L’art. 3, comma 32, dello schema di decreto legislativo di riforma del processo civile, predisposto in attuazione, della legge delega 26 novembre 2021, n. 206 inserisce nel corpo del codice di procedura civile un nuovo capo I-bis, rubricato “Delle controversie in materia di licenziamenti”

Detto capo introduce tre nuove disposizioni, gli articoli 441-bis, ter e quater ed è sulla prima di queste disposizioni che concentreremo la nostra attenzione.

L’articolo 441-bis c.p.c., rubricato “Controversie in materia di licenziamento” disciplina la trattazione delle cause di licenziamento in cui sia proposta domanda di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.

La norma di nuova introduzione stabilisce che La trattazione e la decisione delle controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei licenziamenti nelle quali è proposta domanda di reintegrazione nel posto di lavoro hanno carattere prioritario rispetto alle altre pendenti sul ruolo del giudice, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto.

Salvo quanto stabilito nel presente articolo, le controversie di cui al primo comma sono assoggettate alle norme del capo primo. Tenuto conto delle circostanze esposte nel ricorso il giudice può ridurre i termini del procedimento fino alla metà, fermo restando che tra la data di notificazione al convenuto o al terzo chiamato e quella della udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di venti giorni e che, in tal caso, il termine per la costituzione del convenuto o del terzo chiamato dovrà essere ridotto della metà. All’udienza di discussione il giudice dispone, in relazione alle esigenze di celerità anche prospettate dalle parti, la trattazione congiunta di eventuali domande connesse e riconvenzionali ovvero la loro separazione, assicurando in ogni caso la concentrazione della fase istruttoria e di quella decisoria in relazione alle domande di reintegrazione nel posto di lavoro. A tal fine il giudice riserva particolari giorni, anche ravvicinati, nel calendario delle udienze. I giudizi di appello e di cassazione sono decisi tenendo conto delle medesime esigenze di celerità e di concentrazione.

Contestualmente l’art. 37 lettera  e) abroga l’articolo 1, commi da 47 a 69, della legge 28 giugno 2012, n. 92, ossia quelle norme della cd. Legge Fornero che assoggettavano le cause in materia di licenziamenti ad uno speciale procedimento.

Il legislatore delegato ha dato quindi attuazione alla legge 206/2021 che delegava il Governo ad emanare norme volte ad unificare e coordinare la disciplina dei procedimenti di impugnazione dei licenziamenti, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro, e contestualmente assegnava carattere prioritario alle cause di licenziamenti (Per un approfondimento sulla legge delega sia consentito rinviare a P. SCOGNAMIGLIO, Il superamento del rito Fornero nella legge 26-11-2021, n.206., di riforma del processo civile, in questa rivista).

Del resto il cd. Rito Fornero non era mai stato particolarmente apprezzato dagli addetti ai lavori e ne era stata proposta l’abrogazione anche da parte della «Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti alternativi» istituita presso il Ministero della Giustizia con D.M.12-3-2021 e presieduta dal prof. Luiso.

Il processo di progressivo superamento del rito Fornero era iniziato da tempo e già il decreto legislativo 23/2015 aveva sottratto al cd. Rito Fornero le impugnative dei licenziamenti dei lavoratori assoggettati al cd. Regime delle tutele crescenti e la legge delega completa questo processo

Se la scelta del legislatore appariva ormai scontata, non appare però inopportuna una riflessione sulla portata della novella.

Il neo introdotto art. 441 bis c.p.c. riconduce chiaramente le controversie in materia di licenziamento alle norme di cui agli art. 409 ss c.p.c. con la conseguenza che le cause in materia di licenziamento seguiranno le regole generali previste per le cause di lavoro, fatte salve alcune disposizioni previste dallo stesso art. 441 bis c.p.c.

Analogamente il ricorso in materia di impugnativa di licenziamenti seguirà le disposizioni di cui agli art. 414 ss c.p.c.; viene infatti abrogato l’art. 1, comma 48, legge 92/2012 secondo cui Il ricorso deve avere i requisiti di cui all’articolo 125 del  codice di procedura civile e non era prevista la specifica indicazione dei mezzi di prova.

Sempre l’art. 1, comma 48, legge 92/2012 statuisce che  A seguito della presentazione  del  ricorso  il  giudice fissa con decreto l’udienza di comparizione  delle  parti. L’udienza deve essere fissata non  oltre  quaranta  giorni  dal  deposito  del ricorso.

Il giudice assegna un termine per la notifica del ricorso  e del decreto non inferiore a venticinque  giorni  prima  dell’udienza, nonché un termine, non inferiore a cinque giorni prima della stessa udienza, per la costituzione del resistente.

Il legislatore delegato invece riconduce, come detto, la disciplina delle cause di licenziamento nell’alveo degli artt. 409 ss c.p.c. con la conseguenza che di norma troverà applicazione la disciplina di cui all’art. 415 c.p.c.  con la fissazione da parte del giudice dell’udienza di discussione nel termine di sessanta giorni dal deposito del ricorso (e non quaranta come nel rito Fornero) e l’obbligo di notifica almeno 30 giorni prima (e non venticinque giorni prima come nel rito di cui alla legge 92/2012).

La peculiarità delle controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei licenziamenti nelle quali è proposta domanda di reintegrazione nel posti di lavoro viene in qualche modo assicurata prevedendo la possibilità per il giudice di ridurre i termini del procedimento fino alla metà, fermo restando che tra la data di notificazione al convenuto o al terzo chiamato e quella della udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di venti giorni e che, in tal caso, il termine per la costituzione del convenuto o del terzo chiamato dovrà essere ridotto della metà.

Ebbene deve innanzitutto ribadirsi che tale previsione opera solo per le impugnative di licenziamenti in cui si chiede la reintegra, con la conseguenza che l’abbreviazione dei termini non potrà essere disposta nei giudizi volti ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento, ma nei quali si formulano solo richieste indennitarie.

Venendo al contenuto della previsione, sembra evidente la volontà del legislatore delegato di non introdurre disposizioni che possano assoggettare le cause di licenziamento ad un rito speciale e riprodurre i problemi interpretativi emersi in sede di applicazione del cd. rito Fornero.

Vengono quindi introdotte solo piccole modifiche funzionali soprattutto a garantire un iter più celere delle cause nelle quali aventi ad oggetto la reintegra nel posto di lavoro.

Il potere del giudice di ridurre i termini del procedimento sembra poter essere esercitato anche d’ufficio, ma laddove vi siano particolari ragioni di urgenza è opportuno che sia la parte ricorrente a richiedere l’abbreviazione dei termini (in relazione alle esigenze di celerità anche prospettate dalle parti) fermo restando che da un lato il giudice non è obbligato a ridurre i termini del procedimento (può ridurre) e che comunque particolari esigenze di urgenza potranno comunque essere coltivate dalla parte con un ricorso ex art. 700 c.p.c. (anche se nella relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo si legge che L’introduzione di questi nuovi strumenti dovrebbe scongiurare la proliferazione di domande cautelari ante causam, anche in considerazione del fatto che la particolare celerità garantita dalle nuove disposizioni potrà essere valutata dal giudice in relazione al presupposto del periculum in mora)

Continuando nel raffronto tra l’abrogando art. 1, comma 48, legge 92/2012 ed il nuovo art. 441 bis c.p.c., si osserva che l’art. 1, comma 48, legge 92/2012  prevedeva che il giudice assegnasse un termine di cinque giorni prima nell’udienza per la costituzione del resistente, ma era pacifico che anche in caso di tardiva costituzione non vi fossero decadenze istruttorie per il convenuto, non essendo prevista alcuna decadenza per l’attore.

La novella riconduce come detto le cause di licenziamento alla disciplina di cui all’art. 409 c.p.c. ss con la conseguenza che  il ricorso ex art. 414 c.p.c. dovrà contenere, come già detto, l’indicazione specifica dei mezzi di prova ed in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione  mentre il convenuto . ai sensi dell’art. 416 c.p.c. deve costituirsi almeno dieci giorni prima della udienza, mediante deposito in cancelleria di una memoria difensiva nella quale devono essere proposte a pena di decadenza le eventuali domande in via riconvenzionale e le  eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio.

Maggiori problemi interpretativi sembra porre l’art. 441 bis, quarto comma, c.p.c. secondo cui all’udienza di discussione il giudice dispone, in relazione alle esigenze di celerità anche prospettate dalle parti, la trattazione congiunta di eventuali domande connesse e riconvenzionali ovvero la loro separazione, assicurando in ogni caso la concentrazione della fase istruttoria e di quella decisoria in relazione alle domande di reintegrazione nel posto di lavoro.

Come è noto la legge 92/2012 consentiva la trattazione con il rito Fornero solo delle domande di impugnativa di licenziamento e delle domande fondate sugli stessi fatti costitutivi.

L’art. 1, comma 56, legge 92/2012 consentiva poi la trattazione delle domande riconvenzionali solo nella fase di opposizione e sempre che le cause fossero fondate su fatti costitutivi identici a quelli posti a base della domanda principale.

Erano queste forse le disposizioni più problematiche del cd. Rito Fornero e sicuramente non erano proponibili proponibili domande di differenze retributive fondate su fatti diversi dal licenziamento perché rispetto a tali domande il rapporto di lavoro funziona da semplice presupposto, mentre il fatto costitutivo è rappresentato dalla effettiva prestazione di lavoro o dalle sue modalità (es: diritto a lavoro straordinario, a premio di risultato etc…..)

Potevano essere attratte invece nel rito Fornero  le domande risarcitorie legate all’atto di recesso, come l’ulteriore danno derivante da un licenziamento ingiurioso (V. F.P. LUISO, La disciplina processuale speciale della L. 92 del 2012 nell’ambito del processo civile:modelli di riferimento ed inquadramento sistematico, relazione al Corso CSM 5966 La riforma del mercato del Lavoro nella legge 28 giugno 2012, n. 92, Roma, 29-31 ottobre 2012. Si sono ritenute ammissibili le domande di risarcimento dei danni ulteriori quali quelli alla salute od all’onore; in tal senso Trib. Genova, 29 gennaio 2013, Guida lav, 2013, n. 21, 29; Trib. Roma, 29 gennaio 2013, est. Pucci: Trib. Roma, 28 novembre 2012).

Sostanzialmente potevano essere proposte nel rito Fornero tutte quelle domande che, al pari di quelle ex art. 18 St.Lav, riconoscessero tra i propri fatti costitutivi sia il preesistente rapporto di lavoro subordinato, sia l’illegittimità del licenziamento.

Non erano mancate critiche alla disposizione e si era osservato come la previsione della legge 92/2012 che limitava la contemporanea trattazione alle sole questioni ulteriori rispetto all’impugnativa di licenziamento che siano fondate sui medesimi fatti costitutivi costituisse in sé un grave appesantimento dell’ intero sistema della giustizia del lavoro e contraddicesse vistosamente il disposto di cui all’art. 151 disp. att. c.p.c. che impone l’obbligo della riunione delle cause di lavoro in presenza di elementi di connessione (M. LEONE- A.TORRICE, Il procedimento per la impugnativa dei licenziamenti:  il legislatore strabico, in   La Legge n. 92 del 2012: un’analisi ragionata a cura di F.AMATO- R. SANLORENZO).

E proprio  per evitare tali conseguenze alcuni Tribunali avevano affermato che l’ espressione identici fatti costitutivi non dovesse essere intesa in senso strettamente letterale,  ma andasse vista con riferimento all’oggetto del vaglio giudiziale che deve riguardare i medesimi fatti sia pure con l’aggiunta di elementi valutativi in diritto.

Anche la giurisprudenza sella Suprema Corte aveva cercato di ampliare il campo di applicazione del rito Fornero statuendo  che con il rito speciale fosse possibile anche chiedere il pagamento delle spettanze dovute nel caso in cui sia riconosciuta la validità del licenziamento, e quindi anche il trattamento di fine rapporto e l’indennità di mancato preavviso (Cass. 12-8-2016, n. 17091. Per approfondimenti v. G. FALASCA, Anche il Tfr nel rito Fornero, Il Sole 24 ore, 13 agosto 2016.).

La Suprema Corte, a sostegno di tale affermazione, aveva osservato che la norma di cui all’art. 1, comma 48, legge 92/2012 nella parte in cui stabilisce che nell’ambito del rito Fornero non possono essere proposte domande diverse dall’impugnazione del licenziamento, a meno che non siano fondate sugli identici fatti costitutivi, non deve essere intesa in senso stretto, ma serve solo ad impedire che, nell’ambito del rito sommario, il lavoratore allarghi il thema decidendum a fatti diversi dal licenziamento, vanificando le esigenze di celerità che caratterizzano questa prima fase processuale.

Secondo i giudici di legittimità le domande subordinate aventi ad oggetto il pagamento del tfr e dell’indennità di mancato preavviso non ampliano l’oggetto del giudizio, in quanto nascono sempre in relazione al medesimo fatto- il licenziamento- su cui è chiamato a pronunciarsi il giudice, e come tali sono ammissibili.

Ugualmente si era affermata la possibilità di chiedere in via subordinata la tutela obbligatoria di cui alla legge 604/1966 laddove all’esito del giudizio si fossero ritenuti insussistenti i requisiti dimensionali per l’applicazione delle tutele di cui all’art. 18 St. Lav. (Cass. 13-6-2016, n. 12094 in Mass. Giur.lav., 2017, fasc. 3, p. 172, con nota di G. GAETA, Il tramonto del rito Fornero; in senso contrario inizialmente Cass. 10-8-2015, n. 16662, in Riv. giur.lav. prev. Soc. 2016, fasc. 2. P.II, p.241 con nota di MUTARELLI M., E’ davvero “improponibile” nel rito Fornero la domanda di tutela ex art.8 l. n. 604/1996?)

Il nuovo art. 441 bis supera queste problematiche consentendo anche nelle cause aventi ad oggetto la reintegra nel posto di lavoro la trattazione delle domande connesse e delle riconvenzionali.

Il legislatore delegato, consapevole che la trattazione di ulteriori domande può rallentare l’iter della causa in materia di licenziamento, prevede che il giudice possa disporre la separazione delle domande.

E’ evidente che però provvedimenti di separazione potrebbero rendere più difficoltosa la conciliazione tra le parti e creare problemi di ordine pratico anche in relazione all’aggravio di lavoro per le cancellerie notoriamente alle prese con gravi carenze di organico.

In ogni caso il legislatore delegato impone al giudice di assicurare la concentrazione della fase istruttoria e di quella decisoria in relazione alle domande di reintegrazione nel posto di lavoro, riservando particolari giorni, anche ravvicinati, nel calendario delle udienze.

Quest’ultima previsione riproduce l’articolo 1, comma 65, legge 92/2012 che già imponeva di riservare particolari giorni nel calendario delle udienze alle cause introdotte con il rito Fornero.

Non sono poi previste particolari disposizioni per i giudizi di impugnazione dal momento che il legislatore si limita a precisare che i principi di celerità e concentrazione dovranno caratterizzare anche la trattazione delle controversie in materia di licenziamento con tutela reale in grado d’appello e in cassazione.

Infine, sotto il profilo organizzativo, si introduce nel corpo delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie il nuovo articolo 144 quinquies, rubricato “Controversie in materia di licenziamento”, a tenore del quale il presidente di sezione ed il dirigente dell’ufficio giudiziario favoriscono e verificano la trattazione prioritaria dei procedimenti di cui al Capo I bis del titolo IV del libro II del c.p.c., prevedendosi altresì che in ciascun ufficio giudiziario siano effettuate estrazioni statistiche trimestrali che consentano di valutare la durata media dei processi di cui all’art. 441 bis del codice di procedura civile, in confronto con la durata degli altri processi in materia di lavoro.

La norma sembra avere soprattutto lo scopo di richiamare i giudici del lavoro e la vigilanza dei capi degli uffici sull’esigenza che le cause di licenziamento aventi ad oggetto la reintegra nel posto di lavoro abbiano priorità assoluta rispetto ad ogni tipo di controversi.

Va poi segnalato che l’art. 35 della bozza di decreto legislativo statuisce che le disposizioni recate dal decreto legislativo, tra cui le norme sopra esaminate, hanno effetto a decorrere dal 30 giugno 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data, con la precisazione – a fugare possibili dubbi interpretativi – che ai procedimenti pendenti a quella data continuano ad applicarsi le disposizioni anteriormente vigenti. Così facendo, ci si è assicurati che l’abrogazione delle norme preesistenti e l’applicazione delle nuove norme (come l’abrogazione del c.d. “rito Fornero” e le nuove disposizioni in tema di procedimenti di impugnazione dei licenziamenti) operino contestualmente.

Di conseguenza tutte le cause introdotte sino al 30 giugno 2023 nelle quali si richiede una tutela di cui all’art. 18 St.lav. continueranno ad essere assoggettate al rito Fornero e deve ritenersi che anche le impugnazioni dei provvedimenti emessi con il rito Fornero (si pensi alla fase di opposizione), pur se successive alla predetta data,  dovranno continuare a seguire le disposizioni di cui alla legge 92/2012.

E’evidente quindi che con il rito Fornero dovremo fare i conti   ancora per un po’ ed è auspicabile che le nuove disposizioni riescano a preservare quella celerità dei procedimenti in materia di licenziamenti, cui il rito Fornero ha contribuito non poco (per un approfondimento sull’incidenza del rito Fornero nella riduzione dei tempi per le controversie in materia di licenziamenti si veda P. SCOGNAMIGLIO, cit, in questa rivista).

