Parere del CSM su riforma codice penale e codice procedura penale

1) Fasc. 1/PA/2015 – Nota pervenuta in data 27 gennaio 2015 dal Ministro della Giustizia che trasmette, per il parere, il testo del disegno di legge concernente: “Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore contrasto al fenomeno corruttivo, oltre che all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena”.

(relatore Consigliere MOROSINI)

La Commissione, all’unanimità, propone al Plenum di approvare il seguente parere:

«Premessa.

Il disegno di legge n. 2798 intende riformare alcuni parti significative del sistema penale con l’obiettivo di rafforzare le garanzie difensive, assicurare la ragionevole la durata dei processi, intensificare il contrasto alla corruzione e incidere sull’ordinamento penitenziario per rendere effettivi percorsi di reinserimento sociale dei condannati e di accesso alle misure alternative alla detenzione.

La proposta di legge coinvolge anche l’istituto della prescrizione, limitatamente all’art. 159 c.p., e tradisce una nitida scelta di campo a fronte del ricco e vivace dibattito in argomento, su cui si sta cimentando la platea dei giuristi e la stessa opinione pubblica.

Nel complesso, il disegno di legge in esame viene a connotarsi per l’estrema varietà degli interventi di natura penal-sostanziale e processuale, alcuni dei quali effettuati attraverso disposizioni di immediata applicazione, altri nella forma dei progetti di legge-delega (ad es. in tema di intercettazioni). E, tuttavia, sembra rinunciare alla formulazione di importanti opzioni strategiche.

Come più volte segnalato anche dal Consiglio superiore della magistratura, gli ambiziosi obiettivi indicati nella relazione a corredo del disegno di legge andrebbero perseguiti da interventi organici di ben altra intensità, data la crisi gravissima in cui versa la giustizia penale del nostro paese, crisi che attiene a differenti ambiti operativi, tra loro strettamente interconnessi.

A) Il diritto penale sostanziale

Il nostro diritto penale sostanziale, a causa del susseguirsi di interventi normativi spesso ispirati ad una logica emergenziale, nel tempo ha dilatato a dismisura il catalogo dei reati e l’ intensità della risposta repressiva. Ciò si è peraltro realizzato, in maniera prevalente, in settori interessati dalla c.d. criminalità di strada e dai fenomeni connessi all’uso di sostanze stupefacenti, piuttosto che nell’ambito della criminalità economica e contro la pubblica amministrazione, rispetto ai quali si constata una assoluta inadeguatezza della risposta repressiva, anche per la mancanza di adeguati interventi sul sistema economico, sulla pubblica amministrazione e sul relativo regime dei controlli, che dovrebbero essere preliminari ad ogni ipotesi di revisione dell’intervento penalistico.

Alla dilatazione dei dispositivi di controllo penale nei settori più sensibili alle sollecitazioni securitarie ha, per un verso, corrisposto un marcatissimo incremento del carico giudiziario, con effetti di sostanziale incapacità di smaltimento dello stesso da parte del sistema processuale e la conseguente attribuzione all’istituto della prescrizione di una patologica funzione di mantenimento degli equilibri del sistema penale, in specie per i reati in materia ambientale o contro la pubblica amministrazione, in relazione ai quali si è registrata una estrema difficoltà a pervenire ad un effettivo vaglio sulla responsabilità.

Sul versante del diritto sostanziale, a fronte di un catalogo di reati dal carattere ipertrofico, andrebbe effettuata, con assunzione di responsabilità del Parlamento, una selezione delle condotte realmente meritevoli di determinare la risposta penale, che secondo il dettato costituzionale, dovrebbe connotarsi come extrema ratio.

Alla stato, invece, questa operazione viene sostanzialmente affidata alla sola giurisprudenza mediante l’istituto della “particolare tenuità del fatto” introdotto dal decreto legislativo n.28 del 2015, che –  se costituisce un utile strumento di selezione delle condotte nel caso concreto meritevoli di punizione, in ossequio al principio di offensività  – non realizza quella necessaria assunzione di responsabilità del legislatore nelle scelte di valore sottese al sistema penale che, soltanto, può effettivamente incidere sugli indirizzi generali della giurisdizione, anche sotto il profilo deflattivo. E ciò, anche perché l’accertamento della tenuità del fatto nella singola fattispecie comporta comunque procedura laboriosa che difficilmente si tradurrà in una effettiva riduzione dell’impegno giudiziario e che, d’altro canto, potrebbe determinare trattamenti diversificati per condotte analoghe nei diversi ambiti nazionali.

Con riferimento poi al profilo più strettamente sanzionatorio, occorrerebbe superare la persistente centralità della pena carceraria, potenziando l’utilizzo di misure repressive di tipo ablativo, prescrittivo ed interdittivo quali pene principali, e con la previsione della possibilità di applicare sanzioni alternative al carcere da parte del giudice della cognizione. E bisognerebbe altresì addivenire alla implementazione di un sistema di restorative justice fondato sugli istituti tipici della giustizia riparativa e della mediazione penale, già esistenti nel processo minorile e nel rito del giudice di pace come solo in parte il disegno di legge in esame si propone di fare.

B) Il processo penale.

Sul piano processuale si attende una riforma in grado di effettuare una profonda revisione del codice di rito, attualmente connotato dalla presenza di adempimenti defatiganti, solo apparentemente rispondenti a finalità di garanzia ed in realtà prevalentemente formali, nonché alla riforma organica di un regime delle impugnazioni che – unitamente ai tempi di prescrizione assai brevi previsti per alcuni tipi di reati e ad un sistema del patrocinio a spese dello Stato divenuto sempre più centrale in tempi di grave e persistente generale crisi economica – incentiva la proliferazione dei ricorsi, contribuendo a comporre un carico processuale responsabile dei tempi inadeguati della giustizia penale.

Su questo versante le novità proposte dal disegno di legge n. 2798 rappresentano un primo promettente segnale con riguardo alle disposizioni in materia di riti speciali, udienza preliminare, archiviazione e regime delle impugnazioni, ma non decisive per la risoluzione delle suddette questioni.

Per coltivare concretamente il valore della durata ragionevole del processo,  probabilmente sono necessari interventi di dettaglio su istituti specifici fonte di criticità procedimentali che contribuiscono alla complessiva scarsa razionalità e funzionalità del sistema.

Così, sarebbe opportuno rivedere la disciplina delle notifiche penali, valorizzando gli strumenti informatici e semplificando gli oneri di comunicazione talvolta caratterizzati da un approccio di formalistica sovrabbondanza, rafforzando l’affermazione degli oneri di correttezza e di partecipazione leale dei privati.

Anche il processo a carico di imputati irreperibili, recentemente riformato, appare ancora caratterizzato da un eccesso di rigidità formale che rischia di frustrane l’effetto deflativo.

Bisognerebbe riconsiderare la regola che impone la rinnovazione delle prove già assunte in caso di mutamento della persona fisica del giudice che appare scarsamente coerente con un processo solo parzialmente orientato al rito accusatorio, è incompatibile con l’enorme numero di processi pendenti ed è fonte di gravi criticità in sedi giudiziarie caratterizzate da scoperture ed elevato ricambio di magistrati. A tal fine potrebbe generalizzarsi l’applicabilità della disciplina stabilita dall’art. 190 bis c.p.p. per i soli reati di più grave allarme sociale.

Andrebbe inoltre rivista la disciplina sul patrocinio a spese dello Stato.

Attualmente, l’elevatissimo numero di patrocinatori presenti nel nostro Paese, senza eguali rispetto ad altri stati europei ad esso assimilabili, costituisce un elemento moltiplicatore di alcune attività giudiziarie, in specie con riferimento alle impugnazioni.

Le concorrenti esigenze di assicurare adeguata difesa alle parti processuali sprovviste di idonei mezzi finanziari e patrimoniali e di evitare non necessari appesantimenti dell’attività processuale, oltre che di contenere gli esborsi per l’Erario, potrebbero essere tutelate mediante l’istituzione di un ruolo stabile di avvocati, dipendenti pubblici, cui affidare la cura delle parti prive di sufficienti risorse.La natura pubblica dell’organo e la previsione di meccanismi retributivi non esclusivamente parametrati alle prestazioni erogate dovrebbe impedire fenomeni di ingiustificata proliferazione del contenzioso, con un sicuro risparmio di risorse economiche e giudiziarie; a tal fine, potrebbe assumersi a modello l’esperienza nordamericana.

C) L’esecuzione penale

Per altro verso, andrebbe riscritto l’assetto dell’esecuzione penale, oggi ancora prevalentemente incentrato sulla costosa ed economicamente ormai insostenibile opzione carcero-centrica del Codice Rocco, con uno spazio ancora limitato per le sanzioni alternative alla pena carceraria. Su questo tema, in effetti, il disegno di legge in esame si limita a fissare una serie di principi e criteri direttivi (art. 26) per una risistemazione organica dell’ordinamento penitenziario, che sarà oggetto di approfondimento in una separata delibera.

Le disposizioni del disegno di legge.

1. La riparazione del danno

Il titolo I contiene proposte di modifica del diritto sostanziale, finalizzate a rendere il sistema penale più adeguato all’obbiettivo di una giustizia snella, funzionale ed efficace, con l’introduzione di misure orientate, da un lato, a selezionare le vicende che – dal punto di vista delle istanze di tutela dell’ordinamento, e delle finalità retributive e preventive della pena – richiedano effettivamente il dispiegamento integrale delle risorse processuali di accertamento e sanzione ordinarie e, dall’altro, ad offrire un apparato ordinamentale idoneo a rendere effettiva la sanzione delle condotte meritevoli di punizione.

