, da parte sua, di problematiche giurisdizionali e organizzative che hanno, sovente, una declinazione caratteristicamente locale. Per rifrazione, verrebbe assicurata una rappresentanza stabile e capillare di tutte le realtà territoriali, le quali vivono e scontano problemi articolati, peculiari ed eterogenei.

La necessità di correggere la distorsione di sistema rappresentata da candidati “calati dall’alto” per deliberazione dei gruppi associativi (se del caso attraverso trasferimenti extradistrettuali “tattici” del designato o passaggi “strategici” da una funzione all’altra nell’imminenza della competizione elettorale), presuppone l’inserimento tra i requisiti di eleggibilità del magistrato della permanenza per almeno un triennio in uno in uno o più degli uffici ricompresi nel collegio uninominale di presentazione della candidatura. 

Nell’opportunità di neutralizzare il condizionamento dell’elettorato attivo sulla base della maggiore esposizione mediatica dei magistrati del pubblico ministero, che consegna a costoro (pure involontariamente) una più spiccata notorietà, spendibile alla bisogna per finalità elettorali, costoro potranno candidarsi nel distretto di appartenenza solo qualora vi abbiano esercitato le funzioni per almeno un triennio (al pari dei giudici), ma per non oltre otto anni complessivi.

In un’ottica di depotenzialmento ulteriore delle correnti, i magistrati di ciascun collegio uninominale presenteranno candidature singole, fermi gli adempimenti previsti dall’art. 25, comma 3, l. 195 del 1958. Rimane ferma e impregiudicata la facoltà del candidato di affiancare al proprio nome, anziché un logo bianco e/o vuolo ovvero di fantasia, il simbolo del proprio gruppo associativo, valendo ciò a a segnalarne in modo nitido e acconcio il profilo e percorso culturale e ideale. 

Non saranno previsti voti di lista, ma solo voti di preferenza sul singolo candidato, il che consentirà un ulteriore affievolimento della centralità delle correnti, che in tanto verrebbe conservata in quanto venisse suggellato il meccanismo del voto di lista e per liste contrapposte, nel cui quadro il numero dei consensi complessivamente ottenuti da una di esse ridonderebbe a vantaggio dei suoi appartenenti, determinando, in cifra globale, il numero dei seggi a ciascuna attribuibili.

Il regime elettorale sarà, di poi, impostato sul meccanismo del doppio turno, che si contraddistingue per l’estrema semplicità e per l’attitudine, da un lato, a determinare vincitori rappresentativi di aree geografiche ben definite, dall’altro, a diminuire l’influenza delle negoziazioni tra i candidati.

Su queste basi, nel prefigurato nuovo sistema dovrà risultare eletto al primo dei due turni quello, fra i candidati, che avrà ottenuto il 51% dei consenti validi.

Qualora nessuno tra i canditati abbia raggiunto il quorum anzidetto, accederanno al secondo turno di voto i due candidati più votati.

Sarà, infine, eletto quello fra costoro che, in esito al turno di ballottaggio, abbia conseguito il maggior numero di preferenze.

Nel caso in cui al primo turno, nel singolo collegio uninominale, si presenti un solo candidato, non si procederà al voto e il seggio verrà assegnato al candidato che, risultato perdente nel turno di ballottaggio di altro collegio uninominale, abbia conseguito il miglior quoziente elettorale in rapporto al numero dei voti espressi. Ove la competizione elettorale si sia esaurita al primo turno in tutti i collegi, sarà eletto il candidato non eletto che abbia conseguito detto miglior quoziente al primo turno di votazione.

In ipotesi in cui al primo turno si presentino soltanto due candidati, tra costoro si procederà direttamente al ballottaggio e risulterà eletto quello che avrà raggiunto il maggior numero di suffragi.

È circolata in questi giorni una bozza di riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura inserita in un più ampio intento riformatore del sistema-giustizia che si muove lungo diverse direttrici, non solo ordinamentali.

La relazione che si è avuto modo di leggere chiarisce che «le disposizioni con le quali si intende riformare il sistema elettorale del consiglio superiore della magistratura […] impongono tempi di immediata attuazione non affidabili alla più diluita tempistica dell’attività legislativa delegata».

L’intento dichiarato è quello di emendare l’attività consiliare dall’«emergente, patologico fenomeno del “correntismo” nella magistratura, allentando il legame tra contesto associativo ed eletti nell’organo di autogoverno». Dal punto di vista dei componenti laici, nelle parole della relazione, si vuol parimenti «eliminare la contiguità dei componenti del Consiglio superiore con esponenti della politica». Nel complesso la novella va nel senso di depotenziare il predicato tasso di politicizzazione dei lavori consiliari da ricondurre nell’esclusivo alveo della buona amministrazione. In tal senso si è disposto l’ampliamento del numero complessivo dei componenti, elevato a trenta, nonché l’incompatibilità fra le funzioni di giudici disciplinari e quelle prettamente amministrative, pur restando entrambe formalmente nell’ambito delle unitarie attribuzioni dell’Organo di governo autonomo.

Con stretto riferimento alla componente togata, si disegna un sistema elettorale bifasico basato su diciannove collegi, con individuazione dei candidati mediante sorteggio preventivo. I collegi hanno una dimensione ristretta, pari a circa un diciassettesimo del corpo elettorale, e rispettosa del principio di continuità territoriale. Secondo l’art. 38, comma 6, del disegno di legge, il procedimento elettorale si svolge in due fasi. La prima diretta a individuare, mediante sorteggio, i magistrati candidabili al Consiglio superiore della magistratura; la seconda, a eleggere i magistrati destinati a farvi parte. Nella prima fase, in ciascun collegio, è sorteggiato un numero di magistrati pari al venti per cento degli eleggibili tra i magistrati in possesso dei requisiti previsti. I magistrati sorteggiati possono presentare la loro candidatura nel collegio ove esercitano le funzioni giudiziarie, ovvero nel collegio nel quale hanno esercitato le funzioni giudiziarie nei dieci anni precedenti la candidatura. Nella seconda fase del procedimento sono eletti i magistrati candidati a norma del comma 8 che, in ciascun collegio, hanno ottenuto il maggior numero di voti. Nel collegio di legittimità sono eletti i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti.

Corollari sono infine l’assoggettamento delle indennità percepite dai consiglieri superiori ai limiti massimi di cui all’art. 12 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, in legge 23 giugno 2014, n. 89, nonché la previsione di un periodo di decantazione successivo all’espletamento del mandato elettivo, di modo che i magistrati ex componenti non possono proporre domanda per un ufficio direttivo o semidirettivo prima che siano trascorsi quattro anni dal giorno in cui hanno cessato di far parte del Consiglio superiore della magistratura e prima di due anni da tale data non possono essere nuovamente collocati fuori ruolo, salvo l’espletamento di funzioni elettive.

Un’analisi dell’efficacia e della congruenza con i propositi indicati di tale ius novum non può prescindere da un preliminare inquadramento del Consiglio superiore nell’ambito dell’architettura costituzionale, non solo formale.

Il Consiglio è usualmente collocato fra gli organi di rilevanza costituzionale in ragione della dicotomia rispetto agli organi supremi dello Stato-soggetto, idonei a determinare l’indirizzo politico generale o di condizionarne l’attuazione. Ora, al di là della disputa meramente semantica se si tratti piuttosto di un organo costituzionale, è indubitabile la copertura posta dall’art. 139 Cost. a una riforma costituzionale, esercitata, dunque, dal potere costituito su quanto ha deliberato il potere costituente, che proceda a una soppressione o a un completo svuotamento delle funzioni dell’Organo. Si tratta, come bene è stato affermato, di un «un punto di non ritorno del disegno costituzionale», indefettibile perché posto a presidio dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario, a sua volta strumentale all’inveramento dello Stato costituzionale di diritto che vuole tutti i soggetti ugualmente sottoposti alle leggi conformi a Costituzione. Con tutta evidenzia si è in presenza dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale italiano e parte dei valori fondamentali dell’Unione europea[1].

In tale complesso quadro definitorio si innesta la problematica delle funzioni consiliari, in particolare se il Consiglio si ponga come mero «vertice organizzativo» conformemente all’autoqualificazione che l’organo si è dato nella sua prima relazione al Parlamento, come «una sorta di direttore generale collegiale»[2], oppure se esso non si limiti alla mera gestione del personale di magistratura togata e onoraria, bensì, in qualche modo, concorra alla formazione della politica giudiziaria del Paese, pur rimanendo la stessa di principale responsabilità del Ministro della Giustizia. 

E’ parere di chi scrive che la tesi riduzionistica sia ormai superata dalla consolidata prassi istituzionale. D’altro canto anche la stessa strutturazione costituzionale del Consiglio potrebbe lasciar propendere in senso diverso. Invero, il fatto che la presidenza del CSM sia attribuita al Presidente della Repubblica, rappresentante dell’unità nazionale, massimo organo di garanzia, potere «neutro», posto al di fuori della tripartizione dei poteri e che la componente “laica” sia di elevata caratura professionale necessariamente espressiva di tutte le forze politiche, in ragione della particolare maggioranza qualificata richiesta per la sua elezione, non è priva di significato. Infatti, costituisce la cartina tornasole del contenuto di intrinseca politicità, intesa anche come opzioni assiologiche di selezione e individuazione delle priorità dei beni-interessi abbisognevoli di cura, della sua azione, che si esprime, ovviamente, non tanto nella parte prettamente gestionale, per esempio in sede di concreta nomina dei magistrati destinati a ricoprire uffici direttivi e semidirettivi o a far parte degli uffici di legittimità, quanto piuttosto allorché il Consiglio proceda a elaborare la cosiddetta normativa secondaria, la quale ha obiettive ricadute nell’organizzazione degli uffici giudiziari (si pensi alle circolari sulle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti o quella riguardanti gli uffici requirenti e i poteri del Procuratore della Repubblica, alle circolari in tema di incarichi extragiudiziari, di valutazione di professionalità, di magistratura onoraria e così via). Un rilievo, poi, affatto particolare ha acquisito l’attività “pareristica” svolta dal Consiglio, su richiesta del Parlamento, Governo o in via autonoma, con riguardo alle iniziative legislative in materia di giustizia[3], con la quale, pur non concorrendo alla formazione del dettato legislativo, il Consiglio esprime il suo punto di vista e segnala gli aspetti positivi, le possibili criticità e le auspicate integrazioni e modifiche del testo di legge sottoposto all’esame delle Aule parlamentari, nonché esso stesso avanza proposte per la modifica delle circoscrizioni giudiziarie e su tutte le materie riguardanti l’organizzazione dei servizi relativi alla giustizia. Sempre sul tema, degna di menzione è la facoltà per il CSM di far pervenire al Parlamento, sempre tramite il Ministro della Giustizia, una Relazione annuale sullo stato della giustizia, segnalando problemi e proponendo le soluzioni ritenute più opportune. Sempre in tale ottica, va anche ricordata l’intensa attività internazionale che svolge il CSM, il quale, è bene segnalare, ancor oggi costituisce un modello di riferimento per molti ordinamenti euro-mediterranei.

But the way, si discute anche se, in sede di emissione del regolamento interno, il Consiglio abbia esercitato una propria attività normativa. Si tratta certamente di una facoltà attribuita dal legislatore ordinario (si veda l’art. 20, numero 7 della legge 24 marzo 1958, n. 195); pertanto, la tesi più accreditata è che si tratti di una vera e propria fonte dell’ordinamento generale[4],  con la quale nessuna fonte governativa potrebbe mai concorrere. Non v’è, infatti, dubbio che il Consiglio superiore della magistratura sia l’organo direttamente investito delle funzioni previste dall’art. 105 della Costituzione e il solo competente a esercitarle in via definitiva e in posizione di indipendenza da altri poteri dello Stato (Corte costituzionale, sentenza, n. 379 del 1992), di modo che l’autonomia della magistratura esclude ogni intervento determinante del potere esecutivo nelle deliberazioni concernenti lo status dei magistrati, fatto ovviamente salvo il rapporto di collaborazione fra CSM e Ministro della giustizia (Corte costituzionale, sentenze, numeri 168 del 1963 e 379 del 1992).

Dunque, può concludersi che proprio la estrema rilevanza e diversità dei compiti che il dato formale e la prassi istituzionale, per come si è consolidata, affidano ai consiglieri superiori spiega perché, pur essendo la magistratura un corpo di eguali, ai quali non si applicano le disposizioni relative all’ordinamento gerarchico statale (Corte costituzionale, sentenza, numero 168 del 1963) e che si distinguono solo per le funzioni svolte, secondo la definizione scolpita dall’art. 107, terzo comma, Cost., per selezionare la componente togata al Consiglio superiore il Costituente abbia inteso percorrere la via elettiva, cui partecipano in via attiva tutti i magistrati ordinari, e non altra modalità, che pur poteva essere di più agevole praticabilità.

Da tanto autorevoli settori dottrinari hanno rilevato come la via elettiva sia a oggi  costituzionalmente obbligata, non potendo essere essa surrogata da altre modalità, quali il sorteggio, finanche se preventivo, come previsto nel disegno di legge in esame[5].

Ma, pur volendo non arrestarsi alla lettera della Costituzione, che, inequivocabilmente, disegna un sistema elettivo puro (e non già un sistema misto: sorteggio di una platea di candidabili e, quindi, la competizione elettiva), non è inutile indagare la ragionevolezza della scelta legislativa che si sottopone all’esame delle Aule parlamentari. 

La Corte costituzionale ha già da tempo precisato che il giudizio di ragionevolezza consiste in «un apprezzamento di conformità tra la regola introdotta e la “causa” normativa che la deve assistere» (sentenze n. 245 del 2007 e n. 89 del 1996). In altri termini, la Corte costituzionale ha desunto dall’art. 3 Cost. un canone di razionalità della legge svincolato da una normativa di raffronto, essendo sufficiente un sindacato di conformità a criteri di coerenza logica, teleologica e storico-cronologica (sentenza n. 87 del 2012). Il principio di ragionevolezza «è dunque leso quando si accerti l’esistenza di un’irrazionalità intra legem, intesa come “contraddittorietà intrinseca tra la complessiva finalità perseguita dal legislatore e la disposizione espressa dalla norma censurata” (Corte costituzionale, sentenza n. 86 del 2017 e n. 416 del 2000).

E’ parimente noto che nella Costituzione italiana ciascun diritto fondamentale è predicato unitamente al suo limite, nel senso che tutti i diritti costituzionalmente protetti sono soggetti al bilanciamento necessario ad assicurare una tutela unitaria e non frammentata degli interessi costituzionali in gioco, di modo che nessuno di essi fruisca di una tutela assoluta e illimitata e possa, così, farsi “tiranno” (sentenze n. 63 del 2016 e n. 85 del 2013).

Ora, v’è da rilevare una non perfetta congruenza interna fra i propositi che il legislatore vuole perseguire con la riforma in esame e il rimedio ritrovato del sorteggio preventivo, con conseguenti dubbi sull’effettiva ragionevolezza del bilanciamento cui è stato sottoposto il diritto di elettorato passivo al CSM presidiato dall’art. 51 Cost.[6] (si rammenta che dal punto di vista dell’elettorato passivo, il precetto costituzionale esige soltanto che i componenti siano scelti fra i magistrati appartenenti alle varie categorie (art. 104, quarto comma, Cost.). In particolare, se il proposito è quello di evitare l’intromissione delle correnti nell’attività consiliare e, principalmente, di impedire che le nomine dei magistrati destinati a uffici direttivi, semidirettivi e agli uffici di legittimità, sia inquinata, per non dire altro, da influenze correntizie, il sorteggio preventivo non sembra congruente con tale ratio legis,specie se si procede a un’analisi sistemica e non parcellizzata dell’intero disegno di legge.

Infatti, il disegno di legge non si occupa solo del sistema elettorale del CSM, ma intende procedere a decisivi interventi sulle disposizioni dettate dall’ordinamento giudiziario proprio in tema di conferimento di uffici direttivi e semidirettivi (per questi ultimi, ex art. 105 Cost., la loro previsione non sembra surrogabile con altre figure, come quella dei coordinatori) e di destinazione dei magistrati agli uffici di legittimità, al fine di assicurare l’adozione di criteri trasparenti e autenticamente ancorati a dati oggettivi e coerenti.

Dunque, è ragionevole ritenere che delle due, l’una: o il legislatore intimamente reputa tali ultimi interventi del tutto inidonei a correggere l’attuale estrema discrezionalità del CSM, impedire intromissioni correntizie e implementare la comprensibilità delle scelte consiliari, implicitamente confessandone la loro inutilità, oppure, potrebbe sorgere il dubbio che dietro la scelta di modificare il sistema elettorale vi possa essere un intento neanche tanto dissimulato, che è quello di ridimensionare il ruolo complessivo del CSM, riducendolo esclusivamente a mero ente organizzatore del personale della magistratura, in controtendenza con la divisata prassi costituzionale, che ha un indubbia rilevanza da un punto di vista sostanziale. 

Se il Consigliere superiore è, infatti, chiamato a compiere, oltre ad attività gestionale espressiva di discrezionalità tecnica (comunque, già di per sé assai significativa per le sue ricadute), anche un quid pluris che obiettivamente incide sulla generale politica giudiziaria del Paese, è ragionevole ritenere che il corpo elettorale sia legittimato a scegliere il miglior candidato possibile nell’ambito di una platea di candidabili che, per quanto ampia, non può essere ristretta dalla sorte. Così come il Consigliere eletto deve essere dotato di massima autorevolezza, che gli è anche conferita dal riscontro elettorale non viziato ab origine da un evento del tutto aleatorio, qual è il sorteggio. Tale ultima eventualità, costituente un unicum nel panorama istituzionale[7], invero, non può non avere ricadute negative sul prestigio e sulla importanza del Consiglio nell’ordinamento costituzionale[8] nonché sulla sua capacità di porsi in posizione di dialogo, di leale collaborazione, e, solo ove necessario, di conflitto, con altri poteri dello Stato.

Peraltro, l’art. 38 non indica neanche la tempistica in cui tale sorteggio sarà effettuato e, quindi, lo spatium temporis concesso per lo svolgimento dell’intero processo elettorale. Non si comprende, dunque, quali sono i tempi posti a disposizione rispettivamente al candidato per far conoscere il proprio pensiero e le proprie capacità umane e professionali e al corpo elettorale per una scelta davvero consapevole.

Nondimeno, con ciò non si vuol difendere l’indifendibile.

E’ chiaro che l’attuale sistema elettorale va riformato, avendo dato pessima prova di sé, per errori di ideazione e per pratiche opinabili di cui l’intera magistratura deve fare autocritica (da ultimo, la scelta sostanzialmente elusiva del dettato costituzionale di candidare alle elezioni del 2018 un numero di pubblici ministeri pari al numero degli eleggibili per tale categoria)[9].

Il ricorso alla sorte non sembra tuttavia l’unica soluzione possibile (e, quanto meno, la più ragionevole) per svincolare l’attività gestionale del Consiglio dall’oggettivamente impropria influenza dei corpi intermedi.

Esiste, infatti, già un ventaglio di proposte, ciascuna proveniente da fonte autorevole e ampiamente percorribile, che, oltre a essere maggiormente conformi alla lettera della Costituzione, lasciano integra la piena autorevolezza della componente togata – ferma l’inderogabilità della distinzione degli eleggibili in categorie[10]– senza menomare il ruolo complessivo del Consiglio nell’ordito costituzionale e mortificare le potenzialità di scelte del corpo elettorale[11].

In primo luogo, potrebbe immaginarsi la soluzione, non esclusa dal dettato costituzionale (art. 104, sesto comma, Cost.), che raccorda la durata quadriennale ai singoli membri e non all’Organo, di una rotazione non all’unisono di tutti i componenti, ma continua degli stessi, come avviene per la Corte costituzionale[12]. Dalla conseguente riduzione dell’effetto di “parlamentarizzazione” l’attività istituzionale dell’organo trarrebbe sicuro beneficio in punto di coerenza e continuità, anche per quanto riguarda la componente cd. laica.

Allo stesso modo, valida si palesa la scelta della Commissione ministeriale per le modifiche alla costituzione e al funzionamento del Consiglio superiore della magistratura (cd. Commissione Scotti), la quale, oltre a dare una valutazione nettamente negativa del sistema del sorteggio, ha optato per un sistema articolato su un primo turno, maggioritario, con collegi locali senza liste e su un secondo turno, proporzionale, per collegio nazionali con liste concorrenti[13].

Degna di menzione è anche la soluzione del Presidente Silvestri[14] che esprime la sua preferenza per il vecchio sistema elettorale del Senato.

Resta anche la proposta di cui alla Risoluzione sulla relazione della Commissione ministeriale per le modifiche alla costituzione ed al funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura (Delibera consiliare del 7 settembre 2016), ove si auspica che la riforma favorisca un rapporto meno rigido tra componente associativa ed eletto, da un lato, e, dall’altro, aumenti il ventaglio di scelte dell’elettore. In proposito, secondo tale delibera, si potrebbe riflettere su un diverso meccanismo, quello del voto singolo trasferibile: in collegi plurinominali si presentano liste (con alternanza di genere) e l’elettore può indicare in ordine decrescente di preferenza i vari candidati, dando cosi rilievo sia al progetto di giurisdizione preferito, sia a candidati di altre liste premiati per qualità personali.

Una chiosa finale si impone.

L’esigenza di «voltare pagina» dopo le terribili vicende di questo inizio estate palesata dal Presidente della Repubblica nel suo intervento al Plenum del 21 giugno 2019[15] richiede un rinnovato spirito di servizio nello svolgimento dei compiti consiliari, che, oggi più che mai, deve ispirarsi al precetto sturziano «servire e non servirsi». Solo così gli illustrati intenti riformatori non saranno meri tecnicismi elettorali, bensì costituiranno un ulteriore tassello per il recupero della necessaria fiducia e credibilità che deve accompagnare e sorreggere l’attività del CSM.


[1] In tal senso, G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, in Questione Giustizia,  4/2017.

[2] Così S. Cassese, in Corriere della sera, dell’11 giugno 2019, https://www.corriere.it/opinioni/19_giugno_11/bloccate-porte-girevoli-6f78637a-8c7c-11e9-9a2c-4fa09850aca0.shtml  ove si legge: «L’organo è configurato dalla Costituzione come una sorta di direttore generale collegiale: si interessa di assunzioni, assegnazioni agli uffici, trasferimenti, promozioni, provvedimenti disciplinari dei magistrati. Con il tempo, è andato al di là dei sui compiti: è divenuto l’«organo di autogoverno» di giudici e procuratori Si è quindi parlamentarizzato. Come nei parlamenti vi sono i partiti, nel Consiglio vi sono le correnti. Come i partiti, le correnti hanno svolto inizialmente una utile funzione, perché erano divise da ideali diversi. Poi sono scadute a organizzazioni di interessi.».

[3] Per il suo estremo significato si riporta il testo della lettera inviata il 1° luglio 2008 dal Presidente della Repubblica al Vice Presidente del consiglio superiore della Magistratura, sen. Mancino, il quale aveva lamentato una fuga di notizie sul contenuto di un parere non ancora deliberato dall’assemblea plenaria. A tal proposito, ul Presidente della Repubblica rileva «la regola della riservatezza andrebbe rigorosamente osservata da parte di tutti i componenti del CSM e delle sue Commissioni nel corso della preparazione e discussione di atti impegnativi e di particolare delicatezza». Afferma poi che «Il suo severo richiamo al rispetto di tale regola è da me fortemente condiviso. Non può invece suscitare sorpresa o scandalo il fatto che il CSM formuli un parere – diretto al Ministro della Giustizia – su un progetto di legge di assai notevole incidenza su materie di diretto interesse del CSM stesso. Si tratta infatti di una facoltà attribuitagli espressamente dalla legge n. 195 del 1958, il cui esercizio si è consolidato in una costante prassi istituzionale.

I disegni di legge su cui il CSM è chiamato a dare pareri sono quelli “concernenti l’ordinamento giudiziario, l’amministrazione della giustizia e ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie”. I pareri sono dunque destinati a rilevare e segnalare le ricadute che le normative proposte all’esame del Parlamento si presume possano concretamente avere sullo svolgimento della funzione giurisdizionale. Così correttamente intesa, l’espressione di un parere del CSM non interferisce – altra mia preoccupazione già espressa nel passato – con le funzioni proprie ed esclusive del Parlamento: anche quando, come nel caso dei decreti-legge, per evidenti vincoli temporali, tale parere non abbia modo di esprimersi prima che il Parlamento abbia iniziato a discutere e deliberare. In questo quadro, non può esservi dubbio od equivoco sul fatto che al CSM non spetti in alcun modo quel vaglio di costituzionalità cui, com’è noto, nel nostro ordinamento sono legittimate altre istituzioni. Confido che nell’odierno dibattito e nelle deliberazioni che lo concluderanno, non si dia adito a confusioni e quindi a facili polemiche in proposito. La distinzione dei ruoli e il rispetto reciproco, il senso del limite e un costante sforzo di leale cooperazione, sono condizioni essenziali ai fini della tutela e della valorizzazione di ciascuna istituzione, delle sue prerogative e facoltà».

[4] In tal senso, la relazione della Commissione presidenziale per lo studio dei problemi concernenti il Csm, presieduta da Livio Paladin, in Documenti giustizia, 1991, n. 3, pg. 125.

[5] N. Zanon, F. Biondi, Chi abusa dell’autonomia rischia di perderla, in http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2019/06/zanon-biondi.pdf, ove si legge: «non  è comunque una proposta nuova: non potendosi stabilire – pena la evidente violazione del principio costituzionale di autonomia – che la componente togata sia «nominata» da altro organo, periodicamente viene proposto di sostituire l’elezione con un sorteggio. Ed è bene dirlo chiaro: a ciò si potrebbe arrivare solo con una revisione costituzionale.

In ogni caso, è vero che il C.s.m. non è un organo rappresentativo in senso proprio (e che, dunque, non trattandosi di «rappresentare», potrebbe non essere necessario «eleggere»). Tuttavia, è evidente che l’introduzione del sorteggio inciderebbe sull’autorevolezza dell’organo e, perciò, sulla sua posizione nell’ordinamento costituzionale, soprattutto se tale soluzione fosse accompagnata da una riduzione della componente togata a vantaggio di quella dei laici.

È bene altresì dir chiaro che una riforma costituzionale sarebbe necessaria anche qualora si intendesse introdurre un sistema «misto», ossia una elezione nell’ambito di una platea di candidati previamente selezionati tramite sorteggio, ovvero, al contrario, un sorteggio tra candidati previamente eletti: in entrambe le ipotesi si tratterebbe, con evidenza, di un «aggiramento» della soluzione prescritta dalla Costituzione».

[6]  Per Corte costituzionale, sentenza n. 168 del 1963, per la formazione del Consiglio superiore della Magistratura, «dal punto di vista dell’elettorato passivo, il precetto costituzionale esige soltanto che i componenti siano scelti fra i magistrati appartenenti alle varie categorie (art. 104, quarto comma)»

Per un’analisi approfondita della giurisprudenza costituzionale in tema di CSM: C. Celentano, L’autonomia e indipendenza della magistratura ed il Consiglio superiore della magistratura nella giurisprudenza costituzionale in https://www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_seminari/stu_278.pdf.

[7] Né è possibile richiamare il sorteggio previsto per il tribunale dei ministri o per i giudici delle corti d’assise, trattandosi di situazioni radicalmente diverse e di organi privi di rilevanza costituzionale.

[8] N. Zanon, F. Biondi, op. cit.

[9] Valga richiamare quanto scritto da M. Patarnello, “Autoriformare” il CSM?, in Questione Giustizia, 26 maggio 2015: «[l]’attuale legge elettorale ha minato alla radice la matrice politica e ideale della componente togata del CSM, mettendo avanti un individualismo personale che svilisce la riflessione e il confronto sulle idee, sola cifra di una vera e consapevole autonomia e indipendenza della magistratura, esaltando il peso delle singole personalità e dei territori».

[10]  C. Celentano, op. cit.

[11] V. Savio, Il sorteggio dei candidati Csm, una riforma incostituzionale, irrazionale, dannosa, in Questione Giustizia, 24 ottobre 2018.

[12] In tal senso oltre a N. Zanon e F. Biondi, sopra citati, anche la Relazione conclusiva di Enzo Baldoni, Presidente della Commissione di studio per la formazione di proposte di sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, istituita con decreto del Ministro di grazie e giustizia del 14 giugno 1995, in quaderni Costituzionali, dicembre 1997, 550.  Degna di nota è anche l’audizione del 29 maggio 2019, presso la Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati, del Presidente L. Violante, audibile in https://www.camera.it/leg18/1132?shadow_primapagina=9065.

[13] La Commissione sul punto, alla pg. 25, così si esprime: «[s]ul piano della tecnica elettorale la prima fase realizza un sistema maggioritario che offre un ampio ventaglio di selezionati. La seconda fase, attraverso il voto di lista con la conseguente applicazione del quoziente elettorale e con il voto di preferenza, realizza un sistema proporzionale; si prevede la possibilità di una sola o di una duplice preferenza a favore di candidati della stessa lista o anche a favore di candidato di altra lista purché di genere diverso in entrambi i casi».

[14] G. Silvestri, op. cit., pg. 10, ove si legge: «[i]n varie sedi, sin da anni ormai lontani [25], ho proposto di utilizzare come traccia ispiratrice il vecchio sistema elettorale del Senato, che coniugava visibilità dei singoli candidati e sistema proporzionale temperato nell’assegnazione dei seggi. Tralasciata ovviamente la dimensione regionale, da escludere per ovvi motivi nel caso del Csm, si potrebbe dividere il territorio nazionale in tanti collegi quanti sono i magistrati da eleggere, esclusi quelli di legittimità, da concentrare in collegio apposito. I candidati singoli, non raggruppati in liste, dovrebbero collegarsi con almeno due candidati di altri collegi, al fine di costituire un gruppo, punto di riferimento in sede di distribuzione dei seggi, da effettuarsi, su scala nazionale, con il sistema proporzionale, metodo d’Hondt. Come è noto, questo metodo non produce resti e quindi, pur rimanendo proporzionale, evita la frantumazione estrema del proporzionale puro».

[15] Giova riportare un passo di tale intervento: «[i]l saluto e gli auguri sono accompagnati da grande preoccupazione. Quel che è emerso, nel corso di un’inchiesta giudiziaria, ha disvelato un quadro sconcertante e inaccettabile.

Quanto avvenuto ha prodotto conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza non soltanto di questo Consiglio ma anche per il prestigio e l’autorevolezza dell’intero Ordine Giudiziario; la cui credibilità e la cui capacità di riscuotere fiducia sono indispensabili al sistema costituzionale e alla vita della Repubblica.

Il coacervo di manovre nascoste, di tentativi di screditare altri magistrati, di millantata influenza, di pretesa di orientare inchieste e condizionare gli eventi, di convinzione di poter manovrare il CSM, di indebita partecipazione di esponenti di un diverso potere dello Stato, si manifesta in totale contrapposizione con i doveri basilari dell’Ordine Giudiziario e con quel che i cittadini si attendono dalla Magistratura.

Tengo a ringraziare il Vice Presidente, il Comitato di Presidenza e i Consiglieri presenti per la risposta pronta e chiara che hanno fornito, con determinazione, non appena si è presa conoscenza della gravità degli eventi.

La reazione del Consiglio ha rappresentato il primo passo per il recupero della autorevolezza e della credibilità cui ho fatto cenno e che occorre sapere restituire alla Magistratura italiana.

Di essa i cittadini ricordano i grandi meriti e i pesanti sacrifici anche attraverso l’esempio di tanti suoi appartenenti e hanno il diritto di pretendere che quei meriti e quei sacrifici non vengano offuscati.

