Orientamenti in tema di intercettazioni telefoniche

di Luigi Giordano

Sommario: 1. Premessa. ­- 2. La motivazione del provvedimento: il collegamento tra il reato da accertare e la persona intercettata. – 2.a. segue: la proroga della captazione. – 2.b. segue: richiesta del pubblico ministero e cognizione del GIP. – 3. Intercettazioni disposte per un reato di cui all’elenco dell’art. 266 cod. proc. pen. ed utilizzabilità per i restanti reati dello stesso procedimento. – 3.a. segue: la separazione del procedimento in origine unitario. – 4. Utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi: nozione sostanziale di “stesso procedimento” e rilievo della originaria unitarietà. – 4.a. segue: i presupposti per l’utilizzo delle captazioni eseguitealiunde. – 5. Intercettazioni tra presenti: la necessaria determinazione del luogo. – 6. Intercettazioni e nuove tecnologie: premessa. – 6.a. segue: la sentenza sull’agente intrusore. – 6.b. segue: le intercettazioni dei messaggi PIN to PIN. – 7. Il valore probatorio delle conversazioni captate e la loro interpretazione. – 7.a. Conversazioni avvenute nella lingua dell’imputato e diritto alla traduzione degli atti. – 8. Questioni di inutilizzabilità: il rilievo del vizio. – 8.a. segue: la “delimitazione” dell’area operativa della violazione dell’art. 203 cod. proc. pen. – 8.b. segue: omessa trasmissione dei “brogliacci di ascolto”. – 8.c. segue: l’uso di impianti diversi da quelli della Procura. – 8.d. segue: ulteriori violazioni procedurali. – 8.e. segue: il limite temporale all’utilizzabilità dei tabulati.

1. Premessa. Il presente contributo ha ad oggetto una ricognizione della giurisprudenza di legittimità del 2015 sull’ammissibilità delle intercettazioni e sulla loro utilizzabilità nel processo al fine di verificare se siano intervenute significative evoluzioni negli indirizzi interpretativi precedentemente affermati.

E’ stato segnalato da tempo che l’approccio alle intercettazioni soffre della tendenza ad una valutazione complessiva delle problematiche toccate dall’istituto. Il tema dei limiti di ammissibilità del mezzo di ricerca della prova e dell’utilizzabilità dei suoi risultati, infatti, sovente è evocato nel medesimo contesto in cui si affronta il diverso aspetto della tutela del diritto alla segretezza delle conversazioni. A quest’ultima, talvolta, si affianca il profilo del costo dello strumento investigativo, che non riguarda la garanzia della riservatezza, ma i rapporti tra le autorità pubbliche ed i gestori dei servizi telefonici.

Questo metodo non ha agevolato lo svolgimento del necessario approfondimento dei profili controversi dell’argomento, essendo invece necessario distinguere le diverse questioni sul campo, da valutare alla luce degli interessi di cui sono portatori i vari soggetti interessati.

Il disegno di legge n. 2798, approvato dalla Camera dei deputati il 23 settembre 2015 e trasmesso al Senato, ove ha preso il n. 2067, intitolato “Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi nonché all’ordinamento penitenziario per l’effettiva rieducazione della pena”, muovendosi in una direzione diversa, all’art. 30, prevede il conferimento di una delega al Governo per l’adozione di un decreto legislativo recante disposizioni dirette a garantire la riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni in conformità all’art. 15 Cost. Le nuove prescrizioni dovranno incidere soltanto sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle intercettazioni, prevedendo una scansione procedimentale per la selezione in contraddittorio del materiale registrato, con speciale riguardo alla tutela della riservatezza delle persone occasionalmente coinvolte, in particolare dei difensori. Questa delega sottende la convinzione che, sotto il profilo della divulgazione dei risultati delle captazioni, non sarebbe possibile pervenire ad un più equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali in conflitto solo in base alle norme vigenti, sicché sarebbe inevitabile il ricorso a nuove regole che permettano di contemperare il diritto della collettività ad essere informata con la presunzione di innocenza degli indagati e con la riservatezza di terzi occasionalmente ascoltati a non veder pubblicate vicende intime, magari non inerenti ai fatti penalmente rilevanti. Anche la Corte Costituzionale, del resto, ha richiesto al legislatore la determinazione di <<diversi e migliori equilibri>> tra i valori costituzionali implicati, perché si assiste ad <<un dilagante e preoccupante fenomeno di violazione della riservatezza, che deriva dalla incontrollata diffusione mediatica di dati e informazioni personali, sia provenienti da attività di raccolta e intercettazione legalmente autorizzate, sia … effettuate al di fuori dell’esercizio di ogni legittimo potere da pubblici ufficiali o da privati mossi da finalità diverse, che comunque non giustificano l’intrusione nella vita privata delle persone>>  (Corte cost. 11 giugno 2009, n. 173).

Il disegno di legge citato, invece, non prevede modificazioni delle disposizioni sull’ammissibilità e sull’utilizzabilità delle intercettazioni. In questo ambito, il bilanciamento tra le prerogative individuali e le esigenze investigative è affidato alla giurisprudenza cui è demandato di fissare il corretto punto di equilibrio tra l’esigenza di repressione dei reati e la salvaguardia della riservatezza.

In questa materia, collocata nel punto che sembra divenuto quello di massima frizione tra i poteri dell’Autorità e le libertà individuali, la giurisprudenza di legittimità, per mezzo di diversi interventi anche delle Sezioni Unite, sta svolgendo un delicato compito, che è stato definito di “costruzione del sistema”, tratteggiando i contorni dell’istituto e fissandone i limiti di utilizzabilità. La Suprema Corte (Sez. Un. 12 luglio 2007 n. 30347, Aguneche, Rv. 236754), al riguardo, ha chiarito che <<la formidabile capacità intrusiva del mezzo di ricerca della prova nella sfera della segretezza e libertà delle comunicazioni costituzionalmente presidiata … non può tollerare deroghe, scorciatoie, pigrizie o, peggio, radicali omissioni …>>, precisando in una pronuncia del 2015 (Sez. VI, 26 maggio 2015 n. 27100, Musumeci), che le disposizioni che prevedono la possibilità di intercettare comunicazioni sono di stretta interpretazione, perché <<la norma costituzionale pone … il fondamentale principio secondo il quale la libertà e la segretezza delle comunicazioni sono inviolabili, ammettendo una limitazione soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria e con le garanzie stabilite dalla legge>>.

2. La motivazione del provvedimento: il collegamento tra il reato da accertare e la persona intercettata.

La ricerca del corretto bilanciamento tra le esigenze costituzionali per le quali sono previste le attività finalizzate all’accertamento dei reati e quelle poste a tutela degli individui ha un momento centrale nella motivazione degli atti che permettono le intercettazioni. Il giudice deve dare atto delle ragioni che giustificano la limitazione della prerogativa del singolo e, quindi, dell’equilibrio tra i valori costituzionali interessati. Il tema concerne l’interpretazione dell’art. 267 cod. proc. pen. e riguarda essenzialmente il rapporto tra il presupposto dei <<gravi indizi di reato>>  e quello dell’assoluta indispensabilità dello strumento. Questa norma, invero, assicura il rispetto dell’art. 8 CEDU: la Corte EDU ha affermato che la regolamentazione delle intercettazioni è compatibile con la preminenza del diritto necessaria in una società democratica solo se garantisce una protezione adeguata contro il pericolo di arbìtri lesivi della riservatezza, dovendo disciplinare, in tale prospettiva, in modo sufficientemente preciso, le categorie di persone assoggettabili al mezzo di ricerca della prova, la natura dei reati che vi possano dare luogo, l’indipendenza dell’organo deputato ad autorizzare lo strumento investigativo e le precauzioni da osservare per garantire la privacy degli interlocutori che siano casualmente attinti dalle captazioni senza aver alcun collegamento con l’oggetto delle indagini in corso (cfr. Corte EDU, Sez. II, 10 aprile 2007, Panarisi c. Italia; Corte EDU, Sez. IV, 10 febbraio 2009, Iordachi c. Moldavia).  