Al primo obbiettivo sono dedicati gli artt. 1 e 2 che, operando sul piano sostanziale delle cause di estinzione del reato, individuano, in relazione a certe tipologie di reato, una nuova fattispecie di definizione della vicenda che garantisca l’eliminazione del disvalore sociale della condotta con modalità alternative alla sanzione penale, con i vantaggi di deflazione processuale conseguenti al venir meno della necessità del pieno accertamento. L’istituto pare ispirato dal dibattito, sempre più diffuso in dottrina e radicato nell’attenzione dei legislatori, sulle modalità alternative di definizione dei procedimenti penali, secondo i canoni della cd. “giustizia riparativa”.

Nell’ottica descritta, l’innovazione deve essere salutata con favore, affiancandosi, in un percorso omogeneo di revisione del sistema penale, all’istituto, di più ampia portata, della messa alla prova generalizzato con la recente legge n. 67 del 2014.

L’approccio culturale rimanda ai sistemi di Restorative Justice che attribuiscono a condotte riparative del reo l’effetto di attenuare o di escludere la responsabilità o, ancora, di incidere sulle modalità di espiazione della pena, in una prospettiva in cui l’intervento penale si giustifica quale extrema ratio che, indirettamente, favorisce obbiettivi ulteriori, quali l’economia processuale e, in ulteriore analisi, la riduzione della popolazione carceraria.

Il disegno di legge all’art. 1propone, dunque, l’introduzione dell’art. 162- ter del codice penale, che prevede l’estinzione del reato quando l’imputato abbia riparato il danno dal medesimo cagionato, mediante le restituzioni o il risarcimento, ed abbia eliminato le sue conseguenze dannose o pericolose.

Il presupposto dogmatico generale, largamente condiviso, è quello che nessuna utilità sociale generale né individuale può essere riconosciuta alla sanzione penale quando, sul piano delle conseguenze obbiettive, ogni effetto pregiudizievole della condotta vietata sia stato rimosso, e sul piano soggettivo, il reo abbia dimostrato, per comportamenti concludenti, una seria volontà di riabilitazione. La giustificazione teorica, appena esposta, spiega la limitazione dell’istituto ai reati perseguibili a querela e con querela rimettibile, in cui, cioè, l’interesse protetto sia fortemente individualizzato nella persona offesa che è per legge arbitro della percorribilità processuale della sua punizione.

Proprio nell’ottica della verifica in concreto della ricorrenza delle ragioni sostanziali che giustificano la rinuncia alla punizione, la norma prescrive che prima di decidere il giudice senta le parti del processo. Naturalmente deve ritenersi che non sia necessario, per dare corso alla dichiarazione di estinzione del reato, l’esplicito assenso della persona offesa; ciò perché, se la volontà della vittima fosse condizione indispensabile per la pronuncia si finirebbe per non riconoscere al nuovo istituto un ambito di significativa applicazione ulteriore rispetto a quello consentito dalla remissione della querela, prevista come autonoma causa di estinzione dall’art. 152 c.p..

La formulazione letterale della norma sembra escludere ogni discrezionalità del giudice, tenuto adichiarare l’estinzione del reato ogni qualvolta sia stata accertata l’intervenuta effettiva riparazione integrale.

E’ introdotto inoltre l’art. 649-bisdel codice penale, che ammette la pronuncia dell’estinzione del reato per intervenuta riparazione del danno in alcune fattispecie di reato la cui procedibilità non dipende dalla querela della persona offesa. Si tratta di ipotesi di reato contro il patrimonio in cui, d’altra parte, per l’oggetto e le modalità della condotta, il legislatore ha ritenuto comunque una caratterizzazione fortemente individuale dell’interesse protetto [1].

2. La misure di contrasto alla corruzione

L’art. 3 del disegno di legge in esame affronta il tema del contrasto alla corruzione, che costituisce una delle principali emergenze di inquinamento del tessuto istituzionale politico e civile del Paese.

Va evidenziato che del medesimo argomento si occupa in maniera più articolata altra proposta di legge (n. 19, cui sono state riunite quelle nn. 657, 711, 810, 846, 847, 851 e 868),   approvata in data 1 aprile 2015 dal Senato della Repubblica ed in atto pendente pressola Cameradei Deputati, di cui si tiene conto in questa parte del parere.

In realtà il testo in commento si limita a proporre l’aumento della pena edittale prevista per il reato (art.3 del ddl n.2798), misura che dal punto di vista della strategia complessiva di repressione del fenomeno, pare largamente insufficiente, e come tale inidonea a colmare le lacune e le incertezze interpretative che già scaturivano dalla legge n.190 del 2012.

La revisione dell’assetto normativo proposto dall’art. 3 del disegno di legge in questione non tiene conto delle richieste e dei suggerimenti di ordine sovranazionale, convenzionale e comparato secondo cui la credibilità di un quadro anticorruzione efficace e dissuasivo dipende dalla effettiva capacità di perseguire i casi di corruzione. In effetti il disegno di legge, al pari della legge n.190/2012, non apporta quegli indispensabili interventi sulle pene accessorie e sulla non punibilità di chi denuncia la corruzione, da più parti considerati irrinunciabili per una azione efficace. E dette richieste solo in parte vengono assecondate dalla proposta di legge n. 19, già votata dal Senato.

Proprio sul piano strettamente sanzionatorio, andrebbe, infatti, ripensato l’intero sistema delle pene accessorie, prevedendo come obbligatoria l’interdizione perpetua per ogni fattispecie corruttiva e introducendo una disposizione speciale che non consenta la sospensione quantomeno di questa peculiare ipotesi di pena accessoria.

E sarebbe, altresì, auspicabile l’elaborazione, anche sul piano penale, di un meccanismo di tutela per coloro che, non essendo pubblici ufficiali e prima che sia iniziato un procedimento penale, denuncino fatti di corruzione.

La premialità per chi denuncia in sede penale la corruzione, senza voler optare per soluzioni radicali di non punibilità – come pure previsto in altri Paesi -, può acquisire i connotati di un’attenuante speciale, significativa sul piano sanzionatorio, ancorandone il riconoscimento in modo specifico alla rilevanza e novità della collaborazione prestata[2]. In questa scia si muove opportunamente la già menzionata proposta di legge 19, laddove si prevede che, per il reato di corruzione, chi collabora con l’autorità giudiziaria può ottenere uno sconto di pena variabile tra un terzo e la metà,  come stabilito da anni per la criminalità di stampo mafioso.

E’, inoltre, necessario aggredire le condotte di reato connesse al fenomeno corruttivo, quali il falso in bilancio e l’evasione fiscale – che consente di acquisire la provvista economica per l’attività di corruzione – orientando la normativa nel senso di perseguire la piena tracciabilità delle transazioni finanziarie.

In effetti, anche sotto tale ultimo profilo, il testo della proposta di legge n. 19, pure non scevra da lacune, contiene, nella parte relativa al reato di falso in bilancio, delle positive novità. Le relative disposizioni ripropongono la perseguibilità d’ufficio e un adeguato carico sanzionatorio (da tre a otto anni di reclusione), ma solo per le società quotate in borsa. Mentre per le società non quotate in borsa la pena è prevista una pena da1 a5 anni di reclusione, con evidenti ripercussioni sul versante della ricerca della prova, dal momento che il massimo edittale non consente di esperire l’attività di intercettazione.

Tornando al disegno di legge in commento, non si riscontra alcun intervento sull’attuale assetto normativo sulla voluntary disclosure  (rientro di capitali dall’estero, previsto dalla legge 15.12.2014 n. 186), che impedisce su tali fatti indagini anche per riciclaggio, per cui molte condotte (transazioni economiche legate a vicende corruttive) restano opache.

E anche sul piano amministrativo delle persone giuridiche, non si è dato seguito alle indicazioni del GRECO (Gruppo di Stati contro la corruzione), laddove ha fatto presente che il sistema contabile italiano non ottempera ai requisiti previsti dalla convenzione penale sulla corruzione e dalla convenzione civile sulla corruzione del Consiglio d’Europa. Questo si palesa, in particolare, con riguardo alle condizioni/soglie di responsabilità, alla copertura limitata dei requisiti in materia di revisione dei conti (circoscritta alle società quotate in Borsa, alle aziende statali e alle imprese di assicurazione), alla determinazione delle pene e alle disposizioni relative agli autori del reato di falso in bilancio.

In relazione a tutti gli ambiti considerati, deve essere senz’altro sostenuto il percorso di riforma che il legislatore appare intenzionato ad intraprendere, anche attraverso la più volte citata proposta di legge 19, peraltro anch’essa incompleta, come già sopra illustrato.

Si aggiunga che il fenomeno corruttivo alligna maggiormente nelle procedure di gestione della spesa pubblica (autorizzazioni, concessioni, attività di pianificazione urbanistica, scelta del contraente in procedure di affidamento, erogazioni di sovvenzioni, finanziamenti, ecc.), in relazione alle quali, correttamente, la legge n. 190/2012 impone che i piani anticorruzione contengano specifiche misure preventive.

D’altra parte, il contrasto al fenomeno corruttivo è reso più difficile dal crescente ricorso a procedure di tipo privatistico che azzerano o rendono estremamente difficile ogni possibilità di controllo.

Ciò rende ineludibile un pieno contrasto della corruzione in campo privato, proprio per garantire la trasparenza dei meccanismi di gestione di spesa per la realizzazione, da parte di privati, di servizi d’interesse pubblico. Tale questione si collega a quella dell’inidoneità delle categorie penalistiche a fronte della crescente privatizzazione dell’attività della Pubblica Amministrazione.

Le disposizioni di cui alla legge n. 190/2012 non definiscono in modo abbastanza ampio le cariche dirigenziali che possono mettere in gioco la responsabilità dell’impresa per reati di corruzione commessi dai relativi titolari, né prevedono la responsabilità nei casi di carenza di sorveglianza. Il regime sanzionatorio applicabile alle persone giuridiche non sembra essere sufficientemente dissuasivo.

Le attuali disposizioni sulla corruzione tra privati appaiono eccessivamente limitate e restringono il campo di applicazione alle categorie di dirigenti del settore privato cui il reato è imputabile. I procedimenti sono peraltro su querela della persona offesa e non ex officio, salvo se derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi.