A questo riguardo non va dimenticato che è stata un’azione della Magistratura a portare allo scoperto le vicende che hanno così pesantemente e gravemente sconcertato la pubblica opinione e scosso l’Ordine Giudiziario

Oggi si volta pagina nella vita del CSM. La prima di un percorso di cui non ci si può nascondere difficoltà e fatica di impegno. Dimostrando la capacità di reagire con fermezza contro ogni forma di degenerazione.

Tutta l’attività del Consiglio, ogni sua decisione sarà guardata con grande attenzione critica e forse con qualche pregiudiziale diffidenza. Non può sorprendere che sia così e occorre essere ancor più consapevoli, quindi, dell’esigenza di assoluta trasparenza, e di rispetto rigoroso delle regole stabilite, nelle procedure e nelle deliberazioni.

Occorre far comprendere che la Magistratura italiana – e il suo organo di governo autonomo, previsto dalla Costituzione – hanno al proprio interno gli anticorpi necessari e sono in grado di assicurare, nelle proprie scelte, rigore e piena linearità.

La Costituzione prevede che l’assunzione di qualunque carica pubblica – ivi comprese, ovviamente, quelle elettive – sia esercitata con disciplina e onore, con autentico disinteresse personale o di gruppo; e nel rispetto della deontologia professionale.

Indipendenza e totale autonomia dell’Ordine Giudiziario sono principi basilari della nostra Costituzione e rappresentano elementi irrinunziabili per la Repubblica. La loro affermazione è contenuta nelle norme della Costituzione ma il suo presidio risiede nella coscienza dei nostri concittadini e questo va riconquistato.

Potrà avvenire – e confido che avverrà – anzitutto sul piano, basilare e decisivo, dei comportamenti. Accanto a questo vi è quello di modifiche normative, ritenute opportune e necessarie, in conformità alla Costituzione».

1. Quando vennero introdotti gli strumenti alternativi di definizione delle lite, di matrice anglosassone, si disse che la magistratura era stata dotata finalmente degli strumenti per assicurare una risposta tempestiva alla domanda di giustizia.

Analogo approccio propagandistico venne adottato all’indomani della introduzione del processo civile telematico, senza chiarire all’opinione pubblica e, ancor prima, ai magistrati, che l’operazione determinava altresì il passaggio a carico di questi ultimi di compiti che, anche sulla base dell’attuale codice di rito civile (art. 130 c.p.c.), sarebbero riservati ai cancellieri.

Con la recente proposta di riforma del processo civile, del processo penale e dell’ordinamento giudiziario elaborata dal Ministro della Giustizia Bonafede si cavalca l’onda mediatica generata dai noti eventi per introdurre, in un coacervo di disposizioni innovative prive di un minimo comune denominatore, alcune riforme di cui non vengono sempre adeguatamente ponderate le ricadute sul piano applicativo.

Un primo dato balza agli occhi immediatamente: si sbandierano gli obiettivi di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo civile (proclamando una stretta correlazione tra competitività del Paese e tempi della giustizia civile), ma non si fa cenno ai carichi di lavoro sostenibili da ciascun magistrato, alla mole inesigibile di istanze dalle quali ognuno è gravato, all’assenza di risorse, sul piano umano ed economico, dalla quale è endemicamente caratterizzato il sistema giustizia.

Un timido approccio costruttivo lo si intravede nell’obiettivo di realizzare, mediante lo strumento di una dotazione di pianta flessibile, una task force di magistrati che dovrebbe aggiungersi alla dotazione di pianta degli uffici giudiziari interessati e che dovrebbe determinare, in generale, l’introduzione di un regime di flessibilità delle piante organiche del territorio distrettuale (per un approfondimento si rinvia alla parte curata da Ileana Fedele).

1.1. La principale modifica che si intende introdurre nell’ambito del processo civile è la sostituzione dell’articolato procedimento ordinario di cognizione con un rito semplificato modellato sull’elastico schema procedimentale del rito sommario.

Le linee direttrice lungo le quali si intende agire sono rappresentate a) dalla semplificazione del processo (in primo grado e in appello), b) dalla riduzione dei riti e dalla loro semplificazione, c) dalla introduzione di strumenti di istruzione preventiva affidata agli avvocati (nella fase della negoziazione assistita).

Non ho mai visto, quale giudice civile, l’attuale rito (recte, gli attuali riti) a disposizione delle parti come un ostacolo, per la sua (loro) farraginosità, alla rapida definizione dei giudizi. Tutto è perfettibile, ma a me sembra che la struttura del processo civile sia di buona qualità e rappresenti un giusto punto di equilibrio tra le esigenze di giustizia e quelle di rispetto dei diritti di difesa e del contraddittorio.

La sommarizzazione generalizzata del processo civile, semmai, potrebbe scaricare sui giudizi di impugnazione gli effetti di eventuali scelte sbagliate nella gestione del rito (sul punto si rinvia alle osservazioni di Silvia Vitrò).

Siamo proprio sicuri che la qualità della giurisdizione civile verrebbe migliorata intervenendo sul rito, rendendolo peraltro poco duttile, o i rischi connessi, ad esempio, ad una degiurisdizionalizzazione dell’istruttoria svincolata dal filtro terzo e imparziale del giudice (ci si riferisce, soprattutto, all’attività di istruzione stragiudiziale nell’ambito della procedura di negoziazione assistita per favorire soluzioni transattive, connotata dall’acquisizione di dichiarazioni da parte di terzi su fatti rilevanti in relazione all’oggetto della controversia e dalla sollecitazione alla controparte alla confessione stragiudiziale – art. 2735 c.c. -, nonché dall’acquisizione di informazioni dalla p.a. – sul contenuto di atti e provvedimenti -; sul tema si rimanda alle note di Eugenia Italia e Fabio Doro) potrebbero essere maggiori dei vantaggi che si intende conseguire?

Anche con questo preannunciato intervento normativo si dimentica superficialmente che il collo di bottiglia è costituito dalla fase decisoria e che la semplificazione del rito non costituisce di per sé, in assenza di un aumento delle risorse (oltre che di una migliore distribuzione delle stesse), la panacea per risolvere il problema dell’arretrato.

Ed allora le tre principali novità che caratterizzano la sostituzione del rito ordinario con quello sommario, quanto al processo di cognizione di primo grado davanti al tribunale in composizione monocratica (eliminazione della possibilità di conversione; introduzione di un sistema di preclusioni destinate a consentire la fissazione del thema decidendum ancor prima dell’udienza di prima comparizione delle parti; anticipazione della definitiva cristallizzazione del thema decidendum a dieci giorni prima dell’udienza di comparizione delle parti; per l’analisi della fase introduttiva ed istruttoria dinanzi al tribunale in composizione monocratica si rinvia alle note a firma di Antonella Stilo), altro non sono che ‘specchietti per le allodole’ finalizzati a distogliere l’attenzione dal vero problema che attanaglia il sistema giustizia. Al contempo, la previsione secondo cui il rinvio tra l’udienza di trattazione e quella istruttoria non deve superare i 110 giorni (art. 3.1., b)-6)) è effimera.

1.2. Inserendosi nel solco di precedenti interventi normativi, vengono previste: a) l’esclusione del ricorso obbligatorio, in via preventiva, alla mediazione in materia di colpa medica e sanitaria, contratti finanziari, bancari e assicurativi (sono sufficienti altri istituti finalizzati ad agevolare una soluzione stragiudiziale della controversia, quale, in materia di responsabilità medica e sanitaria, l’a.t.p. disciplinato dalla l. 8.3.2017, n. 24); b) l’esclusione del ricorso obbligatorio alla negoziazione assistita nel settore della circolazione stradale; c) l’estensione della mediazione obbligatoria alle controversie derivanti dai contratti di mandato e da rapporti di mediazione; d) l’estensione della negoziazione assistita facoltativa alle materie di cui all’art. 409 c.p.c. Per un’analisi delle ricadute sul piano pratico delle preannunciate modifiche si rinvia alle note di Michele Ruvolo. Quanto alla individuazione delle attività processuali che costituiscono per la parte condizione per potere chiedere l’indennizzo per irragionevole durata del processo, vedasi Fabio Di Lorenzo.

1.3. Quanto alla fase decisoria, mi limito a segnalare nella presente sede che, prevedendo la relativa possibilità come alternativa rispetto al vaglio del giudice sulla complessità della controversia, le parti o, almeno, una di esse (quella che ritiene di poter perdere la lite e, quindi, ha più interesse ad un differimento) tendenzialmente chiederanno (anche in assenza di complessità) un rinvio per la discussione ad altra udienza.

Al contempo, il concetto di note difensive è estremamente più vago e generico rispetto a quello, ormai consolidato, di comparse conclusionali (e di memorie di replica).

1.4. Con riferimento all’appello (per il quale si rinvia all’approfondimento a cura di Danilo Chieca), appaiono opportuni sia il chiarimento (art. 6.1., lett. b) sull’art. 346 c.p.c. (nel senso che le domande ed eccezioni non accolte, siccome ritenute assorbite, in primo grado devono essere riproposte, a pena di decadenza, entro il termine perentorio di 20 giorni prima della data di udienza) sia l’abrogazione dell’art. 348 bis c.p.c. (che ha creato più problemi di quanti ne abbia risolti, tra l’altro scaricando di fatto sulla cassazione un carico non indifferente di nuovo contenzioso).

Non si considera, peraltro, che, di regola, in assenza di attività istruttoria, l’udienza di trattazione, all’esito della quale le parti dovrebbero essere invitate a precisare le conclusioni ed il collegio dovrebbe pronunciare la sentenza, è quella fissata dall’appellante, sicchè il collegio stesso rinvierà la causa ad altra udienza (questa volta di discussione), non fosse altro perché il numero di cause definibili all’udienza di trattazione non dipende da un disegno organizzativo del giudice.

1.5. Apprezzabile è la consacrazione sul piano normativo del principio di chiarezza e di sinteticità degli atti di parte e del giudice (art. 7.1., lett. d), così come l’introduzione del divieto di sanzioni processuali sulla validità degli atti per il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico dell’atto, quando questo abbia comunque raggiunto lo scopo (art. 7.1., lett. e).

In ordine al primo profilo (sul quale vi sono le osservazioni di Silvia Vitrò), va ricordato che, in tema di ricorso per cassazione, il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali che, fissato dall’art. 3, comma 2, del c.p.a., esprime tuttavia un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile, espone il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, non già per l’irragionevole estensione del ricorso (la quale non è normativamente sanzionata), ma in quanto rischia di pregiudicare l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c., assistite – queste sì – da una sanzione testuale di inammissibilità.

1.5. L’esperienza negativa del passato a volte non sempre insegna qualcosa. Nell’abrogato processo societario una delle novità che vennero più aspramente criticate fu quella della previsione della cd. ficta confessio (art. 13, comma 2, del d.lgs. n. 5 del 2003), in palese contrasto con il costante riconoscimento di una valenza di per sé neutra alla contumacia del convenuto.

Ora il legislatore intende reintrodurre l’istituto (art. 9.1., lett. e), sia pure nel limitato ambito dei giudizi di scioglimento delle comunioni (per la cui disamina si rinvia al contributo di Dario Cavallari), prevedendo che il giudice, in assenza di contestazioni sul diritto alla divisione (nulla quaestio), “compresi i casi di contumacia di una o più parti”, disponga lo scioglimento della comunione con ordinanza non revocabile.

Estremamente pericolosa, prestandosi a facili strumentalizzazioni ed elusioni, è la legittimazione riconosciuta al debitore, nell’ambito delle procedure di espropriazione immobiliare, a chiedere l’autorizzazione alla vendita diretta (sul tema si rinvia all’ampia disamina a cura di Emanuela Musi), ponendosi problemi per certi versi simili a quelli che sono sorti, in ambito fallimentare, avuto riguardo, in particolare, alla natura forzata di questo tipo di vendita e agli effetti “purgativi” alla stessa connessi.

Si inserisce nel solco dell’intento di rimpinguare le anemiche casse dello Stato la previsione secondo cui il beneficiario delle sanzioni pecuniarie, in caso di responsabilità aggravata, è la Cassa Ammenda e Prestiti, anziché la controparte (sulla relativa questione si rinvia allo scritto di Fabio Di Lorenzo).

2. Solo all’art. 30 (lett. d) si opera un fugace riferimento ai “carichi esigibili”, ma al solo fine di valutare in concreto la negligenza inescusabile del magistrato che non abbia adottato misure per definire i processi civili e penali da lui iniziati nel termine massimo all’uopo previsto (di quattro anni quanto al giudizio di primo grado; tre anni quanto al giudizio di secondo grado; due anni quanto al giudizio di legittimità). A tal ultimo riguardo, una domanda nasce spontanea: che senso ha prevedere l’obbligo di adottare misure per definire rapidamente i processi pendenti se poi, in concreto, queste misure non sono attuabili? Sembrerebbe che costituisca illecito disciplinare la mancata adozione delle dette misure. E la loro mancata attuazione sul piano pratico?

Ed ancora: quali sono le misure che il magistrato dovrebbe adottare per definire i processi civili e penali da lui iniziati nel termine di quattro anni quanto al giudizio di primo grado? Il calendario del processo (artt. 3, lett. b, punto 8 – quanto ai processi civili -, e 17, lett. a – quanto ai processi penali -) ? Non si è considerato, tra l’altro, quanto al giudizio di legittimità, che i ruoli di udienza, in cassazione, sono predisposti dai presidenti di sezione.

Ulteriore criticità: costituisce specifico illecito disciplinare la mancata adozione delle misure, da cui derivi per negligenza inescusabile il mancato rispetto dei termini in più di un terzo dei processi civili e dei processi penali iniziati dal magistrato (art. 30.1., lett. b). Sembra quasi una istigazione a lasciare andare alla deriva fino a un terzo (1/3) delle cause presenti sul ruolo. Senza tralasciare, ovviamente, che naturaliter la propensione di ogni magistrato sarà nel senso di privilegiare la definizione dei processi di minor complessità.

Riemergono, in modo però non programmatico, i criteri di priorità nella trattazione degli “affari”. Ciò avviene nel disciplinare le indagini preliminari e l’udienza preliminare (art. 15, lett. i), prevedendosi che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme  esercizio dell’azione penale, selezionino le notitiae criminis da trattare con precedenza rispetto alle altre sulla base di criteri di priorità trasparenti e predeterminati, nel regolamentare le funzioni direttive e semidirettive (art. 24.2., lett. b)-3)), stabilendosi che il progetto organizzativo delle procure della Repubblica contengano in ogni caso “i criteri di priorità nella trattazione degli affari”, e nell’introdurre le piante organiche flessibili distrettuali (art. 47, nella parte in cui sostituisce l’art. 5, co. 3, della l. 13.2.2001, n. 48), prevedendosi che, con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il CSM, siano, tra l’altro, definiti i criteri di priorità per destinare i magistrati della pianta organica flessibile alla sostituzione (nei casi di assenza dall’ufficio) ovvero per assegnare gli stessi per far fronte alle condizioni critiche in cui versa un ufficio.

Diventano nevralgici i menzionati criteri di priorità, che dovranno essere elaborati periodicamente dai dirigenti degli uffici, previa interlocuzione con il procuratore generale presso la corte d’appello e con il presidente del tribunale, dovranno essere indicati nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica e dovranno tener conto “della specifica realtà criminale e territoriale, delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili e delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti”.

3. Nell’ambito del processo penale, a fronte di taluni elementi positivi (l’intervento seppur minimale in tema di notificazioni, i poteri delgGiudice dell’udienza preliminare, con la previsione di una fase pre-dibattimentale che possa essere realmente deflattiva, con il mutamento della regola di giudizio ex art. 425 comma 3 c.p.p., e di rimando, dell’art. 125 norme att. c.p.p.), restano numerose criticità e perplessità. Per i relativi approfondimenti si rinvia a David Mancini, Luigi Cuomo, Aldo Natalini (avuto riguardo, in particolare, ai riti speciali) e, anche in una prospettiva de iure condendo, Alessandro De Santis.

4. Apprezzabile risulta l’eliminazione, nella stesura attuale, dell’originaria abrogazione ex lege dei semidirettivi (sullo specifico profilo, si rinvia ai commenti, estesi anche alle funzioni direttive, di Santi Bologna, di Silvia Vitrò e di Tony Nicastro)  Se si voleva tutelare l’autonomia dei singoli magistrati, l’obiettivo certamente non sarebbe stato raggiunto creando capi degli uffici che sarebbero stati dei “domini” assoluti all’interno dei Tribunali e delle Procure, sostanzialmente liberi di selezionare la semidirigenza. Anche a voler prescindere dalla palese violazione dell’art. 105 Cost. che in tal guisa operando si sarebbe realizzata, non vi è chi non veda che solo un sistema di regole trasparenti e di indicatori specifici può evitare che i ruoli di vertice si trasformino in occasioni di esercizio arbitrario dei poteri. La gerarchizzazione delle Procure non ha dato buona prova di sé, come i noti eventi purtroppo testimoniano. Ciò nonostante, si intendeva estenderla anche agli uffici giudicanti. La sottrazione al CSM di questa competenza avrebbe, del resto, determinato un forte accentramento verso la dirigenza giudiziaria, al pari di quanto è già avvenuto nelle Procure.

E’ vero, semmai, il contrario: in un sistema di bilanciamento, connotato da pesi e contrappesi, è proprio la nomina dei semidirettivi sottratta al capo dell’ufficio che consente di ‘compensare’ il potere di quest’ultimo, che altrimenti diverrebbe senza limiti e tale da condizionare l’attività dei magistrati da lui scelti.

5. In ordine al profilo dell’aumento irragionevole delle ipotesi di illecito disciplinare (su cui vedasi Santi Bologna), con particolare riferimento alla tutela dei soggetti che avrebbero dovuto segnalare illeciti dei magistrati e del personale amministrativo degli uffici giudiziari (art. 25, eliminato nella versione che attualmente circola), si rinvia a Francesco Lo Gerfo, non senza qui evidenziare che la norma reintrodurrebbe, di fatto, surrettiziamente la figura del sicofante (modernizzato) contro magistrati e cancellieri sgraditi, fornendogli l’anonimato e l’impunità di fatto.

6. Sul sistema elettorale dei componenti togati del CSM non mi soffermerò, rimandando agli approfondimenti tematici (ed in particolare, all’articolo di Salvo Leuzzi, contenente anche una proposta costruttiva). Mi permetto qui solo di evidenziare che siamo al cospetto di una rappresentatività senza vincolo di mandato, che il metodo di scelta è una “elezione” e che il sorteggio (in qualunque fase collocato) si rivelerebbe senz’altro incostituzionale (siccome in contrasto con l’art. 103, co. 4, Cost.).

Siamo poi sicuri che il CSM, sul piano della trasparenza, verrebbe migliorato o la via della responsabilizzazione passa sempre e comunque attraverso una elevazione degli standard deontologici e comportamentali?

La sfiducia nel possesso da parte della categoria di magistrati di anticorpi per combattere le pressioni esercitate dall’esterno ed i virus presenti all’interno ha indotto il legislatore a cadenzare in modo rigoroso il procedimento di elezione dei componenti togati (artt. 38-41): si va dalla individuazione (con decreto del Ministro della giustizia) dei collegi almeno tre mesi prima del giorno fissato per le elezioni, alla convocazione delle elezioni (fatta dal CSM) almeno 60 giorni prima della data stabilita per l’inizio della votazione), al termine stringente di 7 giorni dalla pubblicazione dell’elenco dei magistrati sorteggiati per la presentazione, ad opera degli stessi, della loro candidatura, alla pubblicazione degli elenchi dei candidati (distinti per singolo collegio) almeno 7 giorni prima della data della votazione, alla previsione che ogni elettore riceve una scheda ed esprime il proprio voto per un solo magistrato. Lo scopo è chiaro: impedire ai gruppi associativi di organizzarsi per fare opera di proselitismo (per una approfondita disamina, che trae origine dal preliminare inquadramento del Consiglio superiore nell’ambito dell’architettura costituzionale, v. Fulvio Troncone).

Ma siamo proprio sicuri che le degenerazioni cui si è assistito nell’ultimo periodo, in assenza di un percorso virtuoso nella direzione di un innalzamento dell’etica, verranno bandite completamente?

7. Nel rinviare per le modifiche che si intende introdurre in tema di valutazioni di professionalità alle osservazioni di Andrea Penta, quanto allo specifico profilo del ricorso ad uno psicologo (sul cui tema rimando alla nota a firma della Professoressa Barbara Segatto e alle osservazioni di Eugenia Italia), ricordo quando nel 2003 l’onorevole Silvio Berlusconi lanciò un’idea non troppo dissimile, definendo, in un’intervista al periodico britannico Spectator, i magistrati come “mentalmente disturbati”. Nel solco di questa esternazione, il Guardasigilli dell’epoca, Roberto Castelli, ipotizzò anche d’introdurre i test.

Non mi piacciono le preconcette “difese di categoria”. Il riconoscimento della delicatezza del ruolo svolto da un magistrato comporta che l’empatia e, soprattutto, la stabilità mentale siano di basilare importanza.

E’ il metodo che trovo sbagliato. Mi meraviglierei molto se lo squilibrio mentale di un collega emergesse solo in occasione delle valutazioni quadriennali di professionalità. Se veramente anomalie di carattere psichico significative esistessero, il capo dell’ufficio sarebbe tenuto a segnalarle a prescindere e senza attendere le dette valutazioni periodiche.

Ed ancora: perché allora non estendere l’ipotesi di utilizzare uno psicologo per selezionare il titolare di un importante incarico pubblico o introdurla per i titolari di un incarico pubblico elettivo, che pur svolgono funzioni altrettanto delicate?

Ed infine mi domando, ragionando per assurdo: e se all’esito della valutazione dello psicologo dovesse emergere che un magistrato versa in uno stato di forte stress determinato dall’eccessivo e non gestibile carico di lavoro che ha inciso sul suo equilibrio psico-fisico, il collega sottoposto a valutazione di professionalità potrebbe instaurare una causa risarcitoria contro il Ministero per ottenere il ristoro del pregiudizio in tal guisa patito?

7.1. Nel restituire una maggiore rilevanza all’anzianità quale indice sintomatico di esperienza nell’esercizio delle funzioni, si parte da un presupposto: che le varie valutazioni di professionalità siano state effettive e personalizzate. Un presupposto che, come l’esperienza ci insegna, è tutto (almeno allo stato) da dimostrare. E’ evidente, infatti, che, a parità (ma solo a parità) di valutazione di professionalità (reso sulla base dei diversi parametri da prendere in considerazione), un magistrato che abbia dimostrato di avere capacità e/o attitudini per un periodo più ampio debba essere preferito rispetto ad un altro che, pur ugualmente meritevole, lo abbia fatto per un periodo più ridotto.

8. Piero Calamandrei, nell’Elogio scritto da un avvocato, sosteneva che “Proprio per questo dovrebbero essere i giudici i più strenui difensori dell’avvocatura: poiché solo là dove gli avvocati sono indipendenti, i giudici possono essere imparziali; solo dove gli avvocati sono rispettati, sono onorati i giudici; e dove si scredita l’avvocatura, colpita per prima è la dignità dei magistrati, e resa assai più difficile ed angosciosa la loro missione di giustizia”.

Non mi preoccupa la convivenza con gli avvocati, perché ritengo che la magistratura e l’avvocatura rappresentino due corpi indefettibili del sistema giustizia. Ciò che mi preoccupa è il rischio di strumentalizzazioni.

Molti interventi sul piano normativo determinerebbero di fatto anche un ampliamento delle aree dalle quali i professionisti (e, in primo luogo, gli avvocati) potrebbero attingere per ottenere incarichi, a detrimento delle sfere di competenza dei giudici, e, quindi, consentire ai primi il realizzo di maggiori entrate economiche. La scelta annida dentro di sé un recondito scopo propagandistico, ma non mi diffonderò sulla stessa. Il riferimento è, in particolare, agli artt. 2, lettere e) (il quale prevede una semplificazione della procedura di negoziazione assistita, anche utilizzando un modello di convenzione elaborato dal Consiglio Nazionale Forense), f) (il quale consente, nell’ambito della procedura di negoziazione assistita, un’attività istruttoria con la necessaria partecipazione di tutti gli avvocati che assistono le parti coinvolte), g)-4) (il quale contempla una maggiorazione del compenso degli avvocati, in misura non inferiore al 30%, anche con riguardo al successivo giudizio, che abbiano fatto ricorso all’istruttoria stragiudiziale; per quanto, nel successivo n. 5, sia previsto, a mò di contraltare, che il compimento di abusi nell’attività di acquisizione delle dichiarazioni costituisca per l’avvocato grave illecito disciplinare), 9, lett. a) (che, nell’ambito delle controversie aventi ad oggetto lo scioglimento delle comunioni, prevede un obbligatorio procedimento di mediazione pregiudiziale innanzi ad un notaio o a un avvocato; nel qual caso la determinazione dei compensi da riconoscersi al professionista per l’espletamento di tale procedimento è rimessa ad un decreto ministeriale), 10, lett. g) (che, nell’ambito dei procedimenti di espropriazione immobiliare, prevede la delega, da parte del giudice dell’esecuzione, ad uno dei professionisti iscritti nell’elenco di cui all’art. 179-ter disp. att. c.p.c. della riscossione del prezzo e delle operazioni di distribuzione del ricavato).

Le disposizioni “pericolose” sono gli artt. 24, lett. a) (nella parte in cui prevede, nell’ambito dei procedimenti per la deliberazione dei posti direttivi, l’obbligo di sentire tra l’altro, sia pure con le modalità stabilite dal CSM, i rappresentanti dell’avvocatura) e 26.1., lett. a) (che introduce il diritto cd. di tribuna, vale a dire il diritto dei componenti non togati – avvocati e professori universitari – del consiglio giudiziario di assistere alle discussioni e deliberazioni relative alla formulazione di pareri sull’attività dei magistrati sotto il profilo della preparazione, della capacità tecnico-professionale, della laboriosità, della diligenza, dell’equilibrio nell’esercizio delle funzioni). Un conto è, infatti, acquisire preventivamente e per iscritto le motivate e dettagliate valutazioni del consiglio dell’ordine degli avvocati avente sede nel luogo dove il magistrato esercita le sue funzioni e, se non coincidente, anche del consiglio dell’ordine degli avvocati avente sede nel capoluogo del distretto (art. 15, co. 1, lett. b, d.lgs. n. 25/2006), un altro conto è consentire una partecipazione (silenziosa?) dell’avvocatura. E ciò non in quanto vi siano scheletri negli armadi da nascondere, ma perché delle due l’una. Ma perché si percepirebbe inevitabilmente la mera presenza fisica dei componenti non togati come un segnale di sfiducia nei confronti della componente togata ed alla stregua di un “cavallo di Troia” fatto entrare con l’inganno nei sancta sanctorum dei consigli giudiziari.

9. Di un testo normativo, soprattutto se, come quello in esame, in fieri, è anche metodologicamente sbagliato porre in rilievo solo gli aspetti negativi, senza segnalare gli eventuali passaggi condivisibili.

Oltre a quelli già indicati in precedenza, meritano, a mio modo di vedere, di essere evidenziati i seguenti:

  1. la previsione di un termine non superiore a 60 giorni entro il quale la p.a., cui siano state richieste informazioni ai sensi dell’art. 213 c.p.c., deve trasmetterle o deve comunicare le ragioni del diniego (art. 11, lett. c; sul punto si rinvia alle osservazioni di Fabio Di Lorenzo);
  2. la previsione che i procedimenti per la deliberazione dei posti direttivi e semidirettivi siano tendenzialmente avviati ed istruiti secondo l’ordine temporale con cui i posti si sono resi vacanti (art. 24.1., lett. a);
  3. la previsione – finalizzata ad assicurare una continuità nello svolgimento dell’incarico – che le funzioni direttive e semidirettive possano essere conferite esclusivamente ai magistrati che, alla data della vacanza del posto messo a concorso, assicurino almeno 4 anni di servizio prima della data di collocamento a riposo (art. 24.1., lett. n);
  4. la previsione secondo cui il termine per i tramutamenti su domanda sia ridotto a tre anni per i magistrati che esercitano le funzioni presso la sede di prima assegnazione (art. 27.1., lett. g);
  5. la regolamentazione al passo coi tempi della disciplina dell’accesso in magistratura (art. 27; tema approfondito da Santi Bologna).

10. Concludo ringraziando tutti i colleghi che, ritagliando piccoli spazi di tempo in un periodo dell’anno in cui le energie psico-fisiche sono agli sgoccioli, hanno dato la loro disponibilità ad approfondire le questioni sottese al ddl in esame, dimostrando di nutrire la passione per il confronto dialettico, pur delusi per le pratiche distorte divenute di recente di dominio pubblico di cui l’intera magistratura deve fare severa autocritica.

di Luigi Petrucci

Nella prima parte di questo articolo si illustrano le varie voci della busta paga, dalle quali si prende spunto per evidenziare gli istituti economici che influenzano la quantificazione dello stipendio mensile, il c.d. netto in busta, quali lo scatto anticipato in caso di nascita di un figlio, i casi in cui viene decurtata l’indennità del personale giudiziario, le trattenute di categoria, le indennità “extra” che spettano ai M.O.T. destinati fuori sede.

Nella seconda parte si illustrerà la parte della busta paga dedicata alla ritenute fiscali e previdenziali ed il modo in cui verrà calcolata la pensione contributiva.

LA POSIZIONE GIURIDICO-ECONOMICA P.1

La Qualifica prevede cinque 5 posizioni, che corrispondono alle seguenti sigle: HH3 Magistrati Ordinari, HH4 Magistrati alla 1^ valutazione, HH5 alla 3^ valutazione + 1 anno (ex Appello), HH6 alla 5^ valutazione (ex Cassazione), HH7 alla 7^ valutazione (ex Direttivo superiore)

La Classe o Fascia è un aumento che scatta ogni 2 anni.

LO SCATTO ANTICIPATO DI CLASSE IN CASO DELLA NASCITA DI UN FIGLIO

Nota bene ai sensi dell’art. 22 l. n. 1/1939 è previsto l’anticipo della classe stipendiale dalla nascita di figlio rispetto al momento in cui dovrebbe maturare.

Si riporta di seguito il testo di legge e un tipo di istanza (da verificare l’Ufficio competente).

«Nei riguardi dei dipendenti delle Amministrazioni statali, comprese quelle con ordinamento autonomo, forniti di stipendio, paga o retribuzione, suscettibile, secondo le disposizioni vigenti, di aumenti periodici, il periodo in corso di maturazione alla data di nascita di un figlio si considera compiuto dal 1° del mese in cui avviene la nascita, se questa si verifica entro il giorno 15 e in caso diverso dal 1° del mese successivo.

«Agli insegnanti elementari straordinari e’ concesso, nel caso di nascita di figli, lo stipendio iniziale di ordinario della rispettiva categoria, fermo il supplemento di servizio attivo di straordinario. Tale concessione non implica anticipata nomina ad ordinario.

«Ai dipendenti statali che abbiano avuto un figlio durante il periodo di prova di cui all’art. 17 del R. decreto 11 novembre 1923, n. 2395, l’aumento periodico e’ concesso con decorrenza dalla nomina in ruolo. «Alla attribuzione degli aumenti di cui al presente articolo si fa luogo in base al semplice accertamento della nascita, omesso ogni parere dei Consigli di amministrazione o di altri consessi similari.

«Qualora entrambi i coniugi siano dipendenti statali, l’aumento periodico si concede ad uno solo di essi, salva la facolta’ di scelta del trattamento piu’ favorevole. «In occasione di parti multipli si fa luogo alla concessione di un solo aumento periodico indipendentemente dal numero dei figli nati.

«I figli nati morti o deceduti entro cinque giorni dalla nascita non danno diritto alla concessione degli aumenti periodici di cui al presente articolo.

«Nel caso in cui l’aumento periodico per anzianita’ di servizio, dovuto secondo le disposizioni vigenti, venga a maturare alla stessa data dalla quale decorre l’aumento concesso per la nascita del figlio in applicazione del 1° comma del presente articolo, e’ concesso anche il successivo aumento periodico di stipendio eventualmente previsto per il grado ricoperto.