Anche nel corso del 2015, la Suprema Corte (Sez. III, 2 dicembre 2014 n. 14954 (dep. 13 aprile 2015), Carrara ed altri, Rv. 263044) è tornata sull’art. 267 cod. proc. pen., ribadendo che, sebbene il primo presupposto contemplato dalla norma non assuma un significato probatorio e, dunque, non imponga una valutazione del fondamento dell’accusa <<in chiave di prognosi, seppure indiziaria, di colpevolezza>>, non deve ingenerarsi l’equivoco che possa essere autorizzata un’intercettazione fondata su illeciti penali meramente ipotetici. E’ richiesta <<l’esistenza, in chiave altamente probabilistica o, nel caso di reati di criminalità organizzata, nel più ristretto ambito della sufficienza indiziaria, di un fatto storico integrante una determinata ipotesi di reato, il cui accertamento imponga l’adozione del mezzo di ricerca della prova>>. Il legislatore, in altri termini, mirando a prevenire qualsiasi uso non necessario di uno strumento tanto insidioso per la sfera della libertà, prescrive <<un controllo penetrante circa l’esistenza delle esigenze investigative e la finalizzazione delle intercettazioni al relativo soddisfacimento, senza alcun riferimento alla delibazione nel merito di una ipotesi accusatorio che può ancora non avere trovato una sua consistenza>>. Questo consolidato approdo interpretativo già rappresenta un punto importante nella prospettiva della tutela delle libertà individuali, essendo idoneo a <<prevenire il rischio di autorizzazione in bianco e di impedire che l’intercettazione da mezzo di ricerca della prova si trasformi in mezzo per la ricerca della notizia di reato>>.

Il giudice, poi, deve ragionare secondo una logica di concreta residualità dell’intercettazione rispetto ad altri strumenti investigativi cd. “tradizionali”. Solo quando altri mezzi sono inutili, se non impossibili, può essere legittimo azionare uno strumento tanto invasivo come quello in esame. Ciò comporta che va indicato il criterio di collegamento tra l’indagine in corso e l’intercettando (cfr. Sez. VI, 12 febbraio 2009, n. 12722, Lombardi Stronati, Rv. 243241). Questo è l’aspetto più denso di significato dell’obbligo di motivazione che, ai sensi degli artt. 15 Cost. e 267, comma primo, cod. proc. pen., incombe in maniera espressa e diretta sul giudice. Nella decisione del 2015 dapprima citata, sul punto, è precisato che il soggetto intercettato <<è stato indicato nel decreto autorizzativo delle intercettazioni come cointeressato all’attività di spaccio>>. Tale laconica affermazione è stata reputata sufficiente per osservare il criterio di collegamento tra il reato da accertato e il soggetto nei cui confronti è stata eseguita l’intercettazione.

2.a. segue: la proroga della captazione

E’ noto che nella prassi la motivazione della proroga del decreto che autorizza l’intercettazione di comunicazione sia notevolmente più sintetica rispetto a quella dell’autorizzazione. Tale consuetudine, anche nel 2015, ha trovato l’avallo della giurisprudenza di legittimità. Secondo Sez. IV, 19 marzo 2015 n. 16430, Caratozzolo, Rv. 263401, la motivazione dei decreti di proroga può essere ispirata anche a criteri di minore specificità e può risolversi <<nel dare atto della constatata plausibilità delle ragioni esposte nella richiestadel pubblico ministero>>. In particolare, secondo questa decisione, per la protrazione delle intercettazioni non è necessario che emergano elementi nuovi. Il semplice contatto della persona intercettata con soggetti indagati, rispetto ai quali cioè erano già emersi indizi di colpevolezza, giustifica il permanere degli ascolti.

Si comprende agevolmente il rischio sotteso a questo indirizzo giurisprudenziale: la motivazione della proroga potrebbe ridursi al mero rinvio all’informativa di polizia giudiziaria allegata alla richiesta del Pubblico Ministero, nel quale spesso sono riportate solo talune conversazioni reputate utili dall’operatore delegato all’ascolto, se non il mero elenco dei contatti giudicati “significativi”. L’art. 267 cod. proc. pen., invece, prevede che la persistenza delle condizioni legittimanti le captazioni debba risultare dalla motivazione del provvedimento di proroga.

2.b. segue: richiesta del pubblico ministero e cognizione del GIP.

Un’interessante decisione del 2015 (Sez. VI, 21 luglio 2015 n. 34809, Gattuso, Rv. 264447)ha precisato che il decreto di autorizzazione del giudice non è vincolato dai limiti della richiesta del pubblico ministero. Nella fattispecie, in particolare, era stata dedotta la sussistenza di uno dei reati contenuti nel catalogo di cui all’art. 266 cod. proc. pen. ed erano state richieste intercettazioni per la durata di soli quindici giorni. L’autorizzazione, invece, era stata concessa da giudice per quaranta giorni, essendo stata riferita a diversa ipotesi di reato che legittimava il ricorso all’art. 13 della legge n. 203 del 1991. La Suprema Corte ha ritenuto che il giudice per le indagini preliminari possa riqualificare la richiesta del pubblico ministero in presenza di sufficienti indizi di delitti di criminalità organizzata, sebbene essa faccia esclusivo riferimento alla disciplina dettata dagli artt. 266 e segg. cod. proc. pen. e, comunque, al termine di quindici giorni.

3. Intercettazioni disposte per un reato di cui all’elenco dell’art. 266 cod. proc. pen. ed utilizzabilità per i restanti reati dello stesso procedimento. Il bilanciamento tra il diritto individuale di cui all’art. 15 Cost. e la necessità garantire strumenti per la ricerca degli autori dei reati ha condotto alla formulazione, nell’art. 266 cod. proc. pen., di un catalogo di illeciti per i quali, in considerazione della gravità o anche per l’impossibilità di raccogliere in modo diverso mezzi di prova (come avviene, ad esempio, per la contravvenzione di molestia o disturbo alle persone con il mezzo del telefono prevista dall’art. 660 cod. pen.), è giustificata, in presenza di determinate condizioni, la compressione della libertà di comunicare.

E’ frequente peraltro che, disposta un’intercettazione per l’accertamento di un reato per il quale il mezzo di ricerca della prova sia consentito dall’art. 266 cod. proc. pen., emerga un fatto diverso o elementi di prova anche di altro o di altri illeciti, che possono anche non essere previsti nell’elenco di cui all’art. 266 cod. proc. pen.

L’orientamento giurisprudenziale prevalente ritiene utilizzabili i risultati delle intercettazioni telefoniche, autorizzate per un reato che rientra tra quelli contemplati dall’art. 266 cod. proc. pen., anche relativamente ai rimanenti illeciti per i quali si procede nel medesimo procedimento, pur se per essi le intercettazioni non sono permesse (cfr. Sez. III, 22 settembre 2010 n. 39761, S.S.; Sez. VI, 5 aprile 2012 n. 22276, Maggioni, Rv. 252870).