A tal proposito, appare utile sottolineare l’importanza di un articolato intervento di riforma sulla fattispecie incriminatrice di corruzione tra privati. Il disegno di legge in commento così come il testo della proposta di legge n. 19, già approvata da un ramo del Parlamento, non prevedono la trasformazione del reato di corruzione tra privati in reato di pericolo e non di danno, con la conseguente eliminazione della punibilità a querela. Invero, solo con quella modifica normativa verrebbe meno il requisito del “nocumento” alla società che oggi deve derivare dalla condotta corruttiva ed il reato in esame avrebbe come unico bene giuridico tutelato quello della concorrenza.

Conclusivamente, non può che osservarsi che i singoli sporadici e frammentari interventi realizzati – ed in gran parte attualmente solo annunciati dal legislatore – risultano per la loro disorganicità insufficienti. E’ al contrario indispensabile, per contrastare efficacemente un fenomeno criminale di siffatta ampiezza, pervasività e ramificazione – ed i conseguenti intollerabili costi sociali in termini di risorse e di effettività della funzione democratica dello Stato – una piena assunzione di responsabilità ed il superamento di cautele e timidezze che troppo spesso hanno intralciato il cammino del legislatore. E’ necessario un intervento organico a tutto campo operando su ciascuno snodo degli inscindibili nessi tra il piano amministrativo, quello istituzionale, quello penale sostanziale, nonché degli strumenti investigativi e dei modelli processuali. Solo una determinazione senza riserve ed una azione coordinata di tutte le risorse dello Stato possono invertire una deteriore tendenza alla dissipazione della cosa pubblica che influisce in maniera pregiudizievole ed apparentemente ineluttabile sui meccanismi di funzionamento dello Stato fino a metterne in discussione gli stessi fondamenti di legittimazione democratica, indebolendo radicalmente il tessuto di solidarietà indispensabile a mantenere i vincoli di cittadinanza enucleati nella Costituzione.

3. Le innovazioni in materia di confisca allargata

Il testo di legge modifica la disciplina della confisca allargata prevista dall’art 12-sexies del D.L. 8 giugno 1992, allo scopo di ampliarne l’ambito di applicazione e la concreta effettività.

La misura viene estesa a tutti i reati contemplati dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., sì da ricomprendere taluni delitti fino ad ora esclusi, tra i quali i reati di associazione diretta a commettere reati sessuali in danni di minori, le attività organizzate per il traffico di rifiuti, l’associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri. Più in generale, il rinvio normativo induce a ritenere che qualsiasi futura modifica del catalogo contenuto nella norma richiamata automaticamente ope legis provocherà l’ampliamento dell’ambito di applicabilità della misura patrimoniale.

Sono poi oggetto di specifica precisazione aggiuntiva alcuni reati per i quali la misura patrimoniale non è prevista nella disciplina vigente, quali i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale.

Degna di attenzione è l’integrazione della norma con la previsione all’ultimo comma della preclusione per il condannato della possibilità di giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che le risorse siano provento o reimpiego di evasione fiscale.

La disposizione è evidentemente posta a definire una questione interpretativa specifica  oggetto di dibattito in dottrina e giurisprudenza, che finora ha visto emergere soluzioni differenziate in ragione anche della specificità della tipologia di confisca utilizzata[3].

Il legislatore ha ritenuto così di stabilire in via generale ed astratta la risposta interpretativa più rigorosa che finora, nell’ambito della confisca allargata, non aveva trovato il favore della giurisprudenza dominante, allo scopo di rendere l’applicazione dell’istituto più severa ed effettiva.

Meritevole di menzione è altresì l’integrazione del comma 2- ter dell’art. 12-sexies citato, con cui si precisa che la confisca per equivalente può estendersi anche alle utilità di legittima provenienza delle quali il condannato abbia la disponibilità.

Dopo alcune abrogazioni giustificate da motivi di coordinamento normativo e la previsione della garanzia della tutela dei terzi eventualmente titolari di diritti sui beni sequestrati attraverso la citazione nel processo di cognizione, l’art. 4  stabilisce, introducendo il comma 4-sexies dell’art. 12-sexies, che la confisca allargata, ad eccezione di quella per equivalente, può essere pronunciata anche quando il reato sia dichiarato estinto per prescrizione o per amnistia in sede di impugnazione, ove vi sia stata condanna in uno dei gradi di giudizio, purché il giudice del gravame, ai soli effetti della confisca, abbia accertato la responsabilità dell’imputato.

La norma intende adeguare il sistema normativo nazionale alla giurisprudenza nazionale e sovranazionale[4], che ha sancito l’illegittimità della sanzione patrimoniale consistente nella definitiva ablazione dei beni, ove non si sia pervenuti all’accertamento nel merito – nel rispetto dei diritti di difesa dell’imputato – della responsabilità per il reato contestato.

Nel caso in cui intervenga la morte del soggetto nei cui confronti sia stata disposta la confisca, solo nell’ipotesi in cui essa sia stata pronunciata con sentenza definitiva il procedimento può avere corso in sede esecutiva nei confronti degli eredi ed aventi causa (nuovo comma 4-septies dell’art. 12-sexies). Anche quest’ultima  disposizione serve a chiarire una questione interpretativa ed applicativa controversa in dottrina e oggetto di difformi soluzioni giurisprudenziali [5].

Giova, ancora, considerare che, nella persistenza di indirizzi interpretativi critici in relazione ad entrambe le questioni oggetto dell’intervento legislativo,[6] è da ultimo intervenutala Corte Costituzionale con la sentenza n. 49/2015 – depositata il 26 marzo 2015 – che ha sostanzialmente ratificato la correttezza della soluzione individuata dal legislatore.

4. La disciplina della prescrizione

Il disegno di legge propone inoltre una modifica dell’istituto della prescrizione, prevedendo una parentesi di sospensione onde consentire ai giudizi di impugnazione di potersi tenere, senza il rischio che medio tempore sopravvenga la causa di estinzione del reato per vano decorso del tempo. I periodi di sospensione sono commisurati in due anni per il giudizio di appello ed in un anno per quello di legittimità. E’, altresì, previsto che la parentesi di sospensione operi sempre che il relativo giudizio impugnatorio si concluda con una sentenza di condanna e non di assoluzione, con l’avvertenza, però, che, in caso in cui il giudice decida di assolvere l’imputato, non potrà prendere in considerazione l’opzione di dichiarare prescritto il reato, proprio perché, come leggesi nella relazione esplicativa, prima della pronuncia della sentenza di riforma o di annullamento quel computo è precluso.

In linea generale, quanto mai opportuna appare una più generale rivisitazione generale dell’istituto della prescrizione, che, prescindendo da interventi settoriali volti all’allungamento dei termini per alcune figure di reato che toccano interessi particolarmente sensibili, giunga ad una sua riforma organica, prevedendo il definitivo arresto del decorso del termine prescrizionale una volta che sia stata esercitata l’azione penale o, almeno, sia stata pronunciata la sentenza di primo grado.

Dal punto di vista dogmatico, infatti, la stessa giustificazione teorica dell’istituto – prolungato disinteresse dello Stato alla punizione della condotta vietata – appare inconciliabile con l’esistenza in fase avanzata di un procedimento o, addirittura, del processo finalizzato all’accertamento ed alla punizione.

Sotto il profilo pratico effettuale, poi, la circostanza che l’effettiva punizione di un reato che lo Stato abbia dimostrato di volere perseguire dipenda dai tempi in cui in concreto sia svolta la necessaria attività processuale- e quindi dalle condizioni materiali di lavoro dell’ufficio giudiziario nel suo complesso e del magistrato o dei magistrati coinvolti – introduce il rischio di obbiettiva ed ingiustificabile discriminazione per cui per il medesimo fatto può arrivarsi o meno ad un accertamento definitivo ed alla sanzione in dipendenza dei tempi tecnici possibili nel luogo in cui è stato commesso, e quindi della maggiore o minore dotazione organica, delle risorse materiali disponibili e dei carichi di lavoro degli uffici che se ne occupino.

Con il risultato, peraltro, ampiamente noto e numerose volte già denunciato, della dissipazione di enormi risorse umane e materiali a causa dell’impegno investigativo, procedimentale e processuale profuso dalla parte pubblica e dai privati coinvolti, per lo svolgimento di impegnative attività che a posteriori si rivelino del tutto inutili per il sopravvenire della pronuncia di estinzione del reato.

Non sfugge che, nell’attuale stato di grave difficoltà della macchina giudiziaria, la sostanziale incapacità di smaltimento dell’enorme contenzioso da parte del sistema processuale finisce per assegnare alla prescrizione una patologica funzione di mantenimento degli equilibri del sistema in specie per i reati in cui l’accertamento delle responsabilità è particolarmente complesso (si pensi alla materia ambientale o a quella dei reati controla Pubblica Amministrazione).  E, in concreto, la tagliola della estinzione del reato costituisce un meccanismo di obbiettiva sollecitazione alla concentrazione dei tempi e degli atti processuali, nonché la garanzia di protezione dei cittadini coinvolti dal rischio di indeterminata ed indefinita pendenza del processo che rappresenta di per sé un grave pregiudizio alle prerogative individuali di onorabilità e certezza delle condizioni di vita personali.

D’altra parte, sotto i profili da ultimo indicati, deve osservarsi come l’attuale assetto normativo della prescrizione fornisca un formidabile incentivo a condotte processuali dilatorie ed ad impugnazioni pretestuose, presentate al solo scopo di lucrare la maturazione del termine estintivo. Senza dire che il venir meno della prospettiva di sfuggire alla punizione a seguito del trascorrere del tempo indurrebbe le persone sottoposte a processo a valutare seriamente i rilevanti benefici offerti dai riti alternativi che, fino ad ora, proprio in ragione della concreta possibilità di prescrizione, hanno avuto uno scarsissimo successo statistico.