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La nuova normativa, introdotta dall’art.21 dello schema di decreto attuativo della legge 26.11.21,  prevede espressamente la competenza del notaio rogante per l’autorizzazione alla stipula di atti pubblici o scritture private autenticate, in cui interviene un minore o un soggetto incapace (interdetto, inabilitato, o beneficiario di amministrazione di sostegno). La norma prevede, altresi’, la possibilità per il Notaio di farsi assistere da consulenti, assumere informazioni, sentire i parenti entro il quarto grado e gli affini entro il secondo, nonché  i creditori, nel caso di vendita di beni ereditari. Il notaio può, inoltre, decidere in ordine al reimpiego delle somme spettanti al minore, a seguito degli atti di cui sopra (es. vendita di beni appartenenti  minori), e della concessa autorizzazione da comunicazione, “anche ai fini dell’assolvimento delle formalità pubblicitarie”, alla cancelleria del Tribunale che sarebbe stato competente al rilascio della corrispondente autorizzazione. Tali autorizzazioni possono essere impugnate, nei modi e nelle forme applicabili all’impugnativa del corrispondente provvedimento giudiziale ed acquistano efficacia decorsi venti giorni delle comunicazioni predette, senza che sia stato proposto reclamo. Restano riservate, in via esclusiva, all’autorità giudiziaria  le autorizzazioni per promuovere rinunciare, transigere o compromettere in arbitri giudizi, nonché per la continuazione dell’impresa commerciale.

Invero, la norma in oggetto,  se da un lato ha il vantaggio di comportare uno snellimento dell’attività giudiziaria, determinando una significativa riduzione degli atti prima demandati al Giudice Tutelare o al Tribunale, ai sensi degli artt. 320 c.c., 374 e 375 c.c.,  dall’altro affida ad un organo posto al di fuori della giurisdizione, una funzione di bilanciamento e valutazione degli interessi sottesi al procedimento autorizzativo.

Il Notaio, infatti, va a sostituirsi all’autorità giudiziaria nella valutazione della convenienza dell’operazione per i soggetti incapaci, nell’assunzione di informazioni utili per valutare l’opportunità o meno di un determinato atto, nell’ambito di una sorta di procedimento paragiurisdizionale, deformalizzato, non disciplinato nello specifico. I problemi che potrebbero porsi riguarderanno le modalità di convocazione di informatori (parenti o affini), o di eventuali consulenti, o l’assunzione ad esempio di informazioni presso servizi sociali, attività che normalmente il Giudice tutelare gestisce per il tramite della cancelleria, che invece, a seguito della riforma, sarà destinataria di una mera comunicazione all’esito del procedimento. L’intervento dell’autorità giudiziaria è previsto  solo in un momento eventuale e successivo, a seguito di reclamo, sicchè la valutazione della congruità e opportunità dell’operazione viene sostanzialmente demandata al Notaio rogante, che da organo terzo con competenze limitate ad un controllo tecnico di regolarità formale dell’atto, viene ad essere investito di una funzione che implica l’esercizio di un’attività discrezionale di bilanciamento dei vari interessi in gioco, coinvolgente soggetti vulnerabili, proprio in ragione della loro incapacità, prima affidata all’autorità giudiziaria.

La prassi o interventi successivi di modifica, chiariranno i termini dei rapporti tra il Notaio e l’autorità giudiziaria o la cancelleria, anche al fine di individuare  le modalità attraverso cui il notaio nomina i consulenti, essendo opportuno, ad esempio, che lo stesso disponga dell’albo in uso presso i Tribunali, anche considerato che essendo la presenza degli avvocati, che normalmente svolgono una funzione anche di filtro tecnico,  solo eventuale, anche l’assunzione di informazioni, potrebbe, in concreto presentare problematicità. Si pensi all’individuazione di parenti e affini entro il secondo grado che richiede, quantomeno la produzione di un certificato di famiglia o, ad  altri tipi di indagini, come quelle  a mezzo della polizia Tributaria e dei Servizi Sociali, con cui  l’autorità giudiziaria, a differenza del Notaio, è abituata ad interagire.

Un intervento di riforma che implichi uno spostamento di competenze dall’autorità giudiziaria ad organi diversi, posti al di fuori della giurisdizione, comporta inevitabilmente la perdita delle garanzie connesse alla giurisdizione, seppur in una meritevole ottica di snellimento della stessa  attivita’ giurisdizionale e di riduzione dei tempi di definizione dei giudizi. La possibilità di reclamo e la comunicazione degli atti anche al PM, garantiscono, tuttavia, il recupero di un controllo da parte dell’autorità giudiziaria, seppur in una fase successiva ed eventuale.

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di Nicola Cosentino e Eugenia Italia in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la Costituzione

SOMMARIO: 1. Genesi della riforma e obiettivi del legislatore delegato – 2. L’anticipazione del sistema di preclusioni assertive e probatorie alla fase anteriore all’udienza di prima comparizione e trattazione della causa – 3. Un parziale ritorno a modelli processuali che si ritenevano superati? – 4. Le ordinanze provvisorie di accoglimento: la certezza del diritto e la tempestività della tutela – 5. Conclusioni e proposte per il legislatore delegato tra ritualità e bene della vita.

1- Genesi della riforma e obiettivi del legislatore delegato

Com’è noto l’intervento riformatore di cui alla l. n. 206/2021 scaturisce dall’impellente necessità di raggiungere gli ambiziosi obiettivi di recupero di efficienza dell’apparato giudiziario assunti quali condizioni per il conseguimento di risorse finanziarie europee nell’ambito del c.d. Piano nazionale di resistenza e resilienza.

Uno dei pilastri delle iniziative intraprese dal nostro Paese in attuazione del Piano è costituito proprio dalla riforma del processo civile, ispirata ai principi di semplicità, concentrazione, effettività della tutela, ragionevole durata del processo di cui all’art. 1, 5° comma, lett. a), l. n. 206/2021.

Sulla riscrittura delle regole del processo si ripone, dunque, una parte cospicua delle aspettative di riduzione dello stock di arretrato di cause civili e di abbattimento della durata dei processi.

La numerosità, l’eterogeneità e l’incisività degli interventi legislativi di riforma del processo civile succedutisi – in modo a tratti parossistico – nel corso degli ultimi decenni, senza peraltro ridurre in via risolutiva quei livelli di arretrato e durata dei processi civili ritenuti ancor oggi inaccettabili in sede europea, spiega l’assenza di entusiasmi nell’accogliere le modifiche oggi prospettate.

È massima tralatizia quella secondo la quale, a parità di risorse umane e finanziarie, la modifica dei modelli processuali ha un limitato impatto su obiettivi di maggiore efficienza dell’apparato giudiziario. Oggi, la vera novità dell’approccio riformatore sta nell’avere affiancato alla riforma del processo un’ancor più ambiziosa e innovativa linea d’azione, rappresentata dall’istituzione dell’Ufficio per il processo quale organismo, composto da funzionari appositamente reclutati, di ausilio e supporto dell’azione dei magistrati, in grado, negli auspici dei suoi ideatori, di implementare in modo radicale la produttività degli stessi (sul tema si rimanda a LEOPIZZI, in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la Costituzione, Gli addetti all’ufficio per il processo e gli altri nuovi profili professionali previsti dal Progetto Capitale Umano – PNRR. Riflessioni e prospettive, 2021, in www.unicost.eu).

E tuttavia, deve sin d’ora registrarsi la completa assenza di collegamenti tra la nuova riforma del processo civile e l’introduzione, foriera addirittura di un radicale stravolgimento del tradizionale modo di lavorare del giudice, dell’Ufficio per il processo. Si vuole segnalare, in particolare, come gli ausiliari dell’Ufficio per il processo non assumano alcun ruolo tra i formali attori del nuovo processo civile e che il legislatore della riforma non abbia sentito in alcun modo la necessità di disciplinare sul piano processuale il contributo di tali figure, per altri versi ritenuto decisivo al punto da preferirlo all’alternativa di un semplice incremento delle piante organiche dei magistrati. Ciò si spiega per la totale assenza di proiezione “esterna” dell’attività degli addetti all’Ufficio per il processo, di carattere esclusivamente ausiliario e preparatorio e di rilievo meramente “interno”.

Da questo punto di vista, allora, non si registrano sinergie tra novella del processo civile e apporto del nuovo Ufficio per il processo, con la conseguenza che la capacità del nuovo modello processuale di incidere sulla rapidità e sulla efficacia dei processi civili dipenderà in via esclusiva dalla bontà delle scelte adottate per regolare i diversi snodi del processo stesso.

2- L’anticipazione del sistema di preclusioni assertive e probatorie alla fase anteriore all’udienza di prima comparizione e trattazione della causa

La scelta di fondo che contraddistingue il modello del nuovo rito di cognizione ordinaria davanti al tribunale, destinato ad operare sia nelle cause monocratiche che in quelle collegiali, va certamente individuata nell’anticipazione della definizione del thema decidendum e del thema probandum alla fase anteriore all’udienza di prima comparizione, nell’idea che il primo contatto tra le parti e il giudice istruttore debba avvenire solo quando la disclosure dei fatti di causa e dei mezzi di prova degli stessi è stata piena e completa.

La direttiva fissata dal legislatore delegante sulle nuove modalità di trattazione della causa è sufficientemente precisa da non lasciare dubbi sulla scansione delle attività e facoltà processuali delle parti in questa fase e sulla sequenza serrata delle preclusioni che, man mano che si avvicina l’udienza, restringono sempre più l’ambito di ammissibilità delle attività assertive e di deduzione di prove delle parti.

In sostanza si assiste allo slittamento dell’attuale sistema di preclusioni nella fase compresa tra il deposito dei rispettivi atti introduttivi delle parti (atto di citazione e comparsa di risposta) e l’udienza, cosicché le parti giungono alla prima comparizione avendo già completato le rispettive deduzioni difensive.

La direttiva di cui alla lettera f) del comma 5 dell’art. 1 della Legge delega, contempla uno scambio di memorie “incrociate” che si snoda nel lasso temporale tra il deposito della comparsa di risposta del convenuto e la prima udienza, imponendo una dilatazione del termine a comparire di cui all’art. 163 bis c.p.c. al fine di contenere l’articolato svolgimento delle difese delle parti (dilatazione richiesta esplicitamente, anche con riguardo al termine di costituzione dell’attore, dalla direttiva di cui alla successiva lettera g) della norma in esame).

A differenza di quanto previsto dall’attuale sistema di preclusioni delineato dal vigente art. 183, 6° comma, c.p.c., nel quale ad entrambe le parti viene assegnato un identico termine per il compimento di identiche attività, i termini assegnati per il deposito delle memorie integrative e i contenuti di queste sono differenziati per ciascuna parte.

Un primo termine è riservato, in via esclusiva, all’attore e al deposito di una prima memoria con la quale egli potrà, a pena di decadenza, proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni del convenuto e chiedere di essere autorizzato a chiamare un terzo ai sensi degli articoli 106 e 269, terzo comma, del codice di procedura civile se l’esigenza è sorta dalle difese del convenuto, nonché in ogni caso precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate e, a pena di decadenza, indicare i nuovi mezzi di prova e le produzioni documentali.

La memoria vede concentrarsi, dunque, le facoltà processuali oggi consentite in parte nella prima udienza di trattazione (attuale art. 183, 5° comma, c.p.c.) e, in altra parte, nella prima (attività di mera emendatio di domande ed eccezioni già proposte) e nella seconda memoria ex art. 183, 6° comma, c.p.c. (deduzione di mezzi di prova).

Segue la previsione di una successiva memoria del convenuto, con la quale questi può modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate e, a pena di decadenza, indicare i mezzi di prova ed effettuare le produzioni documentali. Si tratta delle attività oggi consentite nel termine assegnato per la memoria di cui al n. 1 e, quindi, nel termine assegnato per la memoria di cui al n. 2 del 6° comma, dell’art. 183 c.p.c..

Infine, le parti possono replicare, entro un ulteriore e successivo termine, alle domande ed eccezioni formulate nelle memorie integrative e indicare la prova contraria, attività oggi consentita in parte nella seconda memoria e, in altra parte, nella terza memoria ex art. 183, 6° comma, c.p.c..

Appare evidente la sovrapposizione tra definizione del thema decidendum e definizione del thema probandum, considerato che la maturazione di preclusioni istruttorie avverrà quando ancora non saranno definitivamente cristallizzati i fatti da provare ovvero prima che sia precluso introdurre allegazioni nuove, quantomeno a confutazione di quanto dedotto dalla controparte. Si tratta di una criticità non estranea anche all’attuale sistema di preclusioni di cui al citato art. 183, 6° comma, c.p.c. e rimediabile, se non altro, attraverso l’istituto della rimessione in termini di cui all’art. 153, 2° comma, c.p.c., salvo un opportuno intervento del legislatore delegato sul punto.

L’esigenza che, sin dagli atti introduttivi, le parti assumano una posizione precisa sui fatti di causa è affidata alle direttive di cui alle lettere b) ed e) del comma 5 dell’art. 1, secondo cui attore e convenuto dovranno esporre in modo “chiaro e specifico” i fatti e le rispettive ragioni, mentre non si registra alcuna direttiva in ordine al discusso principio di sinteticità degli atti processuali, invocato quale strumento utile ai fini della semplificazione e accelerazione processuale.

3- Un parziale ritorno a modelli processuali che si ritenevano superati ?

Ad un primo sguardo la disciplina delle memorie integrative incrociate disegnata dalla Legge delega richiama lo scambio di memorie disciplinato dagli artt. 6 e 7, d.lg. n. 5/2003 (recante la disciplina del c.d. rito societario), sia pure in un contesto processuale differente (l’udienza è fissata sin da subito dall’attore nell’atto di citazione, secondo lo schema tipico dell’introduzione del giudizio mediante citazione a comparire a udienza fissa) e con un significativo ridimensionamento (le memorie integrative dell’odierna riforma sono solo quattro, due per ciascuna parte).

Non può mancarsi di ricordare che quel modello processuale, impregnato del mito di una prima udienza “a carte scoperte” che avrebbe visto l’ingresso del giudice istruttore su una scena definitivamente allestita dalle parti, uniche vere registe della trattazione della causa e della definizione del suo oggetto attraverso lo scambio di numerose memorie di replica e controreplica al di fuori del perimetro di controllo e direzione del processo riservato all’istruttore, risultava fino ad oggi dismesso e abbandonato dal legislatore (in virtù dell’abrogazione espressa disposta dall’art. 54, 5° comma, l. n. 69/2009, in vista della c.d. “semplificazione dei riti”).

Non è facile individuare le ragioni che hanno indotto il legislatore delegante a riesumare – sia pure in formato “ridotto” – tale modello processuale, dopo averlo archiviato ritenendolo forse, a distanza di meno di sei anni dalla sua entrata in vigore, non in linea rispetto a quegli stessi obiettivi di semplicità, concentrazione, effettività della tutela, ragionevole durata del processo che la Legge delega del 2021 afferma oggi come ispiratori della riforma (CHIARLONI, Il rito societario a cognizione piena: un modello processuale da sopprimere, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, 865).

Si consideri che l’art. 70 ter disp. att. c.p.c., introdotto dall’art. 2, comma 3, lett. a), d.l. n. 35/2005, conv. con modif. dalla l. n. 80/2005, aveva previsto la possibilità che le parti concordassero l’assoggettamento del processo di cognizione davanti al tribunale alla disciplina di cui al d.lg. n. 5/2003. Tale facoltà, anticipatrice di una generalizzazione del modello del rito societario per la disciplina del processo di cognizione, non ha avuto sostanzialmente alcun seguito nella prassi e tale insuccesso potrebbe indurre a ritenere che quel modello non fosse ritenuto dall’avvocatura idoneo a regolare adeguatamente il processo civile.

Certamente, non può negarsi l’apprezzabilità dell’intento di eliminare udienze inutili e di attivare l’intervento del giudice solo quando le parti hanno cristallizzato l’oggetto del giudizio, al fine di evitare spreco di risorse processuali.

E, tuttavia, il deposito di diverse memorie che si aggiungono agli atti introduttivi, unitamente al decorso di un ben più lungo termine a comparire, rischiano di determinare un inutile appesantimento del processo e un cospicuo allungamento dei suoi tempi in tutti quei casi, non infrequenti, in cui sussistono ostacoli alla regolare progressione del procedimento. Si pensi, in particolare, all’emersione, all’esito della prima udienza, del difetto di integrità del contraddittorio, della necessità di rinnovo della notifica dell’atto introduttivo a parti non costituitesi in giudizio e di altre irregolarità che impongano la regressione del processo e la reiterazione dello scambio di memorie, ovvero ai casi di constatazione dell’incompetenza o del difetto di giurisdizione del giudice adito, con definizione del processo attraverso una decisione in rito allo stato degli atti (si veda oltre nel testo nonché la nota critica di BIAVATI, Note sullo schema di disegno di legge delega di riforma del processo civile, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2015, 209).

Quanto la riproposizione di tale modello sarà funzionale al conseguimento degli obiettivi di efficienza del processo inseguiti dall’ennesimo intervento riformatore, può pertanto sin d’ora farsi oggetto di riserve, in attesa di conoscere le scelte di dettaglio del legislatore delegato.

4.      Le ordinanze provvisorie di accoglimento: la certezza del diritto e la tempestività della tutela.

Come sin qui riferito, l’obiettivo del legislatore è quello di “efficientare” il processo civile; ebbene esso può dirsi centrato a metà.

La scelta del rito di cognizione ordinario con una integrale “discovery” cartacea anteriormente alla prima udienza può ritenersi una scelta preferibile sia rispetto al rito sommario, che vista la sua estrema semplificazione e l’assenza di preclusioni, non consente un contradditorio “ordinato” ed esaustivo,  sia rispetto al rito del lavoro, che prevede preclusioni rigidissime e limita fortemente le precisazioni  ovvero modifiche della domande, ammesse entro certi limiti, non proprio risicati ( cfr. Cass, Sez. Unite, 13.09.2018, n. 22404, e sia consentito rinviare ad ITALIA, Dall’azione contrattuale all’arricchimento ingiustificato: alternatività per connessione, in Nuova Giur. Civ. Comm. 2019, p. 249 e ss.).