L’art. 266 cod. proc. pen., invero, non disciplina il caso di concorso di reati nel medesimo procedimento e, in particolare, non esclude l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazione per i reati diversi da quelli indicati dalla stessa disposizione che siano emersi nel corso dell’indagine per altri illeciti. La locuzione che adopera la disposizione appena citata (<<nei procedimenti relativi ai seguenti reati>>) deve essere interpretata nel senso della sufficienza, per l’accesso al mezzo di ricerca della prova nel corso del procedimento, della presenza di almeno uno dei reati di cui all’art. 266 cod. proc. pen. (Sez. VI, 14 giugno 2011, n. 34735, Anzillotti). Milita in questo senso un’esigenza di intrinseca coerenza sistematica che impone la valutazione unitaria, coerente e complessiva del materiale probatorio acquisito legittimamente al processo. Sarebbe paradossale, del resto, dover sostenere che l’art. 266 cod. proc. pen. disciplina solo i casi in cui il singolo procedimento tratta uno solo, o più, dei reati che espressamente indica.

L’art. 270 cod. proc. pen., d’altra parte, quando deve individuare i parametri per legittimare l’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in altri procedimenti, non richiama l’elencazione tassativa dell’art. 266 cod. proc. pen., ma introduce diversi presupposti, certamente non sovrapponibili, né coincidenti con la clausola generale di cui all’art. 266, comma primo, lett. a), cod. proc. pen.

3.a. segue: la separazione del procedimento in origine unitario.

L’indirizzo giurisprudenziale appena illustrato, ai fini dell’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, postula che i reati ulteriori rispetto a quello per cui sia stato disposto il mezzo di ricerca della prova siano trattati nello stesso procedimento.

L’eterogeneità delle ipotesi accusatorie e degli indagati, tuttavia, può condurre al frazionamento del giudizio per la mancanza delle condizioni di connessione che giustificano lo svolgimento di un procedimento simultaneo. In questo caso, i risultati delle intercettazioni legittimamente acquisiti nel procedimento nella fase in cui era unitario sono sempre utilizzabili, anche nel procedimento separato, non trovando applicazione l’art. 270 cod. proc. pen. che presuppone l’esistenza di più procedimenti ab origine distinti tra loro.

E’ stato puntualizzato (Sez. VI, 16 dicembre 2014 n. 6702 (dep. 16 gennaio 2015)La Volla, Rv. 262496), infatti, che l’unitarietà iniziale del procedimento – piuttosto che il criterio della stretta connessione tra i fatti – reato oggetto dei distinti procedimenti – costituisce il dato processuale per consentire l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per i distinti reati, oggetto del procedimento frazionato, quando sussistono le condizioni di ammissibilità di cui all’art. 266 cod. proc. pen. ed anche quando si tratti di illeciti che non rientrano nell’elenco contenuto in detta disposizione.

Su questo ultimo punto, però, un’altra sentenza sempre del 2015 (Sez. VI, 17 giugno 2015 n. 27820, Morena, Rv. 264087) ha espresso un indirizzo che appare difforme. L’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni nel procedimento separato, secondo questa decisione, presuppone che in relazione agli ulteriori reati il controllo avrebbe potuto essere autonomamente disposto ai sensi del predetto art. 266 cod. proc. pen., così alludendosi alla circostanza che debba trattarsi di illeciti contenuti nel catalogo contenuto nella norma citata.In particolare, è stato ulteriormente precisato che la regola appena indicata opera anche se il giudizio separato riguarda <<fatti strettamente connessi>> all’illecito per il quale sono state disposte le intercettazioni. La sentenza in esame ha richiamato un precedente arresto della stessa Suprema Corte con il quale è stato puntualizzato che la circostanza che non possano considerarsi pertinenti a “diverso procedimento”  risultanze concernenti fatti strettamente connessi a quello cui si riferisce l’autorizzazione giudiziale e che, dunque, non rilevino i limiti di utilizzabilità fissati all’art. 270 cod. proc. pen. in ragione dell’originaria unitarietà del giudizio, non esclude che siano applicabili le condizioni generali cui la legge subordina l’ammissibilità delle intercettazioni (Sez. VI, 15 gennaio 2004 n. 4942, Kolakowska Bozena, Rv. 229999).

4. Utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi: nozione sostanziale di “stesso procedimento” e rilievo della originaria unitarietà.Una decisione del 2015 (Sez. V, 20 gennaio 2015 n. 26693, Catanzaro, Rv. 264001) ha riaffermato il principio giurisprudenziale secondo cui la nozione di identico procedimento, che esclude l’operatività del divieto di utilizzazione previsto dall’art. 270 cod. proc. pen., prescinde da elementi formali come il numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato, implicando una valutazione di tipo “sostanziale”. Il procedimento va considerato identico solo quando tra il contenuto dell’originaria notizia di reato alla base dell’autorizzazione e quello dei reati per cui si procede vi sia una stretta connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico.

La “stretta connessione” a cui allude la Corte di Cassazione per escludere la diversità del procedimento viene riferita alle fattispecie concorsuali (art. 12, comma primo, cod. proc. pen.) o di concorso formale di reati ovvero ai reati legati dal vincolo della continuazione (art. 12, comma secondo, cod. proc. pen.) o a quelli commessi per eseguire o per occultare gli altri (art. 12, comma terzo, cod. proc. pen.) nonché a quelli in cui la cui prova deriva, anche solo in parte, dalla stessa fonte (art. 371, comma secondo, lett. c), cod. proc. pen.).

Secondo la pronuncia indicata, dunque, il dato formale dell’identità del numero del procedimento nel cui ambito sono state eseguite le intercettazioni – che, peraltro, lascia supporre l’unitarietà iniziale – non determina necessariamente che le conversazioni siano utilizzabili per reati trattati in diversi giudizi, che non risultano connessi o collegati sul piano probatorio.

Una sentenza sempre del 2015 (Sez. VI, 16 dicembre 2014 n. 6702 (dep. 16 febbraio 2015), La Volla, Rv. 262496), invece, è giunta a conclusioni diverse proprio facendo leva sull’originaria unitarietà dei procedimenti.

Secondo questa decisione, la disposizione in esame intende impedire soltanto il trasferimento dei risultati delle operazioni tecniche da uno ad un altro procedimento che abbiano avuto un’autonoma e distinta origine. I risultati delle intercettazioni legittimamente acquisiti nell’ambito di un procedimento penale inizialmente unitario, invece, sono sempre utilizzabili, ancorché lo stesso sia stato successivamente frazionato a causa della eterogeneità delle ipotesi di reato e dei soggetti indagati, poiché in tal caso non trova applicazione l’art. 270 cod. proc. pen. che postula l’esistenza di più procedimenti ab origine distinti tra loro.

Alla stregua di questa pronuncia, il fatto che sia intervenuta una separazione perché le ipotesi di reato erano eterogenee e diversi erano i soggetti indagati (o in altri termini, perché le ipotesi di reato non erano connesse, né collegate sul piano probatorio) non esclude l’utilizzo delle intercettazioni in ragione dell’origine unitaria.

L’equivoco in cui è incorsa anche parte della giurisprudenza di legittimità, sempre secondo questa pronuncia, <<è stato quello di attribuire rilevanza preminente al dato formale della diversità dei procedimenti nella loro fase statica, senza invece considerarne la genesi. E’ stato, allora, necessario ricorrere al criterio della stretta connessione tra i fatti – reato oggetto dei distinti procedimenti per recuperare l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni in procedimenti aventi finanche la medesima scaturigine oppure costituenti la prosecuzione, mediante riapertura delle indagini ex art. 414 cod. proc. pen., di altro procedimento già definito mediante archiviazione. Eppure alcune pronunzie di questa Corte di legittimità … avevano affermato a chiare lettere il concetto che non si dà diversità di procedimenti ai sensi e per gli effetti dell’art. 270 cod. proc. pen. nel caso in cui le indagini riguardino un unico iniziale procedimento, ancorché per avventura successivamente frazionatosi per la diversità dei soggetti indagati e dei reati>>.