In sostanza, la modifica auspicata avrebbe senz’altro un rilevante immediato effetto di deflazione del numero di processi penali in primo grado ed in sede di impugnazione, così offrendo spazi e risorse maggiori per la loro generalizzata più rapida e tempestiva definizione.

In ogni caso, la riforma proposta potrebbe essere accompagnata da misure – di natura risarcitoria ovvero orientate alla verifica dei doveri gravanti sui magistrati e sui dirigenti degli uffici giudiziari  – finalizzate a contenere i tempi complessivi del procedimento compatibili con il principio di ragionevole durata, per come declinato anche in sede sovranazionale.

Occorrerebbe, altresì, l’ampliamento dell’elenco dei reati imprescrittibili alla luce delle nuove esigenze general-preventive.

In ogni caso, nella consapevolezza che la suindicata opzione richiederebbe una decisa rottura epistemologica con quanto sino ad ora avvenuto, la soluzione proposta nel disegno di legge – che, si nota incidentalmente, va a sovrapporsi ad altra, ispirata alla medesima filosofia, contenuta in altra iniziativa legislativa (d.d.l. n. 1844 “Modifiche al codice penale in materia di prescrizione del reato“, approvato dalla Camera dei Deputati il 24 marzo 2015 ed in atto pendente innanzi al Senato della Repubblica) – presenta alcun aspetti positivi, pur con alcuni punti di criticità che vanno di seguito enucleati.

In particolare suscita più di qualche dubbio annettere un rilievo preminente ai fini del computo del termine prescrizionale alla pronuncia intermedia piuttosto che a quella definitiva. In effetti, così ragionando si consente a pronunce possibilmente non condivise dal giudice superiore di produrre effetti sul decorso del termine prescrizionale, sebbene, appunto, ciò che in ultima analisi conta è la pronuncia definitiva. Chiaro è, altresì, il rischio di imporre la definizione accelerata dei giudizi nei quali è incorsa una pronuncia intermedia assolutoria e la postergazione di quelli nei quali il giudice di secondo grado (od anche  di legittimità) si sia pronunciato in senso sfavorevole all’imputato.

Ulteriore aporia è quella di impedire al giudice che intenda assolvere l’imputato di dichiarare la prescrizione nel frattempo intervenuta, sull’apparente, ma non reale, presupposto che, durante il corso del giudizio di secondo grado o di legittimità, la prescrizione non sia decorsa: tanto più che il deconto retroattivo del periodo di sospensione ‘processuale’ di fase  impone lo svolgimento di un’ulteriore fase processuale davanti ad un altro giudice (la corte di cassazione o il giudice d’appello o di primo grado nel caso di rinvii dalla corte di cassazione) solo per dichiarare la prescrizione automaticamente conseguente alla deliberazione ‘provvisoria’ di non responsabilità.

5. Le disposizioni processuali

Il Titolo II, dedicato a “Modifiche al codice di procedura penale”, è suddiviso in tre capi, afferenti, rispettivamente, a “Modifiche in materia di incapacità dell’imputato di partecipare al processo, di indagini preliminari e di archiviazione”“Modifiche in materia di riti speciali, udienza preliminare, istruzione dibattimentale e struttura della sentenza di merito” e “Semplificazione delle impugnazioni”.

Le relative previsioni traggono spunto, almeno in parte, dalle proposte formulate dalle Commissioni ministeriali di studio istituite, nel 2006 e, poi, nel2013, invista della riforma del codice di procedura penale e presiedute, rispettivamente, dal dott. Giovanni Canzio e dal prof. Giuseppe Riccio.

Una lettura d’insieme dell’articolato consente di delinearne la filosofia di fondo, mirante ad accrescere il tasso di fluidità ed efficienza del procedimento senza intaccare i meccanismi di garanzia che, anzi, vengono in qualche caso rafforzati.

Si denota, sotto questo aspetto, il condivisibile ed ambizioso intento di discernere tra le garanzie effettive ed irrinunciabili e quelle solo apparenti che, piuttosto che soddisfare apprezzabili esigenze difensive, finiscono, nella prassi, per non realizzare altro scopo che quello di rallentare senza plausibile giustificazione  l’iter dell’accertamento giurisdizionale.

Un’altra linea di azione muove dal rilievo, divenuto ormai patrimonio comune agli operatori del diritto, che individua nell’attuale disciplina delle impugnazioni uno dei principali fattori di congestione del processo penale: alla previsione, agli artt. 24 e 25 del disegno di legge n. 2798, di apposita delega al Governo si aggiungono, al Capo III del Titolo II, non marginali innovazioni, per lo più finalizzate alla ridefinizione di compiti e modalità di intervento delle Corti di Appello e della Corte di Cassazione.

Il disegno di legge n. 2798 si propone, ancora, di ridare slancio ai riti alternativi attraverso alcune modifiche di dettaglio e, soprattutto, l’introduzione ex novo della condanna su richiesta dell’imputato e la reintroduzione del c.d. “patteggiamento in appello”.

Nel lodevole intento di trarre frutto da importanti approdi della giurisprudenza interna o sovranazionale, il testo in commento li traspone in altrettante norme di diritto positivo ovvero, comunque, mostra di volerne tener conto nell’ottica del più spedito ed efficiente andamento del processo.

Non mancano, infine, disposizioni espressive della confermata opzione per una sorta di doppio binario processuale, in forza del quale l’applicazione di istituti e norme è esclusa per i procedimenti relativi a reati di maggiore gravità ed allarme sociale.

L’art. 9 novella le disposizioni codicistiche relative alle ipotesi in cui venga accertato che l’imputato patisca una infermità mentale sopravvenuta al fatto contestato di gravità tale da impedirgli di partecipare coscientemente al procedimento.

Nell’attuale quadro normativo la protrazione di condizioni di incapacità dell’imputato per periodi assai consistenti, quantificabili in non pochi casi nell’ordine di più lustri, determina il parallelo mantenimento della pendenza a carico di soggetti sovente in stato di parziale o totale incoscienza e la necessità di eseguire, con frequenza biannuale, accertamenti peritali che comportano dispendio di risorse umane, strumentali ed economiche.

Opportunamente, il disegno di legge in commento differenzia i casi in cui lo stato di incapacità sia reversibile, per i quali viene mantenuto il regime esistente, e quelli in cui, al contrario, si pervenga ad una prognosi di segno opposto e stabilisce che, in questa seconda eventualità, il giudice revochi l’ordinanza di sospensione e pronunzi sentenza di non doversi procedere.

L’art. 10 contiene una pluralità di disposizioni, accomunate dall’incidenza sulla fase delle indagini preliminari e sul procedimento di archiviazione.

Il comma 1, ispirato alla logica del c.d. “doppio binario”, circoscrive alle ipotesi di reato più gravi l’ambito applicativo dell’istituto della dilazione dei colloqui tra il difensore e la persona sottoposta a misura detentiva cautelare o precautelare.

Volta ad evitare che l’esercizio delle prerogative difensive possa tradursi nell’ingiustificata paralisi dell’iterprocessuale è, invece, la disposizione contenuta nel comma 2 che stabilisce, opportunamente, che la riserva della parte privata ex comma 4 del’art. 360 c.p.p. di promuovere incidente probatorio perda efficacia se non seguita, entro cinque giorni, dalla richiesta di incidente probatorio e che alla perdita di efficacia si accompagni la preclusione alla sua ulteriore proposizione .

Le disposizioni contenute nei commi 4, 5 e 6 concernono il procedimento di archiviazione.

Da un canto, vengono codificate le ipotesi di nullità del decreto di archiviazione individuate dalla giurisprudenza e richiamate, quanto all’ordinanza di archiviazione, le nullità già indicate dall’art. 127, comma 5, c.p.p.; dall’altro, viene introdotto uno specifico procedimento attraverso il quale la nullità dell’ordinanza può essere agilmente dedotta avanti alla Corte di Appello – anziché alla Cassazione, che viene così sgravata da compiti non connaturati alla funzione – mentre, nel caso di nullità del decreto, sarà lo stesso giudice delle indagini preliminari a rilevare il vizio con la spedita procedura ex art. 130 c.p.p..

Viene meno, in tal modo, la ricorribilità del provvedimento di archiviazione in sede di legittimità, ciò che, come chiarito dalla relazione introduttiva, non si pone in contrasto con l’art. 111, comma 7, Cost., giacché ci si trova al cospetto di atti diversi dalla sentenza e non incidenti sulla libertà personale.

L’art. 11 del D.D.L. introduce rilevanti modifiche alla disciplina dell’udienza preliminare, incidendo profondamente sulla latitudine dei poteri d’integrazione riconosciuti al giudice della fase dagli artt. 421-bis e 422 c.p.p.: in specie, è soppresso il potere del giudice dell’udienza preliminare di ordinare ulteriori indagini, ove ne ravvisi l’incompletezza, rimettendosi esclusivamente alle parti il potere di richiedere al giudice l’assunzione di prove ritenute decisive ai fini della sentenza di non luogo a procedere.

Evidente la finalità della norma, identificabile nell’apprezzabile obiettivo di restituire all’udienza preliminare il ruolo che le è proprio, ossia quello di «controllo sulla fondatezza dell’accusa nella prospettiva di una prognosi circa l’utilità del dibattimento», non può, per contro, sottacersi che l’eliminazione di ogni potere officioso del giudice dell’udienza preliminare potrebbe, in ipotesi, risultare controproducente rispetto all’auspicata finalità deflattiva.

In ordine all’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere ex art. 428 c.p.p., viene attribuita al giudice di appello la competenza a decidere sul gravame; ciò, in quanto la verifica della sussistenza delle condizioni per il rinvio a giudizio dell’imputato attiene essenzialmente alla ricostruzione del fatto e al merito dell’accusa ed è tendenzialmente estranea all’ambito proprio del sindacato di legittimità.