«La decorrenza degli aumenti periodici di stipendio successivi e quella delle promozioni che, ai sensi delle vigenti disposizioni, siano da conferire in dipendenza del raggiungimento di un determinato aumento periodico di stipendio, paga o retribuzione, non restano modificate per effetto della concessione di cui ai commi precedenti».

Al Ministero della Giustizia Direzione Generale Magistrati

Ufficio II Reparto VII

Il/La sottoscritto/a, dott. —, nato/a a —, cod. fisc. —, n. partita —, magistrato in servizio presso il —,

chiede

l’attribuzione dell’aumento stipendiale per la nascita del/la proprio/a figlio/a, —, come tempestivamente comunicato all’Ufficio per la variazione matricolare, ai sensi dell’art. 22 l. 1/1939, ove non si sia già provveduto.

Chiede, altresì, qualora non si sia già provveduto, la corresponsione degli interessi legali e della rivalutazione sulla somma spettante e di essere contatto, se necessario, ai seguenti recapiti: nome.cognome@giustizia.it – — (cell) –  — (fax ufficio) – —  (telefono ufficio)

Ossequi.

Città, data

Firma

LE COMPONENTI DELLO STIPENDIO E LE RITENUTE P. 1

I DATI DI DETTAGLIO P. 2

LA VOCE “INDENNITA’ PERSONALE GIUDIZIARIO”

L’indennità del personale giudiziario è legata all’esercizio effettivo delle funzioni per cui, salvo il caso di congedo ordinario, viene decurtata pro-quota dallo stipendio ogni volta che non si è in servizio. I casi più ricorrente sono la malattia, la gravidanza, la licenza matrimoniale.

È in discussione la questione per il caso di assistenza al coniuge ed i permessi ex l. n. 104/1992 di cui il magistrato fruisca personalmente.

I termini del problema sono ben riassunti nel seguente parere fornito dell’Ufficio Sindacale dell’A.N.M. per il caso dell’assenza motivata dalla donazione del sangue.

Roma, 5 giugno 2015

Spett.le A.N.M. Associazione Nazionale Magistrati

– Oggetto: sui permessi per donazione di sangue (quesito del dott. Luigi Petrucci).

E’ stato chiesto di sapere se spetti ai magistrati il giorno di riposo a seguito di donazione di sangue e, in caso affermativo, se vi siano trattenute sullo stipendio e quale procedimento vada seguito.

***

Abstract:in caso di donazione di sangue, i magistrati hanno diritto ad un giorno di riposo retribuito, a condizione che il prelievo avvenga a titolo gratuito, consista in almeno 250 mm di sangue e sia effettuato presso centri autorizzati dal Ministero della Sanità, i quali devono rilasciare un certificato medico che deve essere poi consegnato al datore di lavoro.

Per il giorno di riposo, la legge prevede il diritto alla “normale retribuzione”, la quale però, per i magistrati, potrebbe essere decurtata dell’indennità giudiziaria di cui all’art. 3 della legge n. 27 del 1981, la quale, per legge, è strettamente connessa all’effettiva prestazione del servizio.

***

1.         I magistrati, come tutti gli altri dipendenti pubblici e privati, in caso di donazione di sangue hanno “diritto ad astenersi dal lavoro per l’intera giornata in cui effettuano la donazione, conservando la normale retribuzione per l’intera giornata lavorativa” (art. 1, legge n. 584 del 1967).

Il diritto alla giornata di riposo, che è computata in 24 ore a partire dal momento in cui lavoratore si è assentato dal lavoro per l’operazione del prelievo del sangue (art. 3 del D.M. 8 aprile 1968), è riconosciuto a condizione che il prelievo avvenga a titolo gratuito, consista in almeno 250 mm di sangue e sia effettuato presso centri autorizzati dal Ministero della Sanità (artt. 1 e 2 del D.M. 8 aprile 1968).

Al fine di consentire il finanziamento previdenziale della retribuzione per il giorno di riposo, la normativa prevede che il lavoratore, dopo aver effettuato il prelievo, debba: rilasciare al datore di lavoro una dichiarazione nella quale attesta di aver fruito della giornata di riposo per donazione di sangue a titolo gratuito; consegnare al datore di lavoro il certificato rilasciato dal medico che ha effettuato il prelievo.

Tali condizioni sono applicabili anche ai magistrati, i quali, dunque, per fruire del permesso retribuito per donazione di sangue, devono: comunicare al dirigente dell’ufficio il giorno nel quale intendono assentarsi per la donazione di sangue; e, successivamente al prelievo, consegnare al dirigente dell’ufficio giudiziario la dichiarazione e il certificato medico sopra indicati.

***

2.         Con riguardo al trattamento economico spettante per la giornata di riposo in questione, come visto, la normativa prevede il diritto alla “normale retribuzione”.

Onde, il trattamento spettante ai magistrati sembrerebbe dover comprendere lo stipendio “tabellare”, l’indennità integrativa speciale, così come l’indennità giudiziaria, che forma parte integrante della loro “retribuzione” (sulla natura retributiva dell’indennità, si veda ex multis Cons. di Stato, Sez. IV, 30 luglio 1996, n. 923).

Tuttavia, con riguardo all’indennità giudiziaria, occorre considerare che essa, per legge, è dovuta “in relazione agli oneri” che i magistrati “incontrano nello svolgimento della loro attività”(art. 3 della legge n. 27 del 1981); il che sembrerebbe escluderne la spettanza laddove il servizio non venga effettivamente prestato, come nel caso del riposo per donazione di sangue.

Tale collegamento tra l’indennità giudiziaria e l’effettivo espletamento del servizio è stato ribadito, in modo rigoroso, dalla costante giurisprudenza, soprattutto della Corte costituzionale, che in più occasioni ha affermato che la norma citata pone una “correlazione necessaria  tra la corresponsione dell’indennità e il concreto esercizio delle funzioni” e che “l’insieme degli oneri, in relazione ai quali tale indennità è stata istituitaviene meno quando il servizio, per qualsiasi causa, non è concretamente prestato (C. cost., sent. n. 407/1996; nello stesso senso, cfr. C. cost., ord. n. 106/1997; sent. n. 287/2006; ord. n. 290/2006; ord. n. 302/2006; ord. n. 137/2008; ord. n. 346/2008; nella giurisprudenza di merito, si veda , da ultimo, Tar Lazio, Sez. I, 17 febbraio 2010, n. 2301).

In base a tale principio, la Corte costituzionale ha, in più occasioni, ritenuto che la disciplina dell’indennità giudiziaria è conforme alla Costituzione anche laddove esclude la spettanza dell’indennità in caso di congedo per maternità e di congedo o aspettativa per malattia.

***

3.         Ciò posto, non si conosce quale sia l’orientamento seguito dal Ministero della Giustizia e dalla Ragioneria dello Stato con riguardo al computo dell’indennità giudiziaria nel trattamento per i riposi per donazione di sangue.

E’, però, verosimile che l’indennità giudiziaria sia esclusa da tale trattamento, al pari di quanto accade per gli altri permessi per i quali la legge, analogamente, prevede il diritto all’intera retribuzione (ad esempio i permessi per l’assistenza ai familiari di disabili di cui alla legge n. 104 del 1992).

Tale impostazione, come si è detto, è fondata sulla valorizzazione della “necessaria correlazione” della indennità giudiziaria con l’effettiva prestazione del servizio, affermata dalla costante giurisprudenza.

Tuttavia, l’opposta soluzione potrebbe essere fondata sia sull’interpretazione testuale dell’art. 3 della legge n. 27 del 1981 (laddove esclude l’indennità giudiziaria per le ipotesi di“congedo”“aspettativa”“astensione” per maternità o paternità, “sospensione dal servizio”, tra le quali non è testualmente ricompreso il “riposo” per donazione di sangue), sia sulla valorizzazione della specialità delle disposizioni sulla donazione di sangue, le quali potrebbero essere interpretate nel senso di voler accordare una speciale tutela ad un comportamento ispirato ad altruismo e solidarietà, anche attraverso la previsione dell’inesistenza di penalizzazioni retributive (e contributive) per chi lo compie.

Avv. Guido Rossi

La ritenuta 800/300 è quella prevista per la mutualità fra magistrati, che sovviene vedove ed orfani di magistrati e dà qualche borsa di studio ai figli dei  magistrati.

Le altre due ritenute sono quelle relative all’A.N.M. ed alla “corrente” (nel caso di specie Unicost).

LE INDENNITA’ “EXTRA” PER I MAGISTRATI IN TIROCINIO DESTINATI FUORI SEDE

Si riporta un utile informazione per i M.O.T. destinati fuori sede dal sito di Magistratura Indipendente, che è molto aggiornato su tutte le problematiche di carattere economico. (http://www.magistraturaindipendente.it/trattamento-economico-dei-magistrati.htm)

Le riforme “Castelli” e “Mastella” non hanno eliminato il trattamento di prima sistemazione per i magistrati destinati ad una prima sede diversa dalla loro residenza. Sono tuttora vigenti, quindi, le leggi nn. 836/1973, 417/1978, 97/1979 e 27/1981 che disciplinano il trattamento per la destinazione di ufficio dei magistrati alla prima sede. L’art. 51 d. lgs. n. 160/2006, peraltro, menziona espressamente tra le norme ancora vigenti le leggi nn. 97/1979 e 27/1981 NORMA BASE L’art. 13 della legge n. 97/1979, come sostituito dall’art. 6 della legge 27/1981, prevede che per l’assegnazione alla prima sede ai magistrati in tirocinio spettino:

  1. l’indennità di assegnazione per un anno (100% per 6 mesi e 50% per altri 6 mesi);
  2. l’indennità di prima sistemazione una tantum;
  3. il rimborso delle spese di viaggio e trasloco per raggiungere la nuova sede.

  1) L’ “INDENNITA’ DI ASSEGNAZIONE” L’indennità di assegnazione per i magistrati ordinari destinati di ufficio alla prima sede è pari ad € 20,50 lordi al giorno, ossia a circa € 615 lordi al mese, ed è corrisposta al 100% per il primo semestre dopo la destinazione alla nuova sede ed al 50% per il secondo semestre. L’importo mensile netto, perciò, è di circa € 400 per il primo semestre e di circa € 200 per il secondo semestre. L’indennità viene corrisposta d’ufficio dal ministero della giustizia in occasione della prima destinazione del magistrato ordinario. Si tratta di un’indennità speciale che richiama la soppressa indennità di missione solo per il quantum e va corrisposta a prescindere dallo spostamento della residenza nella nuova sede. Mentre l’indennità di missione propriamente detta (legata al trasferimento ad oltre dieci chilometri dalla sede di servizio) è stata soppressa dalla finanziaria 2006, quella speciale dell’art. 13 l. n. 97/1979 è stata fatta salva proprio perché è legata ad un altro presupposto, ossia alla destinazione di ufficio del magistrato “in sé”, a prescindere dallo spostamento.

   2) L’ “INDENNITA’ DI PRIMA SISTEMAZIONE” L’indennità di prima sistemazione è prevista dall’articolo 12, primo e secondo comma, della legge n. 417/1978 ed ammonta ad € 87,80 aumentati “di un importo pari a tre mensilità dell’indennità integrativa speciale in godimento” (ad oggi €. 877 mensili lordi). L’indennità di prima sistemazione, perciò, è pari ad € 2.718,80 lordi [€ 87,80 + (€ 877 x 3)], corrispondenti a circa € 1.750,00 netti. Questa indennità viene corrisposta una tantum solo a domanda, da presentarsi presso la Corte d’appello di destinazione. Essa spetta per intero solo a chi sposta nella nuova sede anche il nucleo familiare. Per chi non sposta la famiglia o è single l’indennità spetta al 50% (circa € 825). Per il pagamento dell’indennità è necessario che la nuova sede non coincida con la residenza di provenienza.

   3) LE “SPESE DI VIAGGIO E TRASLOCO” È previsto il rimborso una tantum delle spese di viaggio per raggiungere la sede di destinazione (biglietto di 1^ classe del treno o della nave). Va richiesta l’autorizzazione alla Corte di appello di destinazione per l’aereo (biglietto in classe economy) o l’autovettura (1/5 del prezzo della benzina per ogni km. e pedaggio autostradale). Per le spese di trasloco viene pagata un’indennità chilometrica per ogni quintale (max 40 q.li). L’indennità è di € 0,066 se il percorso è assistito da ferrovia, altrimenti è di € 0,160. L’importo complessivo è pari a: € 0,066 (o € 0,160) X km. percorsi X q.li trasportati. Il peso dei mobili va certificato dalla pesa pubblica del comune di arrivo e la distanza chilometrica dall’ACI. va prodotta la fattura dell’impresa che effettua il trasporto. Chi non cambia residenza non ha diritto a nulla. Il rimborso va chiesto alla Corte di appello di destinazione. Il sito www.aci.it fornisce la certificazione da allegare.

Scarica il pdf

(Allegato 2)

Consiglio Giudiziario presso la Corte di Appello di _____________

PARERE PER LA___________VALUTAZIONE DI PROFESSIONALITA’

del dott.____________________________________

A. Dati generali del magistrato

Cognome e nome:

Luogo e data di nascita:

Decreto di nomina a magistrato ordinario (già uditore giudiziario):

Periodo di valutazione:

Funzioni ricoperte nel periodo in valutazione:

Ufficio e settore di appartenenza:

B.Fonti di conoscenza:

1        Relazione del

2        Rapporto del Capo dell’Ufficio………………del….

3        Parere del Consiglio Giudiziario del…………..

4        Provvedimenti a campione del…………………

5        Verbali a campione del…………………………

6        Statistiche……………………………………..

7        Produzioni spontanee………………………….

B1. Dati sulle precedenti valutazioni o progressioni in carriera:

 Ricostruzione della carriera:

–         decreto ministeriale di nomina in data

–         data delle precedenti valutazioni di professionalità

B.2 Sintesi dei pareri:

Ci si richiama integralmente, (salvo dissenso per ragioni da esplicitare) ai pareri precedenti

C. Giudizio in ordine all’ indipendenza, imparzialità ed equilibrio:

   O Nulla da rilevare

   O Difetti o criticità (da compilare nel solo caso in cui si ravvisino in concreto)

D. Valutazione in ordine al parametro della “capacità”:

D.1

a) Provvedimenti giudiziari

–         Tecnica redazionale ed espositiva

–         Uso dello strumento informatico

–         Aggiornamento dottrinale e giurisprudenziale

b) Tecniche di indagine:

–         Correttezza

–         Aggiornamento dottrinale e giurisprudenziale

–         …………….

D.2 Sulle eventuali significative anomalie del rapporto esistente tra provvedimenti emessi o richiesti e provvedimenti non confermati o rigettati, in relazione all’esito, nelle successive fasi e gradi del procedimento, dei provvedimenti giudiziari emessi o richiesti, relativi alla definizione di fasi procedimentali o processuali o all’adozione di misure cautelari:

D.3 Sulle modalità di gestione dell’udienza, in termini di corretta conduzione o partecipazione:

D.4 Sul livello dei contributi forniti in camera di consiglio:

D.5 Sull’attitudine del magistrato ad organizzare il proprio lavoro e sulla capacità organizzativa e direttiva:

D.6 Sulla capacità di rapportarsi in maniera efficace, autorevole e collaborativa con gli uffici giudiziari e i magistrati destinatari del coordinamento1:

E. Valutazione in ordine al parametro della “laboriosità”:

E.1 Sulla congruità del numero di procedimenti e processi definiti per ciascun anno in relazione alle pendenze del ruolo, ai flussi in entrata degli affari ed alla complessità dei procedimenti assegnati e trattati:

E.2 Sul rispetto degli standard medi di definizione dei procedimenti (individuati ai sensi del Capo V n.2 lett. b) Circolare prot.      del 2007):

E.3  Sui tempi di trattazione dei procedimenti e dei processi (secondo quanto accertato ai sensi del Capo V n.2 della lett. b) Circolare prot. 20691dell’8 ottobre 2007 approvata il 4 ottobre 2007):

E.4  Sulla collaborazione prestata per il buon andamento dell’ufficio

F. Valutazione in ordine al parametro della “diligenza”:

F.1 Sul rispetto degli impegni prefissati, del numero di udienze nonché dei termini per la redazione ed il deposito dei provvedimenti o, comunque, per il compimento di attività giudiziarie, tenuto conto della comparazione con gli altri magistrati dell’ufficio o della sezione (desumibile dal prospetto dei ritardi allegato al rapporto), delle cause che hanno determinato eventuali ritardi e dei provvedimenti organizzativi eventualmente adottati:

F.2 Sulla partecipazione alle riunioni previste dall’ordinamento giudiziario per la discussione e l’approfondimento delle innovazioni legislative nonché per la conoscenza e l’evoluzione della giurisprudenza:

G. Valutazione in ordine al parametro “impegno”:

G.1 Sulla disponibilità alle sostituzioni riconducibili ad applicazioni e supplenze nonché sulla consistenza della collaborazione prestata su richiesta del dirigente dell’ufficio o del coordinatore della posizione tabellare o del gruppo di lavoro in ordine alla soluzione dei problemi di tipo organizzativo e giuridico

G.2 Numero di corsi di aggiornamento organizzati dalla Scuola Superiore della Magistratura, per i quali il magistrato abbia dato la disponibilità a partecipare o ai quali abbia effettivamente partecipato: 

Giudizio finale :                                                                

–         sull’indipendenza, imparzialità, equilibrio

O   positivo

O   negativo

–         sulla capacità

O positivo

O carente

O gravemente carente

–         sulla laboriosità

O positivo

O carente

O gravemente carente

–         sulla diligenza

O positivo

O carente

O gravemente carente

–         sull’impegno

O positivo

O carente

O gravemente carente

I. Valutazione di professionalità:

I.1.Svolgimento del procedimento:

I.2.Motivazione:

I.3.Dispositivo:

Data___________________           

Il Presidente del Consiglio giudiziario

Scarica il documento in word

1. Dati generali del magistrato.

Cognome e nome: ___________ _________;Luogo e data di nascita: ________, _________;Decreto di nomina a magistrato ordinario (già uditore giudiziario): D.M. ____ _____ _______;Periodo in valutazione: dal _______ (fine quadriennio precedente) al _______ (fine quadriennio in valutazione);Funzioni ricoperte nel periodo in valutazione2:____________________;Ufficio e settore di appartenenza: _____________________.

2. Dati sulle precedenti valutazioni o progressioni in carriera.

2.1. Ricostruzione della carriera.– decreto ministeriale di nomina in data ______________;- nomina a magistrato di tribunale (o prima valutazione di professionalità):decorrenza dal _______ (delibera del CSM del _____________);- seconda valutazione di professionalità: decorrenza dal ____________ (deliberaCSM del ________);- ecc.

2.2. Dati delle precedenti valutazioni di professionalità.– parere del Consiglio Giudiziario presso la Corte di Appello di __________ del___________ – nomina a magistrato di tribunale (o riconoscimento della primavalutazione di professionalità);- parere del Consiglio Giudiziario presso la Corte di Appello di _________ del_______________ seconda valutazione di professionalità;- ultimo parere del Consiglio Giudiziario: in data _________ per la _______valutazione di professionalità (o per il conferimento dell’ufficio semidirettivo di_____________________);

3.Sintesi dei pareri resi in precedenza dai competenti Consigli giudiziari.

_______________

4. Valutazione in ordine al parametro della “capacità”.

4.1. Titoli di studio ed esperienze post-universitarie.

_________________________

4.2. Attività giudiziaria svolta nel quadriennio.

___________________

4.3. Tecniche di indagine. Modalità e loro particolarità.

_____________________

4.4. Attività organizzativa e gestionale.

________________________

4.5. Provvedimenti giurisdizionali pubblicati su riviste giuridiche o su banche dati.

__________________________

4.6. Complessità dei procedimenti e dei processi trattati in ragione del numerodelle parti e delle questioni giuridiche affrontate.

__________________

4.7. Rapporto tra provvedimenti emessi e successivi gradi di giudizio.

_____________________

4.8. Modalità di gestione dell’udienza.

_____________________

4.9 Contributi forniti in camera di consiglio.

______________________

4.10. Organizzazione del lavoro.

___________________________

4.11. Conoscenze informatiche applicate alla redazione dei provvedimenti ed all’efficace gestione dell’attività giudiziaria.

___________________

4.12. Aggiornamento dottrinale e giurisprudenziale e sue modalità.

_____________________

4.13. Pubblicazioni scientifiche.

______________________________

4.14. Attività scientifiche e culturali, incarichi di docenza, collaborazione con istituti universitari, relazioni su tematiche giuridiche in incontri di studio non organizzati dal C.S.M. o dalla Scuola Superiore della Magistratura.

____________________

4.15. Partecipazione all’attività di formazione del CSM o della Scuola Superiore della magistratura in sede centrale o decentrata come relatore, esperto formatore o coordinatore di gruppi di lavoro.

4.15. Altre attività organizzative svolte su incarico del CSM, della Scuola Superiore della Magistratura, del Capo dell’Ufficio, del Presidente di Sezione o del Procuratore aggiunto.

4.16. Partecipazione a commissioni esami avvocato, commissioni esami mot, tavoli di studio, osservatori, comitati pari opportunità, commissione flussi, ecc.

_________________________

4.17. Conoscenza delle lingue straniere.

____________________

4.18. Conoscenza dei sistemi giuridici di altri Paesi.

___________________

5. LABORIOSITA’.

5.1. Produttività. Riduzione del carico di lavoro. Tempi di definizione dei procedimenti.

_____________________

5.2 Collaborazione prestata per il buon andamento dell’ufficio.

_________________

6. DILIGENZA

6.1. Numero di udienze tenute.

_______________________

6.2. Rispetto dei termini per il deposito dei provvedimenti.

_____________________________________

6.3 Rispetto degli impegni prefissati.

______________________

6.4. Partecipazione alle riunioni previste dall’ordinamento giudiziario per la discussione e l’approfondimento delle innovazioni legislative nonché per la conoscenza e l’evoluzione della giurisprudenza.

_________________________

7. IMPEGNO

7.1 Disponibilità ad applicazioni, supplenze e coassegnazioni.

_________________________

7.2 Partecipazione ad eventuali iniziative per lo smaltimento dell’arretrato o per la migliore gestione dell’Ufficio. Attività di collaborazione con il Capo dell’Ufficio o con il Presidente di Sezione o con il Procuratore Aggiunto.

______________________

7.3. Attività svolta quale componente del Consiglio giudiziario.

___________________________

7.4. Frequenza degli incontri di studio organizzati dal C.S.M. e dalla Scuola Superiore della Magistratura in sede centrale e in sede decentrata.

___________________________

7.5. Attività di presidente o di componente di uffici elettorali.

______________________

DATA                                                                                   FIRMA

Scarica il documento in word

di Maurizio Millo

1. Il titolo rappresenta bene la complessità della problematica che si trova davanti chi voglia affrontare questo tema dopo le recenti modifiche dell’ordinamento giudiziario ed alla luce dei cambiamenti che negli ultimi tempi vi sono stati nella sensibilità dei cittadini verso l’amministrazione della giustizia. Credo che, proprio per la sua complessità, questo argomento si deve affrontare guardandolo non come una situazione statica, descrivibile con una fotografia o con un solo aggettivo, ma come una situazione dinamica, rappresentabile solo con una sequenza di affermazioni e con un film. Il fuoco della riflessione va in realtà posto sul percorso nella sua interezza e sul saperlo vedere come una situazione di movimento. Si deve pensare ad una serie di traguardi, il primo dei quali è quello di volersi muovere e riuscire a farlo assieme a tutto il gruppo. Bisogna comprendere che per raggiungere l’obiettivo non è proprio possibile camminare da soli. O lo si raggiunge insieme o lo si manca. Non ha senso pensare al dirigente isolato dal gruppo in cui è inserito.

2. Proprio all’inserimento in un gruppo che deve e vuole muoversi rimanda infatti il vocabolo inglese utilizzato nel titolo proposto dalla redazione. Il senso della parola leader indica un personaggio capace di guidare un gruppo lungo un percorso e verso un obiettivo. La prospettiva del movimento diventa perciò molto importante quando si tende a scegliere il termine leader per presentare la figura del dirigente (parola quest’ultima che da sola potrebbe rappresentare invece una realtà ben diversa: una figura staccata dal gruppo che dirige ed un gruppo non necessariamente in movimento).
Probabilmente la sintesi migliore da proporre è che il dirigente di un ufficio giudiziario deve tendere ad essere il leader responsabile di un insieme di magistrati responsabili. Questa definizione può aiutare a comprendere e dare senso più profondo anche alle sue – inevitabili – attività da “burocrate” e persino ai casi di necessarie segnalazioni disciplinari (da “delatore”), che solo in quest’ottica possono acquistare significato costruttivo e senso.

3. Riflettendo sulla figura di un magistrato dirigente nel tentativo di proiettarvi una luce nuova per rispondere alle domande dei tempi attuali, senza però tradire le esigenze permanenti della giurisdizione, per prima cosa è bene riflettere sull’insufficienza ed anzi la dannosità dei criteri parcellizzati normalmente utilizzati per disegnare il profilo di un buon dirigente. Bisogna infatti sottolineare che è necessario disporre di un criterio unificante per costruire un profilo organico del dirigente‑leader, per arrivare a chiarire quali capacità gli vogliamo davvero richiedere, in quale ordine ed in quale rapporto tra loro.

Non solo, perciò, una somma di capacità, anche se tutte necessarie o almeno utili. Un elenco di buone caratteristiche, infatti, se manca un criterio di collegamento e di sintesi fra loro, finisce per rendere poco comprensibili i percorsi da seguire per scegliere i dirigenti, ma anche quelli per la loro formazione, nonché le decisioni del CSM perché queste, senza un criterio unificante, verranno inevitabilmente fatte privilegiando a volte una, a volte altra delle caratteristiche, senza che si riesca a comprendere davvero il perché si preferisce una invece dell’altra. Così il CSM appare essere non organo titolare di giusti poteri discrezionali, ma sede di decisioni incomprensibili e forse arbitrarie. D’altra parte, anche chi critica le scelte rischia di farlo più seguendo simpatie ed opzioni personali che non criteri confrontabili con gli altri. Anche se va comunque sottolineato che si tratta pur sempre di scelte governate da discrezionalità amministrativa – e perciò non è vero che si possono fare con lo stesso procedimento e la stessa mentalità con cui si arriva a una decisione giudiziaria di applicazione del diritto, come erroneamente sostenuto da qualcuno in tempi recenti – ma devono risultare comunque leggibili e comprensibili. Ecco la necessità di un criterio ordinatore delle capacità richieste al dirigente-leader.

4. E allora è importante ricordare che il primo obiettivo da raggiungere per qualsiasi dirigente, tanto più se vuole essere “leader”, è quello di realizzare il miglior risultato possibile con le persone, le normative e gli strumenti dati. Il primo obiettivo per lui diventa quello di riuscire a ricordare sempre che una squadra ed un gruppo di lavoro rappresentano un insieme il cui valore è superiore alla somma dei singoli valori individuali. A questa somma, vista in modo statico, si deve infatti aggiungere l’importantissimo valore che si origina dal dinamismo del lavoro in comune e dallo spirito di collaborazione. Poiché questo produce un notevole incremento dell’impegno e delle risorse di ciascuno ed in conseguenza dei valori individuali considerati da soli ed in situazione statica. Un incremento di impegno e rendimento che è collegato alla valorizzazione di ciascuno e dal clima positivo e costruttivo in cui si lavora. Questo consente a tutti di lavorare meglio, sia dal punto di vista della qualità, sia da quello della quantità. Va però ricordato e sottolineato che, se il gioco di squadra non viene bene impostato e coordinato, come spesso purtroppo avviene, l’elemento da aggiungere può invece assumere valori negativi.

Tutto ciò è talmente vero che viene comunemente tenuto presente come fondamentale criterio di valutazione e scelta non solo dell’allenatore e del capitano in tutti gli sport di squadra, ma anche dei manager in tutte le attività nelle quali sia importante il lavoro di gruppo. In realtà sostanzialmente quasi tutti i lavori moderni. Perciò insistono fortemente su questo elemento tutti i più recenti orientamenti nell’insegnamento delle capacità manageriali. Evidentemente raggiungere questo obbiettivo non dipende solo dal leader. Diventa possibile solo se tutti e ciascuno interpretano in modo attivo il proprio ruolo e si impegnano realmente nel partecipare all’impresa comune. Ma proprio per questo il primo compito del dirigente – percepita l’essenziale importanza della capacità di valorizzazione della squadra – diventa quello di comprendere gli altri e le loro esigenze e farsi comprendere da loro per quanto riguarda modalità e percorsi da utilizzare per costruire un gruppo di lavoro efficace (obiettivo molto più importante che semplicemente efficiente). E per essere efficaci si deve naturalmente tenere conto, per quanto riguarda ciò che qui interessa, delle caratteristiche, veramente peculiari, che presentano il mondo giudiziario e le persone che in esso lavorano. Ecco perché ho sottolineato sin dall’inizio anche la responsabilità di tutti gli altri magistrati. Non si può pensare di raggiungere l’obiettivo immaginando di lasciare solo al dirigente-leader la responsabilità del coinvolgimento positivo di tutti gli altri. Il dirigente ha la responsabilità primaria di impostare e coordinare questo lavoro, ma il traguardo si potrà raggiungere solo se tutti ne avranno consapevolezza e se ne assumeranno la corresponsabilità. 

5. Alla luce di queste affermazioni iniziali, per trovare il centro di gravità della figura del dirigente giudiziario di cui stiamo parlando, penso allora sia necessario introdurre una categoria di pensiero, ormai nota nelle scienze economiche, ma ancora non utilizzata nel nostro mondo, anche se molti dei discorsi che da tempo si fanno sulle problematiche della dirigenza in qualche modo vi si riferiscono, ma solo implicitamente e spesso senza vera consapevolezza e perciò senza trarne le dovute conseguenze.

Quando si pensa non alla singola decisione giudiziaria, ma alla capacità di dare risposta alla domanda di giustizia nel suo complesso rispetto ad un certo territorio o ad una certa funzione, si deve immaginare un dirigente che sappia essereprima di tuttoil centro di sviluppo ed il facilitatore della produzione dei “beni relazionali”, sia nell’ambito del suo ufficio, sia tra questo e gli altri enti e soggetti con cui esso ha rapporti.

Questa capacità deve a mio avviso servire per coordinare tra loro le varie e disparate caratteristiche che gli si richiedono e soprattutto risulta utile per bilanciare il diverso peso che alle sue varie qualità si deve dare a seconda che si stia pensando al dirigente di un ufficio grande o piccolo; giudicante o requirente; di merito o di legittimità; specializzato o no; e così via elencando. Così si può anche spiegare in modo comprensibile perché in certi casi si debba privilegiare una certa caratteristica mentre in altri una diversa e quanto sia giusto che pesi ciascuna delle qualità in relazione alla scelta concreta da fare ed alla formazione che si può pensare di predisporre.

In quest’ottica, per raggiungere l’obiettivo di fare del dirigente un leader responsabile, tutte le varie doti del dirigente‑leader devono essere collegate e commisurate alla sua capacità di utilizzare tutte quelle doti per facilitare nella situazione che interessa la produzione e lo scambio dei “beni relazionali”.

Non una dote in più da aggiungere all’elenco, perciò, ma il centro focale che dovrebbe rappresentare come un mozzo attorno a cui far girare la ruota costituita dalle altre capacità e caratteristiche. Può diventare questa la chiave di spiegazione e di sintesi della sua figura.

6. È evidentemente necessario chiarire un’affermazione del genere. Provo a farlo cominciando a confutare alcune idee che ritengo spesso richiamate a sproposito: quelle che propongono di applicare alle nostre problematiche i criteri manageriali classici. In realtà un manager “classico” non accetterebbe mai di fare il dirigente di un ufficio giudiziario perché capirebbe subito di essere impossibilitato ad agire praticamente in tutti gli ambiti in cui egli è abituato a muoversi per svolgere il suo ruolo.