La disciplina di cui all’art. 270 cod. proc. pen., in conclusione, si applica soltanto nel caso in cui i risultati delle intercettazioni transitano tra procedimenti ab origine distinti (Sez. IV, 8 aprile 2015, n. 29907, Bono, Rv. 244382)

4.a. segue: i presupposti per l’utilizzo delle captazioni eseguite aliunde. L’indispensabilità dell’impiego dei risultati delle intercettazioni compiute in altri procedimenti, secondo Sez. II, 18 febbraio 2015, n. 12625, Moi, Rv. 262927, significa che i risultati delle captazioni debbano essere necessarie per la prova anche di un qualsiasi elemento dell’imputazione, compresi i fatti relativi alla punibilità, alla determinazione della pena, alla qualificazione del reato, alle circostanze attenuanti o aggravanti. L’indispensabilità, pertanto, potrebbe ricorrere pure se le registrazioni sono utili come mero dato di riscontro di dichiarazioni accusatorie.

L’art. 270 cod. proc. pen., per giustificare l’utilizzo, inoltre, pretende che i risultati delle captazioni siano indispensabili per l’accertamento di un reato per il quale è obbligatorio l’arresto in flagranza. La disposizione alza il limite per l’impiego delle registrazioni, non riferendosi al catalogo dei reati di cui all’art. 266 cod. proc. pen., ma alle fattispecie per le quali la legge prevede l’arresto obbligatorio. Secondo Sez. III, 29 gennaio 2015 n. 12536, Anania, Rv. 262999, però, al fine di valutare la esistenza della condizione richiesta dall’art. 270, comma primo, cod. proc. pen. per la deroga al divieto di utilizzazione in altri procedimenti, non è necessario che dalla conversazione intercettata emerga immediatamente l’esatta qualificazione giuridica del delitto “diverso” per il quale è obbligatorio l’arresto in flagranza. Le informazioni raccolte tramite le attività di captazione legittimamente disposte in un determinato procedimento, infatti, possono essere comunque utilizzate come “fonti” da cui eventualmente desumere una successiva notitia criminis. In altri termini, qualora emerga un delitto per il quale l’arresto in flagranza non è obbligatorio, dai risultati delle intercettazioni legittimamente disposte possono essere desunte notizie di reato.

Una decisione del 2015 (Sez. III, 29 gennaio 2015 n. 21451, L., Rv. 263746), poi, ha chiarito che, nel caso di successione di leggi che incidano sui requisiti e sui presupposti legittimanti i mezzi di ricerca della prova e l’utilizzazione dei relativi elementi, il principio tempus regit actum opera in maniera differente qualora siano ontologicamente separati i due momenti di formazione dell’atto e di formale acquisizione dei risultati della ricerca probatoria. Nell’ipotesi di utilizzazione delle intercettazioni telefoniche in procedimento diverso da quello in cui sono state disposte, poiché l’utilizzazione è subordinata, da una parte, alla legalità dell’ intercettazione nel momento genetico, e, dall’altra, a precise condizioni di assunzione nel diverso processo, i due requisiti, di legalità del mezzo e di legittimità dell’acquisizione, vanno individuati nelle leggi vigenti nei rispettivi momenti, pur se diversamente disciplinati. La Suprema Corte, pertanto, ha ritenuto utilizzabili in diverso procedimento le intercettazioni per il reato di cui all’art. 609-quater cod. proc. pen., che, solo successivamente rispetto al momento in cui erano state disposte ed eseguite le attività di captazione, è stato ricompreso tra quelli per i quali l’art. 380 cod. proc. pen. prevede l’arresto obbligatorio in flagranza.

5. Intercettazioni tra presenti: la necessaria determinazione del luogo. Un’interessante pronuncia (Sez. IV, 12 marzo 2015, n. 24478, Palermo, Rv. 263723) ha provveduto a una puntualizzazione in tema di intercettazioni ambientali. Il decreto di autorizzazione delle operazioni di captazione deve riportare i dati che permettono di determinare precisamente la portata della compressione della libertà di comunicazione. Questa regola, sebbene apparentemente non espressa in modo esplicito nella disciplina codicistica delle intercettazioni, è insita nella prescrizione costituzionale. Il decreto autorizzativo di captazioni effettuate mediante l’uso del telefono, pertanto, deve contenere l’identificazione della specifica apparecchiatura o del particolare sistema da sottoporre a intercettazione. In termini sostanzialmente analoghi, nel caso di intercettazioni delle comunicazioni tra presenti, è indispensabile l’individuazione o, quanto meno, l’individuabilità in base agli elementi contenuti nel decreto autorizzativo del preciso luogo nel quale deve intervenire l’ascolto.

Quando l’intercettazione deve avvenire in una vettura, tuttavia, non è necessario che nel provvedimento sia indicata la targa, il modello o un altro dato identificativo del veicolo, essendo possibile richiamare qualsiasi altro elemento idoneo a consentire l’esatto riconoscimento dell’ambiente ove va svolta la captazione.

Il dato che permette l’individuazione del luogo, in particolare, può essere anche di natura relazionale, come l’indicazione del soggetto proprietario o dell’utilizzatore del veicolo, ma solo se ciò non determina incertezze, come, al contrario, potrebbe avvenire nel caso del possessore di un vasto parco macchine. Ne consegue che, quando si verifica la sostituzione dell’autovettura nella quale è stata autorizzata la captazione, le intercettazioni sono comunque utilizzabili e non è necessario un nuovo decreto autorizzativo. Non muta, infatti, lo specifico ambiente per il quale è stata autorizzata l’intercettazione, se detto luogo è determinato con riferimento al rapporto con un determinato utilizzatore o proprietario ed al riguardo non sorge alcuna incertezza.

6. Intercettazioni e nuove tecnologie: premessa. L’impiego a fini investigativi delle moderne tecnologie informatiche ha determinato un nuovo spazio d’intervento per la giurisprudenza, impegnata a delineare i presupposti di ammissibilità di nuovi strumenti, ricercando soluzioni soddisfacenti per il rispetto delle garanzie costituzionali.

In quest’ambito, invero, una difficoltà è rappresentata dal fatto che nella disciplina codicistica delle intercettazioni si rinviene un unico riferimento normativo, rappresentato dalla disposizione che consente di intercettare le comunicazioni informatiche o telematiche. L’art. 266-bis cod. proc. pen., come è noto, permette l’intercettazione del flusso di comunicazioni “relativo a sistemi informatici o telematici ovvero intercorrente tra più sistemi”. Il “flusso” consiste nello scambio di dati numerici (bit). Oggetto di intercettazione informatica o telematica è la connessione, fissa o occasionale, tra computer tra loro collegati o in rete o via modem o con qualsiasi altra forma che potrebbe essere impiegata.