La parte civile perde, ancora, la legittimazione a proporre impugnazione della sentenza ex art. 428 c.p.p., in dipendenza della quale «non soffre alcun pregiudizio dei propri interessi».

Infine, in caso di pronuncia di sentenza di non luogo a procedere anche in grado di appello, il ricorso per Cassazione è circoscritto alla sola violazione di legge.

Le modifiche apportate, all’art. 13,al giudizio abbreviato sono intese a coordinare l’articolazione del contraddittorio sulla richiesta di rito abbreviato con l’esercizio delle facoltà difensive.

In particolare, qualora, all’udienza preliminare, la difesa depositi i risultati delle espletate indagini difensive, si prevede che il giudice, al quale il pubblico ministero abbia chiesto un termine per svolgere indagini suppletive, posponga la decisione sino alla consumazione del concesso termine, al fine di evitare che la trasformazione del rito sia disposta senza che la pubblica accusa abbia potuto vagliare il materiale offerto dalla difesa e, eventualmente, fornire, a sua volta, ulteriori elementi di prova.

Specularmente, e coerentemente, si pone l’imputato in condizione di riconsiderare la già consacrata richiesta di giudizio abbreviato in funzione dell’integrazione probatoria effettuata dal pubblico ministero.

Sotto questo aspetto sarebbe, forse, auspicabile circoscrivere la facoltà di revoca della richiesta di giudizio abbreviato all’ipotesi in cui il pubblico ministero, dopo avere fruito del termine, abbia depositato i risultati di nuove indagini, laddove, invece, in caso contrario, non è dato apprezzarsi la sopravvenienza di elementi di novità idonei a giustificare un ripensamento dell’opzione originaria.

La seconda linea di intervento in materia di giudizio abbreviato concerne l’incidenza della richiesta di giudizio abbreviato sulla patologia dei singoli atti del processo.

Tra le altre, si segnala la questione che afferisce alla proposizione, in sede di giudizio abbreviato, di eccezione di incompetenza territoriale, in relazione alla quale viene adottata una soluzione radicale (nel senso che la richiesta di giudizio abbreviato preclude ogni questione sulla competenza per territorio del giudice), così superandosi, per espressa volontà del legislatore, il precedente indirizzo ermeneutico, che consentiva la riproposizione, in sede di giudizio abbreviato, dell’eccezione sollevata durante l’udienza preliminare ed ivi respinta.

L’art. 14 del progetto di riforma è dedicato al procedimento di applicazione della pena su richiesta delle parti ed all’istituto, di nuovo conio, della “sentenza di condanna su richiesta dell’imputato”.

Per quanto concerne il c.d. “patteggiamento”, viene, innanzitutto, delimitato il campo delle ipotesi che consentono di adire il giudice di legittimità a coloro che abbiano ottenuto l’emissione della sentenza a contenuto concordato, per impedire che i richiedenti formulino ricorsi destinati ad essere ritenuti inammissibili, all’unico e strumentale obbiettivo di posporre il passaggio in giudicato della sentenza e l’esecuzione della pena concordata.

In tal senso si prevede, da un canto, che gli errori che afferiscono alla denominazione o al computo della pena, possano essere rettificati dal giudice che ha emesso la sentenza di patteggiamento, e, dall’altro, che la sentenza sia censurabile in Cassazione solo “per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza”.

E’ poi eliminata la distinzione tra il patteggiamento c.d. “comune” e quello c.d. “allargato”, per il quale, in atto, non operano i benefici indicati dall’art. 445, commi 1 e 2, c.p.p..

L’intervento in itinere mantiene detti effetti ed indica in tre anni il limite massimo di pena, irrogata in concreto, che consente l’accesso al rito speciale.

Il “nuovo” patteggiamento non soffre l’esclusione in relazione a determinate categorie di reati che, per l’attuale patteggiamento allargato, è sancita dall’art. 444, comma 1-bis, c.p.p., del quale si propone l’abrogazione.

Una previsione speciale è dedicata ai procedimenti relativi a gravi reati controla Pubblica Amministrazione, prescrivendosi in specie, in adesione alle migliori prassi formatesi presso gli uffici giudiziari, che l’applicazione di pena concordata postuli necessariamente l’integrale restituzione del prezzo o del profitto del reato.

Se il patteggiamento subisce un robusto restyling, addirittura sconosciuto al nostro ordinamento è, invece, l’istituto della “sentenza di condanna su richiesta dell’imputato”, la cui genesi può farsi rinvenire nell’esigenza di sperimentare percorsi procedimentali che coniughino rapidità dell’accertamento, natura premiale e valenza di giudicato.

La richiesta di condanna, ammissibile nell’udienza preliminare, fino al momento della discussione, ovvero, in assenza di udienza preliminare, sino alla dichiarazione di apertura del dibattimento, muove dall’ammissione del fatto da parte dell’imputato, formalizzata nel corso di apposito ed immediato interrogatorio, ciò che lo abilita a chiedere di essere a condannato a pena specificamente indicata in misura non superiore ad otto anni di reclusione.

Nella determinazione di tale pena, l’imputato terrà conto delle circostanze nonché della riduzione per il rito, commisurata tra un terzo e la metà della pena che sarebbe stata altrimenti fissata.

Espressione della già richiamata opzione per il c.d. “doppio binario” è l’esclusione dell’applicazione dell’istituto in un’ampia gamma di ipotesi, caratterizzate dalla gravità del reato in contestazione ovvero dalla caratura criminale dell’autore.

Al cospetto della richiesta dell’imputato e della sua confessione, il giudice è chiamato a raccogliere il pubblico ministero ed a delibare, secondo il consueto canone dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, la sufficienza della prova in vista dell’emissione dell’invocata condanna.

Se detta verifica sortisce esito positivo e la pena indicata si palesa congrua, il giudice emette la sentenza nei termini di cui alla richiesta, statuendo, eventualmente, sull’azione civile; in caso di rigetto, il giudice dispone il giudizio abbreviato, salva la ricorrenza di una causa di immediato proscioglimento ex art. 129 c.p.p..

La sentenza sarà inappellabile per l’imputato, mentre il pubblico ministero potrà proporre gravame solo in ipotesi eccezionali.

Chiaro è l’intento di introdurre un rito in cui ad una spiccata connotazione premiale fanno dapendant, sul piano della prova, la confessione dell’imputato e, su quello processuale, la forza di giudicato e gli stringenti limiti all’appello.

Il legislatore proponente riprende, in sostanza, il sentiero già percorso con il c.d. “patteggiamento allargato”, istituto che viene contestualmente abrogato, e fa leva sulla disponibilità dell’imputato ad ammettere, anche a fronte della contestazione di crimini assai gravi, l’addebito in cambio di un altrimenti inaccessibile abbattimento della pena.

Prima facie distante rispetto alla cultura processuale oggi più diffusa, la condanna su richiesta dell’imputato è istituto la cui reale attitudine deflattiva costituisce, anche in ragione del circoscritto ambito applicativo, un’incognita.

Nel merito, non appare del tutto convincente il riconoscimento ad elemento discriminante della confessione che, in quanto incondizionato, sembra consentire il contenimento del trattamento sanzionatorio anche al cospetto di procedimenti già caratterizzati dalla assoluta solidità del quadro probatorio.

E se, in rapporto al giudizio abbreviato, tale effetto è compensato dall’inappellabilità, con riferimento, invece, al patteggiamento, il discrimine può ravvisarsi nella sola efficacia di giudicato.

L’art. 15 interviene in materia di esposizione introduttiva ai fini della valutazione della prova, modificando l’art. 493 c.p.p. e proponendo un sistema simile a quello operante in epoca antecedente alla legge n. 479/1999 (c.d. legge Carotti).

La reintroduzione dell’esposizione introduttiva può essere positivamente valutata, trattandosi di attività processuale certamente utile per indirizzare l’esercizio dei poteri del giudice in relazione alla valutazione delle richieste istruttorie,exart. 190.1 e 495 c.p.p..

Con l’art. 16 si introduce, come messo in luce nella relazione di accompagnamento, «il modello legale della motivazione “in fatto” della decisione, nella quale risulti esplicito il ragionamento probatorio sull’intero spettro dell’oggetto della prova, che sia idoneo a giustificare razionalmente la decisione secondo il modello inferenziale indicato per la valutazione delle prove».

La disposizione si raccorda con la norma dell’art. 581 sulla forma dell’impugnazione ed appare idonea ad assicurare una più razionale semplificazione della procedura impugnatoria.

Il progetto di riforma dedica, poi, una serie di disposizioni alla modifica del complesso regime delle impugnazioni, che da strumento di garanzia si sono trasformate in un «percorso di ostacoli e preclusioni che compromettono l’efficienza del sistema ed assicurano impunità ».

L’art. 17 ritocca l’art. 571 c.p.p. escludendo la possibilità per l’imputato di proporre personalmente ricorso per Cassazione: evidente la finalità della norma, che opportunamente mira a riservare al solo difensore l’uso di uno strumento di gravame caratterizzato da un tasso di tecnicità particolarmente elevato scoraggiando, in funzione deflativa, la presentazione di ricorsi meramente defatigatori e ad accelerare la formazione del giudicato.

Da analoghi fini deflativi sono caratterizzate anche le novità introdotte dai commi 2 e 3 che modificano l’art. 591 c.p.p., disciplinando una procedura semplificata di declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, «anche d’ufficio e senza formalità», da parte del giudice a quo, in tutti i casi nei quali l’invalidità dell’atto emerga senza che siano necessarie specifiche valutazioni di tipo non oggettivo.