Infatti, il dirigente di un ufficio giudiziario è estremamente vincolato nell’organizzazione del lavoro del suo ufficio dalla normativa processuale e poi dalle disposizioni ministeriali sugli adempimenti cui le cancellerie sono tenute, nonché sulla tenuta di libri e registri (non importa qui se cartacei o informatici) e spesso anche sui tempi di esecuzione e sulle scadenze delle operazioni. E le decisioni finali sulla distribuzione dei magistrati dipendono sostanzialmente dai criteri fissati dal CSM. Insomma in un ufficio giudiziario risultano in gran parte immodificabili le cose che il manager classico si impegna a studiare e cambiare dal punto di vista delle procedure del lavoro per ottenere risultati migliori. Inoltre il nostro dirigente non può influire (seriamente) sulla carriera di nessuno; d’altra parte non può assolutamente concedere incentivi economici (ed ancora meno sanzioni economiche).

Infine il sistema tabellare (che risente moltissimo delle sue giuste origini di garanzia e molto meno delle sue possibilità di sistema organizzativo, che pure esistono) risulta nella sostanza assai poco flessibile ed estremamente centralizzato nelle decisioni finali.

Mi stupisce, perciò, che spesso chi tra i magistrati si è occupato di riflettere su formazione e scelta dei dirigenti giudiziari lo abbia fatto parlando di managerialità in termini sostanzialmente “classici”, finendo, proprio per questo, per essere in realtà di ben scarso aiuto nell’affrontare il problema in modo concreto e rischiando di essere sostanzialmente incapace di individuare soluzioni davvero efficaci per la vita quotidiana dei nostri uffici.

Spesso si è finito per sostenere un tentativo di fare gli “organizzatori” degli uffici in modo efficientistico, che si è risolto più che altro nella gratificazione di alcuni dirigenti (perché normalmente dotati di notevole egocentrismo). Si rischia alla fine solo di sostenere una forma – sia pure modernizzata – di dannoso autoritarismo, comunque negativo nella complessità del mondo moderno, poiché nel mondo attuale il raggiungimento dei risultati dipende dal coinvolgimento e dalla partecipazione della “squadra” (come va di moda dire). Solo con la partecipazione e il coinvolgimento di tutti, infatti, si possono affrontare le situazioni complesse – e nulla è probabilmente più complesso di un ufficio giudiziario – e si può inoltre sperare di garantire la continuità dell’impegno di tutti e ciascuno nelle situazioni difficili e faticose. Un “manager” efficientista ed egocentrico finisce inoltre per instaurare, specialmente in magistratura, relazioni umane ostili e per far nascere “dinamiche produttive” controproducenti, prima di tutto da parte degli altri magistrati, che molto probabilmente cercheranno, anche se a volte in modo distorto ed errato, ogni possibile modo per riaffermare la loro autonomia.

In realtà, infatti, ormai da tempo la formazione per i dirigenti di impresa ha mutato orientamento e cerca di insegnare a costruire quella che viene definita “dirigenza condivisa”. Per questo, come noto, ci si orienta sempre di più a preparare manager moderni che – diversamente da quelli “classici” – abbiano l’abilità e la capacità di realizzare gli aspetti efficientistici del lavoro (ovviamente sempre molto importanti) essenzialmente attraverso il coinvolgimento di tutti, facendo divenire perciò compito primario e complessivo del dirigente quello di saper creare un giusto clima di lavoro.

Ebbene, proprio nel ricercare una via di soluzione a queste problematiche, è stato dimostrato che la qualità e quantità di produzione dei beni e/o servizi che l’impresa deve produrre aumentano in modo determinante attraverso l’incremento di produzione dei beni relazionali. Ecco perché si arriva alla conclusione che il dirigente deve rivestire prima di tutto il ruolo di centro di sviluppo e “facilitatore” nella “produzione di beni relazionali”.

Va sottolineato che questa definizione non rappresenta uno slogan o una frase ad effetto. Ha invece una dimensione scientifica e può risultare utile perché emerge da recenti studi e ricerche rivolti ad approfondire la riflessione su come ottimizzare la produzione e la vita nelle società avanzate (soprattutto la produzione di servizi, che è il nostro ambito di lavoro) [1].

Non presento queste riflessioni per una astratta e sterile passione per l’economia, ma perché rappresentano una possibilità nuova per affrontare i nostri vecchi e permanenti problemi. Non è certo questa la sede in cui discutere in modo teorico ed approfondito la problematica relativa alla produzione di “beni relazionali”, ma è importante ai nostri fini rilevare che, soprattutto nelle economie avanzate, viene riconosciuta una sempre maggiore influenza ed importanza tra i fattori produttivi ai beni c.d. relazionali e si sottolinea che solo la dovuta attenzione a questo aspetto della produzione può dare speranza ai Paesi avanzati di evitare la regressione in cui sembrano altrimenti destinati ad avvitarsi.

7. I beni relazionali si aggiungono a quelli finora oggetto di considerazione – come già è avvenuto e sta ancora avvenendo per una serie di altri beni immateriali – e  sono costituiti in sostanza dalla soddisfazione che si aggiunge al consumo ed alla produzione di beni o servizi in sé e che si trae dalle relazioni umane che il consumo o la produzione di beni e servizi comportano. Sono economicamente importanti e valutabili, perché ricercati dal “consumatore”, che è portato a spostare la sua domanda verso le situazioni nelle quali i beni relazionali sono maggiori. La ulteriore interessante scoperta delle ricerche è che la produzione di questi beni risulta capace, per quanto qui interessa, di aumentare la produzione degli altri beni e servizi perché già all’interno dell’impresa i lavoratori addetti si spostano e si impegnano in maniera diversa alla ricerca dei beni relazionali che si producono internamente. Per questo possono diventare capaci di aumentare e migliorare in modo determinante la “produzione” del servizio giustizia che i nostri uffici possono rendere. Ed anche la “produzione” del singolo, magistrato o collaboratore che sia. Per comprenderlo basta riflettere sull’importanza che per ciascun magistrato ha verificare che la sua giurisprudenza trova l’apprezzamento del foro e dei colleghi o quanto possa essere ricercata la partecipazione a incontri di studio a vario livello o anche solo a riunioni dell’ufficio per approfondire le modalità di lavoro e la soluzione giuridica di problemi quotidiani che possano poi dare soddisfazione nella gestione concreta del proprio ruolo professionale.

8. Va a questo punto evidenziato con forza che anche un dirigente di uffici giudiziari può fare molto – a volte moltissimo – per influire sulla produzione dei beni relazionali, mentre, come abbiamo ricordato, ben poco può fare per influire sugli altri aspetti dell’organizzazione produttiva.

Attraverso un’adeguata attenzione verso i beni relazionali si possono raggiungere obiettivi imprevedibili ed impensati [2].

D’altra parte proprio la qualità e quantità della “produzione” di beni relazionali influisce in modo determinante sulla scelta di un lavoratore qualificato ed importante di rimanere in una certa impresa o settore oppure di spostarsi in un altro. Perciò, nel nostro ambito – come abbiamo più volte visto avvenire in concreto nei nostri uffici – sulla scelta per un magistrato di rimanere in una sezione o in un ufficio oppure cercare di andare in un altro (o per un funzionario rimanere in una cancelleria o spostarsi in un’altra). Poiché si tratta decisioni molto spesso alimentate non solo dall’interesse per una diversa materia giuridica, ma anche (spesso in modo determinante) dalla ricerca di un diverso ambiente umano e professionale in cui applicare le proprie energie.

La capacità del dirigente di centrare l’attenzione su questo tipo di produzione e di beni comporta, tra l’altro, la capacità di saper valorizzare gli altri magistrati ed i collaboratori, quella di difenderne l’autonomia, quella di saper organizzare un proficuo scambio di conoscenze ed informazioni, quella di individuare e realizzare l’organizzazione del lavoro più adatta a soddisfare le aspettative dei magistrati e del personale e così via.

Si vede subito come le qualità del dirigente appena elencate sono le stesse che normalmente ci si sforza di indicare per descrivere il buon dirigente, ma collegate alla capacità di produrre e facilitare i beni relazionali acquistano ben altra prospettiva e possibilità di integrazione reciproca.

9. Proviamo a verificarlo vedendone qualche applicazione.

Si dice normalmente che il dirigente deve essere un buon giurista. Ma non è del tutto chiara l’importanza di questa affermazione, tenuto conto che, come dirigente, specie negli uffici di merito, non sarà tanto importante la giurisprudenza che saprà “produrre” e a volte non svolgerà affatto in concreto funzioni giudiziarie. Io direi che deve essere un buon “giudice” (che è un tipo particolare di giurista, con caratteristiche diverse dallo studioso universitario e dall’avvocato) perché questo è un aspetto qualificante per il quale il dirigente riuscirà ad essere professionalmente autorevole agli occhi dei colleghi. E l’autorevolezza professionale gli consentirà allora di influire efficacemente sulla produzione di beni relazionali tra tutti gli altri magistrati impostando e favorendo lo sviluppo di un confronto positivo circa i problemi giuridici che l’ufficio deve affrontare. E la sua autorevolezza e storia personale come giudice darà a tutti la corretta percezione che vengono contemporaneamente garantite sia l’autonomia del singolo, sia un sano confronto e, nei limiti del possibile, coordinamento delle decisioni. Così il dirigente potrà attivare tra i magistrati il necessario clima di scambio e fiducia professionale che incrementerà la loro soddisfazione tecnico-giuridica (tipico bene relazionale) ed agevolerà la soluzione dei conflitti interpretativi; ciò tanto meglio quanto più il tipo di lavoro (il “prodotto” dell’ufficio) deve essere giuridicamente qualificato ed elevato. Questo spiega la particolare sottolineatura che se ne fa per gli uffici di legittimità.

L’impostazione fin qui rappresentata consente però di comprendere perché neppure in Cassazione (e tanto meno negli uffici di merito) si dovrebbe nominare presidente di sezione (o del tribunale e così via) un bravissimo giurista che fosse però incapace di gestire bene il confronto in Camera di Consiglio. Può invece spiegare perché proprio un adeguato confronto in quella sede ed un corretto clima in tutti i rapporti della sezione tenda ad innalzare il livello qualitativo (e persino quello quantitativo) delle sentenze, anche in Cassazione. Tanto che un magistrato capace di favorire in alto grado il confronto e l’approfondimento giuridico collegiale, certamente per la sua preparazione, ma anche per la sua disponibilità al dialogo e per la sua capacità a stimolarlo e coordinarlo con gli altri, potrebbe risultare più adatto e meritevole di uno bravissimo nello studio, ma incapace di confrontarsi con gli altri e stimolare il confronto tra tutti.

10. Ancora: si sottolinea, ormai da tempo e giustamente, che il dirigente deve saper essere un bravo organizzatore, e ciò è evidente, ma in realtà fino allo svolgimento del primo incarico, nessuno gli avrà mai chiesto prima, seriamente, di sperimentarsi nelle capacità organizzative e di prepararsi culturalmente e tecnicamente in queste. Non si è specificamente preparato nel comprendere le esigenze lavorative dei colleghi e collaboratori e nel sapersi far comprendere da loro per raggiungere obiettivi comuni. In conseguenza nessuno può avere a disposizione seri elementi di verifica di queste fondamentali qualità. C’entra solo in minima parte la capacità di aver saputo organizzare il proprio lavoro personale e d’altra parte le vere capacità dirigenziali vanno esercitate in modo profondamente diverso rispetto alle capacità solo in parte analoghe di un semi-direttivo. Come evitare allora di scegliere un dirigente che diventerà solo un burocrate, esperto del sistema tabellare, capace di scrivere progetti teoricamente perfetti, ma incapace di farli apprezzare, fare propri e realizzare dagli altri magistrati? Si potrà verificare quanto è stato fino a quel momento capace di utilizzare il suo impegno organizzativo – personale o da semidirettivo – per realizzare moduli di lavoro utili per far crescere la positività degli scambi tra i magistrati, i collaboratori e gli utenti. In sostanza se è capace di far aumentare la positività degli scambi relazionali tra tutti i soggetti coinvolti nel lavoro e nel servizio di un ufficio giudiziario.

11. Si pensa inoltre – anche se non sempre lo si dice chiaramente – che il dirigente debba avere capacità di collegamento e rappresentanza verso l’esterno, ma sostanzialmente mai nessuno ha spiegato davvero come si possano esercitare tali collegamenti ed a quali fini debbano essere esercitati. D’altra parte la massima preoccupazione nella esperienza professionale di un magistrato, finché non diventa dirigente,  è sempre (giustamente) quella di garantire l’indipendenza e l’autonomia della propria professionalità, fino al rischio però di coltivare forme di isolamento quasi pericolose. Improvvisamente si deve però diventare capaci di mantenere corretti e proficui rapporti con istituzioni diverse, con soggetti politici ed anche con enti capaci di finanziare e sostenere attività, ma ovviamente sempre senza rischiare nulla quanto ad indipendenza. Anche per questo, anzi prima di tutto in questo ambito, l’attenzione agli scambi di beni relazionali tra i vari soggetti, sia interni all’organizzazione giudiziaria, sia esterni, diviene essenziale e può risultare uno strumento ed un’ottica di lavoro veramente importante per realizzare un salto di qualità nell’efficacia del lavoro giudiziario, pur rimanendo nell’assoluta autonomia della giurisdizione. Anzi si può tutelare al meglio l’autonomia, pur nell’implementazione delle relazioni, proprio se si acquisisce piena consapevolezza dell’esistenza ed utilità dei beni relazionali perché le relazioni risultano migliori proprio quando si parte dalla consapevolezza della distinzione, ma non separatezza dei vari soggetti istituzionali [3].

12. Il sistema tabellare risulta legislativamente costruito – ancora una volta per molti versi giustamente e inevitabilmente – in modo molto accentrato nel CSM e risulta inoltre, nonostante le più recenti positive evoluzioni al riguardo, sostanzialmente preoccupato in modo prevalente della difesa dell’autonomia del singolo magistrato. In conseguenza il meccanismo dei concorsi per la mobilità interna all’ufficio appare preoccupato soprattutto del riconoscimento dei titoli pregressi del singolo, per garantire la non arbitrarietà delle scelte, perché questa potrebbe influire sull’indipendenza del magistrato, ma si chiede poi al dirigente di preparare e realizzare un progetto organizzativo come se fosse un vero manager che invece, come noto, fa i suoi progetti pensando ai risultati produttivi complessivi e non certo all’autonomia dei collaboratori. Anche in questo aspetto allora, la soluzione può venire solo dalla capacità del dirigente di saper pensare e proporre ai colleghi strutture operative e organizzazioni di sezioni e gruppi di lavoro basati su una alta soddisfazione personale dei singoli collegata alla produzione e scambio di beni relazionali (ad esempio per le soddisfazioni professionali che se ne possono ricavare nel lavorare con certi colleghi e in un certo modo invece di un altro; e poi per una migliore organizzazione dei contatti con l’esterno; e per l’impegno di tutti a collaborare al bene comune costituito dal funzionamento dell’ufficio). Solo queste prospettive possono far sperare di smuovere tanti piccoli egoismi e consolidate “nicchie ecologiche”. Ma anche saper diffondere un senso di rispetto per il lavoro e per le scelte del singolo magistrato – che rappresenta un tipico bene relazionale – può contribuire non poco a costruire un processo per la formazione delle “tabelle” dell’ufficio che risolva e non incrementi i conflitti e gli egoismi, oltre a rispondere correttamente alle esigenze del servizio.

Ma anche la capacità di saper convocare riunioni efficaci, di saperle preparare con adeguati incontri preliminari e poi di saperle dirigere in modo che producano risultati concreti e non solo sterili dibattiti risulta non tanto una tecnica, ma una efficace forma di produzione di beni relazionali che sola può raggiungere l’obbiettivo.

13. Ancora e per finire, è necessario sottolineare che dote essenziale del dirigente-leader che voglia sviluppare i beni relazionali sarà il non egocentrismo (che purtroppo sembra invece caratterizzare fin troppi dei dirigenti, anche tra i più “moderni”); quindi saper essere e sentirsi un vero magistrato prima e più che un dirigente e per questo “saper essere” il primo difensore dell’autonomia della giurisdizione. Questo non è solo un dovere istituzionale per la magistratura, ma contemporaneamente uno dei fattori fondamentali per aumentare la soddisfazione dei magistrati e la loro sicurezza che impegnarsi nel confronto e perciò nella circolazione di beni relazionali, non mette in pericolo la loro funzione, ma anzi la potenzia e così migliora non solo la qualità del servizio complessivo dell’ufficio, ma anche quella del singolo. Mentre proprio questa attenzione e capacità di indipendenza sostanziale consentirà al dirigente di svolgere, con la fiducia di tutti i magistrati dell’ufficio, i compiti di collegamento con gli altri uffici e con le altre realtà sociali ed istituzionali del territorio di cui si è già parlato.

14. Vale la pena infine di verificare, con qualche riflessione specifica, se e come il criterio proposto aiuta a superare i rischi del dirigente “burocrate o delatore” quando egli deve svolgere funzioni e compiti che, pur non qualificandoli con gli spiacevoli aggettivi scelti dal titolo, certamente non possono essere trascurati e che non possono essere rimossi, perché si negherebbe una parte della realtà. Si tratta di compiti e doveri che il dirigente effettivamente ha, ma deve saper svolgere in modo non burocratico o peggio, ma da leader responsabile.

Va allora detto che, per aiutare e far crescere le relazioni positive e la capacità di collaborazione e confronto fra i magistrati (i fondamentali beni relazionali) è anche essenziale che tutti possano sentirsi sicuri del livello di comunicazione di tutte le informazioni all’interno dell’ufficio e del rispetto delle regole di comportamento che ci si è dati (ad esempio per la divisione dei carichi di lavoro). Questo significa, tra l’altro, che il dirigente deve saper essere un buon “burocrate”, nel senso di garantire tutti al meglio circa il rispetto delle regole di comunicazione, di comportamento e di rispetto reciproco. In una buona situazione di condiviso e garantito rispetto per il lavoro quantitativo e qualitativo di tutti, diverrà probabilmente facile ottenere che si accettino in certi casi delle sane eccezioni, collegate a circostanze concrete che le giustificano e richiedono ed è anzi probabile che tutti collaborino al meglio. Perché un bravo dirigente-leader deve sapersi prendere la responsabilità di fare delle eccezioni. Queste risulteranno però comprese ed accettate ed insomma condivise solo in presenza di un corretto e normale funzionamento “burocratico” dell’ufficio. Purtroppo vi sono però spinte ad essere burocrate nel senso peggiore quando dall’alto (ad es. dal CSM) o dal basso (ad esempio da alcuni magistrati) si richiede il rigido rispetto della lettera della norma tabellare e delle regole che ci si è dati. Ciò può finire per uccidere lo spirito del sistema e trasformare il sano rigore, che deve normalmente caratterizzarlo, in una esasperante rigidità, che non giova a nessuno ed anzi ostacola il lavoro di tutti.

In ciò grande è la responsabilità non solo del dirigente, che deve saper meritare la fiducia di tutti quando chiede loro elasticità nell’impegno, ma anche quella di tutti e ciascuno perché altrimenti è facilissimo, specialmente nei grandi uffici, che si finisca per trincerarsi dietro i comodi alibi che le regole interpretate rigidamente sempre consentono.

A volte purtroppo vi sono magistrati che rischiano di apparire disinteressati rispetto al mondo che li circonda, estremamente individualisti ed incapaci di gioco di squadra. Sembrano, come dicono gli studiosi inglesi di queste materie, short‑sighted, cioè miopi, nella capacità di cogliere la complessità della domanda di giustizia che si deve fronteggiare in quel certo territorio e così presi dal loro lavoro come singoli da non comprendere come questo potrebbe migliorare nel rapporto con gli altri (spesso sono questi i più anziani ed esperti, ma non solo).

Altri magistrati invece possono risultare incapaci di gioco di squadra perché long‑sighted, cioè presbiti, (spesso i più giovani) perché, piuttosto presuntuosamente, pensano di saper vedere lontano nelle esigenze della giustizia e finiscono per disprezzare il valore dell’esperienza dei più anziani ed il bene che viene al lavoro di tutti dal confronto e dal coordinamento, basati su un sano accantonamento delle ideologie.

Al contrario risulta interessante e molto valida la posizione dei magistrati che magari si pensano come di “serie B”, ma proprio per questo, per la loro umiltà (come ricordava a tutti il presidente Napolitano) spesso sono invece i veri magistrati di “serie A”, per la loro capacità di ascolto e di studio e perfezionamento attraverso il confronto e per la loro conseguente disponibilità ad impegnarsi nella corresponsabilizzazione.

In questa sede interessa solo sottolineare che nessun dirigente, per quanto bravo possa essere, avrà speranze concrete di raggiungere alcun traguardo se non sarà inserito in un gruppo di magistrati responsabili. Certo ciò dipenderà molto dalla sua capacità nell’essere centro di produzione dei beni relazionali di cui abbiamo finora tanto parlato e nel farsi perciò sostenere, ma nulla sarà possibile se i colleghi non vorranno farsi coinvolgere e non accetteranno di divenire corresponsabili del progetto e dell’impegno.

15. Rimane da riflettere su come si debba comportare di fronte ai suoi nuovi obblighi di legge in relazione a situazioni che potrebbero risultare disciplinarmente rilevanti un dirigente che voglia essere leader responsabile del suo ufficio. La prima affermazione che credo vada fatta, alla luce di quanto finora detto, è che una segnalazione disciplinare può (e forse deve) essere fatta da un dirigente-leader responsabile quando essa appaia necessaria per proteggere ed aumentare i beni relazionali che si “producono” nell’ufficio. Per intendersi con un esempio facile si può pensare al caso di un magistrato che disattenda regolarmente i suoi doveri di collaborazione nei confronti dei colleghi o li faccia oggetto di denigrazione di fronte al foro o casi analoghi. In questi casi, qualora in ipotesi si superino i limiti di ciò che può essere recuperato con interventi e rapporti personali, il dirigente non assume la figura del delatore, ma di colui che vigila per essere garante del rispetto delle regole e degli impegni che devono essere comuni e tendenzialmente rispettati per ottenere il giusto clima di fiducia e lo sviluppo di alte ed efficaci relazioni professionali ed umane. In alcuni casi si deve saper essere difensori adeguati rispetto alle aggressioni di alcuni (chi non lavora abbastanza, pur potendo, e anche chi lavora decisamente male, assume la condotta del cittadino che non paga le tasse e finisce così per sottrarre agli altri quanto da lui dovuto). In ogni caso, però, il dirigente nel prendere una decisione del genere non potrà mai essere mosso dal suo personale interesse a non assumersi responsabilità e cercare di vivere più tranquillamente. In questo caso risulterebbe non leader responsabile, ma burocrate nel peggiore dei sensi e davvero solo delatore. È invece evidente che prima di qualsiasi segnalazione, salvi casi veramente gravi o già risalenti nel tempo e come tali senza più margini di rinvio, vi sono normalmente ampie possibilità per intervenire allo scopo di far rimuovere situazioni criticabili o superare momenti di crisi nei rapporti tra magistrati o tra questi ed i collaboratori e ristabilire equilibri positivi all’interno dell’ufficio. Qualcuno potrebbe dubitare che si tratti di materia sottratta al vaglio del dirigente, perché si potrebbe sostenere che non può comunque spettare a lui la qualificazione o l’esclusione di un fatto come illecito disciplinare, ma solo ai titolari dell’azione. Personalmente ritengo che ciò sia vero solo di fronte a condotte chiaramente ed indiscutibilmente riconducibili ai casi previsti di illecito disciplinare, mentre per tutte le possibili condotte che si collocano nell’inevitabilmente ampia zona grigia che circonda quella degli illeciti chiaramente codificati si deve riconoscere al dirigente la responsabilità di poter prevenire e risolvere le problematiche non solo nel senso ristretto di questi termini, ma anche nel senso di poter rapidamente intervenire per far cessare comportamenti discutibili e far invece rinnovare il clima migliore dell’ufficio, di nuovo puntando sullo sviluppo massimo possibile e quindi anche sul recupero dei migliori beni relazionali possibili.

16. In conclusione, spero che dal complesso delle riflessioni che precedono emerga una nuova, possibile, a mio avviso importante, chiave interpretativa di tutti i doveri e poteri del dirigente di un ufficio giudiziario. Potrebbe essere l’avvio di una strada che può portare alla costruzione di una figura di vero leader responsabile capace di aiutare la ricerca di un profilo organico del dirigente dalla quale siamo partiti. Mi appare una prospettiva davvero interessante per chiunque voglia fare il dirigente, ma va ribadito che comporta anche e fortemente la responsabilizzazione di tutti e ciascuno dei magistrati, poiché non è possibile auspicare un tale alto livello di risultato basandosi sull’impegno di una sola persona. Si deve invece puntare ad una percezione decisamente nuova anche del lavoro e dell’impegno del singolo magistrato, semplicemente perché non è pensabile immaginare di ottenere tutti i vantaggi e le garanzie per il lavoro del singolo senza comprendere che ciò non può non basarsi sullo sviluppo del funzionamento complessivo del sistema e perciò sulla corresponsabilità di tutti. Si tratta di divenire tutti, naturalmente a cominciare dai dirigenti, molto più consapevoli che solo l’innesto del lavoro personale su un sistema positivo nel suo insieme può dare vere soddisfazioni e tutele personali. Dobbiamo saper riscoprire il senso ed il valore profondo che il concetto di bene comune, da troppo tempo dimenticato o persino negato, può avere per il bene di ciascuno.


[1] Interessante al riguardo, per una visione generale, ma seria su questo argomento, può risultare la lettura di “Complessità relazionale e comportamento economico” a cura degli economisti Pier Luigi Sacco e Stefano Zamagni, ed. il Mulino 2002 (nel quale vi sono anche tutti i riferimenti ai corrispondenti studi stranieri, tra i quali vale la pena di ricordare quello di Amartya Sen, premio Nobel per l’economia del 1998).

[2] È interessante sottolineare che, dal punto di vista della scienza economica e di questo discorso, rappresenta già una produzione il trasferimento di beni o servizi da un settore ad un altro della stessa impresa. Nel nostro ambito perciò risultano “consumatori” di beni relazionali ad esempio i magistrati ed il personale dell’ufficio GIP rispetto ai “produttori” magistrati della Procura ed al personale della sua segreteria  e così via tra ufficio GIP e settore del dibattimento ed ancora tra il Tribunale e la Corte d’Appello e tra questa e la Corte di Cassazione. In tutti questi flussi di procedimenti si producono infatti inevitabilmente e contemporaneamente beni relazionali, con effetti positivi oppure, spesso purtroppo, con effetti negativi.

[3] Vale la pena di ricordare ciò che ha detto al riguardo Vittorio Bachelet (il vicepresidente del CSM purtroppo barbaramente assassinato dalle brigate rosse): “Di autonomia e di collegamento ha bisogno oggi, come ieri e forse più di ieri, l’ordine giudiziario. Una autonomia che garantisca sempre meglio la indipendenza e quindi la imparzialità dei giudici, tanto più necessaria in una fase di così rapida e profonda trasformazione della società e degli ordinamenti giuridici, nel cui travaglio la Magistratura non vuole essere un corpo separato ma neppure un legno alla deriva; un collegamento con la società e con le altre istituzioni dello Stato che consenta all’ordine giudiziario di rispondere meglio alla antica e nuova domanda di giustizia, ma anche di ottenere quegli strumenti – il cui apprestamento appartiene alla responsabilità di altri poteri dello Stato – che sono indispensabili per il funzionamento e la tempestività della amministrazione della giustizia: dai necessari interventi legislativi in tema di ordinamento giudiziario e di disciplina processuale, alle norme di status e alle misure necessarie per assicurare ai magistrati quell’assetto economico che garantisca la loro posizione costituzionale, alla predisposizione delle indispensabili strutture edilizie e tecniche, alla congruità del personale di cancelleria e ausiliario, alla possibilità di una efficiente utilizzazione della polizia giudiziaria, alla tutela della sicurezza del personale e degli uffici giudiziari, alla funzionalità dei servizi sociali in campo minorile, nel settore della tossicodipendenza, e in quello penitenziario e postpenitenziario”.

Scarica il pdf

Il Consiglio Superiore della Magistratura, nella seduta di oggi, ha approvato la delibera della VI Commissione (relatore Cons. MOROSINI), condivisa sin dalla fase preparatoria anche con la VII Commissione (presieduta dal Cons. ARDITURO), relativa a “disposizioni in materia di organizzazione degli uffici giudiziari e di Giustizia, nell’ambito del procedimento di conversione in legge del decreto 27 giugno 2015, n.83”. E’ importante sottolineare i punti fondamentali della risoluzione (qui allegata), che qualora accolti dal Legislatore, potranno avere risvolti positivi immediati sull’organizzazione e sul funzionamento degli uffici giudiziari. Nella risoluzione ci sono pure alcuni passaggi relativi a nuove proposte per l’accesso in magistratura. Si tratta di una risposta agli effetti negativi dell’attuale assetto normativo che ha dato vita ad un concorso sostanzialmente di II grado che penalizza gli aspiranti provenienti dai ceti meno abbienti. In plenum sul punto si è registrato un vivace dibattito dopo la presentazione da parte dei laici di centro-sinistra di un emendamento soppressivo della parte di delibera relativa alla proposta di riassetto del quadro normativo sui presupposti per la partecipazione al concorso. Quell’emendamento è stato bocciato a maggioranza, con i voti della componente togata del Consiglio.

PIANO STRAORDINARIO DI APPLICAZIONI EXTRADISTRETTUALI PER PROCEDIMENTI CONNESSI A IMMIGRAZIONE

Si sollecita un intervento normativo per l’introduzione di una norma che consenta applicazioni straordinarie di magistrati nelle realtà giudiziarie che devono fronteggiare l’emergenza connessa ai procedimenti di riconoscimento dello status di persona internazionalmente protetta e altri procedimenti giudiziari connessi al fenomeno della immigrazione. Le criticità del sistema di accoglienza dei tanti migranti in arrivo aumentano a dismisura quando sono ritardati i passaggi giudiziari connessi. Gli effetti sono sotto gli occhi tutti in termini non solo di costi per lo Stato e di interessi del crimine organizzato (v. inchiesta Mafia Capitale) ma soprattutto di condizioni di vita delle persone a causa del sovraffollamentodelle strutture di accoglienza.

Nella prospettiva di ricerca delle soluzioni che possano fronteggiare le situazioni più critiche, il CSM prevede la possibilità di predisporre un piano straordinario di applicazioni extradistrettuali, fino a un massimo di venti unità, previa ricognizione degli uffici maggiormente interessati e stabilendo “secondo criteri di urgenza le modalità per la procedura di interpello e la sua definizione”. L’applicazione potrà avere una durata di diciotto mesi, rinnovabile per un periodo non superiore ai 6 mesi, e al fine di incentivare le disponibilità si prevede un punteggio di anzianità aggiunto nelle procedure di trasferimento che riguardano per i magistrati
impegnati.

EFFICIENZA E DECENTRAMENTO – L’emendamento n.3, proposto nella delibera, punta a rendere più spedito ed efficiente il corso della giustizia penale e civile e dell’attività di autogoverno della magistratura. In primo luogo attraverso uno stretto raccordo e un’integrazione tra il programma per la gestione dei procedimenti pendenti che i capi degli uffici redigono ogni anno, ai sensi dell’art. 37 D.L. n.98/2011, e il documento organizzativo predisposto con cadenza triennale, in occasione della formulazione del progetto tabellare. Il capo dell’ufficio giudiziario in questo modo avrà la possibilità di determinare gli obiettivi di riduzione della durata dei procedimenti in un orizzonte temporale più ampio rispetto a quello contemplato dalla norma attualmente in vigore e parametrato al periodo di vigenza del progetto tabellare. Nello stesso emendamento sono contenute disposizioni volte a rendere più tempestiva la redazione dei pareri relativi alle procedure di valutazione comparativa per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi. Infine nell’ ottica dell’ “autogoverno di prossimità” e del decentramento, nell’emendamento in oggetto è prevista una “norma di copertura” per il Consiglio Superiore della Magistratura rispetto alla formulazione di atti di indirizzo con cui può delegare ai Consigli Giudiziari l’autorizzazione per lo svolgimento di incarichi di insegnamento per poche ore.