Sebbene la disposizione sia ormai risalente, suscita tuttora qualche problema applicativo. Il messaggio di posta elettronica (e – mail), ad esempio, sembra rilevare quale comunicazione istantanea, alla stregua di quella telefonica, suscettibile, pertanto, di essere intercettata quando il mittente invia il suo messaggio. In questa prospettiva, i messaggi già pervenuti al destinatario ed archiviati in apposite cartelle nella memoria del computer potrebbero esulare dal materiale intercettabile, trattandosi di un flusso di dati “già avvenuto”, rispetto al quale mancherebbe uno dei presupposti tipici dell’intercettazione rappresentato dall’apprensione “in tempo reale” della comunicazione. Diversa appare la situazione che si verifica nel caso di acquisizione di mail archiviate in cartelle “bozze” e non spedite. Si allude a un’ingegnosa modalità di comunicazione che consiste nell’accedere alla medesima casella di posta elettronica tramite internet da parte di due o più persone, che si sono scambiate in precedenza la password. In questo caso si verifica uno scambio comunicativo, sebbene la mail non sia stata inoltrata al destinatario, il quale, peraltro, ne ha preso cognizione. In questa ipotesi, un “flusso” di dati numerici captabile in tempo reale potrebbe ravvisarsi in occasione dell’accesso alla casella di posta elettronica per la lettura della “bozza”.

Il profilo più delicato, però, è certamente rappresentato dalle intercettazioni compiute per mezzo di “agente intrusore”, cioè di virus informatico, del tipo cd. trojan, che consente quella che è stata anche definita nei primi commenti la “perquisizione on line o elettronica”.

Con questa espressione si allude all’istallazione, in genere “da remoto” per mezzo di un programma inviato unitamente ad una mail o ad un sms, di un captatore informatico in un computer o in uno smartphone. Questo strumento consente di captare tutto il traffico dati in arrivo o in partenza dal dispositivo “infettato”, di attivare il microfono e, dunque, di intercettare le conversazioni tra presenti e di mettere in funzione la videocamera, permettendo di carpire le immagini, oltre a fare copia, totale o parziale, delle unità di memoria del sistema informatico preso di mira ed a decifrare quel che viene digitato sulla tastiera collegata al sistema.

I dati raccolti sono trasmessi in tempo reale o ad intervalli prestabiliti ad altro sistema informatico in uso agli investigatori.

Il sistema descritto, evidentemente, è molto utile per lo svolgimento delle indagini. Per esempio, permette l’apprensione delle comunicazioni VOIP, voice over IP, e, comunque, di carpire le comunicazioni che viaggiano direttamente tra i terminali di due utenti, senza attraversare una struttura centrale di commutazione, per mezzo di dati informatici in forma crittografata, che possono essere letti solo da chi (nella specie il gestore) possiede la chiave di decodifica.

Utilizzando il virus informatico sul telefono cellullare, però, le intercettazioni, potenzialmente, non sono soggette ad alcuna restrizione, né temporale, né spaziale. Il telefono, infatti, è divenuto un oggetto che accompagna ogni nostro movimento e che ci segue in ogni luogo, sicché il suo uso come mezzo di intercettazione permette di sottoporre l’individuo ad un indiscriminato controllo della sua vita. Questo controllo si estende ai soggetti che stanno vicino alla persona intercettata. L’intercettazione telefonica, divenuta ambientale, inoltre, avviene anche all’interno di un domicilio e non solo in luoghi pubblici o aperti al pubblico.

Secondo il primo arresto giurisprudenziale che ha affrontato il tema (Sez. V, 14 ottobre 2009, n. 16556 (dep. 29 aprile 2010), Virruso, Rv. 246954), è legittimo il decreto del pubblico ministero che ha permesso l’estrapolazione dei dati già formati contenuti nella memoria del “personal computer”, ma anche di quelli che sarebbero stati memorizzati dopo detta installazione(acquisizione in copia della documentazione informatica memorizzata nel “personal computer” in uso all’indagato) che non si risolverebbe nella registrazione di flusso di comunicazioni. Poiché l’attività consiste nel prelevare e copiare documenti memorizzati (o che sarebbero stati memorizzati) sull’hard disk del computer, non avrebbe ad oggetto un “flusso di comunicazioni”, richiedente un dialogo con altri soggetti. Sebbene nel caso concreto posto al vaglio della Suprema Corte avesse innescato un monitoraggio occulto e continuativo del computer che si era protratto per oltre otto mesi, si sarebbe trattato di una mera “relazione operativa tra microprocessore e video del sistema elettronico”ossia”un flusso unidirezionale di dati”  confinati all’interno dei circuiti del computer.

6.a. segue: la sentenza sull’agente intrusore. Una decisione del 2015 (Sez. VI, 26 maggio 2015 n. 27100, Musumeci) ha affrontato le problematiche determinate dal nuovo strumento investigativo in una dimensione sistematica.

Per un corretto esame del tema, in particolare, ha ritenuto necessario distinguere le due peculiarità tecniche che contraddistinguono una simile modalità di eseguire intercettazioni: l’attivazione, “da remoto”, del microfono e l’attivazione, sempre a distanza, della telecamera.

Quanto al primo profilo, è stato rilevato che il nuovo meccanismo realizza un’intercettazione ambientale, la cui legittimità va valutata alla stregua della previsione di cui all’art. 266, comma secondo, cod. proc. pen. Questa disposizione, nel contemplare l’intercettazione di comunicazioni tra presenti, si riferisce alla captazione di conversazioni che avvengono in un determinato luogo e non “ovunque”. La norma va interpretata in modo rigoroso alla luce della previsione di cui all’art. 15 Cost. Essa, pertanto, non consente intercettazioni ambientali effettuate in qualunque luogo, includendo la possibilità di una captazione esperibile ovunque il soggetto si sposti. L’unica opzione ermeneutica compatibile con il dettato costituzionale, al contrario, è quella secondo la quale l’intercettazione ambientale deve avvenire in luoghi ben circoscritti e individuati ab origine e non in qualunque luogo si trovi il soggetto.

La giurisprudenza, del resto, ammette una variazione dei luoghi in cui deve svolgersi la captazione solo se rientra nella specificità dell’ambiente oggetto dell’intercettazione autorizzata (Sez VI, 11 dicembre 2007, n. 15396, Sitzia, Rv. 239634, relativa ad una fattispecie in cui l’autorizzazione dell’intercettazione ambientale aveva ad oggetto la sala colloqui della casa circondariale in cui era ristretto l’imputato e le operazioni di captazione erano proseguite presso la sala colloqui della diversa casa circondariale in cui era stato successivamente trasferito).

Nella stessa prospettiva, si ammette che, una volta autorizzata la captazione delle conversazioni in un determinato luogo, l’attività possa intervenire anche nelle pertinenze, senza necessità di ulteriore specifica autorizzazione, sul presupposto che non si possa considerare luogo diverso dall’abitazione principale (Sez. II, 15 dicembre 2010, n. 4178 (dep. 4 febbraio 2011), Fontana, Rv. 249207) o che la captazione ambientale possa essere trasferita dalla vettura oggetto di autorizzazione a quella successivamente acquistata dall’indagato sottoposto ad intercettazione (Sez. V, 6 ottobre 2011 n. 5956 (dep. 15 febbraio 2012), Ciancitto, Rv. 252137).

Nel caso di specie, la tecnica utilizzata, per mezzo dell’attivazione del microfono del telefono cellulare, consente la captazione di comunicazioni in qualsiasi luogo si rechi il soggetto, portando con sé l’apparecchio. Si tratta di una modalità di captazione che aggiunge un quid pluris rispetto alle ordinarie potenzialità dell’intercettazione, costituito, per l’appunto, dalla possibilità di captare conversazioni tra presenti non solo in una pluralità di luoghi a seconda degli spostamenti del soggetto, ma – e questo è il punto dolente – senza limitazione di luogo, in violazione della normativa codicistica e, soprattutto, del precetto costituzionale di cui all’art. 15 Cost.