L’art. 18 è dedicato alla reintroduzione del “concordato anche con rinuncia ai motivi di appello”, istituto che è stato espunto dal sistema nel 2008: le disposizioni di nuovo conio ricalcano quelle originarie, fatta salva per l’esclusione, dall’ambito applicativo dell’istituto, dei “procedimenti” relativi a taluni gravi reati, oltre che di quelli contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, e per la previsione che assegna al Procuratore generale pressola Corte di Appello il compito di indicare, previa interlocuzione con i magistrati dell’ufficio ed i procuratori della Repubblica del distretto, i criteri idonei a orientare la valutazione dei magistrati del pubblico ministero nell’udienza, tenuto conto della tipologia dei reati e della complessità dei procedimenti.

L’esaltazione del ruolo del Procuratore generale in vista dell’enucleazione di criteri orientativi da applicare nella formazione dell’accordo va salutata con favore in quanto frutto di un razionale bilanciamento tra i valori in gioco, non ultimo quello dell’autonomia dei sostituti rispetto al dirigente, mentre le menzionate esclusioni oggettive e soggettive concretizzano una precisa e già segnalata opzione di fondo, suscettibile, va però rimarcato, di restringere, sul piano concreto, gli effetti benefici dell’istituto sulla mole di lavoro che grava sugli uffici di secondo grado.

L’ultimo comma dell’art. 18 recepisce, trasfondendole in puntuale dettato normativo, le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza EDU (4 giugno 2013, Hadu c. Romania) in ordine alla necessità che il giudice di appello, adito dal pubblico ministero che invochi il ribaltamento di una pronunzia assolutoria contestando la valutazione di attendibilità operata dal primo giudice con riferimento ad una prova dichiarativa, proceda, ove ritenga non manifestamente infondata l’impugnazione, alla nuova assunzione della prova orale.

Tangibile è la derivazione della regola di cui si propone l’introduzione dai principi del giusto processo, così come percepibile è, al contempo, la preoccupazione di evitare ogni anticipazione di giudizio, cui si riconnette l’ancoraggio della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale alla sussistenza di un mero fumus di fondatezza del gravame.

L’art. 19 incide profondamente sull’attuale disciplina del ricorso per Cassazione.

Con le modifiche introdotte all’art. 610 c.p.p. si intende valorizzare il contraddittorio cartolare, permettendo al ricorrente di essere meglio informato della ragione del rilievo d’inammissibilità del ricorso e di replicare con una memoria puntuale, mentre, nella prospettiva della deflazione processuale, si introduce una disciplina semplificata di dichiarazione di inammissibilità.

Coerentemente con l’analoga modifica dell’art. 571 c.p.p., si prevede che il ricorso per Cassazione sia predisposto solo da parte di un avvocato iscritto all’albo speciale; nell’intento di «scoraggiare i ricorsi meramente defatigatori» e «accelerare la formazione del giudicato», il novellato art. 616 co. 1 c.p.p. prevede la possibilità di aumentare fino al triplo l’attuale importo previsto a titolo di sanzione, per il caso di inammissibilità del ricorso.

All’art. 618 c.p.p. vengono aggiunti due commi, sì da rafforzare l’uniformità e la stabilità nomofilattica dei principi di diritto espressi dal giudice di legittimità, contribuendo a realizzare la legittima aspettativa, ormai da più parti avvertita in modo stringente, di una maggiore prevedibilità delle decisioni giudiziarie e, in ultima analisi, di una maggiore certezza del diritto, senza, al contempo, mortificare la dinamica evolutiva degli indirizzi ermeneutici, che trae linfe dai contributi delle sezioni semplici della Corte di Cassazione, oltre che, naturalmente, da quelli dei giudici di merito.

A ciò sia aggiunga che la previsione di cui al comma 1-ter risponde, altresì, ad un principio di economicità degli strumenti processuali, consentendo alle Sezioni Unite di enunciare il principio di diritto applicabile in una determinata anche nell’ipotesi in cui il ricorso sia diventato inammissibile per cause sopravvenute, ovvero senza necessità di attendere l’eventuale successivo pertinente caso concreto.

Sono previste, ancora, norme di semplificazione e deflazione attraverso interventi ulteriori sul giudizio in cassazione, ampliando la possibilità di evitare il giudizio di rinvio in caso di annullamento quando esso possa essere ritenuto superfluo, di accedere al procedimento correttivo di errore materiale, anche in maniera officiosa.

L’art. 20  interviene sull’istituto della “rescissione del giudicato”, attivabile dal condannato (o sottoposto a misura di sicurezza) in absentia il quale provi che l’assenza è stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo ed introdotto dalla legge n. 67/2014.

L’innovazione che si propone, consistente nello spostamento della competenza dalla Corte di Cassazione alla Corte di Appello, appare in linea con il rilievo che la disamina della richiesta di rescissione comporta la cognizione di profili esclusivamente di merito.

Tra le norme del Titolo III merita menzione l’art. 23, rubricato “Modifiche al decreto legislativo 20 febbraio 2006, n.106, in materia di poteri di controllo del Procuratore della Repubblica e di contenuti della relazione al Procuratore generale pressola Corte di Cassazione”, con cui vengono apportate alcuni cambiamenti alle disposizioni relative all’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero.

In particolare, al fine di rafforzare la vigilanza, preventiva e successiva, da parte del Procuratore della Repubblica in ordine alla corretta osservanza delle disposizioni che regolano il momento dell’iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 del cod. proc. pen., viene stabilito, con la modifica del comma 2 dell’art. 1, che tra gli obblighi che egli deve assolvere vi sia anche quello di assicurare, accanto al corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale ed al rispetto delle norme sul giusto processo da parte del suo ufficio vi sia anche quello di garantire“l’osservanza delle disposizioni relative all’iscrizione delle notizie di reato”.

Allo stesso fine è altresì stabilito, con la modifica dell’art. 6 del D.Lgs. n. 106/2006, che siano acquisiti dati e notizie ad opera del Procuratore generale nell’ambito dei suoi poteri di vigilanza.

6. Le deleghe legislative in materia processuale 

L’art. 25 del disegno di legge determina “Principi e criteri direttivi per la riforma del processo penale in materia di intercettazione di conversazioni o comunicazioni e di giudizi di impugnazione”.

La norma, ai fini dell’esercizio della delega di cui all’art. 24, individua due macro aree d’intervento, cioè, da un lato, la materia delle intercettazioni ed acquisizioni di tabulati telefonici, anche ai fini dei reati controla Pubblica Amministrazione, e, dall’altro, il tema delle impugnazioni penali.

Circa la tecnica legislativa prescelta, vi è da segnalare un certo margine di genericità dell’oggetto e soprattutto dei criteri assegnati al legislatore delegato, aspetto che, al di là di  ogni altra valutazione critica, impedisce, allo stato, un’adeguata valutazione del portato effettivo della riforma, dato che il contenuto precettivo sostanziale è devoluto in larga parte alle future eventuali disposizioni delegate.

a) Le intercettazioni.

Quanto al primo delicato ambito di delega, il disegno di legge prescrive che i decreti  prevedano disposizioni dirette a garantire la riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni telefoniche e telematiche oggetto di intercettazione, in conformità all’articolo 15 della Costituzione. Ciò attraverso prescrizioni che incidano anche sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle captazioni e che diano una precisa scansione procedimentale all’udienza di selezione del materiale intercettativo, avendo speciale riguardo alla tutela della riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni delle persone occasionalmente coinvolte nel procedimento, in particolare dei difensori nei colloqui con l’assistito, e delle comunicazioni comunque non rilevanti a fini di giustizia penale.

La norma è chiaramente volta a realizzare una migliore conformazione della disciplina vigente in tema d’intercettazioni telefoniche rispetto alla libertà di cui all’art. 15 Cost., quale ampliamento e precisazione del fondamentale principio di inviolabilità della persona umana, sanzionato dall’articolo 13 Cost., garantendo una delle forme più dirette ed immediate di collegamento della persona con il mondo esterno.

Il legislatore delegante, alla lettera a) del primo comma dell’art. 25, hainteso occuparsi del profilo della tutela della privacy, ben recependo le indicazioni fornite nel passato dalla Corte Costituzionale, che ha da tempo[7] chiarito che l’obbligo del segreto sulle comunicazioni irrilevanti ai fini del procedimento rientra nel perimetro rimesso alla riserva di legge di cui all’art. 15.

Il disegno di legge non prevede interventi di riduzione del campo di applicazione delle strumento investigativo delle intercettazioni delineato dall’assetto normativo vigente, ma semmai indicazioni di ampliamento con riguardo ad indagini relative ai reati commessi nell’ambito delle pubbliche amministrazioni (vedi infra).

Il tema oggetto di approfondimento e di riflessione dell’art. 25, lett. a), del ddl in esame attiene più specificatamente ai contenuti pubblicabili degli esiti della attività di captazione di conversazioni o di messaggi telematici in un sistema che deve tutelare la privacy dei cittadini senza rinunciare alla libertà di informazione alla base della società democratica.

Le soluzioni dovranno, quindi, tenere conto della diversità dei contenuti della attività di intercettazione (di valenza processuale; processualmente irrilevanti ma di interesse pubblico sotto il profilo politico-sociale; di valenza strettamente personale) e della differente natura processuale dei soggetti coinvolti nella comunicazione (indagati e non indagati; testimoni di fatti processualmente rilevanti), nonché dei tempi di pubblicazione rispetto alle dinamiche procedimentali.

Il dibattito pubblico oggi propone diverse opzioni, alla luce della tipologia dei contenuti e dei soggetti coinvolti nella comunicazione captata, che si pongono alla attenzione del legislatore delegato.

Vi è chi ipotizza soluzioni estreme secondo cui i contenuti delle intercettazioni non sarebbero mai pubblicabili se non per sintesi. Ciò varrebbe per ogni contenuto e per ogni tipo di interlocutore, anche quando i testi sono presenti in una ordinanza cautelare o in altro atto giudiziario, con previsione addirittura di sanzioni detentive per i giornalistici che violano tale divieto. Un simile orientamento sembra oltremodo penalizzante per la libertà di informazione e, quindi, per la possibilità del cittadino di conoscere nei dettagli fatti di rilievo penale che coinvolgono uomini e vicende di interesse pubblico. 