La scelta presenta alcuni svantaggi connessi alla circostanza che il giudice entra in scena dopo che le parti si sono scambiate almeno tre memorie, con il rischio di dover ordinare la rinnovazione delle notificazioni, perché viziate o perché il litisconsorzio non è integro. Poi vi è il problema di coordinamento con l’art. 269 c.p.c.: nel caso di chiamata in causa da parte del convenuto il giudice dovrà spostare l’udienza, rispettando i termini di cui all’art. 163 bis c.p.c., ovvero nel caso di chiamata in causa da parte dell’attore, il giudice deve autorizzare l’istante.

Il legislatore, consapevole della necessità del coordinamento, nel punto h) delega «ad adeguare la disciplina della  chiamata  in  causa  del  terzo  e dell’intervento volontario ai principi di cui alle lettere  da  c)  a g)».

Non si può non sottolineare che la chiamata in causa del terzo o il suo intervento, circostanze molto frequenti nei processi civili, faranno saltare lo schema della discovery in quanto costringeranno il giudice a fare quel che fa già oggi: verificare immediatamente la regolarità delle notificazioni ovvero, nel caso di autorizzazione alla chiamata in causa da parte dell’attore, svolgere un esame delle domande sin a quel momento proposte dalle parti.

Se statisticamente la circostanza avverrà così frequentemente, allora viene da interrogarsi se non sia il caso di lasciare che il giudice, come avviene oggi, governi il contradditorio delle parti sin dai primi atti.

Si rischia che l’eccezione (verifica immediata delle notificazioni) diventi la regola; oppure si potrà immaginare qualche modalità di automatismo nelle chiamate del terzo, e una verifica complessiva del giudice alla prima udienza dopo il deposito di tutte le memorie, con il rischio che la rinnovazione delle notificazioni diventi un affare davvero gigantesco.

Ad avviso di chi scrive, occorre incidentalmente stimolare la riflessione sul tema delle notificazioni, che è in realtà il vero cruccio inconfessato del processo italiano; essa vorrebbe premiare la conoscibilità e in taluni casi la conoscenza effettiva della pendenza giudiziaria, ma per le modalità, ancora un po’ barocche, imposte dalla normativa processuale, si incaglia nelle ricerche improbabili, difficoltose, spesso di soggetti, quali gli addetti postali, nemmeno particolarmente qualificati per l’incombente. Si potrebbe ipotizzare di sostituire la notificazione con sistemi avanzati di comunicazione digitale certificata, se i singoli cittadini, inseriti in sistemi di identificazione digitale (SPID, CIE e quant’altro), fossero più attrezzati dal punto di vista telematico. Non sembra così in dissonanza con il piano di resilienza europea una politica di maggior informatizzazione dei cittadini sia in termini di educazione digitale sia sotto il profilo di incentivazione all’utilizzo di mezzi di identificazione e comunicazione digitale. Non sarebbe una privazione di garanzie processuali, ma la loro declinazione secondo modalità diverse e nuove, consone ai tempi in cui viviamo, alle nostre abitudini sociali.

Lo schema procedimentale previsto dal legislatore ha però il merito di preservare l’oralità del processo (non scontato dopo due anni di trattazione scritta «emergenziale») e di voler presentare al giudice un compendio completo per consentirgli di elaborare una proposta conciliativa alle parti ovvero di poter comprendere se la causa è già matura per la decisione.

Fin qui si l’impressione che il legislatore voglia accelerare il processo, ed anche di «semplificarlo» al netto di rischio del rinnovo delle notificazioni. Tuttavia, questa accelerazione potrebbe subire una brusca frenata ovvero incontrare ostacoli atti a far percorrere al processo strade estremamente tortuose contro ogni logica di economia processuale.

La lettera o) al punto 1) prevede che, nel corso del giudizio di primo  grado,  nelle controversie di competenza del tribunale che hanno ad oggetto diritti disponibili il giudice possa, su istanza  di  parte,  pronunciare  ordinanza provvisoria di accoglimento provvisoriamente esecutiva, in tutto o in parte, della  domanda  proposta,  quando  i  fatti  costitutivi  sono provati e le difese del convenuto appaiono manifestamente infondate.

Al punto 2 successivo si precisa che l’ordinanza di   accoglimento   è reclamabile   ai   sensi dell’articolo 669-terdecies del codice  di  procedura  civile  e  non acquista efficacia di  giudicato  ai  sensi  dell’articolo  2909  del codice civile, né può avere autorità in altri processi.

Non è la sede per soffermarsi sulle criticità anche organizzative che questa previsione normativa comporta e pertanto si rinvia alla lettura delle considerazioni svolta da DORO, Il disegno di legge delega alla riforma del processo civile: riflessioni e proposte, in www.lamagistratura.it.

Tuttavia, non si può sottacere un’incongruenza: se i fatti costitutivi sono provati e le difese sono infondate perché prevedere un’ordinanza solo provvisoria, per giunta reclamabile, anziché come avviene nel processo amministrativo, la possibilità, già all’esito della prima udienza, in occasione della decisione del cautelare, di provvedere con sentenza semplificata (cfr. art. 60 del codice del processo amministrativo)?

Un’occasione persa per incentivare l’economia processuale in quanto il processo dovrà essere quanto meno rinviato per la discussione ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., se il giudice ritiene di poterlo definire non provvisoriamente.

Peraltro, è un’ordinanza piuttosto “debole” rispetto ad altre analoghe presenti nell’ordinamento processuale civile.

L’ordinanza pronunciata ai sensi dell’art. 648 c.p.c. resa in corso di causa sembra avere la stessa funzione “anticipatoria” e “stabilizzatrice” di quella prevista dalla legge delega in commento. Riprendendo le considerazioni svolte dalla Corte Cost. con la sentenza n. 306 del 2007 che, in conformità alla propria giurisprudenza (ordinanza n. 428 del 2002), ha dichiarato infondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 648 c.p.c. in punto di non impugnabilità e non modificabilità, il legislatore ha preteso una particolare esaustività dell’atto di opposizione, onerandolo di una forte diligenza, sicché sull’opponente tendenzialmente si trasferisce, quando l’apprezzamento delle sue ragioni non sia immediatamente delibabile ma richieda la trattazione della causa, l’onere della durata del processo di cognizione attraverso l’anticipazione del momento dell’efficacia rispetto a quello del pieno accertamento.

La stessa funzione svolge l’ordinanza in commento, che non ha natura cautelare, ma anticipatoria; e peraltro una discovery così seria e penetrante sin dalla fase anteriore alla prima udienza di trattazione evoca lo stesso onere di diligenza per le parti e meriterebbe uguale trattamento.

La stabilizzazione dell’anticipazione di giudizio poteva essere diversamente disegnata dal legislatore delegante non solo eliminando la reclamabilità, così come previsto dalla disciplina di cui all’art. 648 c.p.c., ma anche alternativamente, strutturando l’introduzione del processo di cognizione come un vero e proprio référé, privo di autorità di giudicato, provvisorio, ma destinato ad un’efficacia nel tempo potenzialmente illimitata, ad una sorta di “stabilità di fatto”, che può tramutarsi anche in “stabilità di diritto” in ragione dell’inerzia delle parti e del maturarsi nel frattempo di prescrizioni e decadenze (BONATO, Tutela anticipatoria di urgenza e sua stabilizzazione nel nuovo c.p.c. brasiliano: comparazione con il sistema francese e con quello italiano, in www.judicium.it). Lungi dall’essere una proposta bizzarra, la bifasicità è presente nel sistema in materia di tutela del possesso, dove la prosecuzione del processo, una volta pronunciato l’interdetto, è rimessa dall’art. 703 c.p.c. ad un atto di impulso delle parti interessate.

Sarà comunque difficile in sede di legislazione delegata non prevedere l’ultrattività dell’efficacia esecutiva delle ordinanze pronunciate, in ipotesi di estinzione del processo, così come previsto per quelle rese ai sensi dell’art. 186 ter c.p.c. e dell’art. 189 disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 708 c.p.c.; pertanto non solo soltanto a pronunce prodromiche a condanne, come nel caso dell’art. 186 ter c.p.c. ma anche in relazione a pronunce con contenuto di accertamento e costitutivo, come in quella regolatrici la crisi familiare di cui all’art. 708 c.p.c.

5.      Conclusioni e proposte per il legislatore delegato tra ritualità e bene della vita.

In conclusione, possiamo formulare due auspici per l’efficientamento del rito di cognizione.

Si abbandoni la logica dello standard del giudizio probatorio pieno, e della sacralità del giudicato, come momento risolutivo del bisogno di giustizia, in quanto non è certo che una cognizione piena pervenga alla verità storica (il processo restituisce comunque una verità formale), e poi molto spesso solo la tutela tempestiva è effettiva tutela del bene della vita.

In secondo luogo, si pervada la società e le istituzioni di una cultura informatica consapevole, di una educazione digitale autentica; fluttuiamo ogni giorno nel virtuale, per lavoro o per svago, l’economia percorre ormai le strade della blockchain: la sfida è che lo strumento informatico diventi sicuro e idoneo a conferire certezze anche informative. Se la comunicazione in senso stretto deve rimanere riservata alle relazioni umane, l’informazione di natura “istituzionale” tra pubbliche amministrazioni, ovvero tra amministrazioni e cittadini, ovvero tra cittadini stessi, può circolare in modo sicuro e certo tramite bit. Esonerati da incombenti notificatori, per i quali si confida che il legislatore configuri modalità più attuali e snelle, l’ufficiale giudiziario potrà occuparsi di esecuzione mobiliare o immobiliare, e il postino…di consegnare in serenità lettere e pacchi!

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Premessa.

La proposta di riforma si pone il dichiarato obiettivo di ridisegnare la disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie.

Vale osservare, in via di prima approssimazione, che il chiaro riferimento ai “metodi alternativi di risoluzione delle controversie”, anche detti ADR (dall’acronimo inglese Alternative dispute resolutions), quali tecniche e procedimenti di risoluzione di controversie di tipo legale attinenti a diritti disponibili alternative rispetto al giudizio amministrato dagli organi giurisdizionali pubblici, non pare attagliarsi perfettamente al settore dell’esecuzione, nella misura in cui il processo esecutivo presenta delle peculiarità tali da escludere la sua riconducibilità tout court all’ambito delle vere e proprie “controversie” (si pensi alla forte limitazione del principio del contraddittorio, alla assenza di poteri di accertamento in capo al giudice dell’esecuzione, alla possibilità per il debitore di presentare istanze senza la necessità della difesa tecnica).

Ciò posto, appare piuttosto evidente come lo strumento disegnato dall’art. 10 si ponga quale alternativa alla liquidazione del bene staggito che avvenga all’interno di un processo (o procedimento) diretto dal G.E. e che sia attuata a mezzo dei suoi ausiliari (il riferimento è, in primis, al professionista delegato alle operazioni di vendita ex art. 591 bis c.p.c.). Tuttavia, non è dato comprendere se, nelle intenzioni della riforma, vi sia quella di consentire al debitore di realizzare, per il tramite della vendita diretta, la propria esdebitazione. Giova evidenziare che detto obiettivo non necessariamente si realizza nel processo esecutivo, atteso che, se la vendita del bene pignorato avviene per un prezzo inferiore al suo valore di mercato a fronte di crediti di importi elevati, la procedura sarà destinata a concludersi con l’incapienza, condizione tale da determinare la possibilità che il patrimonio del debitore sia nuovamente aggredito ai fini del soddisfacimento delle pretese rimaste insolute; esso è, invece, destinato a concretarsi allorché l’esecutato si avvalga di strumenti alternativi previsti dal codice di rito, quali ad es. la conversione del pignoramento (nella quale il G.E. determina la somma da sostituire al pignorato avuto riguardo all’intero importo dei crediti fatti valere nel processo) ovvero la sospensione concordata ex art. 624 bis c.p.c. (a fronte di una transazione raggiunta con il creditore/ ovvero con i creditori, con plausibile riduzione delle pretese fatte valere da parte degli stessi, viene formulata istanza di sospensione per un termine massimo di 24 mesi all’esito del quale la procedura, se non riassunta, verrà estinta), oppure da leggi speciali (si pensi alla disciplina della cd. crisi da sovraindebitamento ex lege 3/2012). Sicché, se all’esito della vendita diretta effettuata su istanza del debitore, non vi sarà l’esdebitazione (ovvero questa sarà solo eventuale, destinata, cioè, a verificarsi in concreto solo allorché la vendita avvenga ad un prezzo coincidente con l’importo dei crediti per cui si procede), giocoforza lo strumento disegnato dal legislatore, non rivelandosi conveniente per l’esecutato, potrebbe essere destinato a restare sulla carta.

Passando ad esaminare in concreto i presupposti e la disciplina dell’istituto si osserva quanto segue.

a) Il debitore, con istanza depositata non oltre dieci giorni prima dell’udienza prevista dall’articolo 569, primo comma, del codice di procedura civile, possa chiedere al giudice dell’esecuzione di essere autorizzato a procedere  direttamente alla vendita dell’immobile pignorato per un prezzo non inferiore al suo valore di mercato.

Nel disegno di legge, correttamente, è previsto un dies ad quem dell’istanza (coincidente con l’udienza ex art. 569 c.p.c.), tuttavia, allo stesso non è espressamente correlata la sanzione della inammissibilità per il caso della presentazione in un momento successivo. In via interpretativa, l’utilizzazione della espressione “non oltre” lascia pensare che il termine sia previsto a pena di preclusione; del resto, analoga disciplina vale per il termine previsto dall’art. 495 c.p.c. ai fini della presentazione della istanza di conversione, così come per quello previsto dall’art. 624 bis c.p.c. ai fini della sospensione concordata (istituti con i quali, è evidente, quello previsto dalla riforma condivide la natura di strumento alternativo alla liquidazione coattiva dei beni staggiti).

Ci si potrebbe porre il problema di stabilire se occorrerà fare riferimento alla data di udienza ex art. 569 c.p.c. formalmente fissata dal G.E. con il decreto (comunicato anche al debitore) ovvero a quella in cui si disponga in concreto la vendita del compendio pignorato; utilizzando la giurisprudenza formatasi in riferimento all’art. 495 c.p.c. e tenuto conto della finalità dell’istituto, appare ragionevole ipotizzare che il momento preclusivo vada individuato avuto riguardo alla seconda opzione (tra le molte, sul punto v. Cass. civ. 27852/2013 dove si fa espresso riferimento alla “pronuncia dell’ordinanza di vendita o di assegnazione” quale momento preclusivo della proposizione della istanza di conversione).

Quanto alla necessità della difesa tecnica ai fini della presentazione della istanza, giova osservare che, nell’ambito del processo esecutivo, le istanze del debitore (non anche le opposizioni esecutive che instaurano incidenti di cognizione) possono essere presentate anche personalmente dallo stesso, senza, cioè, necessità di difesa tecnica. Tuttavia, è agevole supporre che, ai fini della presentazione della istanza in questione, il debitore esecutato debba scegliere di rivolgersi ad un avvocato per assicurarsi il supporto tecnico necessario per la buona riuscita della operazione.

Giova evidenziare che, plausibilmente, al momento della celebrazione della udienza ex art. 569 c.p.c., il debitore sarà a conoscenza: 1) del valore di stima del compendio pignorato come determinato dall’esperto ex art. 568 c.p.c. (il G.E. nomina il perito contestualmente alla fissazione della udienza ex art. 569 c.p.c. e la perizia viene depositata, previa comunicazione alle parti, compreso il debitore, almeno 30 giorni prima della celebrazione della stessa; cfr. art. 173 bis disp. att. c.p.c.); 2) dell’importo dei crediti per cui si procede (ben vero, con la recente riforma dell’art. 569 c.p.c., come introdotta dalla l. 12/19 di conversione del d.l. 135/2018, il legislatore ha previsto che, entro 30 giorni prima dell’udienza, il creditore pignorante ed i creditori già intervenuti devono depositare una nota di precisazione del credito). È lecito ipotizzare, pertanto, che l’istanza per l’autorizzazione alla vendita diretta sia formulata dal debitore con l’indicazione di un prezzo non inferiore a quello determinato dal perito stimatore con i criteri di cui all’art. 568 c.p.c.; invero, per quanto sopra detto in ordine alla assenza di riferimenti alla esdebitazione del debitore quale risultato/conseguenza della vendita diretta, laddove l’importo dei crediti per cui si procede sia superiore al valore come stimato ex art. 568 c.p.c., l’istanza del debitore dovrà essere accompagnata da un’offerta che si avvicini quanto più possibile al primo piuttosto che al secondo.

b) Individuare i criteri per la determinazione del valore di mercato del bene pignorato ai fini dell’istanza di cui alla lettera a), prevedendo che all’istanza del debitore debba essere sempre allegata l’offerta di acquisto e che, a garanzia della serietà dell’offerta, sia prestata cauzione in misura non inferiore al decimo del prezzo proposto.

Il legislatore non ha previsto che l’offerta allegata all’istanza del debitore debba essere formalizzata avuto riguardo al prezzo del compendio pignorato come determinato dall’esperto stimatore, ma ha fatto riferimento al “valore di mercato del bene”.