CADE L’ULTIMO DIVIETO PER MAGISTRATI DI PRIMA NOMINA L’emendamento n.4 affronta il tema del divieto di impiego dei magistrati ordinari in prima nomina nelle funzioni monocratiche penali, prevista dall’art.13 del decreto legislativo 160/2006. Un divieto rivelatosi irrazionale a livello ordinamentale e foriero di notevoli disfunzioni organizzative; soprattutto negli uffici di piccole dimensioni nelle sedi disagiate e con complesse composizioni tabellari con forte presenza di giovani magistrati. In buona parte quel divieto è stato eroso dall’intervento del legislatore del 2009 sulle funzioni di pubblico ministero. Ma l’irrazionalità della norma permane. Soprattutto per il divieto di funzioni monocratiche nel dibattimento penale proveniente da udienza preliminare, spesso esercitate da giudici onorari e negate a giudici professionali ancorchè di prima nomina.
Ma certamente andrebbe rivisto anche con riguardo alle ricadute sulle funzioni di giudice delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare.
La proposta del Consiglio in questo caso prevede l’abrogazione dell’art.13 del decreto legislativo 5, ma vengono suggerite anche soluzioni alternative che distinguono le funzioni di giudice monocratico del dibattimento penale da quelle di giudice delle indagini preliminari e della udienza preliminare.
In altri termini, è una proposta che guarda alla efficienza organizzativa dei nostri uffici, e quindi alla durata ragionevole dei processi, senza intaccare giuste istanze di formazione progressiva di magistrati alle prime esperienze.

UTILIZZABILI LE DICHIARAZIONI GIA’ ACQUISITE ANCHE SE CAMBIA IL GIUDICE – L’emendamento n.5 si propone di rendere utilizzabili nell’ambito dei processi penali le prove dichiarative già rese nel corso del dibattimento, in caso di mutamento della persona del giudice monocratico o della composizione del giudice collegiale. Attraverso la modifica proposta all’art.511 del c.p.p., sarà il giudice a disporre che le dichiarazioni siano rinnovate soltanto se ne ravvisi l’esigenza o qualora riguardino fatti e circostanze diverse da quelle oggetto delle precedenti. Viene così superata una soluzione di matrice giurisprudenziale che ha determinato notevoli disfunzioni soprattutto nelle realtà di “frontiera” connotate da un frequente turn over del magistrati senza un effettivo incremento delle garanzie dell’imputato (il riesame dei testi quasi sempre si riduce ad un pigro “confermo quanto già dichiarato”, dopo una laboriosa attività di nuova citazione dei testi o delle persone di cui all’art.210 c.p.p.).

In questo modo si opta per una soluzione che bilancia gli interessi alla durata ragionevole del processo e al contraddittorio nella formazione della prova con l’interesse all’immediatezza, ponendo un rimedio alla spesso laboriosa e faticosa attività di citazione dei testimoni già escussi. E’ una proposta che mira, tra l’altro, a contrastare forme di “abuso del processo” che mirano alla prescrizione del reato.

Scarica il pdf

di Marco Pietricola

Com’è noto, il concorso per l’accesso alla magistratura ordinaria si atteggia da alcuni anni, e precisamente dalla data di entrata in vigore della Legge n. 111/2007, che ha modificato il Decreto Legislativo n. 160/2006, alla stregua di un cd. “concorso pubblico di secondo grado” essendo necessario, oltre al conseguimento della “classica” laurea in giurisprudenza (e salvo il possesso di altri requisiti afferenti, in particolare ma non solo, il pieno godimento dei diritti civili nonché l’incensurabilità della propria condotta),  anche il possesso dei requisiti indicati analiticamente dal disposto dell’articolo 2 del predetto Decreto Legislativo n. 160/2006, ossia, tenuto conto che ai fini dell’anzianità minima di servizio necessaria per l’ammissione non sono cumulabili le anzianità maturate in più categorie fra quelle previste e di seguito specificate, al concorso per esami per l’accesso alla magistratura ordinaria sono ammessi: a) i magistrati amministrativi e contabili; b) i procuratori dello Stato che non sono incorsi in sanzioni disciplinari; c) i dipendenti dello Stato, con qualifica dirigenziale o appartenenti ad una delle posizioni dell’area C prevista dal vigente contratto collettivo nazionale di lavoro-comparto Ministeri, con almeno cinque anni di anzianità nella qualifica e che abbiano costituito il rapporto di lavoro a seguito di concorso per il quale era richiesto il possesso del diploma di laurea in giurisprudenza conseguito, salvo che non si tratti di seconda laurea, al termine di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni e che non sono incorsi in sanzioni disciplinari; d) gli appartenenti al personale universitario di ruolo docente in materie giuridiche in possesso del diploma di laurea in giurisprudenza che non sono incorsi in sanzioni disciplinari; e) i dipendenti, con qualifica dirigenziale o appartenenti alla ex area direttiva, della pubblica amministrazione, degli enti pubblici a carattere nazionale e degli enti locali, che abbiano costituito il rapporto di lavoro a seguito di concorso per il quale era richiesto il possesso del diploma di laurea in giurisprudenza conseguito, salvo che non si tratti di seconda laurea, al termine di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni, con almeno cinque anni di anzianità nella qualifica o, comunque, nelle predette carriere e che non sono incorsi in sanzioni disciplinari; f) gli abilitati all’esercizio della professione forense e, se iscritti all’albo degli avvocati, non incorsi in sanzioni disciplinari (si noti che per abilitati all’esercizio della professione forense debbono intendersi coloro che hanno superato gli orali dell’esame di avvocato mentre non è necessaria l’iscrizione al relativo albo professionale; viceversa, sono esclusi i semplici abilitati al patrocinio, dopo un anno di pratica forense); g) coloro i quali hanno svolto le funzioni di magistrato onorario (ossia, giudice di pace, giudice onorario di tribunale, vice procuratore onorario, giudice onorario aggregato) per almeno sei anni senza demerito, senza essere stati revocati e senza essere incorsi in sanzioni disciplinari; h) i laureati in possesso del diploma di laurea in giurisprudenza conseguito, salvo che non si tratti di seconda laurea, al termine di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni e del diploma conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali previste dall’articolo 16 del Decreto Legislativo n. 398/1997 s.m.i.; i) i laureati che hanno conseguito la laurea in giurisprudenza al termine di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni, salvo che non si tratti di seconda laurea, ed hanno conseguito il dottorato di ricerca in materie giuridiche; l) i laureati che hanno conseguito la laurea in giurisprudenza a seguito di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni, salvo che non si tratti di seconda laurea, ed hanno conseguito il diploma di specializzazione in una disciplina giuridica al termine di un corso di studi della durata non inferiore a due anni presso le scuole di specializzazione di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 162/1982 s.m.i.; m) i laureati che hanno conseguito la laurea in giurisprudenza a seguito di un corso universitario di durata almeno quadriennale e che hanno concluso positivamente lo stage presso gli uffici giudiziari o hanno svolto il tirocinio professionale per diciotto mesi presso l’Avvocatura dello Stato ai sensi dell’art. 73 del Decreto Legge n. 69/2013 nel testo vigente a seguito dell’entrata in vigore del Decreto Legge n. 90/2014 convertito con Legge n. 114/2014.

E’ evidente, dunque, come l’accesso alla magistratura ordinaria sia oggi consentito, salvo il possesso degli ulteriori requisiti di legge di cui sopra si è detto e salvo ovviamente il superamento delle relative prove concorsuali,  solo a coloro che, oltre ad aver completato un determinato percorso di studi universitari, abbiano maturato altresì una significativa esperienza post laureamprofessionalizzante ovvero professionale in senso proprio, e ciò nel chiaro intento, fatto proprio evidentemente dal legislatore della detta riforma normativa,  di assicurare una più attenta selezione dei candidati e degli aspiranti all’accesso alla carriera di magistrato ordinario nella prospettiva, conseguentemente ed in ultima istanza, di innalzare la qualità del servizio-giustizia, per così dire, fornito ai consociati.

Questi apparendo in sostanza il contenuto e la ratio della riforma delle disposizioni legislative e regolamentari concernenti l’accesso alla magistratura ordinaria, occorre allora chiedersi se tutto ciò non si traduca altresì nell’opportunità e, per certi aspetti, nella necessità di assicurare anche, sempre a livello normativo, il riconoscimento – sia in termini di carriera che da un punto di vista economico – di siffatta maggiore specializzazione e professionalizzazione dei “vincitori” del relativo concorso pubblico.

Ebbene, una prima risposta parrebbe pervenire dalla lettura dell’articolo 4, comma 2, della Legge n. 425/1984 s.m.i., in base al quale: “I periodi di servizio e di attività professionale, richiesti dai rispettivi ordinamenti per l’accesso alle carriere di magistratura e di avvocatura dello Stato, sono riconosciuti, in favore dei magistrati e degli avvocati dello Stato nominati a seguito di pubblico concorso, nella misura fissa di cinque anni e sono valutati attribuendo un beneficio del 3 per cento per ciascun anno, da calcolare sullo stipendio o livello retributivo iniziali dell’attuale carriera di appartenenza”.

Trattasi all’evidenza di una norma che riconosce una cd. “anzianità convenzionale” di cinque anni in favore di tutti coloro che per l’accesso nei rispettivi ruoli di appartenenza del personale di magistratura hanno appunto sostenuto e superato un cd. “concorso pubblico di secondo grado” ossia un concorso pubblico per l’accesso al quale, come già evidenziato in precedenza, è necessario, oltre al conseguimento di un determinato titolo di studio (in genere, di carattere universitario), anche il possesso e la maturazione di una data pregressa attività in senso lato professionalizzante.

Inoltre, in base alla prevalente giurisprudenza amministrativa, tale cd. “anzianità convenzionale” rileva esclusivamente da un punto di vista e sotto un profilo di carattere economico-retributivo e non rispetto ad aspetti di natura giuridica ovvero afferenti alle relative e rispettive progressioni di carriera e, soprattutto, non si atteggia alla stregua di un istituto giuridico illogico ed irrazionale rispondendo anzi pienamente, a ben vedere, ai principi di rilevanza costituzionale ed europea di uguaglianza e ragionevolezza (in questo senso, fra le altre, cfr.: Cons. Stato, n. 1636/2003; T.A.R. Lazio – Roma, n. 8243/2011 e T.A.R. Sicilia – Catania, n. 574/2011).

In particolare, è stato ritenuto che “La scelta legislativa di applicare parametri stipendiali differenti al personale di magistratura che ha avuto accesso nei ruoli con un concorso di secondo grado, escludendo dal beneficio coloro che invece hanno avuto accesso ai propri ruoli con un concorso di primo grado, seppure produce le opinabili conseguenze pratiche evidenziate dai ricorrenti (e cioè che a parità di lavoro e di funzioni si possa avere diritto ad una remunerazione inferiore), non si presenta illogica ed irrazionale. Chi è stato assunto in servizio a seguito di un concorso di primo grado ha infatti goduto del vantaggio di potervi partecipare prescindendo dal possesso di altri titoli di studio, professionali o didattici, che, se richiesti, avrebbero potuto precluderne la partecipazione, ove non posseduti; e la evidente diversa situazione di partenza tra i magistrati fin qui considerati giustifica, sul piano logico (oltre che dei principi costituzionali e comunitari), le scelte normative prima richiamate, salva la possibilità di possibili ripensamenti da parte del legislatore nella sede sua propria, ossia “de iure condendo”(così, nello specifico, cfr.: T.A.R. Sicilia – Catania, n. 574/2011, poc’anzi già ricordata).   

Il Consiglio di Stato, inoltre, ha espressamente affermato che “Le agevolazioni o i benefici di qualsiasi specie, come i riconoscimenti di anzianità convenzionali, in quanto di carattere derogatorio, costituiscono il frutto di scelte discrezionali dell’Autorità regolatrice, con la conseguenza che, in via di principio, non può pretendersene l’estensione ad altre situazioni non espressamente previste”  (in tal senso, cfr.: Cons. Stato, n. 1264/2003).    

Questo essendo il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, occorre allora domandarsi se, tutto ciò premesso e considerato, non debba concludersi per il riconoscimento dei benefici derivanti dalla cd. “anzianità convenzionale” anche in favore di coloro che abbiano avuto accesso alla magistratura ordinaria a seguito del superamento del relativo concorso pubblico così come rimodulato ad opera della normativa sopra richiamata ossia, come già detto, così come rimodulato e ridisegnato a seguito dell’entrata in vigore della Legge n. 111/2007 di modifica del Decreto Legislativo n. 160/2006 (cd. “Riforma Mastella”).

Orbene, si è in precedenza utilizzato il condizionale, laddove si è parlato del fatto che una prima risposta all’interrogativo posto in questa sede all’attenzione dell’interprete e del lettore parrebbe pervenire dalla lettura dell’articolo 4, comma 2, della Legge n. 425/1984 s.m.i., in quanto, in realtà, una recente pronuncia dei giudici amministrativi (e cioè T.A.R. Sicilia – Catania, n. 25/2014, una delle poche pronunce, per quanto consta, allo stato rese nella materia de qua, evidentemente ancora in fase evolutiva) ha sì riconosciuto il diritto a beneficiare della cd. “anzianità convenzionale” in questione in favore di coloro che hanno avuto accesso alla magistratura ordinaria a seguito del superamento del relativo e “nuovo” concorso pubblico (ossia, quello delineato come un cd. “concorso pubblico di secondo grado” dalla più volte ricordata riforma legislativa de qua), e tuttavia ciò ha fatto individuando precisi e rigorosi limiti applicativi.

Per comodità espositiva e per la relativa chiarezza ed efficacia argomentativa, si ritiene opportuno, al riguardo, riportare integralmente i tratti salienti della suddetta pronuncia: “Tale analisi deve essere necessariamente condotta attraverso l’esegesi del dato normativo contenuto nell’art. 4, comma 2, della Legge n. 425/1984 che fa espresso riferimento ai “periodi di SERVIZIO e di ATTIVITÀ PROFESSIONALE richiesti dai rispettivi ordinamenti per l’accesso alle carriere di magistratura …”. In altre parole, il riconoscimento dell’estensione del predetto beneficio economico deve passare attraverso la verifica dell’esistenza dei presupposti indicati dall’art. 4 citato (servizio e attività professionale) e non dalla semplice circostanza di aver sostenuto un “concorso di secondo grado”, trattandosi di un’espressione alquanto vasta e indefinita, priva, peraltro, di riferimenti normativi e di alcuna precisa connotazione giuridica. A tal fine, va osservato che il comma 1 dell’art. 2 del D.Lgs. 5 aprile 2006 n. 160, come sostituito dall’art. 1 della Legge 30 luglio 2007, n. 111, dispone che “Al concorso per esami, tenuto conto che ai fini dell’anzianità minima di servizio necessaria per l’ammissione non sono cumulabili le anzianità maturate in più categorie fra quelle previste, sono ammessi: a) i magistrati amministrativi e contabili; b) i procuratori dello Stato che non sono incorsi in sanzioni disciplinari; c) i dipendenti dello Stato, con qualifica dirigenziale o appartenenti ad una delle posizioni dell’area C prevista dal vigente contratto collettivo nazionale di lavoro-comparto Ministeri, con almeno cinque anni di anzianità nella qualifica, che abbiano costituito il rapporto di lavoro a seguito di concorso per il quale era richiesto il possesso del diploma di laurea in giurisprudenza conseguito, salvo che non si tratti di seconda laurea, al termine di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni e che non sono incorsi in sanzioni disciplinari; d) gli appartenenti al personale universitario di ruolo docente di materie giuridiche in possesso del diploma di laurea in giurisprudenza che non sono incorsi in sanzioni disciplinari; e) i dipendenti, con qualifica dirigenziale o appartenenti alla ex area direttiva, della pubblica amministrazione, degli enti pubblici a carattere nazionale e degli enti locali, che abbiano costituito il rapporto di lavoro a seguito di concorso per il quale era richiesto il possesso del diploma di laurea in giurisprudenza conseguito, salvo che non si tratti di seconda laurea, al termine di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni, con almeno cinque anni di anzianità nella qualifica o, comunque, nelle predette carriere e che non sono incorsi in sanzioni disciplinari; f) gli avvocati iscritti all’albo che non sono incorsi in sanzioni disciplinari; g) coloro i quali hanno svolto le funzioni di magistrato onorario per almeno sei anni senza demerito, senza essere stati revocati e che non sono incorsi in sanzioni disciplinari; h) i laureati in possesso del diploma di laurea in giurisprudenza conseguito, salvo che non si tratti di seconda laurea, al termine di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni e del diploma conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali previste dall’articolo 16 del Decreto Legislativo 17 novembre 1997, n. 398 e successive modificazioni; i) i laureati che hanno conseguito la laurea in giurisprudenza al termine di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni, salvo che non si tratti di seconda laurea, ed hanno conseguito il dottorato di ricerca in materie giuridiche; l) i laureati che hanno conseguito la laurea in giurisprudenza a seguito di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni, salvo che non si tratti di seconda laurea, ed hanno conseguito il diploma di specializzazione in una disciplina giuridica, al termine di un corso di studi della durata non inferiore a due anni presso le scuole di specializzazione di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 10 marzo 1982, n. 162”.Ora, mentre non sussistono dubbi circa la riconducibilità delle attività indicate alle lettere a), b), c), d), e), g) ai “periodi di servizio e di attività professionale” menzionati dall’art. 4, comma 2, della Legge n. 425/1984, non appaiono, invece, riconducili alla predetta norma le altre fattispecie e, in particolare, quelle sub h) e l), che presuppongono solo un’attività di studio e sono prive di alcun connotato che possa qualificare le rispettive attività in termini di “servizio” o di “attività professionale”.Tale ricostruzione appare, peraltro, aderente ai canoni ermeneutici fissati in più occasioni dalla Corte Costituzionale in relazione al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. – in base ai quali è dato riconoscere disparità di trattamento nei casi in cui situazioni del tutto assimilabili siano disciplinate con norme diverse, ovvero situazioni differenziate fra di loro siano assoggettate ingiustificatamente ad un’identica disciplina – stante l’evidente eterogeneità delle attività indicate dall’art. 2 del D.Lgs. n. 160/2006, non tutte assimilabili o esattamente sovrapponibili allo svolgimento di attività di servizio o professionale di cui all’art. 4, comma 2, della Legge n. 425/1984″  (in questo senso, testualmente, cfr.: T.A.R. Sicilia – Catania, n. 25/2014, poc’anzi già menzionata).

Ebbene, com’è agevolmente evincibile dalla lettura della pronuncia sopra riportata e qui in commento, il diritto a beneficiare della cd. “anzianità convenzionale” ovvero, come anche suole dirsi, il cd. “diritto all’equiparazione” (rispetto a tutti coloro che hanno avuto accesso alle carriere di magistratura e di avvocatura dello Stato a seguito del superamento di un cd. “concorso pubblico di secondo grado”), diritto appunto di natura esclusivamente economica e pari sostanzialmente ad un incremento retributivo del 15% dello stipendio d’ingresso distribuito lungo un arco temporale di cinque anni ossia un incremento retributivo pari al 3% per ciascun anno (per un ammontare mensile di circa 250/00 Euro al netto delle relative ritenute fiscali e previdenziali)  ex comma 2 dell’articolo 4 della detta Legge n. 425/1984 s.m.i., il diritto a beneficiare della cd. “anzianità convenzionale”, si diceva, è stato così riconosciuto esclusivamente in favore di coloro che hanno superato il concorso per l’accesso alla magistratura ordinaria e che possono vantare una pregressa esperienza professionale ovvero lavorativa (a mero titolo d’esempio: avvocati, funzionari pubblici, magistrati onorari, e via dicendo), mentre è stato negato a coloro che viceversa hanno avuto accesso alla magistratura ordinaria, previo superamento del relativo concorso pubblico, in forza di precedenti esperienze di studio post-universitario (ad esempio, laureati in possesso del relativo diploma rilasciato dalle competenti Scuole di Specializzazione per le Professioni Legali previste dall’articolo 16 del Decreto Legislativo n. 398/1997 s.m.i. e laureati in possesso del diploma di specializzazione in una disciplina giuridica conseguito al termine di un corso di studi della durata non inferiore a due anni svoltosi presso le Scuole di Specializzazione di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 162/1982 s.m.i.).

E’ lecito a questo punto chiedersi se effettivamente un simile orientamento dei giudici amministrativi sia pienamente rispettoso del principio costituzionale di uguaglianza e ragionevolezza (attesa l’equiparazione normativa che il legislatore ha effettuato tra tutti i vari titoli sopra ricordati per l’accesso alla magistratura ordinaria ed atteso altresì, ad esempio, il fatto che i laureati in possesso del relativo diploma rilasciato dalle competenti Scuole di Specializzazione per le Professioni Legali previste dall’articolo 16 del Decreto Legislativo n. 398/1997 s.m.i. possono essere delegati a svolgere le funzioni di pubblico ministero in sede dibattimentale davanti al Giudice di Pace nonché dinanzi al Tribunale in composizione monocratica, secondo quanto meglio previsto e precisato nelle dette disposizioni normative e nelle relative previsioni di ordinamento giudiziario, così potendo anch’essi in astratto maturare una pregressa e significativa esperienza professionale, oltre a progredire negli studi universitari e post-universitari, al pari degli altri soggetti oggi legittimati a partecipare al concorso pubblico per l’accesso alla magistratura ordinaria) e se, conseguentemente, sia da attendersi o meno un ripensamento legislativo e giurisprudenziale in materia ovvero se, piuttosto, tale opzione ermeneutica sia destinata viceversa a consolidarsi sulla base di un’interpretazione letterale delle disposizioni di cui all’articolo 4, comma 2, della Legge n. 425/1984 s.m.i. così come fatta propria anche dalla citata pronuncia del T.A.R. Sicilia – Catania, n. 25/2014 qui in commento.

E’ ancora presto per giungere ad una precisa conclusione in merito, atteso che si tratta, evidentemente, di materia in continua evoluzione e frutto di recenti interventi normativi.

Un dato, però, è certo: la questione qui in esame potrebbe avere ripercussioni anche in ordine al trattamento stipendiale di tutti coloro che hanno avuto accesso alla magistratura ordinaria in forza del superamento del relativo concorso pubblico così come strutturato prima della cd. “Riforma Mastella” alla luce del noto principio del cd. “riallineamento-riparametrazione” delle carriere retributive tra magistrati.

Trattasi, dunque, di questioni complesse e delicate, sulle quali non resta che attendere eventuali successivi sviluppi normativi e giurisprudenziali.

Isernia, lì 28.06.2015

Dott. Marco Pietricola     

Scarica il pdf

 Ferie dei magistrati: per tutti 30 giorni

Tar Lazio, sez. I Quater, sentenza 10 luglio 2015 (Pres. est. Orciuolo)

Periodo feriale dei magistrati – Riduzione per effetto del d.l. 12.9.2014 n. 132 conv. in L. 162 del 2014 – Periodo feriale pari a giorni 30 – Applicabilità a tutti i magistrati – Sussiste (art. 8-bis Legge 97 del 1979)

La riduzione del periodo feriale, come risultante dall’art. 8-bis l. 97 del 1979 si applica a tutti i magistrati. Infatti, con l’art. 8-bis in discussione non si è intervenuti sul solo ordinamento giudiziario, bensì sull’ordinamento di tutte le magistrature, senza distinzione alcuna anche con riferimento a possibili distinzioni fra esercizio di funzioni giudiziarie e non. Detto art. 8-bis si pone, quindi, in posizione di incompatibilità con l’analoga previsione di cui all’art. 90 o.g. e, in quanto successivo, in posizione di prevalenza. Non è conducente considerare che l’art. 8 e l’art. 8-bis fanno formalmente parte della stessa legge n. 97 del 1979 per cui dovrebbero essere interpretati nel senso della loro contemporanea vigenza; l’appartenenza di detti articoli alla stessa legge è soltanto formale, dato che l’art. 8 intervenne sull’art. 90 dell’ordinamento giudiziario, mentre l’art. 8-bis è stato aggiunto alla legge n. 97 del 1979. L’art. 8, cioè, ha fatto sistema con l’art. 90 cit., mentre l’art. 8-bis è autonomo; dal che è da ritenere che la tecnica legislativa utilizzata, che non ha previsto un intervento diretto sull’art. 8, si spiega considerando che è parso non opportuno, per ragioni sistematiche, inserire, nell’ambito dell’ordinamento giudiziario, che concerne i (soli) magistrati ordinari, una norma applicabile a tutte le magistrature. Deriva che il coordinamento fra le due norme in discussione comporta che l’art. 8-bis, essendo successivo ai predetti articoli 90 + 8 e regolando l’intera materia delle ferie relative a tutte le categorie di magistrati, si impone su ogni disciplina diversa, ai sensi dell’art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale

FATTO

Con il ricorso in epigrafe C. T. e .., magistrati ordinari in servizio a Roma, hanno impugnato, unitamente agli atti connessi, il decreto del 13 gennaio 2015 con cui il Ministro della Giustizia ha fissato il periodo feriale dei Magistrati della Corte Suprema di Cassazione, delle Corti d’Appello, dei Tribunali e dei Magistrati addetti ai Commissariati per gli Usi Civici, per l’anno 2015, dal 27 luglio al 2 settembre; tanto, in applicazione (anche) dell’art.16 del dl 12 settembre 2014 (n.132), convertito con modificazioni con la legge 10 novembre 2014 n.162, che ha introdotto, per quanto qui occorre, l’art.8-bis nella legge 2 aprile 1979 n.97, articolo in base al quale, per quanto necessita, i magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, nonché gli avvocati e procuratori dello Stato hanno un periodo annuale di ferie di trenta giorni.

Le ricorrenti hanno altresì chiesto riconoscersi il loro diritto ad usufruire di giorni quarantacinque di ferie annuali, periodo questo previsto dal primo comma dell’art.90 del rd 30 gennaio 1941 n.12 (sull’ordinamento giudiziario) come modificato dall’art.8 della legge 2 aprile 1979 n.97.

La tesi delle ricorrenti (diritto ad usufruire di giorni quarantacinque di ferie annuali) pone a proprio fondamento il confronto fra gli articoli 8 e 8-bis della predetta legge n.97 del 1979, entrambi formalmente vigenti, concludendo che, giusta l’art.8, ai magistrati che esercitano funzioni giudiziarie spetta un periodo di ferie di giorni 45, mentre ai rimanenti magistrati, giusta l’art.8-bis, che si riferisce genericamente a tutti i magistrati, spetta un periodo annuale di ferie di giorni 30; cosicché elleno, che deducono di esercitare funzioni giudiziarie, avrebbero diritto a giorni 45 di ferie annuali, di cui chiedono anche l’accertamento; con conseguente illegittimità in parte qua del decreto ministeriale impugnato, che ha previsto un periodo feriale inferiore per tutti i magistrati.

A dimostrazione ulteriore della correttezza della loro conclusione, le ricorrenti ipotizzano due possibili interpretazioni del complesso dei suddetti articoli 8 e 8-bis, e cioè: -applicabilità dell’art.8 ai soli magistrati ordinari investiti di funzioni giudicanti, con applicabilità dell’art.8-bis ai rimanenti magistrati ordinari ed alla generalità dei magistrati amministrativi, contabili e militari; -applicabilità dell’art.8 a tutti i magistrati ordinari, compresi quelli con funzioni requirenti, con esclusione di quelli che esercitano funzioni avulse dall’ordine giudiziario; con la precisazione, in questa seconda interpretazione, che l’art.8-bis avrebbe anche il fine di chiarire che trenta dei quarantacinque giorni di ferie spettanti ai magistrati che esercitano funzioni giudiziarie siano da fruire, di regola, in coincidenza con il periodo di sospensione feriale dei termini, ridotto a giorni trentuno dallo stesso art.16 (del dl n.132 del 2014 cit.) che ha introdotto l’art. 8-bis; il che, da un lato, varrebbe a formalizzare legislativamente la prassi, che sarebbe largamente diffusa negli uffici giudiziari, secondo la quale i 45 giorni di ferie dei magistrati coincidono per lo più con il periodo di sospensione feriale dei termini processuali, da un altro lato consentirebbe una flessibilità organizzativa del lavoro giudiziario, lasciando al singolo magistrato di usufruire dei restanti quindici giorni di ferie nel corso dell’anno, all’insorgere di esigenze peculiari.

La tesi della perdurante contemporanea vigenza degli articoli 8 e 8-bis troverebbe poi conferma considerando che, in sede di conversione del dl n.132 cit., venne respinto un emendamento che prevedeva l’abrogazione di ogni disposizione contraria o incompatibile.

Le ricorrenti hanno quindi concluso per l’accoglimento del ricorso, previa sospensione; con ogni conseguenza.

Si sono costituiti il Ministero della Giustizia e la Presidenza del Consiglio dei Ministri (la costituzione del Consiglio Superiore della Magistratura è stata successivamente ritirata; cfr. verbale di udienza del 18 giugno 2015), i quali hanno eccepito la inammissibilità del ricorso per carenza di interesse processuale, osservando che il decreto ministeriale impugnato è un atto di indirizzo generale, che costituisce il presupposto delle tabelle di organizzazione feriale del lavoro dei magistrati e che è privo, in quanto tale, di autonoma portata lesiva; tale decreto sarebbe quindi da impugnare unitamente all’atto (questo, sì, lesivo) di eventuale diniego di giorni 45 di ferie, allorquando questo venisse adottato dal capo dell’ufficio giudiziario di appartenenza dell’interessato.

Nel merito, le Amministrazioni resistenti hanno contrastato lo stesso ricorso, in particolare mettendo in evidenza la coincidenza che in via di principio si è sempre nel tempo verificata fra periodo di sospensione processuale dei termini e periodo di ferie dei magistrati, insistendo poi sul parallelismo esistente, nel predetto dl n.132 del 2014, fra riduzione dei termini processuali e riduzione delle ferie per i magistrati, il tutto finalizzato a rendere maggiormente efficiente il sistema giudiziario anche, come emergerebbe dai lavori preparatori parlamentari, mediante la possibilità di tenere udienze, per gli affari non urgenti, per venti giorni in più ogni anno; cosicché sarebbe privo di logica contrarre il periodo di sospensione feriale dei termini processuali e nel contempo mantenere fermi i 45 giorni di ferie per i magistrati; dal che, desumere la (implicita) abrogazione di quanto in proposito disposto dall’art.90 dell’ordinamento giudiziario.

Le resistenti hanno anche eccepito l’inammissibilità dell’azione di accertamento (esperita dalle ricorrenti al fine del riconoscimento del diritto ad usufruire di giorni 45 di ferie) deducendo che azione del genere non è prevista dal codice del processo amministrativo, pur se è ammessa dalla giurisprudenza nei soli casi in cui le azioni tipizzate non consentano una tutela adeguata; ipotesi che nel caso non si verificherebbe, stante la possibilità di esperire l’azione di annullamento del decreto ministeriale in questione allorquando venissero adottati gli atti applicativi concretamente lesivi; hanno quindi concluso per il rigetto del ricorso, con vittoria di spese.

Alla domanda cautelare si è rinunziato e il ricorso è stato immediatamente fissato per la trattazione del merito.