Altri propongono una soluzione intermedia, che nella fase delle indagini preliminari consente la pubblicazione solo dei contenuti delle conversazioni intercettate inseriti in una ordinanza cautelare o in altro atto giudiziario, con una opzione orientata verso la valenza processuale della informazione che si rende nota .

I più “permissivi”, molti dei quali riconducibili alla categoria dei giornalisti, propendono per una conservazione dell’attuale disciplina normativa che collega alla ostensibilità degli atti processuali la pubblicazione dei contenuti delle intercettazioni.

E’ evidente che le questioni attingono una dimensione che esorbita dal piano della mera disciplina degli atti processuali, impegnando il tema più generale e di vasto respiro – emerso in plurime vicende di indagini per reati afferenti la pubblica amministrazione –  della determinazioni delle fonti e degli strumenti di informazione utilizzabili per  l’articolazione del dibattito civile necessario per nutrire la coscienza critica in ordine all’esercizio dei poteri pubblici,  in cui si esprime l’effettiva partecipazione dei cittadini al tessuto democratico delle istituzioni.  A tale proposito sono note le argomentazioni di chi sostiene che qualsiasi informazione concernente l’agire dei titolari di poteri pubblici –  anche se priva di rilievo penale ma relativa a condotte espressive di opzioni morali, sociali o di costume – meriti di essere conosciuta per consentire ai cittadini di esprimere opinioni basate su un dibattito pubblico effettivo per consentire la consapevole espressione della partecipazione democratica. Ad esse si oppone che gli strumenti del processo penale, per la loro formidabile capacità intrusiva, realizzano eccezioni dei fondamentali principi costituzionali posti a tutela della riservatezza individuale, giustificabili solo in ragione delle preminenti esigenze di repressione delle condotte di reato. La diffusione delle informazioni acquisite attraverso di esse altera la fisiologia del sistema democratico di creazione della conoscenza pubblica, travolgendo i meccanismi fisiologici dell’informazione per il dibattito, trasferendo ingiustamente al di fuori dei rigorosi confini del circuito della giustizia penale moduli procedimentali eccezionali di carattere coercitivo ed autoritari che, in quanto pregiudizievoli delle prerogative individuali, dovrebbero essere confinati agli ambiti per cui sono stati creati.

Il rischio generale è di attribuire, in maniera più o meno consapevole, all’azione giudiziaria penale poteri e funzioni che esorbitano dalla mera repressione dei reati, per assumere caratteri e finalità di generale ed ampio controllo sociale, attingendo anche agli ambiti del giudizio politico, etico e morale che le sono, in ragione dei fondamentali principi costituzionali di frammentarietà, sussidiarietà, specialità e tassatività dell’intervento repressivo,  ontologicamente estranei.

Ora, è bene tener conto che questo Consiglio Superiore ha più volte [8] espresso il proprio parere su precedenti disegni di legge in materia di intercettazioni, ribadendo alcune precise traiettorie interpretative, su cui conviene soffermarsi sinteticamente, trattandosi di canoni valutativi ben estensibili al caso di specie.

Intanto, l’Organo di governo autonomo ha sempre sostenuto l’esigenza di “un utilizzo equilibrato di strumenti invasivi di investigazione quali sono le intercettazioni telefoniche e “ambientali”.[9].

D’altra parte, nella medesima deliberazione il Consiglio ha convintamene sostenuto che “in nessun caso il timore di una possibile impropria diffusione dei risultati delle intercettazioni può giustificare l’adozione di regole che ostacolano o limitano il pieno e necessario utilizzo processuale di quei risultati”.

Resta da ribadire, in ordine al nuovo futuro articolato delegato, che se spetta certamente al legislatore fornire indicazioni o stabilire regole volte ad escludere ogni forma impropria di utilizzo degli atti in nome della riservatezza, qualsiasi misura precettiva attuativa dei predetti criteri dovrà essere sempre valutata con grande prudenza ed accuratezza vista la pluralità di interessi in gioco, tutti di rango costituzionale.

Si deve inoltre affermare che qualsiasi adempimento o formalità deve risolversi in un onere sostenibile da parte dell’ufficio, cioè debba risultare compatibile con la limitatezza delle risorse e con la possibilità di un’efficace gestione del procedimento e del servizio nel suo complesso. Invero, “la tradizionale tendenza del nostro legislatore a non farsi carico delle ricadute sulla operatività del servizio provocate dalle regole di nuova introduzione trova oggi un limite nella lettura moderna dell’art. 97 e nel disposto dell’art. 111 della Costituzione, disposizione quest’ultima che mira ad un corretto bilanciamento fra le esigenze del “giusto processo” e quella di “ragionevole durata” del processo”  [10].

Fornita così la cornice critica di riferimento, resta da chiarire qualche ulteriore aspetto relativo alle singole previsioni inserite nella citata lettera a).

Certamente condivisibile è la scelta di affrontare uno degli aspetti più controversi in materia, cioè quello riguardante il momento in cui effettuare la selezione e la trascrizione delle conversazioni intercettate, dato che opera essenzialmente qui il rischio di indebite propalazioni di comunicazioni irrilevanti ai fini delle indagini, ma lesive della riservatezza dell’imputato o di terzi su circostanze estranee al processo.

In tale direzione, un intervento di riforma inteso a imporre una chiara sequenza temporale tra conclusione delle operazioni di intercettazione, deposito di verbali e registrazioni, “udienza stralcio” e perizia trascrittiva potrebbe ben scongiurare il rischio di diffusione di notizie irrilevanti per il processo, assicurare la tutela dellaprivacye consentire l’immediato esercizio del diritto di difesa.

Corretto è l’intento del legislatore di assegnare specifico rilievo alla tutela dei cittadini non indagati che abbiano avuto contatti con soggetti sottoposti ad intercettazione ed alla protezione di quel perimetro assolutamente confidenziale e riservato costituito dai colloqui difensivi.

Alla lettera b) dell’art. 25, il disegno di legge delega il Governo a “prevedere la semplificazione delle condizioni per l’impiego delle intercettazioni delle conversazioni e delle comunicazioni telefoniche e telematiche nei procedimenti per i più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”.

Il legislatore intende, pertanto, stabilire requisiti meno stringenti per il ricorso alle intercettazioni in vista della migliore repressione dei più gravi reati degli intranei controla P.A., ciò che appare ben condivisibile tenuto conto dei livelli di assoluta gravità che il fenomeno della corruzione ha assunto nel nostro Paese, al pari di altri ambiti criminali pure soggetti allo slargamento delle possibilità investigative sulle comunicazioni.

Infine, alla lettera c) della medesima norma, la delega così viene articolata: “prevedere la garanzia giurisdizionale per l’acquisizione dei dati relativi al traffico telefonico, telematico e informatico, nonché il potere d’intervento d’urgenza del pubblico ministero, in conformità alla disciplina prevista per le intercettazioni di comunicazioni e conversazioni telefoniche”.

La norma è riferita all’attività di acquisizione dei dati estrinseci delle comunicazioni telefoniche, inerenti cioè all’utenza chiamante e all’utenza chiamata, alla data, ora, durata e luogo della conversazione. Quanto alle comunicazioni telematiche, i dati si riferiscono alle tracce lasciate dagli utenti suiservers: identità dei clienti, data e durata dell’allacciamento in rete e servizio richiesto.

L’intervento di riforma appare più che mai opportuno, tenuto conto che la Corte Costituzionale(sentt. nn. 81/1993, 281/1998, 372/2006) ha ricompreso anche i dati esteriori delle comunicazioni nell’alveo dell’art. 15 Cost. [11].

Dunque, la riserva di giurisdizione viene ora ritenuta operante anche con riguardo ai cd. dati estrinseci.

Rimane certamente auspicabile che il legislatore delegato realizzi un sistema garantistico ben coordinato con la vigente disciplina in tema di riservatezza[12]. Con la riforma in oggetto l’attribuzione del potere acquisitivo sarà rimessa al giudice, salvo l’intervento del P.M in casi di urgenza.

Ora, tenuto conto che il primo intervento legislativo in materia si è avuto con il D.Lgs. n. 171/1998, che all’art. 4 aveva previsto un obbligo di conservazione dei dati a carico del fornitore del servizio, successivamente, il D.L. n. 354/2003, poi convertito nella legge n. 45/2004, aveva attribuito al giudice il potere acquisitivo, e che tale regime normativo è stato modificato con l’assegnazione al Pubblico ministero di tale funzione, ad opera del D.L. n. 144/2005, convertito nella legge n. 155/2005, sarebbe opportuna una definitiva stabilizzazione dell’assetto delle competenze in materia.

b) Il regime delle impugnazioni.

Alle lettere da d) ad l) del primo comma dell’art. 25, il disegno di legge definisce principi e criteri direttivi per la delega legislativa in tema di impugnazioni penali.

La riforma si muove su tre linee di fondo: limitazione della possibilità di ricorrere per Cassazione, restrizione dei casi di appellabilità delle sentenze e definizione di norme processuali a scopo deflativo e semplificativo del giudizio di gravame.

In via di prima approssimazione, è quasi pleonastico rilevare che ormai da tempo la materia delle impugnazioni penali è oggetto di specifica attenzione nel dibattito politico e giuridico [13], senza tuttavia che si siano ad oggi raggiunti approdi di diritto positivo soddisfacenti.

L’ormai ciclico dibattito su questo tema sconta, evidentemente, l’oggettiva difficoltà di coniugare esigenze ordinamentali contrapposte, quali la necessità di contingentare i tempi irragionevoli del processo ed arginare l’abuso degli strumenti processuali, con il bisogno di assicurare piena garanzia ai diritti delle parti e di pervenire ad una decisione finale “giusta”.