In realtà, i criteri attraverso i quali si procede alla stima dell’immobile nell’ambito del processo esecutivo (come enucleati dall’art. 568 c.p.c. e dall’art. 173 bis disp. att. c.p.c.) sono volti ad assicurare proprio che il prezzo a base d’asta corrisponda il più possibile al reale valore di mercato del bene (nella vigente formulazione dell’art. 568 c.p.c., come rimodellato dalla l. 132/15, si fa espresso riferimento alle correzioni della stima per assenza della garanzia per vizi, per la presenza di oneri condominiali insoluti, per gli oneri di regolarizzazione urbanistica, per lo stato d’uso e di manutenzione). È, pertanto, auspicabile che, in assenza di un chiaro disposto normativo in tal senso, in via interpretativa si addivenga comunque alla conclusione che l’offerta debba essere effettuata sulla scorta del valore determinato nell’ambito del processo esecutivo dall’ausiliario del G.E. (e non, invece, attraverso una consulenza di parte eventualmente allegata all’istanza). Nondimeno, vi è il rischio che gli esiti della perizia di stima possano essere in qualche modo pilotati dallo stesso debitore esecutato che miri ad ottenere una stima al ribasso per poter consentire ad un familiare o ad altra persona a lui legata di effettuare la proposta da allegare all’istanza di vendita diretta (questa potrebbe essere la ragione per la quale non è prevista l’esdebitazione tout court quale conseguenza della vendita diretta, atteso che, solo in tal modo, è possibile scongiurare il concretarsi del rischio di cui sopra).

c) Prevedere che il giudice dell’esecuzione debba verificare l’ammissibilità dell’istanza ed instaurare sulla stessa il contraddittorio con il debitore, i comproprietari, il creditore procedente, i creditori intervenuti, i creditori iscritti e l’offerente.

Non è previsto un dies a quo della presentazione della istanza. Tuttavia, per quanto sopra detto circa la necessità di ancorare la valutazione dell’ammissibilità della stessa agli elementi ricavabili dalla perizia di stima ex art. 568 c.p.c., appare evidente che, fino a quando la detta perizia non risulti depositata agli atti della procedura, l’istanza, se non inammissibile, sarà comunque non valutabile dal G.E. (che ne potrà legittimamente riservare la valutazione nel contraddittorio delle parti all’udienza ex art. 569 c.p.c.).

Correttamente, il legislatore della riforma ha previsto che l’istanza debba essere valutata all’esito della rituale instaurazione del contraddittorio con la platea dei soggetti interessati: per quanto concerne i creditori iscritti, è importante evidenziare che gli stessi sono destinatari dell’avviso ex art. 498 c.p.c. a cura del creditore procedente (avviso che deve essere effettuato in vista della celebrazione della udienza ex art. 569 c.p.c.). Tuttavia non è detto che, a fronte dell’avviso ritualmente ricevuto, i detti creditori spieghino intervento nella procedura: in tal caso, laddove il debitore presenti l’istanza per l’autorizzazione alla vendita diretta, ad avviso di chi scrive, l’istante dovrà egualmente effettuare una comunicazione/notifica al creditore iscritto (destinato a perdere la garanzia del credito allorché si proceda alla vendita del bene ed alle conseguenziali cancellazioni), al fine di consentirgli di esprimere il proprio parere in ordine alla offerta formalizzata dal terzo ed alla opportunità di procedere alla vendita diretta.

Tra i possibili contraddittori della istanza del debitore vengono menzionati, altresì, i comproprietari: nel caso di pignoramento di bene indiviso, lo si ricorda, i comproprietari, destinatari dell’avviso ex art. 599 c.p.c., sono legittimati a partecipare all’udienza ex art. 569 c.p.c. in seno alla quale potranno formulare istanza di separazione in natura della propria quota/porzione (se possibile) ovvero istanza di assegnazione della quota pignorata (per quanti ritengono che l’istanza ex art. 720 c.c. possa essere formalizzata anche prima dello svolgimento del giudizio di divisione endoesecutiva). Ci si chiede se, previsto lo strumento della vendita diretta, sia consentito al debitore, proprietario di una quota indivisa di un bene sulla quale insiste il pignoramento, chiedere l’autorizzazione alla vendita dell’intero bene (con il consenso dei comproprietari) ovvero della sola quota (in tale ultimo caso, la valutazione del G.E., ad avviso di chi scrive, dovrà riguardare non soltanto i presupposti di ammissibilità della istanza, ma anche la convenienza della vendita della quota indivisa secondo quanto previsto dall’art. 600 2° co. c.p.c.; la detta norma esprime il favor del legislatore del 2005 per lo svolgimento del giudizio di divisione endoesecutiva, piuttosto che per la vendita della quota).

La partecipazione dell’offerente – la serietà (dell’offerta) del quale è, nelle intenzioni del legislatore,  garantita unicamente dal versamento della cauzione (pari al 10% del prezzo offerto) – all’udienza in cui sarà valutata l’istanza del debitore, appare ultronea, a meno che non si voglia ritenere che, a fronte del dissenso manifestato dalla platea dei soggetti interessati (creditori e/o comproprietari), l’offerente possa rilanciare, ovvero rimodulare l’offerta in modo da renderla più appetibile (in tal caso, però, dovrebbe essere prevista la possibilità di integrare la cauzione ai fini della valutazione di ammissibilità della istanza). 

d) Prevedere che il giudice dell’esecuzione, nel contraddittorio tra gli interessati, possa assumere sommarie informazioni, anche sul valore del bene e sulla effettiva capacità di adempimento dell’offerente.

Al fine di evitare che lo strumento in esame sia utilizzato da parte del debitore con finalità dilatorie è previsto, come detto, il versamento di una cauzione pari al 10% del prezzo offerto; tuttavia, il G.E., per poter valutare la convenienza della operazione che il debitore va a proporre, dovrà tener conto anche delle “capacità di adempimento dell’offerente”. Si chiede, cioè, al giudice di compiere una valutazione prognostica circa le possibilità dell’offerente di procedere in concreto al  versamento del prezzo offerto. Ben vero, il debitore potrebbe formulare la detta offerta tramite un familiare o conoscente al solo fine di evitare la delega delle operazioni di vendita all’udienza ex art. 569 c.p.c., sicché, opportunamente, il disegno di legge prevede che il G.E. debba assumere informazioni sulla capacità di adempimento dell’offerente; nondimeno, occorrerà che il legislatore disciplini le modalità con cui dette informazioni devono essere assunte (se tramite un onere di allegazione e produzione gravante direttamente sull’offerente, che dovrà fornire elementi che consentano al G.E. di valutarne la relativa capacità reddituale e patrimoniale, ovvero tramite l’esercizio di poteri istruttori – si pensi alla possibilità di richiedere informazioni alle P.A. ex art. 213 c.p.c. ovvero all’ordine di esibizione e art. 210 c.p.c., strumenti probatori che, tuttavia, non sono propri del processo esecutivo, bensì di quello di cognizione ed ai poteri del G.E. che, nei limitati casi in cui questo avviene, svolge istruttorie del tutto deformalizzate – si pensi al potere di assumere informazioni ai fini dell’adozione del provvedimento ex art. 549 c.p.c. ovvero ai fini della risoluzione di una controversia distributiva ex art. 512 c.p.c.).

e) Prevedere che con il provvedimento con il quale il giudice dell’esecuzione autorizza il debitore a procedere alla vendita debbano essere stabiliti il prezzo, le modalità del pagamento e il termine, non superiore a novanta giorni, entro il quale l’atto di trasferimento deve essere stipulato ed il prezzo deve essere versato.

Il debitore è legittimato a chiedere l’autorizzazione alla vendita diretta: a fronte della detta istanza, il G.E. dovrà adottare un provvedimento, assimilabile – quanto al contenuto – all’ordinanza di vendita ex art. 591 bis c.p.c. nella parte in cui stabilisce il prezzo del bene e le modalità di pagamento, nonché il termine entro il quale dovrà essere versato il saldo.

Per quanto concerne il prezzo del bene, ci si chiede quando questo sarà stabilito dal G.E.: invero, per quanto sopra detto, il prezzo sarà in concreto determinato dall’offerta del terzo che dovrà, preferibilmente, essere commisurata al valore di mercato del bene come indicato dall’esperto stimatore; ma nel d.d.l. si prevede che sia il G.E. a stabilire il prezzo del bene. E allora deve immaginarsi che, all’esito del contraddittorio instaurato con le parti e con l’offerente, vi sia quella possibilità sopra già accennata per quest’ultimo di rivedere al rialzo la proposta di acquisto (perché ad es. il prezzo offerto si discosta dal valore stimato dall’esperto) – in tal caso, ovviamente, dovrà essere integrata la cauzione -.

Il G.E. è chiamato, altresì, a stabilire le modalità di pagamento del prezzo ed il termine entro il quale dovrà essere stipulato l’atto e versato il saldo prezzo. Tanti gli scenari che si aprono a questo punto: 1. l’atto deve essere stipulato dinanzi ad un notaio o è possibile configurare una possibilità alternativa di definizione del sub procedimento instaurato in forza della istanza del debitore? Potrebbe essere emesso dal giudice il decreto di trasferimento? La proposta di legge parla di un “atto di trasferimento” che deve essere “stipulato”, dunque sembrerebbe obbligato il riferimento al notaio chiamato a rogare l’atto di compravendita nella forma pubblica necessaria ai fini della trascrizione (la vendita, sotto tale profilo, è assimilabile ad una vendita volontaria, sebbene tragga la sua occasione da una procedura esecutiva e sia legittima solo per effetto di un provvedimento autorizzatorio del G.E.); in alternativa, dovrebbe configurarsi la possibilità per il G.E. di emettere, all’esito del versamento del saldo prezzo, un decreto di trasferimento (la vendita sarebbe in tutto e per tutto coattiva, sebbene avvenga con modalità non competitive, bensì a trattativa privata, sfociando nell’emissione di un D.T., anch’esso suscettibile di trascrizione); non appare, invece, configurabile la stipula dell’atto davanti a professionista diverso; 2. se entro il termine stabilito non viene rogato l’atto per causa non imputabile all’offerente (ad es. l’istruttoria del mutuo, tramite il quale questi dovrà versare il saldo prezzo, si incaglia per fatti estranei alla sfera di controllo dello stesso), è possibile ottenerne una proroga ovvero la rimessione in termini? L’istanza dovrà essere formulata dall’offerente o dal debitore?; 3. se entro il termine previsto dall’ordinanza del G.E. non sia versato il saldo prezzo, si applicherà l’art. 587 c.p.c.? (non è previsto espressamente, dipenderà dalla natura che si intenda attribuire alla detta vendita; se coattiva, nulla quaestio, se volontaria potrebbe profilarsi l’inadempimento dell’offerente all’obbligo di concludere il contratto assunto in sede di formulazione dell’offerta ed eventualmente la possibilità di agire ex art. 2932 c.c. da parte del debitore ovvero del creditore in surroga?). Ben vero, la lettera h) dell’art. 10 del d.d.l. induce a ritenere che il fallimento del sub procedimento della vendita diretta (per effetto della mancata stipula dell’atto nel termine assegnato ovvero del mancato versamento del saldo prezzo) implicherà la totale riespansione dei poteri del G.E. in ordine alla liquidazione del bene staggito (con immediata adozione del provvedimento di cui all’art. 569 c.p.c., analogamente a quanto avviene in caso di esito negativo del sub procedimento di conversione).

f) Prevedere che il giudice possa autorizzare il debitore a procedere alla vendita anche in caso di opposizione di uno o più creditori, nei casi in cui ritenga probabile che la vendita con modalità competitive non consentirebbe di ricavare un importo maggiore, in tal caso garantendo l’impugnabilità del relativo provvedimento autorizzatorio.

Il G.E., ai fini dell’autorizzazione alla vendita diretta, deve compiere le valutazioni sopra dette, delle quali dovrà dar conto nella ordinanza emessa all’esito dell’udienza svolta nel contraddittorio delle parti (che, tendenzialmente, coinciderà con l’udienza ex art. 569 c.p.c.); il parere dei creditori, nelle intenzioni del legislatore, parrebbe essere vincolante laddove positivo (il G.E. non potrà, in caso di consenso dei creditori, negare l’autorizzazione), non vincolante se negativo (nel senso che il G.E. potrà valutare di autorizzare egualmente la vendita diretta pronosticando la realizzazione, tramite la vendita competitiva, di un importo inferiore rispetto a quello offerto dal terzo; detta valutazione è particolarmente complessa e necessariamente astratta non potendosi conoscere prima di disporre la vendita, se non basandosi su informazioni assunte dal custode giudiziario ovvero sugli elementi ricavabili dalla perizia di stima in ordine alle condizioni giuridiche e materiali del bene pignorato, quale sarà il grado di appetibilità sul mercato dello stesso).

Quantomeno singolare che il legislatore abbia previsto la possibilità di impugnazione del provvedimento solo nel caso in cui il G.E. abbia inteso consentire la vendita diretta in contrasto col parere dei creditori. Ben vero, ad avviso di chi scrive, anche il provvedimento di diniego dell’autorizzazione dovrebbe essere impugnabile quale atto esecutivo ai sensi dell’art. 617 c.p.c..

g) Prevedere che il giudice dell’esecuzione possa delegare uno dei professionisti iscritti nell’elenco di cui all’articolo 179-ter delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile alla riscossione del prezzo nonché alle operazioni di distribuzione del ricavato e che, una volta eseguita la vendita e riscosso interamente il prezzo, ordini la cancellazione delle trascrizioni dei pignoramenti e delle iscrizioni ipotecarie ai sensi dell’articolo 586 del codice di procedura civile, da effettuare a cura delle parti contraenti.

Il G.E. può delegare un avvocato, un commercialista o un notaio per la riscossione del prezzo nonché per lo svolgimento della fase distributiva: nella vendita delegata il professionista viene autorizzato all’apertura di un conto sul quale sarà versata la cauzione nonché il saldo prezzo; in sede di autorizzazione della vendita diretta, il G.E. potrà scegliere di nominare un professionista incaricato di ricevere il saldo prezzo che dovrà previamente aprire un conto/libretto intestato alla procedura, nonché farvi confluire la cauzione versata dall’offerente, nonché di formare il progetto di distribuzione delle somme ricavate dalla vendita (trattasi di incarichi già tipizzati con riferimento all’istituto della delega dalla norma dell’art. 591 bis c.p.c. nn. 6 e 12). Resterà di competenza del G.E. l’adozione di un provvedimento che ordini la cancellazione delle formalità da effettuarsi a cura delle parti contraenti (ciò confermerebbe la natura ibrida della detta vendita nella misura in cui la cancellazione delle formalità che deve essere disposta dal G.E., e non invece con l’atto notarile di compravendita, si spiega solo se si riconduce la vendita diretta al genus delle vendite coattive).

i) Prevedere che l’istanza possa essere formulata per una sola volta a pena di inammissibilità.

Analogamente a quanto avviene per la conversione del pignoramento, l’istanza per la vendita diretta potrà essere formulata una sola volta. La riproposizione (a prescindere dalle ragioni per le quali la precedente non sia andata a buon fine, ovvero sia se il procedimento abbia subito un arresto nel suo incipit per difetto delle condizioni di ammissibilità, sia che il mancato buon esito sia dipeso dal mancato versamento del saldo ovvero dalla mancata stipula dell’atto) è preclusa e ciò con l’evidente intento di evitare un uso distorto dello strumento.

È appena il caso di precisare, in conclusione, che si rivela opportuna una presa di posizione del legislatore quanto alla individuazione della natura giuridica della vendita diretta anche ai fini della delimitazione dei confini della garanzia del compratore; inoltre, la procedimentalizzazione della vendita diretta rischia di interferire con l’efficacia di altri sistemi di chiusura anticipata delle procedure (si pensi alla cd. contestuale, prassi in uso in molti uffici giudiziari e consistente nella rinuncia da parte dei creditori depositata contestualmente alla stipula di un atto di compravendita tra il debitore ed un terzo che si accolli il debito residuo).

Il disegno di legge in esame, accanto ad alcuni princìpi comuni dettati dall’art. 7, dichiaratamente finalizzati al miglioramento dell’efficienza di tutti i procedimenti civili di ogni grado (oltre che di quelli tributari ed amministrativi), reca specifiche previsioni concernenti il giudizio di appello.

Tali previsioni sono contenute nell’art. 6 e consistono nella determinazione, ex art. 76 Cost., dei princìpi e criteri direttivi ai quali il Governo dovrà attenersi nell’esercizio della delega conferitagli ai sensi del precedente art. 1 per la riforma del processo civile, da attuare mediante l’adozione di uno o più decreti legislativi entro il termine di un anno dall’entrata in vigore della legge delega.

I princìpi e criteri direttivi in questione riguardano, in particolare:

1) la forma dell’atto introduttivo;

2) la costituzione in giudizio dell’appellato;

3) la forma del provvedimento dichiarativo dell’improcedibilità dell’appello o dell’estinzione del processo;

4) l’eliminazione del c.d. filtro di ammissibilità di cui agli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c.;

5) la fase decisoria.

In ordine al punto sub 1), in linea con le modifiche riguardanti il processo di cognizione di primo grado, si prevede che il giudizio sia introdotto con ricorso, e non più con citazione, come attualmente stabilito dall’art. 342, comma 1, c.p.c..

L’intento del legislatore è quello di semplificare la fase introduttiva del giudizio, considerato che, all’infuori dei casi in cui per singoli atti siano dettate più specifiche disposizioni (si pensi, ad es., all’art. 366 c.p.c., relativo al giudizio di cassazione, o all’art. 414 c.p.c. in tema di controversie di lavoro), il ricorso deve necessariamente contenere i soli elementi richiesti dall’art. 125, comma 1, c.p.c. (ufficio giudiziario adìto, parti, oggetto, ragioni della domanda, conclusioni o istanza, codice fiscale e numero di fax del difensore), e non anche le ulteriori indicazioni prescritte dall’art. 163 c.p.c., richiamato dall’art. 342, comma 1, dello stesso codice.