Dalle considerazioni appena svolte, è tratta una conclusione significativa, invero in grado di limitare notevolmente le potenzialità investigative del nuovo strumento: il decreto autorizzativo deve individuare con precisione i luoghi nei quali dovrà essere espletata l’intercettazione delle comunicazioni tra presenti, non essendo ammissibile un’indicazione indeterminata o addirittura l’assenza di ogni indicazione al riguardo. Le captazioni compiute in luoghi diversi da quelli ai quali si riferiva l’autorizzazione devono essere espunte dal materiale cognitivo e valutativo, perché illegittime. Se i provvedimenti autorizzativi, poi, non contengono alcuna specificazione dei luoghi in cui effettuare l’intercettazione ambientale, l’intero materiale captato è illegittimo e, quindi, inutilizzabile, perché non è consentita l’effettuazione di intercettazioni tra presenti senza delimitazioni spaziali.

Il secondo aspetto problematico determinato dal nuovo strumento concerne l’attivazione a distanza della telecamera del telefono cellulare (o del computer) per effettuare video-riprese. Al riguardo, è necessario richiamare un fondamentale arresto giurisprudenziale (Sez. un. 28 marzo 2006, n. 26795, Prisco, Rv. 234267) secondo cui le videoregistrazioni in luoghi pubblici o aperti o esposti al pubblico, non compiute nell’ambito del procedimento penale, vanno incluse nella categoria dei documenti ex art. 234 cod. proc. pen., mentre quelle effettuate dalla polizia giudiziaria, anche d’iniziativa, costituiscono prove atipiche, soggette alla disciplina dettata dall’art. 189 cod. proc. pen.

In ogni caso, le riprese video non possono essere realizzate in ogni luogo. Quelle compiute in ambito domiciliare, in mancanza di una disciplina specifica attuativa dell’art. 14 Cost., sono acquisite illecitamente e, dunque, inutilizzabili.

La tutela costituzionale del domicilio, peraltro, va limitata ai luoghi con i quali la persona abbia un rapporto stabile. Quando si tratta di riprese in luoghi nei quali si svolgono attività riservate, ma che non presentano natura di domicilio, dovendo assicurarsi tutela solo al diritto alla riservatezza di cui all’art. 8 CEDU e all’art. 2 Cost. e non alla prerogativa di cui all’art. 14 Cost., la prova atipica può essere ammessa con provvedimento motivato dell’Autorità giudiziaria (giudice, ma anche pubblico ministero). Il provvedimento dell’Autorità giudiziaria integra il livello minimo di garanzia a cui ha fatto riferimento la Corte Costituzionale (Corte Cost. 11 marzo 1993 n. 81; Corte Cost. 17 luglio 1998 n. 281)

Ne consegue che, nel caso di impiego dell’agente intrusore, sono inutilizzabili le video riprese realizzate in un domicilio e quelle compiute in ambienti in cui va salvaguardata la riservatezza, se, in questo secondo caso, compiute senza un preventivo provvedimento dell’Autorità giudiziaria che spieghi le ragioni che inducono a compiere l’atto per la ricerca della prova di un reato.

6.b. segue: le intercettazioni dei messaggi PIN to PIN. La Corte di Cassazione (Sez. VI, 22 settembre 2015, n. 39925, Solimando)si è occupata anche dell’intercettazione di messaggi fra telefoni Blackberry, scambiati con il sistema PIN to PIN. Il PIN (da non confondere con il codice PIN della scheda SIM telefonica) è un codice univoco che identifica ogni dispositivo Blackberry (analogamente a un numero di serie o a un codice IMEI). È possibile inviare messaggi PIN ad altri telefoni BlackBerry, in modo simile agli SMS, conoscendo i loro codici PIN.

In questa decisione, la Suprema Corte ha affermato che le intercettazioni sono utilizzabili a condizione che i dati informatici siano trasmessi in originale dalla sede italiana della società canadese che gestisce i flussi di comunicazioni direttamente al server degli uffici della Procura della Repubblica, ove possono essere custoditi, con possibilità di accesso e consultazione delle parti, a garanzia della genuinità della prova.

Non è necessaria, inoltre, l’attivazione di una rogatoria internazionale. Va applicato, infatti, anche a queste comunicazioni il principio consolidato in tema di intercettazioni telefoniche. Non bisogna esperire la rogatoria internazionale allorquando l’attività di captazione e di registrazione del flusso comunicativo avviene in Italia, circostanza che ricorre anche nel caso di utenza mobile italiana in uso all’estero o di utenza straniera impiegata in Italia. Occorre fare ricorso alla rogatoria solo nell’ipotesi in cui l’attività captativa sia diretta a percepire contenuti di comunicazioni transitanti unicamente sul territorio straniero. Sul punto, Sez. IV, 29 gennaio 2015 n. 9161, Andreone, Rv. 262441, ha ribadito che non rileva, al fine della individuazione della giurisdizione competente, il luogo dove sia in uso il relativo apparecchio, bensì esclusivamente la nazionalità dell’utenza, essendo tali apparecchi soggetti alla regolamentazione tecnica e giuridica dello Stato cui appartiene l’ente gestore del servizio.

Nel caso di intercettazioni PIN to PIN, sarà utilizzabile solo la captazione di apparecchi Blackberry localizzati in Italia o, quanto meno, quando almeno uno di essi si trova in Italia, impiegando un nodo per le comunicazioni nazionale.

7. Il valore probatorio delle conversazioni captate e la loro interpretazione. Nel corso del 2015, la Suprema Corte (Sez. un, 26 febbraio 2015 n. 22471, Sebbar, Rv. 263715,) ha ribadito l’indirizzo consolidato secondo cui le dichiarazioni carpite nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzata, con le quali un soggetto accusa se stesso e/o altri della commissione di reati, hanno piena valenza probatoria e non necessitano di ulteriori elementi di corroborazione ai sensi dell’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. Al riguardo, in precedenza era stata giudicata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 192, 195, 526 e 271 cod. proc. pen., per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost. e l’art. 6 CEDU, nella parte in cui non prevedono che le indicazioni di reità e correità, captate nel corso di conversazioni intercettate, debbano essere corroborate da altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità, come avviene per le chiamate in reità o correità rese dinanzi all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria, e nella parte in cui non prevedono l’inutilizzabilità di tali dichiarazioni qualora il soggetto, indicato quale fonte informativa nella conversazione intercettata, si avvalga poi della facoltà di non rispondere (Sez. VI, 20 febbraio 2014 n. 25806, Caia, Rv. 259673).

La stessa decisione delle Sezioni Unite dapprima indicata ha affrontato il tema dell’interpretazione dei risultati delle captazioni, che è strettamente legato a quello del valore probatorio delle stesse.

Secondo l’indirizzo consolidato, recepito dalla sentenza, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, rappresenta una questione di fatto rimessa all’apprezzamento del giudice di merito e si sottrae al giudizio di legittimità, se la valutazione risulta logica in base alle massime di esperienza utilizzate.

Non solo il significato attribuito al linguaggio criptico utilizzato dagli interlocutori, ma anche la stessa natura convenzionale di esso, invero, costituisce una valutazione di merito insindacabile in cassazione. La censura di diritto può riguardare soltanto la logica della chiave interpretativa impiegata dal giudice di merito.

Una di tali chiavi di lettura può essere integrata dal frequente ricorrere di termini che non trovano una spiegazione coerente con il tema del discorso e che, invece, si spiegano nel contenuto ipotizzato nella formulazione dell’accusa oppure dalla connessione con determinati fatti commessi da persone che usano gli stessi termini in contesti analoghi (Sez. V, 14 luglio 1997, n. 3643, Ingrosso, Rv. 209620).