Peraltro, il progresso scientifico che ha fatto del contraddittorio il metodo principe di formazione della prova ha messo in dubbio l’opportunità di mantenere un tipo di appello, in grado di sostituirsi all’accertamento di primo grado, senza oralità e senza immediatezza.

Il progetto riformatore del sistema delle impugnazioni penali delineato nel disegno di legge n. 2798 non assurge sicuramente a grande manovra di riforma strutturale del sistema delle impugnazioni.

E’ chiaro, infatti, che il legislatore non ha inteso rivedere in maniera approfondita l’impianto processuale penale in materia, limitandosi ad ammodernarne solo alcune parti isolate.

E ciò potrebbe indurre riflessioni critiche non tanto sulla scelta di conservare il disegno di fondo ponendo mani ad una mera microchirurgia d’interventi, quanto sulla probabilità che da un siffatto modus operandi scaturiscano, come spesso avviene [14], incoerenze e distonie che di certo potrebbero inquinare l’armonia del sistema nel suo insieme.

Infatti, la strategia della parcellizzazione è sì rapida ed incisiva, ma può non tener conto del fatto che il momento di controllo della sentenza difficilmente può essere disgiunto dal modo con cui il percorso decisorio complessivo si sviluppa.

Tanto premesso, la filosofia di fondo che anima la riforma merita sicuro apprezzamento nella misura in cui la medesima dovrebbe, con adeguata organicità e razionalità, riallineare le norme processuali allo scopo primario della celerità della risposta giudiziaria. L’art. 111 Cost. codifica, infatti, accanto a quelli dell'”oralità” e dell'”immediatezza”, il fondamentale principio della “ragionevole durata del processo”, che da tempo sollecita spinte innovative immediatamente incidenti sulla velocizzazione e razionalizzazione del processo penale. 

In tale direzione, le previsioni del disegno di legge intese a restringere il perimetro di appellabilità delle sentenze penali ben potrebbero soddisfare – a seguito di un’adeguata attuazione della delega – il canone costituzionale di un processo “giusto”, cioè oltre che garantista, anche efficiente.

L’obiettivo di snellimento e accelerazione viene perseguito dal legislatore delegante tanto sul piano della legittimazione soggettiva quanto su quello dell’appellabilità oggettiva.

Non sembra essere stato invece recepita l’indicazione della Consulta (cfr. sentenza n. 85/2008) sull’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento su contravvenzioni punite con la sola ammenda o pena alternativa.

Né risulta invece recepito lo spunto, pur emerso nel dibattito sul tema, di eliminazione di quel vincolo ai poteri decisori del giudice costituito dal divieto di reformatio in peius, con ogni considerazione che ne può seguire.

Sul versante dei limiti oggettivi di appellabilità, va richiamata la previsione di cui alla lettera h) della proponibilità dell’appello solo per uno o più motivi tassativamente previsti e con onere d’indicazione specifica delle eventuali prove da rinnovare. Parimenti, la lettera i) introduce la previsione legale di limiti di proponibilità dell’appello incidentale. La lettera l) richiede infine la previsione di un’udienza camerale per la declaratoria d’inammissibilità dell’appello.

La disposizione merita particolare attenzione in quanto intende definitivamente superare il carattere “universale” del gravame, espungendo l’effetto, sino ad oggi, tendenzialmente devolutivo dell’impugnazione.

La ristrutturazione del giudizio di seconde cure quale grado destinato al mero controllo della decisione acquisita dovrebbe trovare fondamento nella tipizzazione dei motivi di appello, numerus clausus, quale condizione di proponibilità.

E’ evidente la potenzialità che l’innovazione potrebbe rivestire in termini di snellimento ed accelerazione, considerato che la tassatività dei petita dovrebbe scongiurare appelli omnibus volti alla revisio prioris instantia e, rafforzando l’essenza impugnatoria del secondo grado ed in qualche maniera avvicinandolo al giudizio di cassazione.

I criteri di cristallizzazione positiva di tali motivi, filtro di accesso in appello, rimangono imprecisati nel disegno di legge e ciò, a parte ogni considerazione critica sui contenuti minimi che la  legge delega dovrebbe in ipotesi avere, rende impossibile sviluppare sul punto – in sé pur molto rilevante – ogni altro rilievo più approfondito.

Infine, merita menzione la lettera d) del medesimo art. 25 dedicata al giudizio di legittimità, con la previsione della possibilità di impugnare per cassazione soltanto per violazione di legge sia la sentenza che conferma la pronuncia di assoluzione di primo grado, individuando i casi in cui possa affermarsi la conformità delle due decisioni di merito, sia le sentenze emesse in grado di appello nei procedimenti di competenza del giudice di pace.

La misura appare certamente apprezzabile in quanto tende ad arginare l’alluvionale massa di ricorsi di cuila Corteè annualmente investita, circostanza questa che non solo provoca effetti negativi in termini di carichi insostenibili di lavoro e di durata dei processi, ma che può incidere anche sulla funzione nomofilattica della Suprema Corte.

Con formula piuttosto vaga, il D.D.L. prevede che spetterà al legislatore delegato individuare i requisiti perché la doppia assoluzione possa essere considerata duplice decisione conforme, verosimilmente riferendosi alle ragioni giuridiche che sostengono  nei due gradi di merito la sentenza di proscioglimento. Profili di criticità potrebbero rilevarsi con riguardo alla disparità dei poteri impugnatori della parte privata e di quella pubblica di fronte alla stessa fattispecie processuale (doppia conforme), anche tenuto conto della giurisprudenza costituzionale formatasi sulla disciplina della legge n. 46/2006.

Quanto invece ai procedimenti dinanzi al giudice di pace, il legislatore equipara i poteri processuali di entrambe le parti rispetto ad ipotesi di reati di non particolare gravità, per le quali risulta esaustivo assicurare una cognizione estesa al doppio grado di merito ed al controllo di legittimità.»

Il presente parere viene trasmesso al Ministro della Giustizia.

[1] Si tratta di reati di furto con violenza sulle cose, ovvero con destrezza o sul bagaglio di viaggiatori, nonché di introduzione o abbandono di animali nel fondo altrui e pascolo abusivo e di uccisione o danneggiamento di animali altrui, che, nella fattispecie incriminatrice di base, sono comunque perseguibili a querela.

[2] in tal senso cfr. il D.D.L. S.19, rubricato “Disposizioni in materia di corruzione, voto di scambio, falso in bilancio e riciclaggio”, che venne presentato in data 15 marzo 2013 dall’attuale Presidente del Senato dott. Grasso ed altri firmatari, che prevede attenuante speciale con diminuzione pena da un terzo alla metà per chi collabora.

[3] Per un analitico e puntuale esame della questione, in riferimento alle diverse tipologie di confisca, si veda Cass. Penale Sez Un. 29 maggio 2014 (depositata 29 luglio 2014) n. 33451.

[4] Cfr., in particolare, le sentenze della Corte EDU, 20 gennaio 2009, Sud Fondi c. Italia e 29 ottobre 2011, Varvara

[5] E’ utile ricordare che analoga previsione è già prevista in materia di confisca di prevenzione. D’altra parte, proprio la peculiarità del procedimento di prevenzione, che non postula l’accertamento di responsabilità penali individuali, è stata utilizzata dalla Corte Costituzionale quale argomento per escluderne dubbi di compatibilità conla Carta (sent. n. 21 del 2012).

[6] Tra le altre, si vedano Cass Pen., Sez. III, 20 maggio 2014, n. 24860, Cass. Pen., Sez. III, 11 marzo 2014, n. 23965.

[7] nella nota sentenza n. 34/1973.

[8] Oltre al parere di seguito citato, si segnalano le più recenti delibere 17 febbraio 2009 e 21 dicembre 2006.

[9] Deliberazione del 9 febbraio 2006, avente ad oggetto “Nota in data 17 settembre 2005 del Ministro della Giustizia, con la quale trasmette, per il parere, copia del disegno di legge, approvato dal Consiglio dei Ministri il 9 settembre 2005, concernente:Disposizioni in materia di intercettazioni telefoniche ed ambientali e di pubblicità degli atti del fascicolo del pubblico ministero e del difensore”.

[10] Ult. cit..

[11] La pronuncia n. 81 cit. ha però mancato di estendere la disciplina delle intercettazioni telefoniche ai tabulati, ritenendo piuttosto applicabile l’art. 256 c.p.p. relativo all’acquisizione di documenti coperti dal segreto professionale (ad analoghe conclusioni è giuntala Corte EDU nella pronuncia Malone c. Royaume Uni [1984]).

[12] Si consideri, infatti, che attualmente l’acquisizione dei dati esteriori delle comunicazioni è regolata dall’art. 132 del D.Lgs. n. 196/2003 (c.d. codice dellaprivacy, così come modificato dal D.L. n. 144/2005 convertito dalla legge n. 155 del 2005) che prevede un obbligo di conservazione di 24 mesi per i dati esteriori di comunicazioni telefoniche e di 12 mesi per le comunicazioni telematiche, prorogabili dal giudice rispettivamente per altri 24 e 6 mesi per indagini relative a reati di particolare gravità già individuati dall’art. 407 II comma lett. a) c.p.p. I dati possono essere acquisiti con decreto motivato del P.M. se la richiesta avviene nella prima scansione temporale; qualora invece l’acquisizione si riferisca a materiale più risalente, sarà necessario l’intervento acquisitivo del giudice. Un meccanismo “a doppio binario” che si è discostato sino ad oggi dal modello disegnato dal legislatore per le intercettazioni telefoniche per il mero intervento del P.M..

[13] La letteratura scientifica sul tema è sterminata. Una ricognizione recente delle questioni è contenuta in Bargis Marta; Belluta Hervé,Impugnazioni penali. Assestamenti del sistema e prospettive di riforma, Giappichelli, 2013.        

[14] Si pensi alle complicazioni interpretative e giudiziarie scaturite dalla legge n. 46/2006.

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