Ovviamente, trattandosi di ricorso in appello, dovranno essere indicati anche i motivi specifici addotti a fondamento dell’impugnazione, come imposto a pena di inammissibilità dall’art. 342, comma 1, c.p.c. testè citato, il quale, nell’ultima versione risultante dalle modifiche apportate dall’art. 54, comma 1, lettera a), D.L. n. 83/2012, convertito in L. n. 134/2012, ha accentuato sotto questo aspetto gli oneri gravanti sulla parte appellante.

Si prevede, inoltre, che la prima udienza di trattazione debba essere fissata in un termine «congruo», ma «comunque non superiore a novanta giorni» dal deposito del ricorso.

Al di là della natura meramente acceleratoria del suddetto termine, tale previsione comporta di fatto l’eliminazione dei termini di comparizione attualmente operanti nel giudizio di appello ex artt. 163-bis, comma 1, e 342, ultimo comma, c.p.c., risultando praticamente impossibile assicurare che tra il giorno della notificazione dell’atto introduttivo e quello dell’udienza di comparizione intercorrano termini liberi non minori di novanta o centocinquanta giorni, a seconda che il luogo di notificazione si trovi in Italia o all’estero. 

Riguardo al punto sub 2), si prevede che per la costituzione in giudizio dell’appellato debba essere fissato un termine perentorio fino a venti giorni prima della data dell’udienza, «a pena di decadenza per l’esercizio dei suoi poteri processuali, compresa la riproposizione delle domande ed eccezioni non accolte».

Nella prima parte, la previsione non apporta elementi di novità rispetto all’attuale regime processuale, atteso che, a norma dell’art. 347, comma 1, c.p.c., la costituzione in appello avviene secondo le forme e i termini per i procedimenti davanti al tribunale -e quindi, per quanto concerne l’appellato, nel termine di «almeno venti giorni prima dell’udienza di comparizione fissata nell’atto di citazione» (ex art. 166 c.p.c.)- e che, inoltre, in base all’art. 343, comma 1, dello stesso codice, «l’appello incidentale si propone, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta, all’atto della costituzione in cancelleria ai sensi dell’art. 166».

Sicuramente di maggiore rilievo è la seconda parte, nella quale viene stabilito che le domande ed eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado -da intendersi come quelle che risultino superate o non esaminate perché assorbite (cfr., sull’argomento, Cass. Sez. Un. n. 13195/18)- debbano essere riproposte, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata dall’appellato. 

In tal modo, si mira a superare a livello legislativo i contrasti interpretativi manifestatisi in passato, sia in dottrina che in giurisprudenza, circa l’individuazione del limite temporale per la riproposizione in appello delle domande ed eccezioni rimaste assorbite dalla decisione impugnata; contrasti che recentemente erano stati risolti dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 7940/19, nel senso che, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia posta dall’art. 346 c.p.c., le parti sono tenute a riproporre le domande ed eccezioni in discorso con il primo atto difensivo e comunque non oltre la prima udienza.

Per quanto attiene al punto sub 3), si prevede che l’improcedibilità dell’appello e l’estinzione del  processo debbano essere dichiarate con ordinanza.

Attualmente tali provvedimenti devono essere pronunciati con sentenza, come è reso palese dall’incipit dell’art. 348-bis («Fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’appello…») e dalla parte finale dell’art. 307 c.p.c., applicabile anche nel giudizio d’appello in virtù del rinvio operato dall’art. 359 dello stesso codice alle disposizioni relative al procedimento di primo grado davanti al tribunale («L’estinzione… è dichiarata… con ordinanza del giudice istruttore ovvero con sentenza del collegio»: sulla base di un’interpretazione evolutiva della norma, il riferimento alla sentenza va esteso al tribunale in composizione monocratica, il quale, ai sensi dell’art. 281-quater c.p.c., decide le cause devolute alla sua cognizione con tutti i poteri del collegio).

La previsione innovativa è giustificata dal rilievo che la declaratoria di improcedibilità o di estinzione del processo si risolve in una pronuncia in rito limitata alla verifica dei presupposti all’uopo fissati dalla legge, di regola non richiedente un ampio apparato motivazionale, sì da poter essere adottata con un provvedimento avente forma di ordinanza, per il quale l’art. 134, comma 1, c.p.c. richiede una motivazione succinta.

In relazione al punto sub 4), si prevede l’abrogazione degli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c., disciplinanti la c.d. ordinanza-filtro, ovvero il provvedimento con il quale il giudice dell’appello, prima di procedere alla trattazione della causa e previa instaurazione del contraddittorio tra le parti, dichiara inammissibile l’impugnazione manifestamente infondata (ovvero quella che, ripetendo le parole usate dal legislatore, «non ha una ragionevole probabilità di essere accolta»).

La programmata soppressione dell’istituto, introdotto dall’art. 54,  comma  1,  lettera  a),  D.L.  n.  83/2012, convertito in L. n. 134/2012, e non accolto con particolare favore dagli operatori del diritto, scaturisce dalla constatazione del suo scarso utilizzo e dei modesti risultati in termini di definizione dei giudizi di appello che esso è stato in grado di assicurare in questi anni, durante i quali, oltretutto, si è anche registrato un cospicuo aumento del carico di lavoro gravante sulla Suprema Corte, determinato dalla riconosciuta possibilità, ex art. 348-ter, comma 3, c.p.c., di proporre ricorso per cassazione contro il provvedimento di primo grado, in caso di pronuncia di inammissibilità dell’impugnazione ritenuta prima facie infondata.

Sulla scelta ha influito pure la prevista modifica delle disposizioni inerenti alla fase decisoria, sulla quale ci si soffermerà di qui a poco, ben potendo il giudizio d’appello, nella prospettiva del legislatore delegante, essere immediatamente definito già all’esito della prima udienza con sentenza pronunciata a sèguito di discussione orale, in presenza delle condizioni che oggi giustificherebbero l’emissione dell’ordinanza-filtro.

In merito al punto sub 5), si prevede che il collegio, esaurita la trattazione e l’eventuale attività istruttoria, possa, nella medesima udienza, far precisare le conclusioni e ordinare alle parti di procedere alla discussione orale, pronunciando sùbito dopo la sentenza mediante lettura del dispositivo e delle ragioni della decisione;in alternativa, si attribuisce al collegio, una volta precisate le conclusioni, la facoltà di fissare altra udienza per la discussione orale, nel qual caso, ove le parti ne facciano richiesta, andrà concesso un termine perentorio non superiore a trenta giorni prima di tale udienza per il deposito di «sintetiche note difensive contenenti anche le conclusioni finali»: soltanto in questa eventualità viene, inoltre, espressamente stabilito che il collegio, al termine della discussione, anziché pronunciare immediatamente la sentenza, possa riservarne il deposito nei sessanta giorni successivi.

Si prevede, altresì, che, qualora sia stato tempestivamente proposto un appello incidentale, il collegio possa far precisare le conclusioni e ordinare, nel corso della medesima udienza, la discussione della causa, soltanto se la parte nei cui confronti l’impugnazione è diretta vi consenta con apposito atto depositato almeno cinque giorni prima di tale udienza.

Come si evince dall’esplicito riferimento al collegio, le disposizioni in commento sono destinate a trovare applicazione nei soli giudizi di secondo grado dinanzi alla corte di appello, laddove gli appelli proposti davanti al tribunale, trattati e decisi dal giudice monocratico (ex art. 350, comma 1, c.p.c.), dovranno essere in futuro assoggettati al «rito semplificato» di cui all’art. 3, comma 1, lettera b), del disegno di legge (alla cui analisi si rinvia), previsto come esclusivo e obbligatorio per tutte le cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica (tranne che per i procedimenti attualmente soggetti al rito del lavoro).

L’uso del verbo «potere» lascia, poi, intendere che la scelta del modello decisorio a sèguito di discussione orale è rimessa ad una discrezionale valutazione di opportunità riservata al collegio, il quale -non risultando espressamente prevista dal legislatore delegante l’abrogazione dei primi quattro commi dell’art. 352 c.p.c.- rimane, quindi, libero di orientarsi in modo diverso, optando per la decisione a sèguito di trattazione scritta (con l’assegnazione dei termini per lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, eventualmente seguìta dalla fissazione dell’udienza di discussione orale dinanzi al collegio, se richiesta da una delle parti).

D’altronde, anche per il processo di  cognizione di primo grado davanti al tribunale in composizione collegiale l’art. 4, comma 1, lettera d), del disegno di legge contempla la decisione a sèguito di discussione orale come soluzione praticabile in alternativa alle modalità previste dagli artt. 187-190 c.p.c.

A ben vedere, la possibilità di decidere l’appello a sèguito di trattazione orale non rappresenta una novità.

Invero, l’ultimo comma del citato art. 352 c.p.c., attraverso il rinvio all’art. 281-sexies dello stesso codice, già riconosce al giudice dell’appello il potere di ordinare la discussione orale nella stessa udienza in cui le parti precisano le rispettive conclusioni.

Per di più, in base al combinato disposto del primo e dell’ultimo comma dell’art. 351 c.p.c., il giudice può provvedere in questo modo persino nella prima udienza, se ritiene la causa matura per la decisione.

Fermo quanto precede, le vere e proprie innovazioni rispetto alla vigente disciplina normativa sono costituite dall’espressa previsione: a) della facoltà del collegio di fissare altra udienza per la discussione orale, anche in mancanza di un’istanza di parte in tal senso (richiesta, invece, dall’art. 281-sexies, comma 1, c.p.c.); b) del diritto delle parti, in caso di differimento della discussione orale ad altra udienza, alla concessione di un termine perentorio per il deposito di sintetiche note difensive prima della detta udienza (facoltà non contemplata dall’art. 281-sexies c.p.c.); c) della possibilità per il giudice, sempre nell’ipotesi in cui sia stato disposto l’anzidetto differimento, di riservare il deposito della sentenza entro i sessanta giorni successivi alla conclusione della discussione, sulla scorta di una valutazione che, in linea di principio, dovrebbe tener conto del grado di complessità della controversia (per contro, l’art. 281-sexies, comma 1, c.p.c. non ammette alternativa all’immediata pronuncia della sentenza, imponendo al giudice, al termine della discussione, di dare lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione); d) della necessità del preventivo consenso scritto della parte contro la quale sia stato proposto tempestivo appello incidentale, affinchè il giudice possa far precisare le conclusioni e ordinare la discussione orale della causa nel corso della medesima udienza; consenso da intendersi come un’implicita rinuncia della parte interessata ad avvalersi della possibilità di una replica scritta all’impugnazione spiegata nei suoi confronti.

La disposizione si presta a diversi rilievi critici, sia di ordine generale che di carattere prettamente operativo.

Sotto il primo profilo, giova premettere che l’espressa individuazione dei principi di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo civile (v. lettera a) del comma 1) quali criteri direttivi della riforma del processo di cognizione di primo grado davanti al tribunale in composizione monocratica denota chiaramente che alla base della riforma vi è la consapevolezza che la riduzione dei tempi di definizione delle cause civili costituisce una priorità assoluta.

Ora, se è indubbio che si debba dare una svolta al processo civile, non si può tuttavia fare a meno di rilevare che l’idea di fondo del disegno di legge delega va conciliata con la considerazione che il problema principale della giustizia civile è costituito dall’arretrato che, sebbene sia in corso di riduzione negli ultimi anni presso i vari uffici giudiziari, costituisce tuttavia una zavorra da cui non è possibile prescindere.

In particolare, se è in sé condivisibile l’obiettivo di “assicurare la semplicità, la concentrazione e l’effettività della tutela e la ragionevole durata del processo”, non ci si può esimere dall’osservare che tale obiettivo non può essere realizzato con una riforma a “costo zero”, mediante operazioni dichiaratamente salvifiche sul rito e sulle regole processuali, senza affrontare i nodi “critici” che stanno “a monte”.

Qualsiasi intervento riformatore è difatti destinato al fallimento, se non si accompagna ad interventi di più ampio respiro sul piano dell’organizzazione degli uffici giudiziari e del lavoro dei magistrati, interventi in assenza dei quali ogni progetto volto a novellare le norme sul rito è chiamato alla missione impossibile di far quadrare il cerchio tra indilazionabili esigenze di riduzione dei tempi di definizione dei giudizi e problemi atavici di carenza di risorse e di personale (evidenti soprattutto nei tribunali cd. di frontiera in cui vi è un continuo avvicendarsi nel tempo di magistrati che non assicura quella continuità necessaria per un compiuto esercizio dell’attività giurisdizionale nei vari settori).

E’ cioè utopistico attendersi un’accelerazione sensibile dei tempi processuali solo sulla scorta di una riforma sul rito, dimenticando che vi sono uffici oberati da procedimenti di non recente iscrizione a ruolo e connotati da un consistente carico dei ruoli istruttori, in cui i “carichi esigibili” rappresentano un miraggio di cui si sente soltanto parlare…

Ciò posto, sul piano squisitamente operativo, in relazione all’art. 3 va sottolineato che:

– la previsione di termini brevi per la fissazione dell’udienza di prima comparizione delle parti, unitamente ad un’istruzione (in prospettiva) rapida del procedimento, rischia di allungare i tempi di trattazione dei giudizi di più antica iscrizione a ruolo che spesso sono i più complessi e che comunque vanno tendenzialmente trattati con priorità rispetto ai “nuovi” procedimenti, così cristallizzando l’idea di un sistema – giustizia a due velocità;

– in ogni caso, sarebbe opportuno introdurre termini più lunghi in ipotesi di convenuto residente all’estero, ipotesi nella quale può essere concretamente difficile per il ricorrente procedere alla notifica del ricorso e del decreto rispettando il termine di comparizione delle parti (che va fissato dal giudice in misura non superiore a ottanta giorni);

– inoltre, l’introduzione di un sistema di preclusioni tale da definire all’udienza di prima comparizione il thema decidendum, se ha il pregio di assicurare una puntuale e tempestiva discovery, appare tuttavia eccessivamente oneroso per le parti nelle cause più complesse (in rapporto all’oggetto ed alla natura dei diritti coinvolti); proprio per tener conto (anche) di tale controversie si può prospettare un ampliamento del termine sia per la costituzione del convenuto sia per il ricorrente per gli adempimenti di cui al punto 4);

– ancora, va osservato che l’art. 3 non fa menzione dell’indicazione da parte del giudice di eventuali questioni rilevabili d’ufficio di cui ritiene necessaria la trattazione (anche ai sensi dell’art. 101 c.p.c.), così ingiustificatamente attenuando il potere di dirigere il dialogo processuale, di indicare alle parti i punti nodali della controversia e di prospettare soluzioni conciliative, senza considerare l’incidenza di tali aspetti sulla definizione anticipata delle controversie, non con sentenza, ma in altro modo, con un’effettiva riduzione dei tempi e dei costi processuali (il punto n. 7 prevede, difatti, soltanto che il giudice indichi alle parti -nell’ordinanza in cui provvede sulle istanze istruttorie- i chiarimenti che reputa indispensabile acquisire nel corso dell’udienza fissata per dare inizio all’assunzione delle prove);

– problemi pone altresì il meccanismo prefigurato per la decisione sulle richieste istruttorie articolate dalle parti nei termini (30+20) di cui al punto 6) (sostanzialmente corrispondenti agli attuali termini n. 2 e n. 3 del comma 6 dell’art. 183 c.p.c.); invero, se va vista con favore l’eliminazione dell’udienza attuale in cui (alla scadenza dei termini ex art. 183 comma 6 c.p.c.) si provvede sulle istanze istruttorie (o ci si riserva di provvedere), che è una udienza sostanzialmente inutile, invece la prevista fissazione (all’udienza di prima comparizione, dopo la concessione dei termini, se richiesti) dell’udienza di prosieguo (ossia dell’udienza in cui si dovrà eventualmente dare inizio all’assunzione delle prove) non oltre sessanta giorni dalla scadenza dell’ultimo termine non tiene evidentemente conto di quelle realtà connotate da ruoli civili di consistenza elevata; a ciò deve aggiungersi che nella prospettiva della riforma andrebbe fissato un numero limitato di cause per ciascuna udienza (essendo ciascuna fase particolarmente impegnativa sia per il giudice che per gli avvocati), il che potrebbe allungare ulteriormente i tempi di definizione dei fascicoli di meno recente iscrizione.

Appare per contro condivisibile, unitamente all’eliminazione dell’udienza per la decisione sui mezzi istruttori di cui si è già detto:

– l’indicazione del ricorso quale atto introduttivo in luogo della citazione, in quanto consente al giudice sin dall’inizio di “dettare” i tempi del processo e può contribuire ad evitare cause strumentali (si pensi, ad esempio, alle opposizioni a decreto ingiuntivo dilatorie introdotte con citazione a data fissa lontana nel tempo);

– la disciplina prefigurata per i rapporti tra collegio e giudice monocratico, essendo in specie superfluo fissare, in caso di passaggio di una controversia dal collegio al giudice monocratico, o viceversa, una nuova udienza per la precisazione delle conclusioni.

Processo di cognizione di primo grado davanti al tribunale in composizione collegiale – fase introduttiva e di trattazione (art. 4).

I profili critici (che si aggiungono a quelli di ordine generale già enucleati in relazione all’art. 3) sono i seguenti:

– il disegno di legge delega è generico in ordine alla individuazione dei casi in cui il tribunale potrà continuare a giudicare in composizione collegiale (casi che sono già limitati), limitandosi a fare riferimento alla “oggettiva complessità giuridica” ed alla “rilevanza economico-sociale delle controversie”;

– peraltro, la prospettata ulteriore riduzione delle già limitate tipologie di controversie a decisione collegiale sulla base dei criteri suindicati mal si concilia con un’operazione di restyling che dovrebbe assoggettare anche la trattazione di tali controversie ad un rito semplificato analogo a quello disegnato per i procedimenti del giudice monocratico; sarebbe infatti del tutto opportuno mantenere fermo il rito ordinario per le cause con riserva di collegialità, essendo il relativo “costo” compensato dalla semplificazione del rito per i procedimenti monocratici e comunque giustificato dalla “oggettiva complessità giuridica” e dalla “rilevanza economico-sociale delle controversie”.