Con ulteriori memorie tutte le parti hanno insistito sulle rispettive tesi:

– le ricorrenti contrastando le eccezioni di inammissibilità sollevate dalle resistenti e richiamando, sia una bozza di deliberazione del Consiglio Superiore della Magistratura che avvalorerebbe la loro tesi, sia una proposta di legge che prevederebbe la riduzione a trenta dei giorni di ferie per i magistrati che esercitano funzioni giudiziarie;

– le Amministrazioni resistenti rappresentando l’opportunità di attendere la pronuncia della Corte Costituzionale, investita della questione di costituzionalità del predetto art.16, e sostenendo, inoltre, che sarebbe rimasta inosservata la buona tecnica legislativa qualora si fosse intervenuti direttamente sull’art.8 cit. (come sarebbe stato necessario, giusta quanto desumibile dal ricorso, per ridurre il periodo di ferie annuali da 45 a 30 giorni); tale art.8, infatti, a parere delle resistenti, ha avuto la sola funzione di veicolo normativo della modifica a suo tempo operata sull’art.90 dell’ordinamento giudiziario, per cui sarebbe stato necessario, eventualmente, intervenire direttamente su tale articolo 90.

Dalla pubblica udienza del 21 maggio 2015, originariamente fissata, la trattazione del ricorso è stata rinviata all’udienza del 18 giugno 2015, in attesa del deposito del provvedimento impugnato a cura della parte più diligente; a tal proposito, le parti hanno rinunciato a tutti i termini a difesa; dipoi, è stato disposto un ulteriore rinvio all’udienza del 2 luglio 2015, a cagione del disguido verificatosi (nel ruolo di udienza) nella indicazione del collegio giudicante.

Indi, alla predetta pubblica udienza del 2 luglio 2015, il ricorso è stato ritenuto per la decisione.

DIRITTO

1) Il ricorso è stato notificato a mezzo del servizio postale, ma non sono stati depositati gli avvisi di ricevimento.

Va tuttavia ritenuta l’ammissibilità dello stesso ricorso in quanto la sua consegna è attestata nel sito internet delle poste, ivi indicandosi la data del 16/17 marzo 2015; la data del 17 marzo 2015, inoltre, è stata sempre indicata nell’atto formale di costituzione di tutte le Amministrazioni intimate (Ministero della Giustizia, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Consiglio Superiore della Magistratura; il quale ultimo però, come supra precisato, ha successivamente ritirato la propria costituzione) e nelle memorie difensive delle Amministrazioni resistenti.

Non sussiste dubbio, pertanto, sulla valida costituzione del rapporto processuale.

2) E’ infondata l’eccezione di inammissibilità per mancanza di interesse processuale, dalle Amministrazioni resistenti sollevata nella considerazione che manca, allo stato, un provvedimento che deneghi alle ricorrenti un periodo di ferie di giorni quarantacinque; il decreto ministeriale in questione, invero, non comporterebbe, di per sé, una lesione concreta ed attuale dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio (consistente nel diritto ad usufruire di un periodo di ferie annuali pari a quarantacinque giorni), lesione che si avrebbe soltanto a seguito di un provvedimento di diniego di un cotal periodo di ferie, adottato, in esito ad apposita domanda, dal capo dell’ufficio giudiziario di appartenenza; soltanto in tale ipotesi, eventuale e non ancora verificatasi, argomentano le resistenti, potrebbe sorgere, in favore delle ricorrenti, un interesse a ricorrere anche contro il decreto ora in discussione, al fine di rimuovere il pregiudizio loro derivante dal provvedimento denegatorio; e a tal proposito le resistenti richiamano anche il divieto di pronuncia (con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati) posto al giudice dall’art.34, secondo comma, del codice del processo amministrativo, nella considerazione che il potere di denegare le ferie (per giorni quarantacinque) non si sarebbe ancora concretato.

In realtà, il Ministero della Giustizia, fissando il periodo feriale dei magistrati per l’anno 2015, nei limiti sopra indicati, per un periodo inferiore a giorni quarantacinque, ha immediatamente e direttamente inciso sul quantum di ferie spettante ai magistrati e quindi alle ricorrenti; il decreto impugnato non contiene eventuali collaterali disposizioni in base alle quali ritenere che il periodo di ferie fissato sia soltanto una parte di quello complessivamente spettante ai magistrati; va anzi osservato che, richiamandosi, mediante il riferimento all’art.16 del sopra citato dl (n.132) del 2014, l’art.8-bis sopra menzionato, con il decreto in discussione si sia inequivocamente e definitivamente stabilito il periodo di ferie (giorni trenta) di cui può ciascun magistrato usufruire per l’anno 2015.

Dal che, l’interesse delle ricorrenti ad insorgere sin d’ora, principio essendo che gli atti amministrativi a carattere non individuale, come nel caso è il decreto in argomento, sono autonomamente impugnabili allorquando ledano immediatamente la posizione giuridica vantata dagli interessati.

3) Infondata si rivela anche l’eccezione di inammissibilità della domanda di accertamento del diritto ad usufruire di giorni 45 di ferie annuali.

Si è nella specie, pacificamente, nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, per cui questo Tribunale, ai sensi dell’art.7, comma 5, del codice del processo amministrativo, conosce anche delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi; e il diritto ad usufruire delle ferie è indubitabilmente un diritto soggettivo, che, secondo l’assunto delle ricorrenti, è messo illegittimamente in discussione, sotto l’aspetto quantitativo, proprio con il decreto ministeriale impugnato.

Ammissibilmente, pertanto, le ricorrenti, oltre all’annullamento di tale decreto, instano per il riconoscimento del diritto ad usufruire di giorni 45 di ferie annuali.

4.0) Va rigettata la domanda di sospensione del processo, implicitamente contenuta nella memoria delle Amministrazioni resistenti depositata l’11 giugno 2015 nella parte in cui è stata rappresentata l’opportunità di attendere la pronuncia della Corte Costituzionale che, investita della questione di costituzionalità del predetto art.16, ne tratterà nella camera di consiglio del prossimo 7 ottobre 2015.

L’incidente di costituzionalità è stato sollevato dal Tribunale di Ragusa (cfr G.U. 7 gennaio 2015, 1′ serie speciale, n.1): per insussistenza dei presupposti di necessità ed urgenza occorrenti per l’adozione, nella specie, di un decreto legge; per violazione del principio di uguaglianza stante la disparità di trattamento che si sarebbe verificata fra i magistrati e gli impiegati civili dello Stato non potendo il magistrato, tenuto comunque al rispetto di termini per il deposito dei provvedimenti, godere compiutamente delle ferie; per violazione del principio di ragionevolezza quand’anche venisse introdotta una ipotesi di sospensione del decorso dei termini per il deposito dei provvedimenti durante il periodo di congedo.

E’ in proposito da osservare che, secondo costante giurisprudenza (cfr Cass civ 6 ottobre 1988 n.5414 e decisioni in essa richiamate), l’incidente di legittimità costituzionale, che determina la sospensione del giudizio nel quale è stato sollevato, non può essere invocato quale ragione di sospensione di altro processo.

E’ poi da considerare che il ricorso in trattazione è stato assai sollecitamente fissato per la sua trattazione nel merito in considerazione della necessità, per le ricorrenti, di ottenere una decisione a loro occorrente ai fini della organizzazione, anche personale, dell’imminente periodo estivo; e, a tal proposito, tutte le parti hanno rinunciato ai termini a difesa.

4.1) Inoltre, le ricorrenti nulla hanno dedotto circa la legittimità costituzionale della norma in argomento.

E’ ben vero che una questione di legittimità costituzionale può essere rilevata d’ufficio dal giudice; ma, nel caso, ipotetici dubbi di costituzionalità non si evidenziano, per quanto si viene a dire.

4.2) La norma in esame fa parte delle misure di un decreto legge che contiene disposizioni ritenute urgenti in tema di giustizia civile; e la necessità di adottare tale norma con decreto legge si desume agevolmente considerando che il Governo, nell’ambito della sue valutazioni politiche, ha voluto assicurare tempi certi per le definitive determinazioni del Parlamento al fine di consentire senz’altro, in caso di conversione, l’adozione delle occorrenti misure, fra le quali rientra il decreto impugnato da adottare al principio di ogni anno, a partire dal 1′ gennaio 2015, data di decorrenza della efficacia della norma.

Non si ravvisa pertanto quella evidente mancanza dei requisiti della necessità e dell’urgenza, occorrente affinché possa sorgere il dubbio sulla legittimità di un decreto legge (cfr Corte Cost sent n.16 del 2002).

4.3) Un dubbio di conformità ai princìpi costituzionali di uguaglianza (art.3 Cost) e di spettanza di un (congruo) periodo di ferie annuali (art.36 Cost) potrebbe in linea meramente ipotetica insorgere considerando che:

– le ferie annuali, per la generalità dei pubblici dipendenti, ammontano, normalmente, a giorni trenta;

– ai magistrati, rientrando essi nel genus dei pubblici dipendenti, non dovrebbe applicarsi una disciplina deteriore;

– una disciplina deteriore potrebbe ipotizzarsi essere stata prevista con l’art.8-bis in questione nella considerazione che il magistrato, stante il particolare tipo di lavoro che svolge, necessita, dopo l’udienza, di un certo tempo per la stesura dei provvedimenti conseguenti, come a suo tempo riconosciuto anche nella originaria formulazione dell’art.90 dell’ordinamento giudiziario, laddove furono previsti (ma non per i pretori) sessanta giorni di ferie, con la precisazione che nei primi quindici giorni avrebbero dovuto essere definiti gli affari e gli atti in corso;

– la previsione di trenta giorni di ferie, senza la correlata previsione di un ulteriore tempo di esonero da quella attività giurisdizionale che va espletata obbligatoriamente sul posto di lavoro in ufficio, potrebbe comportare la necessità di dedicare alla definizione degli affari e degli atti in corso una parte dei giorni di ferie, con conseguente riduzione della effettività di questi ultimi e quindi con altrettanta conseguente deteriorità – non essendo per ciò i previsti trenta giorni utilizzabili tutti per il recupero delle energie psico-fisiche – della disciplina sulle ferie, rispetto a quella che si applica alla generalità dei dipendenti pubblici.

In realtà, un dubbio del genere verrebbe immediatamente fugato osservandosi che è la stessa norma (art.16, quarto comma, del sopra citato d.l. 132 del 2014) ad indicare lo strumento attraverso il quale rendere effettivo il godimento delle ferie per trenta giorni da parte dei magistrati.

E’ infatti previsto in tale quarto comma che gli organi di autogoverno delle magistrature … provvedono ad adottare misure organizzative conseguenti all’applicazione delle disposizioni dei commi 1 e 2 (quest’ultimo comma relativo proprio alla determinazione delle ferie in giorni trenta).

Gli organi di autogoverno, cioè, sono autorizzati dalla legge ad adottare misure di organizzazione (esemplificativamente anche eventualmente individuabili, con riferimento alla fattispecie, nella previsione della esclusione della fissazione di talune udienze immediatamente a ridosso del periodo feriale); misure utili, per quanto qui occorre, anche a consentire ai magistrati di usufruire pienamente del periodo di ferie spettante.

Non può da tale previsione desumersi, come invece adombrato dalle ricorrenti, che le misure organizzative, con riferimento alla questione delle ferie, debbano attenere esclusivamente al coordinamento dei quarantacinque giorni di ferie per i magistrati che esercitano funzioni giudiziarie con la necessità di garantire la continuità di funzionamento del servizio; e ciò in quanto, a parere delle ricorrenti, l’art.16 in questione avrebbe soltanto imposto ai magistrati che esercitano funzioni giudiziarie di fruire della maggior parte dei giorni di ferie durante il periodo di sospensione dei termini.

Ma la testualità della previsione in argomento non impone tale limitazione interpretativa.

5) Nel merito, il ricorso è infondato e va quindi respinto.

Vanno infatti disattese le interpretazioni, sopra riportate, che le ricorrenti intendono conferire all’art.8-bis in argomento, interpretazioni dalle quali discenderebbe che, in ogni caso, la riduzione del periodo di ferie a trenta giorni non interesserebbe i magistrati ordinari che esercitano funzioni giurisdizionali.

In realtà, la riduzione in argomento interessa tutti i magistrati.

E’ in proposito da considerare che la tecnica legislativa utilizzata nell’introdurre il predetto art.8-bis, così come emerge tenendo presente le norme di cui si viene subito a far cenno, è nel senso che non si è voluto disciplinare le ferie dei magistrati diversi da quelli ordinari mediante una norma inserita nell’ordinamento giudiziario di cui al rd 30 gennaio 1941 n.12.

E invero:

– l’art.90, primo comma, di tale ordinamento giudiziario prevedeva che i magistrati che esercitavano funzioni giudiziarie avessero un periodo annuale di ferie di giorni sessanta; con la precisazione che nei primi quindici giorni avrebbero dovuto essere definiti gli affari e gli atti in corso; era anche previsto (terzo comma dello stesso art.90) che i pretori avevano un congedo ordinario annuale di trenta giorni; era poi previsto, e lo è tuttora (secondo comma del medesimo art.90) che il periodo delle ferie venisse fissato con decreto ministeriale;

– con l’art.8 della legge 2 aprile 1979 n.97 il predetto primo comma venne modificato riducendosi il periodo di ferie a quarantacinque giorni; senza più prevedere un periodo per la definizione degli affari e degli atti in corso;

– con il secondo comma dell’art.16 del dl 12 settembre 2014 n.132 (come convertito con la legge 10 novembre 2014 n.162) è stato introdotto l’art.8-bis in discussione.

Orbene, va considerato che, con l’introduzione dell’art.8 cit., si intervenne sull’ordinamento giudiziario del 1941, che concerne i soli magistrati ordinari; all’esito di tale introduzione, risultava quindi testualmente modificato l’art.90 di detto ordinamento; non si ebbe, cioè, una norma successiva incompatibile con altra precedente e pertanto di questa abrogativa; si ebbe invece una riformulazione, con modificazione, della precedente disposizione.

Con l’art.8-bis in discussione non si è intervenuti sul solo ordinamento giudiziario, bensì sull’ordinamento di tutte le magistrature, senza distinzione alcuna anche con riferimento a possibili distinzioni fra esercizio di funzioni giudiziarie e non.

Detto art.8-bis si pone, quindi, in posizione di incompatibilità con l’analoga previsione di cui all’art.90 cit. e, in quanto successivo, in posizione di prevalenza.

Non è conducente considerare che l’art.8 e l’art. 8-bis fanno formalmente parte della stessa legge n.97 del 1979 per cui dovrebbero essere interpretati nel senso della loro contemporanea vigenza; cosicché, come dedotto dalle ricorrenti, la riduzione a trenta dei giorni di ferie dovrebbe interessare i soli magistrati che non esercitano funzioni giudiziarie.

L’appartenenza di detti articoli alla stessa legge è soltanto formale, dato che, come visto, l’art.8 intervenne sull’art.90 dell’ordinamento giudiziario, mentre l’art.8-bis è stato aggiunto alla legge n.97 del 1979.

L’art.8, cioè, ha fatto sistema con l’art.90 cit., mentre l’art.8-bis è autonomo; dal che è da ritenere che la tecnica legislativa utilizzata, che non ha previsto un intervento diretto sull’art.8, si spiega considerando che è parso non opportuno, per ragioni sistematiche, inserire, nell’ambito dell’ordinamento giudiziario, che concerne i (soli) magistrati ordinari, una norma applicabile a tutte le magistrature.

Deriva che il coordinamento fra le due norme in discussione comporta che l’art.8-bis, essendo successivo ai predetti articoli 90 + 8 e regolando l’intera materia delle ferie relative a tutte le categorie di magistrati, si impone su ogni disciplina diversa, ai sensi dell’art.15 delle disposizioni sulla legge in generale.

6) Legittimo si presenta pertanto, nei limiti del dedotto, l’impugnato decreto ministeriale; va conseguentemente rigettata la domanda di accertamento del diritto ad usufruire di giorni 45 di ferie annuali.

7) Come anticipato, il ricorso va pertanto respinto.

Quanto alle spese, la novità della questione costituisce ragione per disporne fra le parti la integrale compensazione.

P.Q.M. 

Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, sede di Roma, sezione prima quater,

definitivamente pronunciando:

– respinge il ricorso, come in epigrafe proposto;

– compensa fra le parti le spese del giudizio; 

– ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 luglio 2015 con l’intervento dei magistrati:

Elia Orciuolo, Presidente, Estensore 

Donatella Scala,         Consigliere

Anna Bottiglieri,        Consigliere

IL PRESIDENTE, ESTENSORE            

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 10/07/2015

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Scarica il pdf

di Andrea Penta

1.  Nel tempo è possibile riscontrare una relazione storica di continenza o di coincidenza fra il periodo di sospensione dei termini feriali (periodo fissato dal legislatore dapprima in giorni 90, poi in 60, poi ancora in 45 dal 1° agosto al 15 settembre ed ora ridotto dal 1° al 31 agosto di ogni anno) ed il monte ferie spettante ad ogni magistrato.

In particolare, l’art. 90, primo comma, dell’ordinamento giudiziario prevedeva che i magistrati che esercitavano funzioni giudiziarie avessero un periodo annuale di ferie di giorni sessanta; con la precisazione che nei primi quindici giorni avrebbero dovuto essere definiti gli affari e gli atti in corso; era anche stabilito (terzo comma dello stesso art. 90) che i pretori avevano un congedo ordinario annuale di trenta giorni; era poi previsto, e lo è tuttora (secondo comma del medesimo art. 90), che il periodo delle ferie venisse fissato con decreto ministeriale. Con l’art. 8 della legge 2 aprile 1979 n. 97 il predetto primo comma venne modificato, riducendosi il periodo di ferie a quarantacinque giorni, senza più prevedere un periodo per la definizione degli affari e degli atti in corso. Infine, con il secondo comma dell’art. 16 del d.l. 12 settembre 2014 n. 132 (come convertito con la legge 10 novembre 2014 n. 162) è stato introdotto l’art. 8-bische è stato oggetto di ampie discussioni.

Siamo proprio sicuri che si è al cospetto di una modificain pejusdel periodo di ferie fruibile da ciascun magistrato nel corso di un anno. A me sembra che, probabilmente nella inconsapevolezza del legislatore, nulla nella sostanza sia cambiato rispetto al passato, ma si sia solo trasferito ai dirigenti degli uffici giudiziari il potere di regolamentare, attraverso la predisposizione di regole organizzative, non tanto il periodo di ferie, quanto quello aggiuntivo (c.d. cuscinetto) necessario per la redazione degli atti “incamerati” in precedenza e per lo studio dei fascicoli da trattare successivamente.

Emblematico è, in tal senso, un passaggio motivazionale contenuto nella sentenza emessa dal TAR Lazio in data 10 luglio 2015, che qui si riporta per comodità:

“4.3) Un dubbio di conformità ai princìpi costituzionali di uguaglianza (art. 3 Cost.) e di spettanza di un (congruo) periodo di ferie annuali (art. 36 Cost.) potrebbe in linea meramente ipotetica insorgere considerando che: -le ferie annuali, per la generalità dei pubblici dipendenti, ammontano, normalmente, a giorni trenta; -ai magistrati, rientrando essi nel genus dei pubblici dipendenti, non dovrebbe applicarsi una disciplina deteriore; -una disciplina deteriore potrebbe ipotizzarsi essere stata prevista con l’art. 8-bis in questione nella considerazione che il magistrato, stante il particolare tipo di lavoro che svolge, necessita, dopo l’udienza, di un certo tempo per la stesura dei provvedimenti conseguenti, come a suo tempo riconosciuto anche nella originaria formulazione dell’art. 90 dell’ordinamento giudiziario, laddove furono previsti (ma non per i pretori) sessanta giorni di ferie, con la precisazione che nei primi quindici giorni avrebbero dovuto essere definiti gli affari e gli atti in corso; -la previsione di trenta giorni di ferie, senza la correlata previsione di un ulteriore tempo di esonero da quella attività giurisdizionale che va espletata obbligatoriamente sul posto di lavoro in ufficio, potrebbe comportare la necessità di dedicare alla definizione degli affari e degli atti in corso una parte dei giorni di ferie, con conseguente riduzione della effettività di questi ultimi e quindi con altrettanta conseguente deteriorità – non essendo per ciò i previsti trenta giorni utilizzabili tutti per il recupero delle energie psico-fisiche – della disciplina sulle ferie, rispetto a quella che si applica alla generalità dei dipendenti pubblici.

In realtà, un dubbio del genere verrebbe immediatamente fugato osservandosi che è la stessa norma (art.16, quarto comma, del sopra citato d.l. 132 del 2014) ad indicare lo strumento attraverso il quale rendere effettivo il godimento delle ferie per trenta giorni da parte dei magistrati.

E’ infatti previsto in tale quarto comma che gli organi di autogoverno delle magistrature … provvedono ad adottare misure organizzative conseguenti all’applicazione delle disposizioni dei commi 1 e 2 (quest’ultimo comma relativo proprio alla determinazione delle ferie in giorni trenta).

Gli organi di autogoverno, cioè, sono autorizzati dalla legge ad adottare misure di organizzazione (esemplificativamente anche eventualmente individuabili, con riferimento alla fattispecie, nella previsione della esclusione della fissazione di talune udienze immediatamente a ridosso del periodo feriale); misure utili, per quanto qui occorre, anche a consentire ai magistrati di usufruire pienamente del periodo di ferie spettante.”.

Per assurdo, in presenza delle necessarie condizioni ed avendo sempre come “Stella Cometa” la funzionalità dell’ufficio, in futuro si potrebbe assistere, nella predisposizione dei “piani – ferie”, ad una maggiore tutela del principio di effettività delle ferie.

2. Partiamo dal presupposto che allo stato (anche all’indomani della sentenza emessa dal TAR Lazio) ogni magistrato ha diritto a beneficiare di trenta giorni di ferie, cui vanno aggiunti quattro giorni su domanda a titolo di festività soppresse e due d’ufficio correlati al congedo ordinario.

Il congedo ordinario deve essere normalmente goduto dal magistrato continuativamente in coincidenza con il periodo feriale fissato al principio di ogni anno ai sensi dell’art. 90 R.D. 12/1941. A tal fine la fruizione delle ferie deve normalmente coincidere con il periodo feriale; il dirigente dell’ufficio può, tuttavia, autorizzare che il godimento delle stesse avvenga in un arco temporale diverso da quello feriale, laddove sussistano peculiari esigenze dell’interessato, sempre che siano conciliabili con quelle di ufficio e non vi siano inderogabili esigenze di servizio. In ogni caso, ogni magistrato non può usufruire, al di fuori del periodo feriale, di un numero di ferie superiore a 15 giorni. Invero, per contemperare le opposte esigenze, è necessario che vi sia adeguata programmazione delle ferie complessivamente spettanti al magistrato, con riserva di fruizione di alcuni giorni, tendenzialmente fino ad un massimo della metà del monte ferie complessivo, da usufruire anche al di fuori del periodo feriale.

C’è poi la  norma del periodo congruo prima e dopo la feriale. La critica sul punto è che il CSM avrebbe dovuto indicare il periodo. Voci di corridoio riportano che il CSM si fosse orientato nel senso di fissarlo in 10 giorni prima e 5 giorni dopo il periodo feriale.

Potrebbe ritenersi che il decreto legge abbia voluto innovare la conformazione strutturale della fattispecie, prevedendo un periodo feriale mensile effettivo, cioè durante il quale non pendono in capo al magistrato obblighi lavorativi, con chiara soluzione di continuità rispetto al diritto vivente sino ad oggi inverato in una costante applicazione ed interpretazione.

Si potrebbe, per esempio, se necessario o utile, prevedere un breve periodo di sospensione delle udienze ordinarie (per es., dal 20 luglio), accompagnato da un calendario di udienze delle prime tre settimane di luglio in cui si celebrano solo due udienze e non tre per garantire il deposito delle sentenze.

Ovviamente, il congruo periodo prima e dopo (es.: 10 giorni prima e 5 dopo) imporrà di allungare la tabella feriale per garantire anche in questi periodi che, mentre alcuni giudici lavorano per depositare le sentenze, altri garantiscano i turni urgenti e le udienze indifferibili. La tabella feriale dovrà prevedere, diversamente da prima, chi è in ferie, chi è in servizio ed assicura i turni e chi eventualmente è in servizio e non fa turni.

Addirittura, proprio perché il godimento delle ferie deve essere effettivo, il magistrato, qualora debba personalmente compiere atti o attività caratterizzati da urgenza (si pensi alla redazione ed al deposito di provvedimenti di natura cautelare o nei confronti di imputati detenuti), possa richiedere al dirigente di essere richiamato in servizio (sia pure formulando la richiesta con almeno 7 giorni di anticipo, se possibile, e per il giorno o i giorni ritenuti strettamente necessari).

Il punto di partenza è che il magistrato, durante il periodo feriale, non è tenuto ad alcuna attività lavorativa e, in particolare, di redazione dei provvedimenti.

Del resto, rappresenta esperienza comune a praticamente tutti i magistrati che, in precedenza, durante il periodo feriale (in occasione del quale ciascun magistrato usufruiva in media di 30 giorni netti di ferie) almeno 10 giorni erano destinati alla predisposizione dei provvedimenti scaduti o presi in carico nell’ultima settimana (non meno di 7 giorni) ed allo studio delle prime udienze fissate alla ripresa dei lavori (non meno di 3 giorni). Da ciò conseguiva che, a fronte, ad esempio, di 35 giorni concessi, i giorni di ferie effettivamente goduti non superavano i 25.

Ora, invece, viene richiamata espressamente la circolare n. 4697 dell’1.6.1979, a mente della quale, per quanto riguarda i provvedimenti per i quali sono previsti termini di deposito, i dirigenti degli uffici dovevano aver cura di graduare convenientemente il calendario ed i ruoli delle udienze durante il mese di luglio in modo da consentire il deposito dei provvedimenti stessi (e le ulteriori attività connesse) prima dell’inizio del periodo feriale, nonché il calendario ed i ruoli delle udienze della prima metà del mese di settembre in modo da consentire lo studio degli atti e la preparazione delle udienze. La delibera n. 3341 del 24.4.1982 del CSM, del resto, attribuiva si ai capi degli uffici il potere-dovere di fissare le udienze anche nel periodo immediatamente precedente a quello di inizio delle ferie, ma purchè ciò non comportasse una limitazione del pieno godimento del diritto alle ferie stesse.

A maggior ragione, oggi i dirigenti dovranno idoneamente programmare le udienze nei periodi immediatamente precedenti e successivi al periodo feriale per assicurare il pieno ed effettivo godimento delle ferie (determinando anche per tali periodi i turni di presenza dei magistrati per garantire le udienze, le attività e l’emissione dei provvedimenti urgenti ed indifferibili). In particolare, la necessaria attività di studio e di preparazione preventiva dei processi giustificherà una rimodulazione del calendario delle udienze nel periodo immediatamente successivo al detto periodo stabilito dal Ministro della Giustizia, al fine di evitare che la predetta attività venga compiuta nello stesso periodo.

I dirigenti dovranno nel periodo feriale scadenzare i turni di presenza dei magistrati per garantire le udienze ed i provvedimenti urgenti ed indifferibili, in maniera tale da garantire il godimento dell’effettività delle ferie anche ai magistrati che esercitino funzioni normalmente connesse con le urgenze ed i turni di reperibilità (es.: GIP, Procure, Tribunale del riesame, giudice tutelare).

Anche la Commissione CSM, al momento del vaglio delle proposte di regolamentazione del periodo feriale inoltrate dai vari uffici giudiziari, ha ribadito la necessità di tener presente, nella predisposizione delle tabelle feriali, i seguenti principi:

“1) rientra nei poteri discrezionali del dirigente dell’ufficio individuare (tenendo conto del numero dei magistrati che prestano servizio ed alla natura dei procedimenti da trattare) un congruo periodo c.d. cuscinetto da destinare al deposito dei provvedimenti ed alle ulteriori attività da compiersi prima dell’inizio del periodo feriale (periodo pre-feriale) ed un ulteriore congruo periodo c.d. cuscinetto da destinare alla preparazione delle udienze ed allo studio degli atti successivamente al periodo feriale (periodo post-feriale),  dovendosi considerare manifestamente non congrui periodi eccessivamente ampi ovvero eccessivamente ridotti;

2) rientra nei poteri discrezionali del dirigente dell’ufficio individuare i suddetti periodi c.d. cuscinetto, oggettivamente,  con riferimento cioè al decreto ministeriale di sospensione feriale, ovvero, soggettivamente,  vale a dire con riferimento al periodo di ferie di ogni magistrato;  in tale periodo è possibile non tenere udienze, ma non è vietato tenerle;

3) affinchè possa considerarsi rispettato il principio di effettività delle ferie, i periodi c.d. cuscinetto dovranno essere esclusivamente dedicati alle attività indicate al punto 1  e, qualora il dirigente dell’ufficio non abbia adottato un diverso provvedimento organizzativo (soluzione preferibile che il CSM suggerisce, ed espressamente prevede nella circolare nel senso di aggiungere il periodo cuscinetto alla tabella feriale), anche alla trattazione degli affari urgenti ed indifferibili  tabellarmente assegnati al magistrato in servizio; tale provvedimento organizzativo dovrà essere sempre adottato in relazione a talune funzioni ordinariamente connesse con le urgenze (ad es. GIP, procure, tribunale del riesame, giudice tutelare ecc.) atteso che in questi casi la trattazione delle urgenze sarebbe sostanzialmente preclusiva della possibilità per il magistrato di dedicarsi alle attività indicate al punto 1), determinando così la violazione, per detti magistrati, del principio dell’effettività delle ferie;…”.

Ad esempio, quanto al Tribunale di Ancona, premesso che “la congruità del periodo c.d. cuscinetto va individuata in relazione a tutti i provvedimenti da depositare prima del periodo feriale perché urgenti o comunque in scadenza e dunque al fine di evitare un ritardo che, sia pur giustificato, rimane pur sempre un ritardo”, ha reputato non congruo il c.d. periodo cuscinetto individuato in due o tre giorni antecedenti e successivi al periodo di congedo ordinario di ciascun magistrato.

3. In definitiva, al di fuori dei casi in cui nel periodo c.d. cuscinetto (in cui formalmente i magistrati sono in servizio) l’organizzazione complessiva di un ufficio preveda che, oltre alla predisposizione dei provvedimenti ed allo studio dei fascicoli, il magistrato in servizio debba dedicarsi anche alla trattazione degli affari urgenti ed indifferibili tabellarmente assegnatigli (ma si è visto che ciò non sarà mai possibile per i magistrati addetti alle procure ed alle funzioni di GIP, di tribunale del riesame e di giudice tutelare), tendenzialmente il predetto periodo dovrà contemplare una durata di 10 giorni (prima delle ferie) e di 5 giorni (al rientro dalle ferie).

In tal senso il Tribunale di Napoli ha ritenuto congruo prevedere la sospensione delle udienze ordinarie nell’ultima settimana prima dell’inizio del periodo feriale, nonché nella prima settimana successiva al termine dello stesso periodo e, pertanto, fino al 9 settembre. Ha ritenuto conseguentemente necessario che la c.d. tabella feriale abbia un contenuto più esteso rispetto alla tradizionale semplice esigenza di organizzazione del lavoro per il periodo strettamente feriale (27 luglio – 2 settembre), disciplinando anche le attività necessariamente da espletarsi nelle due settimane “aggiuntive” così come in precedenza individuate, per lo smaltimento degli affari urgenti ed indifferibili.

Per garantire il principio di effettività delle ferie per tutti i magistrati impegnati nelle settimane a ridosso del periodo feriale in attività di udienza nel settore del Riesame, presso la sezione GIP/GUP o per la celebrazione di giudizi direttissimi, il tribunale partenopeo ha riconosciuto la facoltà di godere di equivalenti periodi di esonero dalle udienze ordinarie per il deposito dei provvedimenti conseguenti alle attività svolte, o in diretta prosecuzione del servizio prestato, con conseguente differimento delle ferie, o al termine delle ferie, eventualmente anche in prosecuzione della settimana di esonero dalle udienze ordinarie prevista alla ripresa delle attività per tutti i magistrati in servizio.