Sebbene l’interpretazione delle conversazioni debba fondarsi sul tenore complessivo delle indagini, indispensabili pure per la corretta identificazione degli interlocutori, essa può riposare anche su “massime di esperienza” (Sez. VI, 11 dicembre 2007 n. 15396 (dep. 11 aprile 2008), Sitzia, Rv. 239636; Sez. VI, 30 ottobre 2013 n. 46301, Corso, Rv. 258164). Queste ultime sono costituite da generalizzazioni tratte con procedimento induttivo dalla esperienza comune, conformemente agli orientamenti diffusi nella cultura e nel contesto spazio-temporale in cui matura la decisione (Sez. VI, 28 maggio 2014 n. 36430, Schembri, Rv. 260813; Sez. II, 6 dicembre 2013 n. 51818, Brunetti, Rv. 258117). Al riguardo, trova applicazione il principio secondo cui il ricorso alle”massime d’esperienza”ed al criterio di verosimiglianza conferisce al dato preso in esame valore di prova solo se può escludersi plausibilmente ogni spiegazione alternativa che invalidi l’ipotesi all’apparenza più verosimile (Sez. VI, 22 ottobre 2014 n. 49029, Leone, Rv. 261220). In questo caso, il controllo della Cassazione sui vizi di motivazione della sentenza impugnata, se non può estendersi al sindacato sulla scelta delle massime di esperienza, può però avere ad oggetto la verifica sul se la decisione abbia fatto ricorso a mere congetture, consistenti in ipotesi non fondate sullo id quod plerumque accidited in suscettibili di verifica empirica od anche ad una pretesa regola generale che risulta priva di una pur minima plausibilità (Sez. I, 11 febbraio 2014 n. 18118, Marturana, Rv. 261992; Sez. VI, 27 novembre 2013 n. 1686 (dep. 15 gennaio 2014), Keller, Rv. 258135).

La decifrazione dei significati, però, deve essere priva di ambiguità, in modo che la ricostruzione del contenuto delle conversazioni non lasci margini di dubbio sul significato complessivo dei colloqui intercettati (Sez. VI, 10 giugno 2005, n. 35680, Patti, Rv. 232576).

7.a. Conversazioni avvenute nella lingua dell’imputato e diritto alla traduzione degli atti. Il d.lgs. n. 32 del 2014, attuativo della direttiva 2010/64/UE sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali, ha riformato l’art. 143 cod. proc. pen. La disposizione riconosce all’imputato che non conosce la lingua italiana il diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete, indipendentemente dall’esito del procedimento, al fine di poter comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti e lo svolgimento delle udienze cui partecipa. Egli ha altresì diritto alla traduzione di taluni atti processuali ed all’assistenza gratuita di un interprete per le comunicazioni con il difensore, prima di rendere un interrogatorio ovvero al fine di presentare una richiesta o una memoria nel corso del procedimento. L’art. 143, comma terzo, cod. proc. pen., poi, contiene una sorta di clausola di salvaguardia, permettendo al giudice di disporre la traduzione gratuita di altri atti o anche solo di parte di essi, ritenuti essenziali per consentire all’imputato di conoscere le accuse a suo carico, anche su richiesta di parte, con atto motivato, impugnabile unitamente alla sentenza. Queste norme tutelano i fondamentali diritti, costituzionalmente garantitiexartt. 24 e 111 Cost., di difesa e di partecipazione dell’imputato al processo, permettendo il rispetto dell’art. 6 CEDU.

Secondo Sez. I, 13 maggio 2015 n. 22151, Carrus, Rv. 263781, il diritto alla traduzione riguarda l’imputato e non il suo difensore. Quest’ultimo non potrà dolersi della mancata traduzione in lingua italiana delle conversazioni intercettate, intervenute in lingua sarda, segnatamente nel dialetto barbaricino – dorgalese, a lui sconosciuta.

Il diritto dell’imputato alla traduzione degli atti processuali, invero, mira a garantire la conoscenza dei motivi dell’accusa e delle prove formate in una lingua da lui non conosciuta. Ne consegue che non possa essere esteso alle conversazioni avvenute nella sua lingua madre, evidentemente diversa dall’italiano, ma da lui conosciuta.

8. Questioni di inutilizzabilità: il rilievo del vizio. Una decisione del 2015 (Sez. III, 26 novembre 2014 n. 15828 (dep. 16 aprile 2015), Solano, Rv. 263342), consolidando l’interpretazione che assicura margini più ampi di tutela delle prerogative individuali, ha precisato che l’inosservanza dell’obbligo di motivazione dei decreti autorizzativi o di quelli proroga integra un’inutilizzabilità del risultato delle intercettazioni di carattere “assoluto” o “patologico”, non sanabile in virtù della richiesta di accesso al rito abbreviato, perché derivante dalla violazione dei diritti fondamentali della persona tutelati dalla Costituzione. Il difetto “patologico”, invero, investe tanto le prove oggettivamente vietate, quanto le prove comunque formate o acquisite in violazione – o con modalità lesive – dei diritti fondamentali della persona tutelati dalla Costituzione e, perciò, assoluti e irrinunciabili, a prescindere dall’esistenza di un espresso o tacito divieto al loro impiego nel procedimento contenuto nella legge processuale (che nella specie, peraltro, è individuabile proprio nel predetto art. 271, comma primo, cod. proc. pen.).

Secondo questa pronuncia, inoltre, il vizio può essere dedotto dalle parti, per la prima volta, nel giudizio di cassazione e rilevato oltre il devolutum anche dal giudice di legittimità ai sensi dell’art. 609, comma secondo, cod. proc. pen., perché l’inutilizzabilità è rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento a norma dell’art. 191 cod. proc. pen.

Sotto questo profilo, la decisione si pone in contrasto con un precedente orientamento (Sez. V, 1 ottobre 2008, n. 39042, Samà, Rv. 242319), che escludeva la deduzione per la prima volta con il ricorso per cassazione dell’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche o ambientali.

Una successiva decisione (Sez. III, 27 febbraio 2015, n. 32699, Diano, Rv. 264518) sembra aver composto il contrasto, precisando che l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni non può essere dedotta per la prima volta con il ricorso per cassazione, qualora l’eccezione si fondi su questioni di fatto mai dedotte in precedenza. Il sindacato del giudice di legittimità comprende certamente il potere di esaminare gli atti per verificare l’integrazione della dedotta violazione, ma non anche quello di interpretare in modo diverso, rispetto alla valutazione del giudice di merito, i fatti storici posti a base della questione (se non nei limiti della mancanza o manifesta illogicità della motivazione). Nel caso di specie, solo con il ricorso per cassazione era stata dedotta l’inutilizzabilità delle intercettazioni, per la mancanza dei presupposti di fatto per la proroga dell’efficacia dei decreti originari, che non era stata prospettata in precedenza.

8.a. segue: la “delimitazione” dell’area operativa della violazione dell’art. 203 cod. proc. pen.Una decisione del 2015 (Sez. II, 20 ottobre 2015, n. 42763, Russo)è tornata sul tema delle intercettazioni disposte nei confronti di soggetti individuati in base a “fonti confidenziali”, ribadendo una distinzione idonea a circoscrivere la portata del vizio di inutilizzabilità delle captazioni o, quanto meno, a descriverne un’ampiezza “variabile”. Secondo questa sentenza, il vizio sussiste solo se le informazioni confidenziali abbiano costituito l’unico elemento da cui è stata desunta la sussistenza degli indizi di reato. La fonte confidenziale, invece, può essere usata per individuare la persona fisica da sottoporre a intercettazione.