Modifica dei moduli decisori per il processo di cognizione di primo grado.

Al riguardo, si osserva quanto segue:

– il modello delineato per il processo dinanzi al giudice monocratico dall’art. 3 lett. c) n. 1) prima parte, imperniato sulla discussione orale pura nella stessa udienza in cui si esaurisce la trattazione e/o l’istruzione della causa, appare praticabile solo nelle cause di estrema semplicità (di carattere documentale o con un’istruzione limitata o su cui si è formato un orientamento consolidato nell’ambito della Sezione);

– di conseguenza, va vista con favore la previsione della possibilità di fissare, su richiesta anche di una sola parte, altra udienza per la discussione orale, con la concessione di termini anteriori all’udienza per il deposito di sintetiche note difensive e di note di replica;

– tali termini, peraltro, non appaiono congrui per le parti per le cause più complesse;

– a ciò deve aggiungersi che, nel momento in cui la concessione dei termini alle parti per il deposito di scritti difensivi finali precede e non segue l’udienza di precisazione delle conclusioni, udienza in esito alla quale il giudice si trova dinanzi all’alternativa tra pronunziare la sentenza dando lettura del dispositivo e delle ragioni della decisione ovvero riservare il deposito entro i trenta giorni successivi, è verosimile che ne consegua un allungamento dei tempi per la fissazione dell’udienza per la precisazione delle conclusioni (e la discussione orale), allo scopo di tenere conto delle “ragioni” di agenda degli avvocati e dei giudici; del resto, a procrastinare la definizione del processo civile non sono i termini ordinari attuali (60+20), peraltro già di fatto (quando possibile) ridotti dai giudici d’intesa con i procuratori (sempre che non si proceda con il modulo decisorio di cui all’art. 281 sexies c.p.c.), ma semmai il peso dell’arretrato e la consistenza dei ruoli, che si riflette inevitabilmente sui tempi della fase decisoria; 

– infine, la previsione per i procedimenti con riserva di collegialità (in alternativa rispetto alle modalità previste dagli articoli da 187 a 190 del codice di procedura civile) di una udienza di precisazione delle conclusioni e di discussione orale davanti al Collegio (previa assegnazione alle parti, su richiesta, di termini anteriori all’udienza per gli scritti difensivi finali) rischia di dilatare i tempi, anziché ridurli, e di non semplificare alcunché (essendo più agevole precisare le conclusioni davanti all’Istruttore, che di seguito riserva la causa al collegio in camera di consiglio per la decisione, assegnando magari termini ridotti alle parti, anziché fissare apposita udienza collegiale) ed è verosimilmente destinata a rimanere sulla “carta”.

Tavole sinottiche commentate sul giudizio di primo grado civile nel ddl Bonafede di Silvia Vitrò

In conclusione, questa riforma della procedura civile non appare condivisibile.

I riti attuali sono sufficienti per assicurare una gestione dei processi efficiente.

Ciò che manca sono i mezzi (umani e materiali).

E poi sparisce il vero e proprio rito sommario, semplice e informale, utile per molte cause di minore importanza.

L’art. 11 lett. A del ddl prevede di rafforzare i doveri di collaborazione delle parti, riconoscendo l’amministrazione della Giustizia quale soggetto danneggiato nei casi di responsabilità aggravata e, conseguentemente, stabilendo specifiche sanzioni a favore della Cassa delle ammende.

Tale proposta di modifica tuttavia non avrebbe una portata limitata all’art. 96 c.p.c., ma avrebbe una portata espansiva sulla complessiva configurazione del processo civile.

L’attuale formulazione dell’art. 96 c. 3 c.p.c., pur se di non agevole collocazione sistematica, è coerente con l’impianto complessivo del processo civile, il quale è generalmente un processo di parti, a impulso di parte, e posto a tutela degli interessi delle parti, per cui è evidente che gli abusi processuali ledono in primis l’interesse della controparte. In tale assetto, anche la Corte Costituzionale, nella nota pronuncia n. 152 del 2016, ha affermato la non irragionevolezza della scelta del legislatore nel punto in cui è previsto che benefici della condanna ex art. 96 c. 3 c.p.c. la controparte danneggiata dal comportamento abusivo e non già lo Stato; il Giudice delle leggi ha anche puntualizzato che tale scelta del legislatore si giustifica anche con l’obiettivo di assicurare allo strumento deflattivo apprestato da quella condanna una maggiore effettività ed una più incisiva efficacia deterrente, sul presupposto che la parte vittoriosa possa, verosimilmente, provvedere alla riscossione della somma, che ne forma oggetto, in tempi e con oneri inferiori rispetto a quelli che graverebbero su di un soggetto pubblico. Con la pronuncia n. 152 del 2016, e poi anche nella n. 139 del 2019, la Consulta ha quindi avallato la ricostruzione secondo cui la funzione della norma non è solo sanzionatoria, ma anche indennitaria e riparatoria dei pregiudizi subiti dalla parte a causa dell’abuso processuale della controparte, concludendo quindi per la non irragionevolezza della individuazione del beneficiario della condanna nella parte e non nello Stato.

Alla luce del descritto assetto complessivo del processo civile, con il quale l’art. 96 c. 3 c.p.c. non è incoerente, sono eccezionali le previsioni che stabiliscono una sanzione pecuniaria in favore dello Stato e a carico della parte che abbia commesso un abuso del processo, tra cui le disposizioni funzionali a deflazionare le impugnazioni pretestuose, che intralciano il funzionamento dell’amministrazione della giustizia (artt. 283 c. 2, 408, 431 c. 5 c.p.c.; art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1 c. 17 L. n. 228 del 2012), o la sanzione in caso di ricusazione infondata (art. 54 c.p.c.); per analoghe ragioni il legislatore, anche quando ha voluto stabilire misure di coercizione indiretta a carico dell’esecutato, con l’introduzione dell’art. 614 bis c.p.c. ha previsto quale rimedio generale a favore del creditore (analogamente a quanto previsto per il processo amministrativo dall’art. 114 c. 4 lett. E D.Lgs. 104/2010), e non già dello Stato (come invece previsto nel codice di rito tedesco: cfr. § 888 Z.P.O.), il pagamento di una somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento (mentre sono eccezionali le ipotesi in cui la coercizione indiretta è integrata dal pagamento della somma a favore dello Stato: si tratta di fattispecie che si giustificano per la particolare rilevanza e coloritura dell’interesse tutelato, come per l’ipotesi dell’inosservanza dell’ordine giudiziale di reintegrazione del dirigente sindacale illegittimamente licenziato, ai sensi dell’art. 18 ultimo comma dello Statuto del Lavoratore).

Quindi la previsione di una condanna al pagamento di una somma per responsabilità aggravata in favore dello Stato e non della controparte mal si concilierebbe con l’esigenza di coerenza interna del sistema del processo civile.

Tale proposta di modifica dell’art. 96 c.p.c. inoltre non rispetterebbe neppure la coerenza esterna con l’impianto del processo di altre giurisdizioni. Con la pronuncia n. 139 del 2019 la Consulta ha infatti richiamato l’attenzione sulla circostanza che, con l’introduzione della translatio iudicii ampia ai sensi dell’art. 59 L. 69/2009, i sistemi processuali sono tra loro comunicanti; la Corte ha quindi evidenziato che le disposizioni che integrano la disciplina delle spese di lite in sistemi processuali distinti (civile, amministrativo, contabile, tributario), seppur declinate con alcune varianti, hanno una matrice comune: il contrasto dell’abuso del processo, sanzionato, in particolare, con la condanna della parte soccombente a favore della parte vittoriosa (e non dello Stato) di una somma equitativamente determinata dal giudice (cfr. art. 26 c. 2 D.Lgs. 104/2010 per il processo amministrativo;  l’art. 31 D.Lgs. 174/2016 per il processo contabile; l’art. 15 c. 2 bis D.Lgs. 546/1992 per il processo tributario).

Piuttosto, sarebbe auspicabile che il legislatore modifichi l’art. 96 c. 3 c.p.c. sotto altri profili, ad esempio indicando un criterio per la quantificazione della somma oggetto della condanna, viste le difformità interpretative sorte in giurisprudenza e dottrina.

L’art. 11 lett. B del DDL prevede di introdurre conseguenze processuali e sanzioni pecuniarie nei casi di rifiuto non giustificato di consentire l’ispezione prevista dall’articolo 118 del codice di procedura civile e nei casi di rifiuto o inadempimento non giustificati dell’ordine di esibizione previsto dall’articolo 210 del medesimo codice.

Va tuttavia evidenziato che l’art. 118 c.p.c. già prevede, per il caso di inosservanza da parte del terzo, una pena pecuniaria non irrisoria, e, per l’ipotesi di inosservanza della parte, la possibilità che il giudice tragga argomenti di prova dal comportamento inadempiente. Secondo un orientamento interpretativo, l’apparato sanzionatorio per l’ipotesi di rifiuto ingiustificato è integrato anche dalla regolazione delle spese di lite, in quanto il rifiuto ingiustificato di consentire l’ispezione integra violazione del dovere di lealtà e probità contemplato nell’art. 88, con conseguente applicabilità dell’art. 92 in ordine al rimborso delle spese, anche non ripetibili.

La dottrina ha evidenziato che il vero punctum dolens dell’art. 118 c.p.c. è costituito dalla controversa coercibilità dell’obbligo: la dottrina è concorde nell’escludere la coercibilità nelle ipotesi di ispezione corporale, mentre si presenta divisa per quanto concerne l’ispezione di cose o luoghi. E’ stata anche sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 118 nella parte in cui non prevede che il giudice possa disporre l’esecuzione coattiva dell’ordine in caso di rifiuto del terzo a consentire l’ispezione di cose in suo possesso (Trib. Spoleto 13.10.1999), ma la questione è stata dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale per carenza di motivazione in ordine alla sua rilevanza (C. Cost. 6.11.2000, n. 471). Nella prospettiva di riforma potrebbe quindi introdursi uno strumento di coercizione indiretta sul modello dell’art. 614 bis c.p.c. per l’ipotesi in cui la parte opponga un rifiuto non giustificato di consentire l’ispezione.

Con riferimento invece all’art. 210 c.p.c., la norma attuale non prevede espressamente sanzioni per l’ipotesi di inosservanza dell’ordine. In via interpretativa, è stato tuttavia sostenuto che per l’ipotesi di inosservanza dell’ordine rivolto alla parte il giudice possa trarre argomenti di prova ai sensi dell’art. 116 c.p.c. Per quanto riguarda le conseguenze dell’inottemperanza del terzo, la prevalente opinione esclude la possibilità di estendere al terzo la pena pecuniaria prevista a suo carico dall’art. 118 c.p.c. per il caso di mancata esecuzione dell’ordine di ispezione. Inoltre la dottrina e la giurisprudenza pressoché unanimi ritengono che l’ordine di esibizione, in quanto avente la forma di ordinanza istruttoria, non sia suscettibile di esecuzione forzata nelle forme previste dagli artt. 605 ss. ovvero dagli artt. 612 ss., mancando una norma che gli attribuisca qualità di titolo esecutivo ai sensi del tassativo disposto dell’art. 474 c.p.c.

Fermo che è ormai acquisito il dato interpretativo secondo cui l’inosservanza dell’ordine rivolto alla parte è comportamento suscettibile di essere valutato quale argomento di prova, nella prospettiva di riforma sarebbe quindi opportuno colmare le descritte lacune di tutela, prevedendo che, per l’ipotesi di mancata esecuzione del terzo, a questo possa essere applicata la stessa pena pecuniaria prevista dall’art. 118 c.p.c. Inoltre è opportuno prevedere espressamente che l’ordine di esibizione valga quale titolo esecutivo al fine di azionare l’esecuzione forzata nelle forme previste dagli artt. 605 ss. ovvero dagli artt. 612 ss., o comunque stabilire mezzi coercitivi indiretti sul modello dell’art. 614 bis c.p.c.

L’art. 11 lett. C del DDL prevede di introdurre un termine non superiore a sessanta giorni entro il quale la pubblica amministrazione, cui sono state richieste informazioni ai sensi dell’articolo 213 del codice di procedura civile, deve trasmetterle o deve comunicare le ragioni del diniego. Premesso che le recenti riforme che hanno previsto l’accesso civico generalizzato (in termini ben più ampi rispetto al diritto di accesso di cui alla L. 241/90) di fatto possono portare a un restringimento dei casi in cui occorre fare ricorso allo strumento dell’art. 213 c.p.c., l’introduzione di tale termine può essere opportuna; è auspicabile prevedere anche modalità di segnalazione del ritardo o dell’omissione, al fine di far valere la responsabilità del funzionario o del dirigente.

Fabio Di Lorenzo

L’art. 12 lett. A del DDL prevede che i decreti legislativi attuativi dovranno curare il coordinamento con le disposizioni vigenti, anche modificando la formulazione e la collocazione delle norme del codice di procedura civile, del codice civile e delle norme contenute in leggi speciali non direttamente investite dai princìpi e criteri direttivi di delega, in modo da renderle ad essi conformi, operando le necessarie abrogazioni e adottando le opportune disposizioni transitorie. Sul punto non vi è nulla da rilevare.

L’art. 12 lett. B del DDL prevede di apportare le necessarie modifiche alla legge 24 marzo 2001, n. 89, sostituendo all’introduzione del giudizio nelle forme del procedimento sommario di cognizione di cui agli articoli 702-bis e seguenti del codice di procedura civile quali rimedi preventivi, la stipulazione, anche fuori dei casi in cui l’accesso preventivo a strumenti alternativi per la risoluzione della controversia costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale, di una convenzione di negoziazione assistita ovvero la partecipazione personale al procedimento di mediazione anche successivamente al primo incontro ovvero la partecipazione attiva ad altri procedimenti di conciliazione e mediazione previsti da disposizioni speciali e, per i giudizi dinanzi alla corte di appello, alla proposizione di istanza di decisione in udienza, all’esito di discussione orale, preceduta dalla sola precisazione delle conclusioni nel corso della medesima udienza.

Il tema è quello delicato dei cd. rimedi preventivi, intesi come attività processuali che costituiscono per la parte condizione per potere chiedere l’indennizzo per irragionevole durata del processo. In base l’attuale legge Pinto, uno dei rimedi preventivi, che legittima alla successiva domanda di indennizzo per eccessiva durata del processo, è l’introduzione del giudizio con il rito sommario, in quanto strumento teso ad accelerare il processo, e che dimostra la volontà della parte di addivenire alla decisione in tempi rapidi. Il DDL propone di sostituire al ricorso con rito sommario, quale rimedio preventivo, la stipulazione di una convenzione di negoziazione assistita ovvero la partecipazione personale al procedimento di mediazione. Tuttavia la modifica è criticabile: l’introduzione del processo con rito sommario è sicuramente una scelta idonea ad accelerare il processo, e quindi ciò merita di essere elevato a rango di rimedio preventivo, mentre l’accesso alla mediazione e alle procedure negoziate, anche fuori dai casi in cui vi è l’obbligo, da un lato rischia di ampliare a dismisura uno strumento che non ha dato prova di deflazionare il contenzioso in modo significativo, e dall’altro rischia al contrario di ritardare l’introduzione del giudizio dinanzi al giudice, e quindi paradossalmente di allungare i tempi complessivi della giustizia.

Analoghe perplessità desta la proposta di prevedere quale rimedio preventivo, per i giudizi dinanzi alla corte di appello, la proposizione di istanza di decisione in udienza, all’esito di discussione orale, preceduta dalla sola precisazione delle conclusioni nel corso della medesima udienza. La proposta trascura che il vero “collo di bottiglia” del giudizio dinanzi al corte di Appello è costituito non tanto dal rito, ma, a causa dell’elevato carico di ruolo di ciascuna Corte, proprio dal momento della precisazione delle conclusioni, cioè il momento in cui la causa passa in decisione. E’ la decisione della causa quindi il vero momento critico, che determina il rallentamento della definizione dei processi, dato il carico di ruolo e la necessità fisiologica di non trattenere in decisione troppe causa nello stesso momento. La previsione della istanza di discussione orale con decisione contestuale non risolve il problema del “collo di bottiglia”, ma, a parità di risorse materiali e di personale da destinare al settore Giustizia, costituisce un ulteriore aggravio per le Corti di Appello, senza la prospettiva di un accelerazione dello smaltimento dell’arretrato.

1. Quando vennero introdotti gli strumenti alternativi di definizione delle lite, di matrice anglosassone, si disse che la magistratura era stata dotata finalmente degli strumenti per assicurare una risposta tempestiva alla domanda di giustizia.

Analogo approccio propagandistico venne adottato all’indomani della introduzione del processo civile telematico, senza chiarire all’opinione pubblica e, ancor prima, ai magistrati, che l’operazione determinava altresì il passaggio a carico di questi ultimi di compiti che, anche sulla base dell’attuale codice di rito civile (art. 130 c.p.c.), sarebbero riservati ai cancellieri.

Con la recente proposta di riforma del processo civile, del processo penale e dell’ordinamento giudiziario elaborata dal Ministro della Giustizia Bonafede si cavalca l’onda mediatica generata dai noti eventi per introdurre, in un coacervo di disposizioni innovative prive di un minimo comune denominatore, alcune riforme di cui non vengono sempre adeguatamente ponderate le ricadute sul piano applicativo.

Un primo dato balza agli occhi immediatamente: si sbandierano gli obiettivi di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo civile (proclamando una stretta correlazione tra competitività del Paese e tempi della giustizia civile), ma non si fa cenno ai carichi di lavoro sostenibili da ciascun magistrato, alla mole inesigibile di istanze dalle quali ognuno è gravato, all’assenza di risorse, sul piano umano ed economico, dalla quale è endemicamente caratterizzato il sistema giustizia.