Ma allora, come si è anticipato, il periodo feriale sarà, di regola, pari a 30 giorni netti ed a 45 giorni lordi, alla stessa stregua di quanto avveniva nella sostanza in passato.

L’unico rilievo critico che potrebbe formularsi è che, mentre prima il periodo c.d. cuscinetto era garantito per legge, ora dipende da provvedimenti organizzativi a cura dei dirigenti degli uffici. Tuttavia, a prescindere dal fatto che non vuole credersi nell’esistenza di capi ‘ottusi’ e restii a percepire le esigenze di cui sono portatori i magistrati da essi diretti, è evidente che, in presenza di provvedimenti lesivi del diritto all’effettività delle ferie, ciascun collega potrebbe formulare specifiche osservazioni ed i Consigli Giudiziari, prima, ed il CSM, poi, sanzionerebbero, anche con finalità dissuasive rivolte al futuro, i comportamenti eventualmente riottosi.

Va, da ultimo, ricordato che l’incidente di costituzionalità è stato sollevato dal Tribunale di Ragusa (cfr. G.U. 7 gennaio 2015, 1A serie speciale, n.1) per insussistenza dei presupposti di necessità ed urgenza occorrenti per l’adozione, nella specie, di un decreto legge; per violazione del principio di uguaglianza stante la disparità di trattamento che si sarebbe verificata fra i magistrati e gli impiegati civili dello Stato, non potendo il magistrato, tenuto comunque al rispetto di termini per il deposito dei provvedimenti, godere compiutamente delle ferie; per violazione del principio di ragionevolezza quand’anche venisse introdotta una ipotesi di sospensione del decorso dei termini per il deposito dei provvedimenti durante il periodo di congedo. Non è stata, invece, sollevata alcuna questione con riferimento al profilo della invarianza della retribuzione nonostante le giornate lavorative aumentino.

Ed allora, forse, non resta che richiamare il titolo della nota commedia teatrale scritta da William Shakespeare tra l’estate del 1598 e la primavera del 1599 ed ambientata a Messina: “Molto rumore per nulla”.

Scarica il pdf

Sono presenti: Rodolfo M. SABELLI,Maurizio CARBONE, Valerio SAVIO, Marcello BORTOLATO, Luigi BUONO, Angelo BUSACCA, Cristina MARZAGALLI e Stefania STARACE.

1.  La Gec discute dell’organizzazione e degli aspetti logistici del XXXII Congresso nazionale che si terrà a Bari dal 23 al 25 ottobre, come da programma già inviato in lista e pubblicato sul sito istituzionale.

2. Il Presidente e il Vice Presidente riferiscono in merito all’esito della riunione svoltasi nel pomeriggio del Comitato Intermagistrature convocato per discutere in ordine al DPCM 7/8/2015 e dei conseguenti effetti sulla retribuzione, nonché sul massimale contributivo ed i relativi effetti derivanti dalla sua applicazione ai magistrati privi di anzianità contributiva anteriore all’1/1/1996, come da verbale che si allega.

3. La Gec discute dei temi all’ordine del giorno del Comitato direttivo centrale convocato per la giornata di sabato 3 ottobre, ore 10.00, i cui lavori potranno essere seguiti in diretta su Radio Radicale.

Verbale chiuso alle ore 20,30

Il  SEGRETARIO GENERALE
      Maurizio Carbone

* * * * *

COMITATO DI COORDINAMENTO FRA LE MAGISTRATURE E L’AVVOCATURA DELLO STATO

Oggi 2.10.2015 si è riunito il Comitato Intermagistrature, presieduto dal Presidente dell’A.N.M.

Erano presenti i rappresentanti di tutte le magistrature e dell’Avvocatura dello Stato, nonché i rappresentanti di A&I e di M.I.

Sono state affrontate le questioni relative:

–          1) al d.p.c.m. 7.8.2015 ed ai conseguenti effetti sulla retribuzione;

–          2) al massimale contributivo ed agli effetti derivanti dalla sua applicazione ai magistrati privi di anzianità contributiva anteriore al 1.1.1996.

In ordine al primo punto, si sono esaminati i diversi profili di possibile impugnazione giurisdizionale e si è deciso aggiornare a breve il Comitato Intermagistrature, previa acquisizione di parere di qualificato avvocato amministrativista.

In ordine al secondo punto è prevalsa la tesi dell’applicabilità del massimale contributivo anche ai magistrati e dell’opportunità di promuovere con urgenza, come Comitato Intermagistrature, l’apertura di un tavolo tecnico con tutte le amministrazioni ed istituzioni interessate al fine di tutelare tutti i colleghi cui è applicata la c.d. riforma Dini, colleghi allo stato esposti ad indebito prelievo in relazione al quale stanno progressivamente maturando i termini di prescrizione.

Roma, 2 ottobre 2015

Il Presidente
Rodolfo M. Sabelli

Scarica il pdf

di Marco Pietricola

Com’è noto, l’art. 2, comma 18, della Legge n. 335/1995 s.m.i. prevede, per quanto in questa sede maggiormente interessa, che “Per i lavoratori, privi di anzianità contributiva, che si iscrivono a far data dal 01 gennaio 1996 a forme pensionistiche obbligatorie e per coloro che esercitano l’opzione per il sistema contributivo, ai sensi del comma 23 dell’articolo 1, è stabilito un massimale annuo della base contributiva e pensionabile di lire 132 milioni con effetto sui periodi contributivi e sulle quote di pensione successivi alla data di prima assunzione ovvero successivi alla data di esercizio dell’opzione. Detta misura è annualmente rivalutata sulla base dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati così come calcolato dall’ISTAT.Il Governo  della  Repubblica  è  delegato ad emanare, entro centoventi giorni  dalla  data  di entrata in vigore della presente legge, norme relative al trattamento fiscale e contributivo della parte di reddito eccedente   l’importo   del   tetto  in  vigore  ove  destinata  al finanziamento  dei  Fondi  pensione  di cui al Decreto Legislativo 21 aprile 1993, n. 124 e successive modificazioni ed integrazioni, seguendo criteri di coerenza rispetto ai principi già previsti nel predetto decreto e successive modificazioni ed integrazioni”.

In sostanza, l’art. 2, comma 18, della Legge n. 335/1995 s.m.i. (cd. “Riforma Dini delle pensioni”) ha stabilito, nell’intento di implementare il ricorso a forme di previdenza ed assistenza complementare e garantire così – anche per tale via – una migliore e più attenta sostenibilità dell’intero sistema pensionistico italiano, che oltre un certo livello di reddito (cd. “massimale contributivo”), ad oggi fissato in €100.000/00 circa, il lavoratore (privato ovvero pubblico contrattualizzato) non è più tenuto a pagare i relativi contributi previdenziali (né lo è, specularmente, il datore di lavoro per quanto di propria competenza) e gli enti previdenziali e/o assistenziali interessati sono conseguentemente tenuti, a  loro volta, a calcolare i correlativi trattamenti pensionistici tenendo conto del detto limite di reddito, ma tutto ciò solo a condizione che ricorrano, nel caso concreto, i presupposti stabiliti dalla suddetta Legge n. 335/1995 s.m.i. nel corpo dello stesso comma 18 dell’art. 2.

Ciò posto sinteticamente in termini generali al fine di inquadrare meglio le questioni costituenti oggetto specifico della presente trattazione, occorre tuttavia a questo punto evidenziare come siffatta diposizione abbia sollecitato, in particolare nel corso degli ultimi mesi, un ampio dibattito sul tema della sua applicabilità o meno anche al personale non contrattualizzato alle dipendenze della Pubblica Amministrazione e, segnatamente e per quanto in questa sede maggiormente interessa, al personale appartenente ai ruoli della magistratura ordinaria.

Si tratta, invero, del tema del cd. “allarme pensioni”, tema evidentemente non privo di concrete e rilevanti ricadute applicative (basti pensare, a mero titolo d’esempio, al fatto che l’applicazione del cd. “massimale contributivo” può comportare un evidente e significativo peggioramento della futura condizione pensionistica dei giovani lavoratori e, in particolare e sempre per quanto in questa sede maggiormente interessa, dei giovani magistrati con una riduzione dell’ammontare delle pensioni future in alcuni casi anche importante).

Ebbene, sono fondamentalmente due le soluzione ermeneutiche allo stato prospettate con riguardo alla questione del cd. “allarme pensioni” dagli interpreti e studiosi che si sono occupati funditusdella materia (tra questi e salvo altri, l’Avv. Guido Rossi, interessatosi alla tematica de qua su incarico dell’A.N.M.-Associazione Nazionale Magistrati).

In particolare, secondo un primo orientamento interpretativo, il presupposto di legge per l’applicazione del cd. “massimale contributivo” di cui alla cd. “Riforma Dini delle pensioni”, in linea generale, non è solo quello consistente nel fatto di essere iscritti ad una determinata forma pensionistica obbligatoria a partire dal 01.01.1996 o da data successiva, ma è anche quello di essere “privi di anzianità contributiva” anteriore, e, in presenza di tali presupposti di legge, le previsioni di cui al comma 18 dell’art. 2 della Legge n. 335/1995 s.m.i. trovano applicazione anche nei confronti del personale non contrattualizzato alle dipendenze della Pubblica Amministrazione tra cui, per quanto qui maggiormente interessa, il personale appartenente ai ruoli della magistratura ordinaria. 

Con l’espressione “forme pensionistiche obbligatorie” inoltre, sempre secondo la soluzione ermeneutica in esame, la disposizione in commento fa riferimento genericamente ad ogni forma di gestione previdenziale senza distinguere tra l’assicurazione generale tradizionalmente gestita dall’INPS-Istituto Nazionale della Previdenza Sociale e le gestioni esclusive o sostitutive della stessa (purché si tratti di pensioni soggette interamente al sistema contributivo), mentre l’espressione “anzianità contributiva” impiegata dall’art. 2, comma 18, della Legge n. 335/1995 s.m.i. deve essere intesa anch’essa in senso ampio, ossia come concernente qualsiasi forma di anzianità contributiva anteriore al 01.01.1996, in qualunque modo maturata, e la cui presenza, appunto e come già evidenziato, escluderebbe l’applicazione del cd. “massimale contributivo”.

A sostegno di siffatta interpretazione militerebbero una serie di argomenti che possono schematicamente indicarsi come segue:

–         il dato letterale della norma in commento, così come poc’anzi illustrato con particolare riferimento alle predette espressioni “forme pensionistiche obbligatorie” ed “anzianità contributiva” impiegate dallo stesso art. 2, comma 18, della Legge n. 335/1995 s.m.i.;

–         le finalità perseguite dal legislatore con l’introduzione nel sistema giuridico italiano della disposizione de qua e di cui sopra (in sintesi, stabilizzazione della spesa pensionistica italiana);

–         un’interpretazione sistematica della norma, che tenga conto anche del disposto di cui all’art. 1, comma 6, della Legge n. 335/1995 s.m.i. (il quale ha sostanzialmente introdotto il sistema di calcolo contributivo nell’assicurazione generale obbligatoria e nelle forme sostitutive ed esclusive della stessa. In altri termini, sostengono i fautori di tale opzione ermeneutica tra cui il già citato Avv. Guido Rossi, sebbene la norma in commento sia contenuta nell’art. 2, comma 18, della Legge n. 335/1995 s.m.i. rubricato “Armonizzazione” e contenente soprattutto disposizioni dirette ad estendere le previsioni normative relative al regime generale dell’assicurazione obbligatoria ai regimi sostitutivi ed esclusivi della medesima, essa costituisce in realtà ed a ben vedere una specificazione delle disposizioni contenute nell’art. 1 della medesima Legge n. 335/1995 s.m.i. in quanto volta a stabilire, più propriamente, una specifica regola di calcolo e di finanziamento della pensione (interamente) contributiva in relazione a tutte le gestioni previdenziali rispetto alle quali trova applicazione tale forma di pensione) nonché del disposto di cui all’art. 2, comma 23, lett. b) della Legge n. 335/1995 s.m.i. (che contiene una delega normativa in favore del Governo in vista dell’emanazione di norme intese alla “armonizzazione ai principi ispiratori della presente legge dei trattamenti pensionistici” del personale non contrattualizzato alle dipendenze della Pubblica Amministrazione “tenendo conto, a tal fine ed in particolare, delle peculiarità dei rispettivi rapporti di impiego e dei differenti limiti di età previsti per il collocamento a riposo …(…omissis…) …“.Pertanto, sempre secondo l’opinione dei fautori di siffatto orientamento interpretativo tra cui il citato Avv. Guido Rossi e sempre alla stregua della detta delega normativa, per il suddetto personale l’applicazione delle disposizioni della Legge n. 335/1995 s.m.i. qui in commento, ivi incluse quelle sull’introduzione della cd. “pensione contributiva” e del connesso limite del cd. “massimale contributivo”, richiedeva, benché le stesse fossero dichiarate applicabili a tutte le gestioni previdenziali, l’intervento di un apposito provvedimento legislativo di armonizzazione secondo i criteri ed i principi generali di cui sopra. Le norme di armonizzazione de quibus, quindi, sono state adottate con il D.Lgs. n. 165/1997 s.m.i. che, dopo aver dettato criteri specifici di armonizzazione per le forze armate e le forze di polizia nonché assimilate (cfr. artt. 1-8 del detto D.Lgs. n. 165/1997 s.m.i.), in merito alla categoria dei magistrati (ordinari) ha sostanzialmente previsto, al comma 1 dell’art. 10, che nei confronti del personale appartenente a tale categoria ed “il cui limite di età per il collocamento a riposo d’ufficio sia superiore al 65° anno di età e che acceda al trattamento pensionistico successivamente al 65° anno di età ovvero al 60° anno di età se donna”  trovano applicazione le disposizioni in materia di pensione di vecchiaia nonché, al comma 2 dello stesso art. 10, che “In considerazione del più elevato limite di età per il collocamento a riposo dei soggetti di cui al comma 1, con decreto del Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, di concerto con il Ministro del Tesoro, sono stabiliti coefficienti di trasformazione integrativi di quelli indicati nella Tabella A allegata alla citata Legge n. 335/1995 in relazione all’età dell’assicurato … (…omissis…)…” e che”Ai trattamenti pensionistici del personale di cui al presente decreto, per quanto non diversamente da esso disposto, trovano applicazione le disposizioni di cui alla Legge 08 agosto 1995, n. 335“. In tal modo e con tali norme il legislatore, da un lato, avrebbe ritenuto che l’unica peculiarità, sotto il profilo pensionistico, del rapporto di servizio della suddetta categoria di dipendenti pubblici sia costituita dalla previsione di un limite di età per il collocamento a riposo più elevato rispetto a quello stabilito per la generalità dei lavoratori e per questo, dopo aver precisato che le prestazioni pensionistiche conseguite a tali limiti di età più elevati si considerano comunque pensioni di vecchiaia, avrebbe altresì previsto l’introduzione di coefficienti di trasformazione integrativi rispetto a quelli stabiliti per la generalità dei lavoratori proprio al fine di tenere conto del più elevato limite di età per il collocamento a riposo di siffatti lavoratori del settore pubblico essendo i coefficienti previsti appunto per la generalità dei lavoratori, all’epoca contenuti nella Tabella A allegata alla stessa Legge n. 335/1995 s.m.i., individuati solo fino al compimento dell’età di 65 anni, e, dall’altro lato e fatta eccezione per la suddetta peculiarità, avrebbe stabilito che per il resto trovano applicazione ai magistrati (ordinari) tutte le restanti disposizioni sui trattamenti pensionistici contenute nella Legge n. 335/1995 s.m.i. medesima. Stante l’ampiezza di tale rinvio, deve ritenersi, concludono i fautori di siffatta corrente ermeneutica tra i quali il più volte citato Avv. Guido Rossi, che esso abbia esteso ai magistrati (ordinari) sia il sistema di calcolo contributivo introdotto dalla Legge n. 335/1995 s.m.i. (e ciò anche in considerazione del fatto che tale sistema costituisce il fondamentale principio ispiratore della stessa Legge n. 335/1995 s.m.i. al quale occorreva armonizzare, come detto, il regime previdenziale del personale pubblico non contrattualizzato) sia le disposizioni della Legge n. 335/1995 s.m.i. relative al cd. “massimale contributivo” in presenza dei relativi presupposti applicativi di cui sopra);

–         le previsioni di cui alla Lettera Circolare resa dall’allora INPDAP-Istituto Nazionale di Previdenza dei Dipendenti della Pubblica Amministrazione (oggi assorbito nell’INPS-Gestione Separata Dipendenti Pubblici) del 18 dicembre 2008 (ove è sostanzialmente precisato che, al fine di individuare le anzianità contributive anteriori al 01.01.1996 che escludono l’applicazione del sistema di calcolo delle pensioni interamente contributive e del connesso meccanismo del cd. “massimale contributivo”, devono essere considerati tutti i periodi coperti da contribuzione, sia essa effettiva o figurativa, ivi compresi il lavoro svolto all’estero, la maternità obbligatoria al di fuori del rapporto di lavoro e l’eventuale servizio militare, e ciò anche nel caso in cui tali pregressi periodi di contribuzione non vengano valorizzati presso l’ultima gestione pensionistica ) e le analoghe previsioni di cui alla Lettera Circolare INPS-Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (adottata in relazione ai lavoratori del settore privato ma da reputare applicabile in via di interpretazione estensiva ovvero analogica anche al caso di specie) n. 49 del 17 marzo 2009 (la quale ha chiarito, per quanto in questa sede maggiormente interessa, che la contribuzione versata anteriormente al 01.01.1996 presso qualsiasi gestione pensionistica obbligatoria, anche se diversa da quella di iscrizione al 01.01.1996, comporta la non applicazione del cd. “massimale contributivo”). Ebbene, questi principi devono ritenersi evidentemente applicabili, a detta dei fautori della tesi in commento tra i quali il citato Avv. Guido Rossi, anche ai magistrati ordinari ai quali, per effetto delle norme di armonizzazione contenute nel già ricordato D.Lgs. n. 165/1997 s.m.i., devono appunto riferirsi le dette disposizioni normative anche in senso lato secondarie relative al cd. “sistema contributivo” ed al cd. “massimale contributivo” di cui alla Legge n. 335/1995 s.m.i. e di cui alle predette menzionate Lettere Circolari dell’ex INPDAP del 18 dicembre 2008 e dell’INPS n. 49 del 17 marzo 2009. Allo stesso modo e per le dette ragioni, deve ritenersi che trovino applicazione nei confronti dei magistrati ordinari anche quelle previsioni contenute nelle citate Lettere Circolari dell’ex INPDAP e dell’INPS nella parte in cui si dispone che il cd. “massimale contributivo” non si applichi neppure nell’ipotesi di anzianità contributive anteriori al 01.01.1996 maturate per effetto del riscatto, totale o parziale, del periodo del corso di laurea ovvero dei periodi di eventuali corsi e scuole di specializzazione post lauream, avendo la collocazione temporale dei periodi riscattati effetto, in forza delle diposizioni di legge sul cd. “riscatto” (cfr., in particolare, le previsioni di cui al D.Lgs. n. 184/1997 s.m.i., secondo quanto evidenziato in particolare dal citato Avv. Guido Rossi) su ogni aspetto del relativo regime pensionistico applicabile (sicché ed in altri termini, se il periodo riscattato è anteriore al 31.12.1995, troveranno applicazione tutte le regole pensionistiche previste per i lavoratori con anzianità anteriore a tale data).

Queste, dunque, le argomentazioni a sostegno della tesi dell’applicabilità delle previsioni di cui al comma 18 dell’art. 2 della Legge n. 335/1995 s.m.i. anche nei confronti del personale non contrattualizzato alle dipendenze della Pubblica Amministrazione tra cui, per quanto qui maggiormente interessa, il personale appartenente ai ruoli della magistratura ordinaria. 

Secondo un diverso e diametralmente opposto orientamento interpretativo, viceversa e come sopra già accennato, le previsioni di cui all’art. 2 della Legge n. 335/1995 s.m.i. non troverebbero applicazione nei confronti del personale non contrattualizzato alle dipendenze della Pubblica Amministrazione e, quindi e per quanto in questa sede maggiormente interessa, neppure nei confronti del personale appartenente ai ruoli della magistratura ordinaria. 

Invero, secondo i fautori di questo diverso orientamento interpretativo, occorre considerare i seguenti argomenti:

–         dal punto di vista del dato letterale, il comma 18 dell’art. 2 della Legge n. 335/1995 s.m.i. contiene un riferimento testuale alle sole “forme pensionistiche obbligatorie” sicché, al fine di valutare e stabilire l’applicabilità o meno al personale non contrattualizzato alle dipendenze della Pubblica Amministrazione e, segnatamente e per quanto in questa sede maggiormente interessa, al personale appartenente ai ruoli della magistratura ordinaria del limite del cd. “massimale contributivo”, occorre in ogni caso considerare la singola e specifica tipologia di gestione previdenziale che di volta in volta viene in rilievo nel caso concreto;

–         dal punto di vista teleologico, la tesi dell’inapplicabilità del cd. “massimale contributivo” al personale appartenente alle categorie in commento discende poi, sempre secondo i fautori di tale teoria, dalla radicale inapplicabilità dell’intero sistema contributivo rispetto a siffatto personale, e ciò in forza della mancata attivazione, in relazione in particolare al personale appartenente ai ruoli della magistratura ordinaria, di adeguate forme di previdenza complementare (ossia, il cd. “secondo pilastro” del sistema pensionistico italiano così come riformato ad opera della Legge n. 335/1995 s.m.i.);

–         da punto di vista sistematico, le previsioni di cui al comma 18 dell’art. 2 della Legge n. 335/1995 s.m.i. si caratterizzano per il fatto di avere natura e contenuto speciale rispetto alle restanti disposizioni di cui alla detta Legge n. 335/1995 s.m.i. e conseguentemente, sempre per quanto in questa sede maggiormente interessa, le stesse non sono per tale ragione ed a tali fini sussumibili nell’alveo delle disposizioni, di natura e portata più generale, di cui all’art. 1, comma 6, della Legge n. 335/1995 s.m.i. e di cui all’art. 2, comma 23, lett. b) della Legge n. 335/1995 s.m.i., entrambe in precedenza già ricordate. Ne deriva che la delega normativa di cui al detto art. 2, comma 23, lett. b) della Legge n. 335/1995 s.m.i., delega esercitata con l’emanazione del predetto D.Lgs. n. 165/1997 s.m.i., non può appunto reputarsi come riferibile, a ben vedere e sempre alla stregua dell’orientamento interpretativode quo, alla specifica disposizione in commento;

–         infine, le citate Lettere Circolari dell’ex INPDAP del 18 dicembre 2008 e dell’INPS n. 49 del 17 marzo 2009 non possono fornire convincenti e decisivi argomenti a sostegno della diversa tesi dell’applicabilità del cd. “massimale contributivo” al personale appartenente ai ruoli della magistratura ordinaria per via della loro collocazione nella cd. “gerarchia delle fonti normative” del sistema giuridico italiano, che impedisce loro di prevalere sulle disposizioni legislative sopra richiamate e qui in commento da interpretarsi alla stregua dei canoni ermeneutici fatti propri dalla teoria in esame, nonché per via della data risalente della loro adozione e della sopravvenuta soppressione – nelle more – dell’INPDAP con il conseguente suo confluire nell’INPS-Gestione Separata Dipendenti Pubblici e della connessa necessità di rileggerle ed interpretarle quindi alla luce del mutato contesto socio-economico e normativo di riferimento.    

Queste essendo le principali tesi attualmente sul campo in ordine al tema qui in commento dell’applicabilità o meno delle previsioni di cui al comma 18 dell’art. 2 della Legge n. 335/1995 s.m.i. anche nei confronti del personale non contrattualizzato alle dipendenze della Pubblica Amministrazione tra cui, per quanto qui maggiormente interessa, il personale appartenente ai ruoli della magistratura ordinaria e le varie argomentazioni avanzate a sostegno rispettivamente dell’una e dell’altra, occorre a questo punto interrogarsi sulle possibili conseguenze applicative dell’adesione all’una o all’altra di tali teorie interpretative.

Ebbene, aderendo alla tesi dell’applicabilità delle previsioni di cui al comma 18 dell’art. 2 della Legge n. 335/1995 s.m.i. anche nei confronti del personale appartenente ai ruoli della magistratura ordinaria, ne deriva anzitutto la necessità, o comunque l’opportunità, di diffidare l’Amministrazione di appartenenza e/o l’Ente previdenziale di riferimento alla restituzione dei prelievi eventualmente già operati indebitamente sulla parte di reddito eccedente il cd. “massimale contributivo” maggiorati dei relativi interessi di legge e tenendo conto altresì del relativo termine prescrizionale (in linea di massima pari a cinque anni) ovvero, a seconda dei casi, la necessità o l’opportunità di diffidare l’Amministrazione di appartenenza e/o l’Ente previdenziale di riferimento dall’effettuare (ulteriori) prelievi sulla quota di reddito eccedente appunto il cd. “tetto contributivo” o cd. “massimale contributivo” che dir si voglia.

In secondo luogo, potrebbe risultare opportuno procedere altresì alla cd. “retrodatazione dell’anzianità contributiva” a mezzo, ad esempio, del già ricordato riscatto, totale ovvero parziale, degli anni del corso di laurea ovvero degli anni di eventuali corsi e/o scuole di specializzazione post lauream nel rispetto delle relative disposizioni legislative e regolamentari nonché nel rispetto delle previsioni anche applicative di cui alle citate Lettere Circolari dell’ex INPDAP del 18 dicembre 2008 e dell’INPS n. 49 del 17 marzo 2009 (quest’ultima adottata in relazione ai lavoratori del settore privato ma da ritenere applicabile, secondo i fautori di tale corrente ermeneutica e per quanto già detto, anche nel caso di specie in via di interpretazione estensiva ovvero analogica e nei limiti della compatibilità).

In ogni caso, qualunque sia la scelta effettuata, va comunque evidenziato che la stessa può comportare significative ripercussioni anche sotto altri e differenti profili del complessivo trattamento pensionistico del personale in oggetto sia da un punto di vista giuridico che economico (si pensi, a mero titolo d’esempio, al correlativo trattamento fiscale; alle diverse modalità di erogazione dei benefici, anche e soprattutto economici, successivamente al pensionamento; alla diversa regolamentazione dei presupposti di accesso alla cd. “pensione anticipata”; e così via).

 Aderendo viceversa all’opposta tesi dell’inapplicabilità delle previsioni di cui al comma 18 dell’art. 2 della Legge n. 335/1995 s.m.i. al personale appartenente ai ruoli della magistratura ordinaria, occorrerà allora adottare ogni più opportuna ed adeguata iniziativa per la tutela, anche in sede contenziosa, dei diritti dei soggetti interessati dalle vicende normative qui in commento (ad esempio, avviando apposito contenzioso in vista del riconoscimento del proprio diritto a non vedersi assoggettato al disposto normativo de quo) ovvero attivarsi nelle competenti sedi per la costituzione di un apposito fondo di previdenza integrativa ovvero complementare in favore degli stessi appartenenti ai ruoli della magistratura ordinaria.

Questo essendo il quadro di riferimento, pare opportuno a questo punto sviluppare alcune brevi riflessioni in ordine alle conclusioni cui prevengono le due teorie poc’anzi ricordate in ordine, appunto, alla questione dell’applicabilità o meno delle previsioni di cui al comma 18 dell’art. 2 della Legge n. 335/1995 s.m.i. nei confronti del personale non contrattualizzato alle dipendenze della Pubblica Amministrazione e, segnatamente, nei confronti del personale appartenente ai ruoli della magistratura ordinaria.

Invero, la tesi dell’applicabilità del cd. “massimale contributivo” anche al personale appartenente ai ruoli della magistratura ordinaria pare fondata su più solide basi giuridiche.

In particolare e procedendo con ordine, l’argomento testuale patrocinato dai sostenitori dell’altro e diverso orientamento ermeneutico di cui sopra si è detto circa il tema qui in esame, ossia quell’argomento alla stregua del quale il comma 18 dell’art. 2 della Legge n. 335/1995 s.m.i. contiene un riferimento testuale alle sole “forme pensionistiche obbligatorie” sicché occorre considerare la singola e specifica tipologia di gestione previdenziale di volta in volta in rilievo nel singolo caso concreto al fine di valutare e stabilire l’applicabilità o meno al personale non contrattualizzato alle dipendenze della Pubblica Amministrazione (e, segnatamente e per quanto in questa sede maggiormente interessa, al personale appartenente ai ruoli della magistratura ordinaria) del limite del cd. “massimale contributivo”, parrebbe potersi ritenere superato in considerazione della circostanza che laratiodelle previsioni normative di cui allo stesso art. 2, comma 18, della Legge n. 335/1995 s.m.i. (cd. “Riforma Dini delle pensioni”) deve propriamente individuarsi nell’intento legislativo di implementare progressivamente il ricorso a forme di previdenza ed assistenza complementari e garantire così – anche per tale via – una migliore e più attenta sostenibilità dell’intero sistema pensionistico italiano (in sintesi, stabilizzazione della spesa pensionistica italiana), ratio legis emergente chiaramente dall’impianto complessivo della riforma de qua e dai relativi lavori parlamentari preparatori da leggersi anche alla luce del contesto storico e socio-economico di riferimento.

In questo contesto e fatte queste premesse, allora, non può che concludersi nel senso che il cd. “massimale contributivo” costituisce per sua stessa natura – nell’impianto complessivo della cd. “Riforma Dini delle pensioni” – una delle principali regole di calcolo pensionistico deputate, in prospettiva, ad assicurare appunto l’equilibrio finanziario dello stesso intero sistema pensionistico italiano così come tratteggiato nei suoi elementi costituivi dalla citata Legge n. 335/1995 s.m.i..

Ne deriva, sotto lo specifico profilo qui in esame e per quanto in questa sede maggiormente interessa, che tale regola di calcolo pensionistico non può che ritenersi applicabile – in quanto tale – ad ogni forma di gestione previdenziale senza distinzione alcuna tra l’assicurazione generale tradizionalmente gestita dall’INPS-Istituto Nazionale della Previdenza Sociale e le gestioni esclusive o sostitutive della stessa (purché si tratti, appunto, di pensioni soggette interamente al sistema contributivo nella detta prospettiva di riequilibrio del sistema pensionistico italiano).

L’espressione “forme pensionistiche obbligatorie” di cui al comma 18 dell’art. 2 della Legge n. 335/1995 s.m.i., allora, non può che essere intesa nel senso ampio – sopra già ricordato – fatto proprio dalla tesi dell’applicabilità delle previsioni di cui allo stesso predetto comma 18 dell’art. 2 della Legge n. 335/1995 s.m.i. anche nei confronti del personale non contrattualizzato alle dipendenze della Pubblica Amministrazione e, segnatamente, nei confronti del personale appartenente ai ruoli della magistratura ordinaria, senza che sia dato distinguere sotto questo profilo a seconda della natura della singola e specifica tipologia di gestione previdenziale di volta in volta in rilievo nel singolo caso concreto (come viceversa sostenuto dai fautori del diverso orientamento ermeneutico formatosi in ordine alle questioni qui in esame e di cui in precedenza si è già detto).

Ancora e nella medesima prospettiva, poi, va evidenziato, con riguardo all’argomento teleologico patrocinato dai sostenitori della tesi dell’inapplicabilità del cd. “massimale contributivo” al personale appartenente alle categorie di lavoratori in commento e consistente sostanzialmente nel rilievo della mancata attivazione – in relazione in particolare al personale appartenente ai ruoli della magistratura ordinaria – di adeguate forme di previdenza complementare (ossia, il cd. “secondo pilastro” del sistema pensionistico italiano così come riformato ad opera della Legge n. 335/1995 s.m.i.), che siffatto argomento necessiterebbe di essere adeguatamente valorizzato, per così dire, attraverso un’eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale della disposizione in commento per asserita violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Costit. rispetto ad altre categorie di lavoratori (in particolare, rispetto ad altre categorie di lavoratori del settore pubblico).