8.b. segue: omessa trasmissione dei “brogliacci di ascolto”. Una decisione del 2015 (Sez. I, 9 gennaio 2015, n. 15895, Riccio, Rv. 263107) ha affrontato una fattispecie nella quale un’ordinanza cautelare non trovava fondamento sui cd. brogliacci di ascolto delle intercettazioni, che non erano stati trasmessi al GIP, né sulle tracce foniche delle captazioni, analogamente non in atti, ma sulla documentazione delle registrazioni contenuta nel decreto di fermo emesso dal Pubblico Ministero. Secondo questa decisione, una simile situazione non determina l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni. Sarebbe sufficiente anche la sola trasmissione da parte del pubblico ministero al GIP di una sommaria ed informale documentazione, che dia conto sinteticamente del contenuto delle conversazioni contenute negli atti della polizia giudiziaria. Il tribunale ha l’obbligo di fornire congrua motivazione in ordine alle eventuali difformità, che fossero specificamente indicate dalla parte, fra i testi delle conversazioni telefoniche richiamati negli atti e quelli risultanti dai brogliacci o, meglio ancora, dall’ascolto in forma privata dei relativi file audio. Anche in questo caso, si apprezza un’ampiezza “variabile” dell’inutilizzabilità. La portata del vizio questa volta dipende dal comportamento delle parti. Da un lato, gli attori del processo sono responsabilizzati nel senso che gravano sugli stessi oneri al fine di far valere l’invalidità della prova. Dall’altra, proprio detto onere, di fatto, rimette alla disponibilità dell’interessato l’allegazione dei fatti costitutivi dell’invalidità, determinando finanche, nel caso di inerzia dell’interessato, una sorta di quiescenza del vizio.

La richiesta del difensore volta ad accedere, prima del loro deposito ai sensi dell’art. 268, comma quarto, cod. proc. pen., alle registrazioni di conversazioni intercettate, sommariamente trascritte dalla polizia giudiziaria nei cd. brogliacci di ascolto, utilizzati ai fini dell’adozione di un’ordinanza di custodia cautelare, peraltro, secondo Sez. IV, del 28 maggio 2015 n. 24866, Palma, Rv. 263729, determina l’obbligo per il pubblico ministero di provvedere tempestivamente solo quando il difensore specifica che l’accesso è finalizzato alla presentazione di un’istanza di riesame. 

8.c. segue: l’uso di impianti diversi da quelli della Procura. Il decreto del pubblico ministero che dispone, a norma dell’art. 268, comma terzo, cod. proc. pen., il compimento delle operazioni mediante impianti diversi da quelli in dotazione alla Procura della Repubblica, deve motivare sia in ordine al requisito delle eccezionali ragioni di urgenza sia con riguardo all’insufficienza o all’inidoneità delle apparecchiature installate presso il suo ufficio. Al riguardo, la prospettiva del riconoscimento di margini più ampi di tutela dei diritti individuali ispira un’altra decisione depositata nel 2015 (Sez. V, 2 ottobre 2014 n. 6439 (dep. 13 febbraio 2015), Sparandeo, Rv. 262661). Secondo questa pronuncia, l’inosservanza della norma processuale appena illustrata deve intendersi sanzionata da inutilizzabilità patologica delle intercettazioni, secondo il combinato disposto degli artt. 191 e 271 dello stesso codice.

La decisione si pone in consapevole contrasto con quanto affermato da Sez. II, 14 gennaio 2014 n. 3606, Garzo, Rv. 258541, secondo cui sarebbero riconducibili alla “inutilizzabilità patologica” – rilevabile, dunque, anche nel rito abbreviato – i soli difetti derivanti dalla violazione dei “diritti fondamentali” enunciati negli artt. 188 e 189 cod. proc. pen. e non tutti quelli contemplati dall’art. 271, comma primo, cod. proc. pen.

E’ stato altresì precisato (Sez. V, 11 febbraio 2015 n. 22949, Bevilacqua, Rv. 263987) che la motivazione sulle ragioni di eccezionale urgenza per l’uso di impianti in dotazione della polizia giudiziaria, a norma dell’art. 268, comma terzo, cod. proc. pen., è assorbente rispetto ai profili tecnici di inidoneità funzionale degli impianti della Procura della Repubblica, sicché, in tal caso, l’omessa indicazione specifica dei precisati aspetti tecnici non è causa di nullità o inutilizzabilità del decreto di intercettazione.

Nello sforzo di delimitare l’ambito operativo dell’art. 268, comma terzo, cod. proc. pen., inoltre, una decisione (Sez. I, 19 dicembre 2014 n. 3137 (dep. 22 gennaio 2015), Terracchio, Rv. 262485)ha specificato che la disposizione non vieta l’utilizzazione di impianti e mezzi appartenenti a privati, né il ricorso all’eventuale ausilio tecnico ad opera di soggetti esterni che siano richiesti di intervenire per fronteggiare esigenze legate al corretto funzionamento delle apparecchiature noleggiate e che si trovano ad agire, in tale evenienza, come longa manus o ausiliari del Pubblico ministero o della polizia giudiziaria.

Secondo Sez. IV, 27 novembre 2014 n. 5401 (dep. 5 febbraio 2015), Lazzaroni, Rv. 262125, infine, non è configurabile alcuna nullità, né inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni se le operazioni di “masterizzazione” dei dati relativi alle conversazioni registrate sono state effettuate fuori dei locali della Procura della Repubblica dove, tuttavia, deve essere stata eseguita la registrazione delle comunicazioni. Il pubblico ministero non ha l’obbligo di avvisare la difesa dell’indagato in ordine allo svolgimento della “masterizzazione” dei dati registrati, alle quali il difensore ha diritto di assistere ma, soltanto, previa specifica richiesta da formularsi dopo la notifica degli avvisi di cui all’art. 268, comma quarto, cod. proc. pen. o all’art. 415-bis cod. proc. pen.

8.d. segue: ulteriori violazioni procedurali. L’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, peraltro, è confinata dalla Suprema Corte negli ambiti descritti dall’art. 271, comma primo, cod. proc. pen.

Non determina l’inutilizzabilità degli esiti delle attività di captazione, in particolare, l’irregolare indicazione di inizio e fine delle operazioni nei verbali cui fa riferimento l’art. 267, comma quinto, cod. proc. pen. e che attengono alla durata complessiva dell’attività di intercettazione autorizzata per le singole utenze o i singoli ambienti privati (Sez. VI, 21 luglio 2015, n. 33231, Murianni, Rv. 264462) ovvero la mancata indicazione nei verbali di inizio e fine delle operazioni, dei nominativi degli ufficiali di P.G. che hanno preso parte alle stesse (Sez. III, 17 febbraio 2015, n. 20418, Iannuzzi, Rv. 263625).

8.e. segue: il limite temporale all’utilizzabilità dei tabulati. Una decisione della Suprema Corte (Sez. V, 5 dicembre 2014, n. 15613 (dep. 15 aprile 2015), Geronzi, Rv. 263805) ha reputato patologicamente inutilizzabili i dati contenuti nei tabulati telefonici acquisiti dall’Autorità giudiziaria senza rispettare i termini di cui all’art. 132 del d.Lgs. n. 196 del 2003. Questa norma dispone che, per finalità di accertamento e repressione dei reati, il fornitore debba conservare i dati relativi al traffico telefonico per ventiquattro mesi dalla data della comunicazione, mentre quelli concernenti il traffico telematico per dodici mesi dalla data della comunicazione. Entro questi termini, i suddetti dati sono acquisiti presso il fornitore con decreto motivato del pubblico ministero, anche su istanza del difensore dell’imputato, della persona sottoposta alle indagini, della persona offesa e delle altre parti private.

Va segnalato che, nel caso preso in esame dalla sentenza indicata, la richiesta di utilizzare i tabulati era stata avanzata dalla difesa.

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