Un timido approccio costruttivo lo si intravede nell’obiettivo di realizzare, mediante lo strumento di una dotazione di pianta flessibile, una task force di magistrati che dovrebbe aggiungersi alla dotazione di pianta degli uffici giudiziari interessati e che dovrebbe determinare, in generale, l’introduzione di un regime di flessibilità delle piante organiche del territorio distrettuale (per un approfondimento si rinvia alla parte curata da Ileana Fedele).

1.1. La principale modifica che si intende introdurre nell’ambito del processo civile è la sostituzione dell’articolato procedimento ordinario di cognizione con un rito semplificato modellato sull’elastico schema procedimentale del rito sommario.

Le linee direttrice lungo le quali si intende agire sono rappresentate a) dalla semplificazione del processo (in primo grado e in appello), b) dalla riduzione dei riti e dalla loro semplificazione, c) dalla introduzione di strumenti di istruzione preventiva affidata agli avvocati (nella fase della negoziazione assistita).

Non ho mai visto, quale giudice civile, l’attuale rito (recte, gli attuali riti) a disposizione delle parti come un ostacolo, per la sua (loro) farraginosità, alla rapida definizione dei giudizi. Tutto è perfettibile, ma a me sembra che la struttura del processo civile sia di buona qualità e rappresenti un giusto punto di equilibrio tra le esigenze di giustizia e quelle di rispetto dei diritti di difesa e del contraddittorio.

La sommarizzazione generalizzata del processo civile, semmai, potrebbe scaricare sui giudizi di impugnazione gli effetti di eventuali scelte sbagliate nella gestione del rito (sul punto si rinvia alle osservazioni di Silvia Vitrò).

Siamo proprio sicuri che la qualità della giurisdizione civile verrebbe migliorata intervenendo sul rito, rendendolo peraltro poco duttile, o i rischi connessi, ad esempio, ad una degiurisdizionalizzazione dell’istruttoria svincolata dal filtro terzo e imparziale del giudice (ci si riferisce, soprattutto, all’attività di istruzione stragiudiziale nell’ambito della procedura di negoziazione assistita per favorire soluzioni transattive, connotata dall’acquisizione di dichiarazioni da parte di terzi su fatti rilevanti in relazione all’oggetto della controversia e dalla sollecitazione alla controparte alla confessione stragiudiziale – art. 2735 c.c. -, nonché dall’acquisizione di informazioni dalla p.a. – sul contenuto di atti e provvedimenti -; sul tema si rimanda alle note di Eugenia Italia e Fabio Doro) potrebbero essere maggiori dei vantaggi che si intende conseguire?

Anche con questo preannunciato intervento normativo si dimentica superficialmente che il collo di bottiglia è costituito dalla fase decisoria e che la semplificazione del rito non costituisce di per sé, in assenza di un aumento delle risorse (oltre che di una migliore distribuzione delle stesse), la panacea per risolvere il problema dell’arretrato.

Ed allora le tre principali novità che caratterizzano la sostituzione del rito ordinario con quello sommario, quanto al processo di cognizione di primo grado davanti al tribunale in composizione monocratica (eliminazione della possibilità di conversione; introduzione di un sistema di preclusioni destinate a consentire la fissazione del thema decidendum ancor prima dell’udienza di prima comparizione delle parti; anticipazione della definitiva cristallizzazione del thema decidendum a dieci giorni prima dell’udienza di comparizione delle parti; per l’analisi della fase introduttiva ed istruttoria dinanzi al tribunale in composizione monocratica si rinvia alle note a firma di Antonella Stilo), altro non sono che ‘specchietti per le allodole’ finalizzati a distogliere l’attenzione dal vero problema che attanaglia il sistema giustizia. Al contempo, la previsione secondo cui il rinvio tra l’udienza di trattazione e quella istruttoria non deve superare i 110 giorni (art. 3.1., b)-6)) è effimera.

1.2. Inserendosi nel solco di precedenti interventi normativi, vengono previste: a) l’esclusione del ricorso obbligatorio, in via preventiva, alla mediazione in materia di colpa medica e sanitaria, contratti finanziari, bancari e assicurativi (sono sufficienti altri istituti finalizzati ad agevolare una soluzione stragiudiziale della controversia, quale, in materia di responsabilità medica e sanitaria, l’a.t.p. disciplinato dalla l. 8.3.2017, n. 24); b) l’esclusione del ricorso obbligatorio alla negoziazione assistita nel settore della circolazione stradale; c) l’estensione della mediazione obbligatoria alle controversie derivanti dai contratti di mandato e da rapporti di mediazione; d) l’estensione della negoziazione assistita facoltativa alle materie di cui all’art. 409 c.p.c. Per un’analisi delle ricadute sul piano pratico delle preannunciate modifiche si rinvia alle note di Michele Ruvolo. Quanto alla individuazione delle attività processuali che costituiscono per la parte condizione per potere chiedere l’indennizzo per irragionevole durata del processo, vedasi Fabio Di Lorenzo.

1.3. Quanto alla fase decisoria, mi limito a segnalare nella presente sede che, prevedendo la relativa possibilità come alternativa rispetto al vaglio del giudice sulla complessità della controversia, le parti o, almeno, una di esse (quella che ritiene di poter perdere la lite e, quindi, ha più interesse ad un differimento) tendenzialmente chiederanno (anche in assenza di complessità) un rinvio per la discussione ad altra udienza.

Al contempo, il concetto di note difensive è estremamente più vago e generico rispetto a quello, ormai consolidato, di comparse conclusionali (e di memorie di replica).

1.4. Con riferimento all’appello (per il quale si rinvia all’approfondimento a cura di Danilo Chieca), appaiono opportuni sia il chiarimento (art. 6.1., lett. b) sull’art. 346 c.p.c. (nel senso che le domande ed eccezioni non accolte, siccome ritenute assorbite, in primo grado devono essere riproposte, a pena di decadenza, entro il termine perentorio di 20 giorni prima della data di udienza) sia l’abrogazione dell’art. 348 bis c.p.c. (che ha creato più problemi di quanti ne abbia risolti, tra l’altro scaricando di fatto sulla cassazione un carico non indifferente di nuovo contenzioso).

Non si considera, peraltro, che, di regola, in assenza di attività istruttoria, l’udienza di trattazione, all’esito della quale le parti dovrebbero essere invitate a precisare le conclusioni ed il collegio dovrebbe pronunciare la sentenza, è quella fissata dall’appellante, sicchè il collegio stesso rinvierà la causa ad altra udienza (questa volta di discussione), non fosse altro perché il numero di cause definibili all’udienza di trattazione non dipende da un disegno organizzativo del giudice.

1.5. Apprezzabile è la consacrazione sul piano normativo del principio di chiarezza e di sinteticità degli atti di parte e del giudice (art. 7.1., lett. d), così come l’introduzione del divieto di sanzioni processuali sulla validità degli atti per il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico dell’atto, quando questo abbia comunque raggiunto lo scopo (art. 7.1., lett. e).

In ordine al primo profilo (sul quale vi sono le osservazioni di Silvia Vitrò), va ricordato che, in tema di ricorso per cassazione, il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali che, fissato dall’art. 3, comma 2, del c.p.a., esprime tuttavia un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile, espone il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, non già per l’irragionevole estensione del ricorso (la quale non è normativamente sanzionata), ma in quanto rischia di pregiudicare l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c., assistite – queste sì – da una sanzione testuale di inammissibilità.

1.5. L’esperienza negativa del passato a volte non sempre insegna qualcosa. Nell’abrogato processo societario una delle novità che vennero più aspramente criticate fu quella della previsione della cd. ficta confessio (art. 13, comma 2, del d.lgs. n. 5 del 2003), in palese contrasto con il costante riconoscimento di una valenza di per sé neutra alla contumacia del convenuto.

Ora il legislatore intende reintrodurre l’istituto (art. 9.1., lett. e), sia pure nel limitato ambito dei giudizi di scioglimento delle comunioni (per la cui disamina si rinvia al contributo di Dario Cavallari), prevedendo che il giudice, in assenza di contestazioni sul diritto alla divisione (nulla quaestio), “compresi i casi di contumacia di una o più parti”, disponga lo scioglimento della comunione con ordinanza non revocabile.

Estremamente pericolosa, prestandosi a facili strumentalizzazioni ed elusioni, è la legittimazione riconosciuta al debitore, nell’ambito delle procedure di espropriazione immobiliare, a chiedere l’autorizzazione alla vendita diretta (sul tema si rinvia all’ampia disamina a cura di Emanuela Musi), ponendosi problemi per certi versi simili a quelli che sono sorti, in ambito fallimentare, avuto riguardo, in particolare, alla natura forzata di questo tipo di vendita e agli effetti “purgativi” alla stessa connessi.

Si inserisce nel solco dell’intento di rimpinguare le anemiche casse dello Stato la previsione secondo cui il beneficiario delle sanzioni pecuniarie, in caso di responsabilità aggravata, è la Cassa Ammenda e Prestiti, anziché la controparte (sulla relativa questione si rinvia allo scritto di Fabio Di Lorenzo).

2. Solo all’art. 30 (lett. d) si opera un fugace riferimento ai “carichi esigibili”, ma al solo fine di valutare in concreto la negligenza inescusabile del magistrato che non abbia adottato misure per definire i processi civili e penali da lui iniziati nel termine massimo all’uopo previsto (di quattro anni quanto al giudizio di primo grado; tre anni quanto al giudizio di secondo grado; due anni quanto al giudizio di legittimità). A tal ultimo riguardo, una domanda nasce spontanea: che senso ha prevedere l’obbligo di adottare misure per definire rapidamente i processi pendenti se poi, in concreto, queste misure non sono attuabili? Sembrerebbe che costituisca illecito disciplinare la mancata adozione delle dette misure. E la loro mancata attuazione sul piano pratico?

Ed ancora: quali sono le misure che il magistrato dovrebbe adottare per definire i processi civili e penali da lui iniziati nel termine di quattro anni quanto al giudizio di primo grado? Il calendario del processo (artt. 3, lett. b, punto 8 – quanto ai processi civili -, e 17, lett. a – quanto ai processi penali -) ? Non si è considerato, tra l’altro, quanto al giudizio di legittimità, che i ruoli di udienza, in cassazione, sono predisposti dai presidenti di sezione.

Ulteriore criticità: costituisce specifico illecito disciplinare la mancata adozione delle misure, da cui derivi per negligenza inescusabile il mancato rispetto dei termini in più di un terzo dei processi civili e dei processi penali iniziati dal magistrato (art. 30.1., lett. b). Sembra quasi una istigazione a lasciare andare alla deriva fino a un terzo (1/3) delle cause presenti sul ruolo. Senza tralasciare, ovviamente, che naturaliter la propensione di ogni magistrato sarà nel senso di privilegiare la definizione dei processi di minor complessità.

Riemergono, in modo però non programmatico, i criteri di priorità nella trattazione degli “affari”. Ciò avviene nel disciplinare le indagini preliminari e l’udienza preliminare (art. 15, lett. i), prevedendosi che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme  esercizio dell’azione penale, selezionino le notitiae criminis da trattare con precedenza rispetto alle altre sulla base di criteri di priorità trasparenti e predeterminati, nel regolamentare le funzioni direttive e semidirettive (art. 24.2., lett. b)-3)), stabilendosi che il progetto organizzativo delle procure della Repubblica contengano in ogni caso “i criteri di priorità nella trattazione degli affari”, e nell’introdurre le piante organiche flessibili distrettuali (art. 47, nella parte in cui sostituisce l’art. 5, co. 3, della l. 13.2.2001, n. 48), prevedendosi che, con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il CSM, siano, tra l’altro, definiti i criteri di priorità per destinare i magistrati della pianta organica flessibile alla sostituzione (nei casi di assenza dall’ufficio) ovvero per assegnare gli stessi per far fronte alle condizioni critiche in cui versa un ufficio.

Diventano nevralgici i menzionati criteri di priorità, che dovranno essere elaborati periodicamente dai dirigenti degli uffici, previa interlocuzione con il procuratore generale presso la corte d’appello e con il presidente del tribunale, dovranno essere indicati nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica e dovranno tener conto “della specifica realtà criminale e territoriale, delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili e delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti”.

3. Nell’ambito del processo penale, a fronte di taluni elementi positivi (l’intervento seppur minimale in tema di notificazioni, i poteri delgGiudice dell’udienza preliminare, con la previsione di una fase pre-dibattimentale che possa essere realmente deflattiva, con il mutamento della regola di giudizio ex art. 425 comma 3 c.p.p., e di rimando, dell’art. 125 norme att. c.p.p.), restano numerose criticità e perplessità. Per i relativi approfondimenti si rinvia a David Mancini, Luigi Cuomo, Aldo Natalini (avuto riguardo, in particolare, ai riti speciali) e, anche in una prospettiva de iure condendo, Alessandro De Santis.

4. Apprezzabile risulta l’eliminazione, nella stesura attuale, dell’originaria abrogazione ex lege dei semidirettivi (sullo specifico profilo, si rinvia ai commenti, estesi anche alle funzioni direttive, di Santi Bologna, di Silvia Vitrò e di Tony Nicastro)  Se si voleva tutelare l’autonomia dei singoli magistrati, l’obiettivo certamente non sarebbe stato raggiunto creando capi degli uffici che sarebbero stati dei “domini” assoluti all’interno dei Tribunali e delle Procure, sostanzialmente liberi di selezionare la semidirigenza. Anche a voler prescindere dalla palese violazione dell’art. 105 Cost. che in tal guisa operando si sarebbe realizzata, non vi è chi non veda che solo un sistema di regole trasparenti e di indicatori specifici può evitare che i ruoli di vertice si trasformino in occasioni di esercizio arbitrario dei poteri. La gerarchizzazione delle Procure non ha dato buona prova di sé, come i noti eventi purtroppo testimoniano. Ciò nonostante, si intendeva estenderla anche agli uffici giudicanti. La sottrazione al CSM di questa competenza avrebbe, del resto, determinato un forte accentramento verso la dirigenza giudiziaria, al pari di quanto è già avvenuto nelle Procure.

E’ vero, semmai, il contrario: in un sistema di bilanciamento, connotato da pesi e contrappesi, è proprio la nomina dei semidirettivi sottratta al capo dell’ufficio che consente di ‘compensare’ il potere di quest’ultimo, che altrimenti diverrebbe senza limiti e tale da condizionare l’attività dei magistrati da lui scelti.

5. In ordine al profilo dell’aumento irragionevole delle ipotesi di illecito disciplinare (su cui vedasi Santi Bologna), con particolare riferimento alla tutela dei soggetti che avrebbero dovuto segnalare illeciti dei magistrati e del personale amministrativo degli uffici giudiziari (art. 25, eliminato nella versione che attualmente circola), si rinvia a Francesco Lo Gerfo, non senza qui evidenziare che la norma reintrodurrebbe, di fatto, surrettiziamente la figura del sicofante (modernizzato) contro magistrati e cancellieri sgraditi, fornendogli l’anonimato e l’impunità di fatto.

6. Sul sistema elettorale dei componenti togati del CSM non mi soffermerò, rimandando agli approfondimenti tematici (ed in particolare, all’articolo di Salvo Leuzzi, contenente anche una proposta costruttiva). Mi permetto qui solo di evidenziare che siamo al cospetto di una rappresentatività senza vincolo di mandato, che il metodo di scelta è una “elezione” e che il sorteggio (in qualunque fase collocato) si rivelerebbe senz’altro incostituzionale (siccome in contrasto con l’art. 103, co. 4, Cost.).

Siamo poi sicuri che il CSM, sul piano della trasparenza, verrebbe migliorato o la via della responsabilizzazione passa sempre e comunque attraverso una elevazione degli standard deontologici e comportamentali?

La sfiducia nel possesso da parte della categoria di magistrati di anticorpi per combattere le pressioni esercitate dall’esterno ed i virus presenti all’interno ha indotto il legislatore a cadenzare in modo rigoroso il procedimento di elezione dei componenti togati (artt. 38-41): si va dalla individuazione (con decreto del Ministro della giustizia) dei collegi almeno tre mesi prima del giorno fissato per le elezioni, alla convocazione delle elezioni (fatta dal CSM) almeno 60 giorni prima della data stabilita per l’inizio della votazione), al termine stringente di 7 giorni dalla pubblicazione dell’elenco dei magistrati sorteggiati per la presentazione, ad opera degli stessi, della loro candidatura, alla pubblicazione degli elenchi dei candidati (distinti per singolo collegio) almeno 7 giorni prima della data della votazione, alla previsione che ogni elettore riceve una scheda ed esprime il proprio voto per un solo magistrato. Lo scopo è chiaro: impedire ai gruppi associativi di organizzarsi per fare opera di proselitismo (per una approfondita disamina, che trae origine dal preliminare inquadramento del Consiglio superiore nell’ambito dell’architettura costituzionale, v. Fulvio Troncone).

Ma siamo proprio sicuri che le degenerazioni cui si è assistito nell’ultimo periodo, in assenza di un percorso virtuoso nella direzione di un innalzamento dell’etica, verranno bandite completamente?

7. Nel rinviare per le modifiche che si intende introdurre in tema di valutazioni di professionalità alle osservazioni di Andrea Penta, quanto allo specifico profilo del ricorso ad uno psicologo (sul cui tema rimando alla nota a firma della Professoressa Barbara Segatto e alle osservazioni di Eugenia Italia), ricordo quando nel 2003 l’onorevole Silvio Berlusconi lanciò un’idea non troppo dissimile, definendo, in un’intervista al periodico britannico Spectator, i magistrati come “mentalmente disturbati”. Nel solco di questa esternazione, il Guardasigilli dell’epoca, Roberto Castelli, ipotizzò anche d’introdurre i test.