Ebbene, a prescindere dall’eventuale fondatezza o meno di una simile eccezione di legittimità costituzionale delle norme de quibus e dall’opportunità di attivare o meno le procedure legislative e normative a ciò funzionali, sembra in ogni caso degno di nota il fatto che, come evidenziato dai molti studiosi ed esperti occupatisi della materia, simili difficoltà interpretative, e le connesse difficoltà applicative, potrebbero adeguatamente superarsi, in un’ottica collaborativa, mediante la costituzione di un apposito tavolo tecnico con le istituzioni ed i soggetti tutti a vario titolo interessati dalle vicende normative in commento nel tentativo di individuare la soluzione più consona, eventualmente anche mediante l’istituzione e regolamentazione di adeguate forme di previdenza complementare in favore del personale appartenente ai ruoli della magistratura ordinaria, così da non svilire la ratio della cd. “Riforma Dini delle pensioni” e, al tempo stesso, assicurare normativamente un adeguato trattamento pensionistico anche in favore di siffatta categoria di lavoratori del settore pubblico soprattutto con riferimento alle future generazioni e, pertanto e ancora una volta, nella prospettiva di una sempre maggiore sostenibilità dell’intero sistema pensionistico italiano senza trascurare le legittime pretese degli stessi lavoratori de quibus(sostenibilità, evidentemente, da intendersi ed apprezzarsi anche in questi termini ed in questa prospettiva).

 Da un punto di vista sistematico, poi, i fautori della tesi dell’inapplicabilità del cd. “massimale contributivo” al personale appartenente alle categorie di lavoratori in commento evidenziano la circostanza che le previsioni di cui al comma 18 dell’art. 2 della Legge n. 335/1995 s.m.i. si caratterizzano per il fatto di avere natura e contenuto speciale rispetto alle restanti disposizioni di cui alla detta Legge n. 335/1995 s.m.i. e conseguentemente, sempre per quanto in questa sede maggiormente interessa, le stesse non possono per tale ragione ed a tali fini essere ricomprese e sussunte nell’alveo delle disposizioni, di natura e portata più generale, di cui in particolare all’art. 1, comma 6, della stessa Legge n. 335/1995 s.m.i. e di cui all’art. 2, comma 23, lett. b) della medesima Legge n. 335/1995 s.m.i. (come già ricordato, l’art. 1, comma 6, della Legge n. 335/1995 s.m.i. ha sostanzialmente introdotto il cd. “sistema contributivo” per il calcolo delle pensioni in relazione a tutte le gestioni previdenziali ivi meglio specificate, mentre l’art. 2, comma 23, lett. b) della detta Legge n. 335/1995 s.m.i. contiene una delega normativa in favore del Governo in vista dell’emanazione di norme intese alla “armonizzazione ai principi ispiratori della presente legge dei trattamenti pensionistici” del personale non contrattualizzato alle dipendenze della Pubblica Amministrazione “tenendo conto, a tal fine ed in particolare, delle peculiarità dei rispettivi rapporti di impiego e dei differenti limiti di età previsti per il collocamento a riposo …(…omissis…) …”), e ciò con la conseguenza che la delega normativa di cui al suddetto art. 2, comma 23, lett. b) della Legge n. 335/1995 s.m.i., delega esercitata con l’emanazione del D.Lgs. n. 165/1997 s.m.i., non può appunto reputarsi come riferibile, per tutte le suddette ragioni e sempre alla stregua dell’orientamento interpretativo de quo, alla specifica disposizione in commento (ossia, il comma 18 dell’art. 2 della stessa Legge n. 335/1995 s.m.i.).

Ebbene, occorre al riguardo evidenziare, anzitutto, il fatto che la delega di cui al citato art. 2, comma 23, della Legge n. 335/1995 s.m.i. è stata, come detto, esercitata mediante l’emanazione del D.Lgs. n. 165/1997 s.m.i. (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 139 del 17.06.1997 e le cui disposizioni sono entrate in vigore in data 02.07.1997, salve quelle di cui al Titolo I – relativo al trattamento pensionistico del personale militare delle Forze Armate, compresa l’Arma  dei  Carabinieri, del Corpo della Guardia di Finanza nonché del personale delle Forze di  Polizia ad Ordinamento Civile e del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco – entrate viceversa in vigore in data 01.01.1998).

Tale D.Lgs. n. 165/1997 s.m.i., poi, prevede all’art. 9, per quanto in questa sede maggiormente interessa, che “Le  disposizioni  di  cui  al  presente  titolo  armonizzano ai principi ispiratori della Legge 08 agosto 1995, n. 335, il trattamento pensionistico dei  magistrati  ordinari, amministrativi e contabili, degli  avvocati e procuratori dello Stato, del  personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia, a partire, rispettivamente,  dalle qualifiche di segretario di legazione e di vice-consigliere di prefettura, dei dirigenti generali, nonché dei professori e ricercatori universitari”, all’art. 10 che”1.Nei  confronti del personale appartenente alle categorie di cui all’articolo  9  il  cui  limite di età per il collocamento a riposo d’ufficio sia superiore al 65 anno di età, che acceda al trattamento pensionistico successivamente al 65 anno di età ovvero al 60 anno di età se donna, al  relativo trattamento trovano applicazione le disposizioni in materia di pensionamento di vecchiaia. 2.In  considerazione del più elevato limite di età per il collocamento a riposo dei soggetti di cui al comma 1, con Decreto del Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, di concerto con il Ministro del Tesoro, sono stabiliti coefficienti di trasformazione integrativi di quelli indicati nella Tabella A allegata alla citata Legge n. 335 del 1995, in relazione all’età dell’assicurato, superiore a 67 anni, al momento del pensionamento” ed all’art. 11 che”Ai trattamenti pensionistici del personale di cui al presente decreto, per  quanto non diversamente da esso disposto, trovano applicazione le disposizioni di cui alla Legge 08 agosto 1995, n. 335″.

Dunque, nessun dubbio pare sussistere in ordine al fatto che la delega legislativa di cui al citato art. 2, comma 23, della Legge n. 335/1995 s.m.i. sia stata esercitata mediante l’emanazione del detto D.Lgs. n. 165/1997 s.m.i. anche con riferimento al personale appartenente ai ruoli della magistratura ordinaria.

Nessun dubbio, poi, pare sussistere anche con riferimento al fatto che, per effetto della detta delega legislativa, il cd. “massimale contributivo di cui al comma 18 dell’art. 2 della Legge n. 335/1995 s.m.i. trovi applicazione anche rispetto a tale categoria di lavoratori.

Invero, sebbene la norma in commento sia contenuta nell’art. 2, comma 18, della Legge n. 335/1995 s.m.i. rubricato “Armonizzazione” e contenente soprattutto disposizioni dirette ad estendere le previsioni normative relative al regime generale dell’assicurazione obbligatoria ai regimi sostitutivi ed esclusivi della medesima, essa costituisce in realtà, ed a ben vedere, una mera specificazione delle più generali disposizioni contenute nell’art. 1 della medesima Legge n. 335/1995 s.m.i., in quanto volta a stabilire – più propriamente – una specifica regola di calcolo e di finanziamento della pensione (interamente) contributiva in relazione a tutte le gestioni previdenziali rispetto alle quali trova applicazione tale forma di pensione, nonché una mera specificazione del più generale disposto di cui all’art. 2, comma 23, lett. b) della stessa Legge n. 335/1995 s.m.i., che contiene appunto una delega normativa in favore del Governo in vista dell’emanazione di norme intese alla “armonizzazione ai principi ispiratori della presente legge dei trattamenti pensionistici” del personale non contrattualizzato alle dipendenze della Pubblica Amministrazione “tenendo conto, a tal fine ed in particolare, delle peculiarità dei rispettivi rapporti di impiego e dei differenti limiti di età previsti per il collocamento a riposo …(…omissis…)…”.

Pertanto, per il suddetto personale l’applicazione delle disposizioni della Legge n. 335/1995 s.m.i. qui in commento, ivi incluse quelle sull’introduzione della cd. “pensione contributiva” e del connesso limite del cd. “massimale contributivo”, richiedeva e richiede, benché le stesse fossero dichiarate applicabili a tutte le gestioni previdenziali, l’intervento di un apposito provvedimento legislativo di armonizzazione secondo i criteri ed i principi generali di cui sopra.

Le norme di armonizzazione de quibus, quindi, sono state appunto adottate con il suddetto D.Lgs. n. 165/1997 s.m.i. che, dopo aver dettato criteri specifici di armonizzazione per le forze armate e le forze di polizia nonché assimilate (cfr. artt. 1-8 del detto D.Lgs. n. 165/1997 s.m.i.), in merito alla categoria dei magistrati (ordinari) ha sostanzialmente previsto, al comma 1 dell’art. 10 e come già precisato in precedenza, che nei confronti del personale appartenente a tale categoria ed “il cui limite di età per il collocamento a riposo d’ufficio sia superiore al 65° anno di età e che acceda al trattamento pensionistico successivamente al 65° anno di età ovvero al 60° anno di età se donna”trovano applicazione le disposizioni in materia di pensione di vecchiaia nonché, al comma 2 dello stesso art. 10, che “In considerazione del più elevato limite di età per il collocamento a riposo dei soggetti di cui al comma 1, con decreto del Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, di concerto con il Ministro del Tesoro, sono stabiliti coefficienti di trasformazione integrativi di quelli indicati nella Tabella A allegata alla citata Legge n. 335/1995 in relazione all’età dell’assicurato … (…omissis…)…” e che “Ai trattamenti pensionistici del personale di cui al presente decreto, per quanto non diversamente da esso disposto, trovano applicazione le disposizioni di cui alla Legge 08 agosto 1995, n. 335 …(…omissis…) …”.

Dunque, in tal modo e con tali norme il legislatore, da un lato, ha ritenuto che l’unica peculiarità, sotto il profilo pensionistico, del rapporto di servizio della suddetta categoria di dipendenti pubblici sia costituita dalla previsione di un limite di età per il collocamento a riposo più elevato rispetto a quello stabilito per la generalità dei lavoratori e per questo, dopo aver precisato che le prestazioni pensionistiche conseguite a tali limiti di età più elevati si considerano comunque pensioni di vecchiaia, ha altresì previsto l’introduzione di coefficienti di trasformazione integrativi rispetto a quelli stabiliti per la generalità dei lavoratori proprio al fine di tenere conto del più elevato limite di età per il collocamento a riposo di siffatti lavoratori del settore pubblico essendo i coefficienti previsti appunto per la generalità dei lavoratori (all’epoca contenuti nella Tabella A allegata alla stessa Legge n. 335/1995 s.m.i.) individuati solo fino al compimento dell’età di 65 anni, e, dall’altro lato e fatta eccezione per la suddetta peculiarità, ha stabilito che per il resto trovano applicazione ai magistrati (ordinari) tutte le restanti disposizioni sui trattamenti pensionistici contenute nella Legge n. 335/1995 s.m.i. medesima.

Orbene, stante l’ampiezza di tale rinvio, deve ritenersi, come evidenziato appunto dai fautori di tale orientamento ermeneutico tra cui il citato Avv. Guido Rossi, che esso abbia esteso ai magistrati (ordinari) sia il sistema di calcolo contributivo introdotto dalla Legge n. 335/1995 s.m.i. (e ciò anche in considerazione del fatto che tale sistema costituisce il fondamentale principio ispiratore della stessa Legge n. 335/1995 s.m.i. al quale occorreva ed occorre armonizzare, come detto, il regime previdenziale del personale pubblico non contrattualizzato) sia le disposizioni della Legge n. 335/1995 s.m.i. relative al cd. “massimale contributivo” in presenza dei relativi presupposti applicativi e di cui sopra.

Del resto, fermo restando tutto quanto precede, va poi ricordato che, ritenendo la detta delega legislativa di cui all’art. 2, comma 23, lett. b), della Legge n. 335/1995 s.m.i. come caratterizzata da una portata generale e, pertanto, non idonea a ricomprendere anche le disposizioni di cui al comma 18 dell’art. 2 della stessa Legge n. 335/1995 s.m.i. in quanto diposizioni di portata speciale e quindi derogatoria rispetto alle altre e rispetto altresì a quella di cui al comma 6 dell’art. 1 della Legge n. 335/1995 s.m.i. (come sostenuto dai fautori della tesi dell’inapplicabilità del cd. “massimale contributivo” al personale appartenente alle categorie di lavoratori in commento), dovrebbe allora concludersi nel senso dell’inapplicabilità ai lavoratori non contrattualizzati alle dipendenze della Pubblica Amministrazione dell’intero cd. “sistema contributivo” (in luogo di quello cd. “retributivo”) – di cui fanno appunto parte, evidentemente, anche le disposizioni sul cd. “massimale contributivo” per quelle ragioni di carattere letterale, teleologico e sistematico in precedenza già ricordate – così come delineato dalle stesse disposizioni di cui alla detta Legge n. 335/1995 s.m.i., ciò che, proprio per tutte le dette ragioni e motivazioni, non pare viceversa giuridicamente sostenibile.

Infine, con riferimento a quell’argomento (anch’esso fatto proprio dai sostenitori della tesi dell’inapplicabilità del cd. “massimale contributivo” al personale appartenente alle categorie di lavoratori in commento) alla stregua del quale le Lettere Circolari dell’ex INPDAP del 18 dicembre 2008 e dell’INPS n. 49 del 17 marzo 2009 non possono fornire convincenti e decisivi argomenti a sostegno della diversa tesi dell’applicabilità del cd. “massimale contributivo” al personale appartenente ai ruoli della magistratura ordinaria per via della loro collocazione nella cd. “gerarchia delle fonti normative” del sistema giuridico italiano (che impedisce loro di prevalere sulle disposizioni legislative sopra richiamate) nonché per via della data risalente della loro adozione e della sopravvenuta soppressione – nelle more – dell’INPDAP con il conseguente suo confluire nell’INPS-Gestione Separata Dipendenti Pubblici e della connessa necessità di rileggerle ed interpretarle quindi alla luce anche del mutato contesto socio-economico e normativo di riferimento, non possono che richiamarsi tutte le argomentazioni fin qui già sviluppate a sostegno della diversa tesi dell’applicabilità del cd. “massimale contributivo” anche al personale appartenente alle categorie di lavoratori in commento, argomentazioni che, considerate nel loro insieme, inducono appunto a ritenere non convincente questo solo ultimo profilo richiamato dai fautori del contrapposto orientamento ermeneutico poc’anzi ricordato.

Né argomenti in senso contrario sembra possano poi trarsi, fermo restando tutto quanto precede, dalla recente pronuncia della Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite, n.17742/2015, secondo cui “In conclusione, debbono affermarsi i seguenti principi di diritto: A) Nel regime dettato dalla Legge 08.08.1995, n. 335 (legge di riforma del regime pensionistico obbligatorio e complementare), gli enti di previdenza privatizzati di cui al D. Lgs. 30.06.1994, n. 509 (tra cui rientra la Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza a favore di Ragionieri e Periti Commerciali) non possono adottare, in funzione dell’obiettivo di assicurare l’equilibrio di bilancio e la stabilità delle proprie gestioni, provvedimenti (quale la delibera 28.06.1997 del Comitato dei Delegati della Cassa, approvata con decreto 31.07.1997 del Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale) che, lungi dall’incidere sui criteri di determinazione del trattamento pensionistico, impongano un massimale allo stesso trattamento e, come tali, risultino incompatibili con il rispetto del principio del cd. “pro rata” previsto dall’art. 3, comma 12, della stessa Legge 08.08.1995 n. 335, in relazione alle anzianità già maturate rispetto all’introduzione delle modifiche derivanti dagli stessi provvedimenti; B) Nel regime previdenziale dettato dalla Legge 08.08.1995, n. 335 (legge di riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), per le prestazioni pensionistiche erogate dagli enti previdenziali privatizzati ai sensi del D. Lgs. 30.06.1994, n. 509 (tra cui rientra la Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza a favore di Ragionieri e Periti Commerciali) ed in relazione alle anzianità già maturate rispetto all’introduzione delle modifiche imposte dalla legge di riforma, per i trattamenti pensionistici maturati prima del 01 gennaio 2007 trova applicazione l’art 3, comma 12, della Legge n. 335 del 1995 nella formulazione originaria, che prevedeva l’applicazione rigorosa del principio del cd. “pro rata”; C) Nel regime previdenziale e per gli enti indicati al capo che precede, per i trattamenti pensionistici maturati dal 01 gennaio 2007 in poi trova applicazione l’art. 3, comma 12, della Legge 08.08.1995, n. 335 nella formulazione introdotta dall’art 1, comma 763, della Legge 27.12.2006, n. 296, che prevede che gli enti previdenziali suddetti emettano delibere che mirano alla salvaguardia dell’equilibrio finanziario di lungo termine, “avendo presente” – e non più rispettando in modo assoluto – il principio del cd. “pro rata”, tenendo conto dei criteri di gradualità e di equità fra generazioni. Con riferimento agli stessi trattamenti pensionistici maturati dopo il 01 gennaio 2007, sono fatti salvi gli atti e le deliberazioni in materia previdenziale già adottati dagli enti medesimi ed approvati dai Ministeri vigilanti prima della data di entrata in vigore della Legge n. 296 del 2006, ai sensi dell’ultimo periodo del detto art. 1, comma 763, della  Legge n. 296 del 2006, come interpretato dall’art 1, comma 488, della Legge 27.12.2013 n. 147, il quale ha contenuto chiarificatore del dettato legislativo e non viola i canoni legittimanti l’intervento interpretativo del legislatore desumibili dalla Costituzione e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo; D) Il diritto al pagamento dei ratei delle prestazioni pensionistiche liquidate dagli enti previdenziali privatizzati ai sensi del D. Lgs. 30.06.1994, n. 509 (tra cui rientra la Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza a favore di Ragionieri e Periti Commerciali), oggetto di richiesta di riliquidazione, non si prescrive nel termine quinquennale di cui all’art. 2948, n. 4, c.c., ma in quello decennale ordinario previsto dall’art 2946 c.c.” (in questo senso, testualmente, cfr.: Cass., Sez. Un., n.17742/2015).

Invero, gli enti di previdenza privatizzati di cui al D.Lgs. n. 509/1994 s.m.i. (cui fa riferimento la citata sentenza di legittimità) sono indicati nella Tabella A allegata al detto provvedimento normativo, tabella che fa riferimento a sua volta ai seguenti Enti: Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Avvocati e Procuratori Legali; Cassa di Previdenza tra Dottori Commercialisti; Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Geometri; Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Ingegneri ed Architetti Liberi Professionisti; Cassa Nazionale del Notariato; Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Ragionieri e Periti Commerciali; Ente Nazionale di Assistenza per gli Agenti ed i Rappresentanti di Commercio (ENASARCO); Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza Consulenti del Lavoro (ENPACL);  Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza Medici (ENPAM); Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza Farmacisti (ENPAF); Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza Veterinari (ENPAV); Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Impiegati dell’Agricoltura (ENPAIA); Fondo di Previdenza per gli Impiegati delle Imprese di Spedizione ed Agenzie Marittime; Istituto Nazionale di Previdenza Dirigenti Aziende Industriali (INPDAI); Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani (INPGI); e Opera Nazionale Assistenza Orfani Sanitari Italiani (ONAOSI).

Dunque, già da un punto di vista soggettivo, la citata sentenza della Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite (ossia: Cass., Sez. Un., n. 17742/2015) non pare riferibile al caso di specie.

Da un punto di vista oggettivo, poi, il massimale cui si riferisce la detta pronuncia del Giudice di Legittimità sembra essere, più propriamente, un massimale pensionistico e non un massimale contributivo, sicché i limiti di cui la Corte Suprema di Cassazione tratta nella sentenza de quapaiono essere limiti concernenti segnatamente il trattamento pensionistico ivi esaminato su cui, evidentemente, un eventuale massimale contributivo certamente potrebbe influire ma solo in maniera indiretta e, soprattutto, in relazione esclusivamente e conseguentemente ai soli criteri di determinazione del futuro trattamento pensionistico medesimo e non rispetto ad un suo eventuale limite, o tetto che dir si voglia, massimo.

Ancora, nel caso di specie il cd. “massimale contributivo” di cui all’art. 2, comma 18, della Legge n. 335/1995 s.m.i. pare trovare applicazione in presenza di due condizioni normative soltanto, ossia o nel caso in cui il lavoratore interessato è iscritto ad una determinata forma pensionistica obbligatoria a partire dal 01.01.1996 o da data successiva ed è altresì privo di anzianità contributiva anteriore o in caso di opzione da parte dello stesso per il cd. “sistema contributivo”.

Dunque, nel primo caso non vengono in rilievo anzianità già maturate ed eventuali diritti quesiti rispetto all’introduzione delle modifiche normative de quibus da tutelare mediante l’applicazione – rigorosa ovvero attenuata – del principio del cd. “pro rata”, come appunto pare potersi argomentare a contrario dalla lettura della citata sentenza n.17742/2015 della Corte Suprema di Cassazione, mentre nella seconda ipotesi (ossia, opzione per il sistema contributivo) si tratta evidentemente di una libera e volontaria scelta del singolo lavoratore interessato e non già di un’imposizione normativa come tale suscettibile di eventuali rilievi critici sotto i profili qui in esame, con la conseguenza che anche per tali ragioni – e per quanto in questa sede maggiormente interessa – non sembra che la detta pronuncia n. 17742/2015 della Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite possa trovare applicazione – sia pure solo in via indiretta e per le enunciazioni di principio in essa contenute – anche nel caso di specie.

Infine, va evidenziato che il profilo afferente il termine prescrizionale del diritto al pagamento dei ratei delle prestazioni pensionistiche liquidate dagli enti previdenziali privatizzati ai sensi del suddetto D.Lgs. n. 509/1994 s.m.i. oggetto di richiesta di riliquidazione, profilo anch’esso affrontato dalla detta pronuncia di legittimità, non sembra evidentemente assumere rilievo ai fini in esame se non in modo del tutto indiretto ed eventuale.

 Dunque, alla luce di tutte le osservazioni e considerazioni che precedono pure in ordine al contenuto ed ai principi ispiratori della suddetta sentenza n. 17742/2015 della Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite, pare più corretto concludere nel senso dell’applicabilità delle previsioni di cui al comma 18 dell’art. 2 della Legge n. 335/1995 s.m.i. anche nei confronti del personale non contrattualizzato alle dipendenze della Pubblica Amministrazione tra cui, per quanto qui maggiormente interessa, il personale appartenente ai ruoli della magistratura ordinaria, e ciò con tutte le relative conseguenze di legge – anche di carattere applicativo – di cui si è già detto in precedenza. 

Da ultimo, pare utile, a conclusione di questo excursus storico-normativo sul tenore e sul contenuto nonché sulla portata della disciplina de qua (ossia, in particolare, il comma 18 dell’art. 2 della Legge n. 335/1995 s.m.i.), dare conto del fatto che, a parere dello scrivente, è possibile un’ulteriore interpretazione che, nel tentativo di mediare tra le due contrapposte soluzioni ermeneutiche fin qui illustrate e facendo leva sugli argomenti dalle stesse rispettivamente impiegati a questi fini adeguatamente rimeditati e rivalutati nella prospettiva di una loro più attenta lettura ed accurata combinazione comunque rispettosa delle relative intrinseche peculiarità, porta ugualmente a ritenere applicabile il disposto di cui allo stesso comma 18 dell’art. 2 della Legge n. 335/1995 s.m.i. anche nei confronti del personale appartenente ai ruoli della magistratura ordinaria, ma a decorrere dalla data di entrata in vigore delle norme di armonizzazione di cui al D.Lgs. n. 165/1997 s.m.i. così come sostanzialmente richiamato dall’art. 2, comma 23, lett. b) della stessa Legge n. 335/1995 s.m.i., e ciò con tutte le relative conseguenze di legge.

Invero,  l’art. 2, comma 23, lett. b) della Legge n. 335/1995 s.m.i. contiene – come più volte ricordato – una delega normativa in favore del Governo in vista dell’emanazione di norme intese alla “armonizzazione ai principi ispiratori della presente legge dei trattamenti pensionistici” del personale non contrattualizzato alle dipendenze della Pubblica Amministrazione “tenendo conto, a tal fine ed in particolare, delle peculiarità dei rispettivi rapporti di impiego e dei differenti limiti di età previsti per il collocamento a riposo …(…omissis…) …”, e tale delega di cui al citato art. 2, comma 23, della Legge n. 335/1995 s.m.i. è stata esercitata – come pure già evidenziato – mediante l’emanazione del detto D.Lgs. n. 165/1997 s.m.i. pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 139 del 17.06.1997 e le cui disposizioni sono entrate in vigore in data 02.07.1997, salve quelle di cui al Titolo I – relativo al trattamento pensionistico del personale militare delle Forze Armate, compresa l’Arma  dei  Carabinieri, del Corpo della Guardia di Finanza nonché del personale delle Forze di  Polizia ad Ordinamento Civile e del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco – entrate viceversa in vigore in data 01.01.1998.

Dunque, nel rispetto dei principi generali in materia di applicazione delle leggi nel tempo e nel rispetto altresì dei fondamentali principi ispiratori delle riforme normative in commento nonché delle peculiarità dei rispettivi rapporti di impiego, potrebbe ritenersi che solo a partire dal 02.07.1997 (data, appunto, di entrata in vigore dello stesso D.Lgs. n.165/1997 s.m.i. rispetto al personale appartenente ai ruoli della magistratura ordinaria) le previsioni di cui al cd. “massimale contributivo”, contenute nel comma 18 dell’art. 2 della Legge n. 335/1995 s.m.i. così come armonizzate per effetto del citato D.Lgs. n. 165/1997 s.m.i. rispetto ai trattamenti pensionistici del personale non contrattualizzato alle dipendenze della Pubblica Amministrazione in forza delle peculiarità dei rispettivi rapporti di impiego e dei differenti limiti di età previsti per il collocamento a riposo dello stesso, trovino applicazione anche rispetto al personale appartenente, per quanto in questa sede maggiormente interessa, ai ruoli della magistratura ordinaria, con tutte le relative conseguenze di legge nonché con tutti i correlativi risvolti applicativi di cui si è già detto in precedenza a proposito della tesi – da reputare appunto maggiormente condivisibile per tutte le riferite ragioni tecnico-giuridiche – dell’applicabilità del disposto di cui al medesimo comma 18 dell’art. 2 della Legge n. 335/1995 s.m.i. anche nei confronti di siffatta categoria di lavoratori del settore pubblico (sia pure a decorrere dal 02.07.1997).   

Si tratta, tuttavia, di una soluzione ermeneutica bisognosa di un maggiore approfondimento sia dal punto di vista tecnico-giuridico che sotto il profilo delle sue possibili ricadute applicative.   

In altri termini, come risulta evidente da tutto quanto fin qui esposto, trattasi di tematica estremamente complessa e delicata involgente molteplici aspetti ed interessi tutti ugualmente meritevoli di tutela giuridica e, pertanto, da approfondire con spirito costruttivo e collaborativo eventualmente anche mediante la costituzione di un tavolo tecnico con le istituzioni ed i soggetti tutti a vario titolo interessati dalle vicende normative in commento nel tentativo di individuare la soluzione più adeguata rispetto alle varie problematiche tecnico-giuridico-applicative in rilievo nel caso di specie, tavolo tecnico la cui costituzione si è già auspicata nelle precedenti righe di questo contributo al tema de quo anche in funzione dell’istituzione e regolamentazione di adeguate forme di previdenza ed assistenza complementari in favore del personale appartenente ai ruoli della magistratura ordinaria, così come già avvenuto rispetto ad altre categorie di lavoratori del settore pubblico, nella prospettiva di assicurare una sempre maggiore sostenibilità dell’intero sistema pensionistico italiano e, al tempo stesso e come richiesto anche dal contesto europeo in cui l’Italia si trova attualmente a vivere ed operare, una congrua tutela giuridica in favore delle future generazioni pure sotto il profilo in esame (tutela evidentemente funzionale anch’essa, in ultima istanza, al perseguimento dell’obiettivo – avuto principalmente di mira dal Legislatore della cd. “Riforma Dini delle pensioni” – di assicurare la sostenibilità del sistema pensionistico italiano medesimo).

Non resta, allora, che attendere eventuali futuri sviluppi normativi e giurisprudenziali.

Isernia, lì 20 settembre 2015

Dott. Marco Pietricola     

Scarica il pdf

REPUBBLICA ITALIANA

Consiglio di Stato

Sezione Seconda

Adunanza di Sezione del 2 dicembre 2015

NUMERO AFFARE 02048/2015Ministero della Giustizia – Consiglio Superiore della Magistratura.Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, con istanza di sospensiva, proposto con presentazione diretta, ex art. 11 d. P.R. n. 1199/1971 e art. 3, comma 4, L. 205/2000, dal dottor Mario Cicala, avverso: a) il provvedimento di collocamento a riposo a decorrere dal 1° gennaio 2016 per limiti di età, di cui alla comunicazione prot. n. 7486 del 28 luglio 2015; b) la delibera del Consiglio Superiore della Magistratura adottata nella seduta del 30 giugno 2015 “in parte qua”; c) ogni atto presupposto connesso e/o conseguenziale.LA SEZIONEVisto il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica in oggetto, depositato direttamente in data 25.11.2015;Visto l’art. 11, secondo comma, del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199;Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Carlo Visciola;PREMESSO E CONSIDERATO:– che pur non avendo il ricorrente espletata la procedura prevista dal sopracitato art. 11, occorre acquisire il ricorso in originale con i relativi atti, nonché la relazione del Ministero;- che la domanda cautelare presentata dal ricorrente ai sensi dell’art.23-bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, come introdotto dall’art.4 della legge 21 luglio 2000, n. 205, ne impone comunque l’esame da parte della Sezione anche prima che pervenga la richiesta di parere e la prescritta relazione ministeriale, stante l’imminente pregiudizio derivante dall’esecutività dell’impugnato provvedimento di collocamento a riposo a decorrere dalla data ravvicinata del 1° gennaio 2016;- che il “fumus boni iuris”, la cui sussistenza allo stato non può essere esclusa, potrà essere compiutamente valutato all’esito dell’acquisizione della relazione e delle risultanze istruttorie che il Ministero riferente dovrà trasmettere nel più breve tempo possibile;- che appare sussistere l’ulteriore requisito della gravità ed irreparabilità del danno derivante dal provvedimento impugnato, la cui esecuzione a decorrere dal 1° gennaio 2016 precluderebbe al ricorrente la prosecuzione nel delicato incarico tuttora ricoperto e sulla cui permanenza l’interessato aveva riposto ragionevole affidamento, a seguito del trattenimento in servizio già a suo tempo accordatogli, incidendo in tal modo anche sullo “ius ad officium” garantito al medesimo e ciò pur in assenza di apprezzabili ed evidenti ragioni di segno contrario, che oltretutto non risultano evidenziate neppure negli atti impugnati;- che l’istanza cautelare deve, pertanto, essere accolta con la sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato, almeno fino a quando l’Amministrazione non fornisca concreti elementi che consentano alla Sezione di valutarne l’incidenza sulla funzionalità dell’Ufficio ricoperto dal ricorrente, tenendo conto sia del tempo necessario per la nuova copertura dell’incarico in questione, sia del prevedibile disagio organizzativo e funzionale che, anche ad avviso dello stesso ricorrente, conseguirebbe dall’esecuzione del provvedimento impugnato, nelle more della definizione del giudizio.


P.Q.M.esprime il parere che debba essere accolta la domanda proposta dal ricorrente e per l’effetto sospesa l’efficacia dell’impugnato provvedimento di collocamento a riposo, nei termini e limiti di cui in motivazione.

L’ESTENSORE               IL PRESIDENTE                     IL SEGRETARIO Carlo Visciola                    Sergio Santoro                   Maria Grazia Nusca