Non mi piacciono le preconcette “difese di categoria”. Il riconoscimento della delicatezza del ruolo svolto da un magistrato comporta che l’empatia e, soprattutto, la stabilità mentale siano di basilare importanza.

E’ il metodo che trovo sbagliato. Mi meraviglierei molto se lo squilibrio mentale di un collega emergesse solo in occasione delle valutazioni quadriennali di professionalità. Se veramente anomalie di carattere psichico significative esistessero, il capo dell’ufficio sarebbe tenuto a segnalarle a prescindere e senza attendere le dette valutazioni periodiche.

Ed ancora: perché allora non estendere l’ipotesi di utilizzare uno psicologo per selezionare il titolare di un importante incarico pubblico o introdurla per i titolari di un incarico pubblico elettivo, che pur svolgono funzioni altrettanto delicate?

Ed infine mi domando, ragionando per assurdo: e se all’esito della valutazione dello psicologo dovesse emergere che un magistrato versa in uno stato di forte stress determinato dall’eccessivo e non gestibile carico di lavoro che ha inciso sul suo equilibrio psico-fisico, il collega sottoposto a valutazione di professionalità potrebbe instaurare una causa risarcitoria contro il Ministero per ottenere il ristoro del pregiudizio in tal guisa patito?

7.1. Nel restituire una maggiore rilevanza all’anzianità quale indice sintomatico di esperienza nell’esercizio delle funzioni, si parte da un presupposto: che le varie valutazioni di professionalità siano state effettive e personalizzate. Un presupposto che, come l’esperienza ci insegna, è tutto (almeno allo stato) da dimostrare. E’ evidente, infatti, che, a parità (ma solo a parità) di valutazione di professionalità (reso sulla base dei diversi parametri da prendere in considerazione), un magistrato che abbia dimostrato di avere capacità e/o attitudini per un periodo più ampio debba essere preferito rispetto ad un altro che, pur ugualmente meritevole, lo abbia fatto per un periodo più ridotto.

8. Piero Calamandrei, nell’Elogio scritto da un avvocato, sosteneva che “Proprio per questo dovrebbero essere i giudici i più strenui difensori dell’avvocatura: poiché solo là dove gli avvocati sono indipendenti, i giudici possono essere imparziali; solo dove gli avvocati sono rispettati, sono onorati i giudici; e dove si scredita l’avvocatura, colpita per prima è la dignità dei magistrati, e resa assai più difficile ed angosciosa la loro missione di giustizia”.

Non mi preoccupa la convivenza con gli avvocati, perché ritengo che la magistratura e l’avvocatura rappresentino due corpi indefettibili del sistema giustizia. Ciò che mi preoccupa è il rischio di strumentalizzazioni.

Molti interventi sul piano normativo determinerebbero di fatto anche un ampliamento delle aree dalle quali i professionisti (e, in primo luogo, gli avvocati) potrebbero attingere per ottenere incarichi, a detrimento delle sfere di competenza dei giudici, e, quindi, consentire ai primi il realizzo di maggiori entrate economiche. La scelta annida dentro di sé un recondito scopo propagandistico, ma non mi diffonderò sulla stessa. Il riferimento è, in particolare, agli artt. 2, lettere e) (il quale prevede una semplificazione della procedura di negoziazione assistita, anche utilizzando un modello di convenzione elaborato dal Consiglio Nazionale Forense), f) (il quale consente, nell’ambito della procedura di negoziazione assistita, un’attività istruttoria con la necessaria partecipazione di tutti gli avvocati che assistono le parti coinvolte), g)-4) (il quale contempla una maggiorazione del compenso degli avvocati, in misura non inferiore al 30%, anche con riguardo al successivo giudizio, che abbiano fatto ricorso all’istruttoria stragiudiziale; per quanto, nel successivo n. 5, sia previsto, a mò di contraltare, che il compimento di abusi nell’attività di acquisizione delle dichiarazioni costituisca per l’avvocato grave illecito disciplinare), 9, lett. a) (che, nell’ambito delle controversie aventi ad oggetto lo scioglimento delle comunioni, prevede un obbligatorio procedimento di mediazione pregiudiziale innanzi ad un notaio o a un avvocato; nel qual caso la determinazione dei compensi da riconoscersi al professionista per l’espletamento di tale procedimento è rimessa ad un decreto ministeriale), 10, lett. g) (che, nell’ambito dei procedimenti di espropriazione immobiliare, prevede la delega, da parte del giudice dell’esecuzione, ad uno dei professionisti iscritti nell’elenco di cui all’art. 179-ter disp. att. c.p.c. della riscossione del prezzo e delle operazioni di distribuzione del ricavato).

Le disposizioni “pericolose” sono gli artt. 24, lett. a) (nella parte in cui prevede, nell’ambito dei procedimenti per la deliberazione dei posti direttivi, l’obbligo di sentire tra l’altro, sia pure con le modalità stabilite dal CSM, i rappresentanti dell’avvocatura) e 26.1., lett. a) (che introduce il diritto cd. di tribuna, vale a dire il diritto dei componenti non togati – avvocati e professori universitari – del consiglio giudiziario di assistere alle discussioni e deliberazioni relative alla formulazione di pareri sull’attività dei magistrati sotto il profilo della preparazione, della capacità tecnico-professionale, della laboriosità, della diligenza, dell’equilibrio nell’esercizio delle funzioni). Un conto è, infatti, acquisire preventivamente e per iscritto le motivate e dettagliate valutazioni del consiglio dell’ordine degli avvocati avente sede nel luogo dove il magistrato esercita le sue funzioni e, se non coincidente, anche del consiglio dell’ordine degli avvocati avente sede nel capoluogo del distretto (art. 15, co. 1, lett. b, d.lgs. n. 25/2006), un altro conto è consentire una partecipazione (silenziosa?) dell’avvocatura. E ciò non in quanto vi siano scheletri negli armadi da nascondere, ma perché delle due l’una. Ma perché si percepirebbe inevitabilmente la mera presenza fisica dei componenti non togati come un segnale di sfiducia nei confronti della componente togata ed alla stregua di un “cavallo di Troia” fatto entrare con l’inganno nei sancta sanctorum dei consigli giudiziari.

9. Di un testo normativo, soprattutto se, come quello in esame, in fieri, è anche metodologicamente sbagliato porre in rilievo solo gli aspetti negativi, senza segnalare gli eventuali passaggi condivisibili.

Oltre a quelli già indicati in precedenza, meritano, a mio modo di vedere, di essere evidenziati i seguenti:

  1. la previsione di un termine non superiore a 60 giorni entro il quale la p.a., cui siano state richieste informazioni ai sensi dell’art. 213 c.p.c., deve trasmetterle o deve comunicare le ragioni del diniego (art. 11, lett. c; sul punto si rinvia alle osservazioni di Fabio Di Lorenzo);
  2. la previsione che i procedimenti per la deliberazione dei posti direttivi e semidirettivi siano tendenzialmente avviati ed istruiti secondo l’ordine temporale con cui i posti si sono resi vacanti (art. 24.1., lett. a);
  3. la previsione – finalizzata ad assicurare una continuità nello svolgimento dell’incarico – che le funzioni direttive e semidirettive possano essere conferite esclusivamente ai magistrati che, alla data della vacanza del posto messo a concorso, assicurino almeno 4 anni di servizio prima della data di collocamento a riposo (art. 24.1., lett. n);
  4. la previsione secondo cui il termine per i tramutamenti su domanda sia ridotto a tre anni per i magistrati che esercitano le funzioni presso la sede di prima assegnazione (art. 27.1., lett. g);
  5. la regolamentazione al passo coi tempi della disciplina dell’accesso in magistratura (art. 27; tema approfondito da Santi Bologna).

10. Concludo ringraziando tutti i colleghi che, ritagliando piccoli spazi di tempo in un periodo dell’anno in cui le energie psico-fisiche sono agli sgoccioli, hanno dato la loro disponibilità ad approfondire le questioni sottese al ddl in esame, dimostrando di nutrire la passione per il confronto dialettico, pur delusi per le pratiche distorte divenute di recente di dominio pubblico di cui l’intera magistratura deve fare severa autocritica.

di Gianluigi Morlini

Raccogliere in poche pagine l’indicazione di tutte le principali pronunce giurisprudenziali del 2014 relative al processo civile di primo grado, è all’evidenza materialmente impossibile.
 Tuttavia, l’articolo che segue offre un tentativo di una ragionata illustrazione di quelli che possono ritenersi i principali arresti della Corte di Cassazione nello scorso anno, distinguendo la materia istruttoria, quella più strettamente processuale, quella delle opposizioni esecutive e quella delle  spese di lite; illustrando quali sono i punti di continuità con la precedente giurisprudenza e quali sono invece sono le posizioni innovative; concludendo infine con l’elencazione di alcuni contributi scientifici ad opera della più qualificata Dottrina o di alcuni noti magistrati……………Il 2014, con riferimento al processo civile di primo grado, sarà ricordato come l’anno della prima, parziale entrata in vigore del processo civile telematico, oltre che dell’ennesima riforma del codice di rito, cantiere contraddistinto da lavori in corso, che si susseguono continuativamente da oltre un ventennio.In questo contesto, diverse sono le pronunce delle Magistrature Superiori che hanno offerto importanti contributi interpretativi, pur se l’elencazione che segue non può che essere, in tutta evidenza, parziale e soggettiva.
 a) In materia istruttoria, una delle pronunce più interessanti, a livello dogmatico, è quella di Cass., 14/3/2014, n. 5950, in tema di indicazione dei nominativi dei testimoni. In consapevole contrasto con la dominante giurisprudenza, formatasi sulla scia di Cass., S.U., n. 262/1997, la terza sezione della Corte, recependo l’impostazione della maggioritaria giurisprudenza di merito, ha convincentemente statuito che, nel rito del lavoro, è necessario indicare nel ricorso introduttivo non solo i capi di prova testimoniale, ma anche i nominativi dei testi; e che non è quindi possibile la loro successiva indicazione ex art. 421 c.p.c. Infatti, a seguito dell’abrogazione dell’art. 244, comma 3, c.p.c., che consentiva al giudice la possibilità di assegnare un termine alle parti per formulare o integrare l’indicazione delle persone da interrogare, e tenuto conto che l’art. 244, comma 1, c.p.c., identifica la prova testimoniale sia con il requisito oggettivo del capitolo sia con quello soggettivo dell’indicazione del teste, deve concludersi che il capitolo privo dell’indicazione del teste risulta un ‘mezzo di prova’, ex art. 414 n. 5, c.p.c., non già incompleto, ma inesistente, e quindi non sanabile ex art. 421 c.p.c. Discende che anche nel rito del lavoro, così come da anni è pacifico nel rito ordinario (da ultimo e tra le tante, cfr. Cass., 20/11/2013, n. 26058), l’indicazione del teste deve avvenire prima dello spirare delle preclusioni istruttorie.Componendo un contrasto giurisprudenziale ed aderendo alla tesi già in precedenza nettamente maggioritaria, Cass., S.U., 29/4/2014, n. 12065, ha chiarito che nessuna rilevanza probatoria può essere attribuita all’autocertificazione nel giudizio civile, caratterizzato dal principio dell’onere della prova. La stessa sentenza, poi, per un verso ribadiscel’ammissibilità nell’ordinamento civilistico delle prove atipiche; e per altro verso spiega che, a seguito della novella dell’art. 115 c.p.c. da parte dalla L. n. 69/2009, la non contestazione, diversamente da quanto in precedenza indicato dalla storica Sezioni Unite n. 761/2002, riguarda non solo i fatti principali, ma anche i fatti secondari.
 Cass., 21/1/2014, n. 1181, ha ribadito che la CTU può costituire una vera e propria fonte oggettiva di prova, divenendo percipiente e non già solo deducente, laddove un fatto non sia percepibile nella sua intrinseca natura se non con cognizioni o strumentazioni tecniche che il giudice non possiede, o comunque il fatto stesso risulti di più agevole, efficace e funzionale accertamento, ove l’indagine sia condotta da un ausiliario dotato di specifiche cognizioni tecnico-scientifiche. La medesima pronuncia, peraltro, ha confermato che anche nel caso di CTU percipiente, la parte non può sottrarsi del tutto all’onere probatorio e rimettere in toto l’accertamento della propria posizione processuale all’attività del consulente, essendo comunque necessario che vengano dedotte circostanze ed elementi specifici posti a fondamento del diritto azionato, non potendo quindi la consulenza risolversi nell’accertamento di fatti nemmeno affermati in giudizio a sostegno delle proprie domande ed eccezioni.Sempre in tema di CTU, laddove, come nella normalità dei casi, al perito sia richiesta la redazione di una relazione scritta ex art. 195, comma 2, c.p.c., la stessa deve essere depositata entro un termine fissato dal giudice. Ciò detto, nel rito ordinario tale termine, in ragione della mancata specificazione normativa, è pacificamente inteso come non perentorio, con la conseguenza che il suo mancato rispettonon determina la nullità della consulenza, ferma ovviamente restando la possibilità per il giudice di procedere alla sostituzione del perito ex art. 196 c.p.c.; mentre nel rito del lavoro, l’inosservanza del termine previsto dall’art. 424, comma 3, c.p.c., comporta la nullità della CTU, pur se trattasi di nullità relativa, come tale sanata ex art. 157, comma 2, c.p.c., se non opposta nella prima difesa successiva e fermo comunque rimanendo che l’eventuale pronuncia di nullità deve essere correlata ad un concreto pregiudizio del diritto di difesa (Cass., 10/4/2014, n. 8406).Circa poi la valutazione della prova presuntiva, confermando un orientamento pacifico a livello di giurisprudenza di legittimità, ma non sempre adeguatamente conosciuto dalla giurisprudenza di merito, la Suprema Corte ha da un lato ritenuto che, per configurare una presunzione, non occorre che l’esistenza del fatto ignoto sia l’unica conseguenza possibile del fatto noto, essendo invece sufficiente un rapporto di probabilità logica tra i due fatti secondo un criterio di normalità alla stregua dell’id quod plerumque accidit (Cass., 5/2/2014, n. 2632); e dall’altro lato che è possibile fondare la decisione su di un unico elemento presuntivo, purché non contrastato da altro ragionamento presuntivo di segno contrario, poiché il requisito della concordanza, postulante una pluralità di presunzioni, non ha carattere di requisito necessario, ma solo eventuale, operando unicamente in presenza di più presunzioni (cfr. Cass., 30/1/2014, n. 2082).Dando continuità ad un orientamento già in passato esplicitato, Cass., 7/5/2014, n. 9864, ha ribadito che le ammissioni contenute nelle missive e negli atti difensivi sottoscritti unicamente dal procuratore ad litem, non hanno il valore confessorio privilegiato della prova legale, ma costituiscono elementi indiziari liberamente valutabili ed apprezzabili dal giudice per la formazione del proprio convincimento.
 b) In materia più strettamente processuale, di rilievo è certamente Cass., S.U., 11/4/2014, n. 8510, la quale, componendo un contrasto giurisprudenziale con adesione alla tesi estensiva, ha chiarito che l’art. 1453, comma 2, c.c., è norma speciale che deroga alla norma generale, consentendo in ogni caso la mutatio libelli da adempimento in risoluzione fino all’udienza di precisazione delle conclusioni; ed a seguito di tale mutamento, è altresì possibile per il contraente fedele completare lo ius variandiformulando domanda di risarcimento danni.Sempre risolvendo un contrasto di giurisprudenza, Cass., S.U., 20/5/2014, n. 11021, ha spiegato che, nel caso di sentenza collegiale, la mancanza di una sola delle due firme tra quella del presidente e dell’estensore, rende la sottoscrizione non già radicalmente inesistente, ma solamente insufficiente, ciò che comporta una nullità sanabile ex art. 161 c.p.c.Nuovamente in sede di composizione di un contrasto, si è statuito che, a fronte di una domanda attorea di restituzione del bene in precedenza volontariamente trasmesso al convenuto, la difesa del convenuto proposta in via di eccezione o riconvenzionale per la rivendica del bene, non comporta la trasformazione della domanda attorea da personale a reale, a ciò ostandovi il principio di disponibilità della domanda e di corrispondenza tra chiesto e pronunciato; con la conseguenza che è il convenuto, in dipendenza delle proprie difese, a dovere soddisfare il gravoso onere probatorio (cd. probatio diabolica) inerente le azioni reali, al fine di paralizzare la pretesa attorea (Cass., S.U., 28/3/2014, n. 7305).Una delle più interessanti pronunce processuali è quella con la quale la Suprema Corte, per la prima volta, ha preso posizione in ordine alla questione, lungamente dibattuta dalla giurisprudenza di merito e relativamente alla quale non aveva invece preso posizione C. cost. n. 322/2010, relativa all’eventuale reclamabilità del provvedimento del Giudice Istruttore in materia di revoca o modifica dei provvedimenti temporanei ed urgenti nell’interesse della prole e dei coniugi ex art. 709, comma 4, c.p.c. In particolare, disattendendo sia la tesi della reclamabilità al collegio in applicazione analogica dell’art. 669 terdeciesc.p.c., sia la tesi della reclamabilità alla Corte d’Appello in applicazione analogica dell’art. 708, comma 4,c.p.c., la Cassazione ha aderito alla tesi dell’irreclamabilità , essendo ciò imposto dal dato letterale della sua mancata previsione ed essendo la scelta legislativa non irrazionale (Cass., ord. 7/7/2014, n. 15416).Ribadendo un orientamento che può dirsi ormai consolidato, pur se opinabile, Cass., 13/5/2014, n. 10306, ha ritenuto che, nonostante le questioni sulla competenza siano ora risolte con ordinanza sulla base del vigente art. 279 c.p.c., ciò deve avvenire dopo un’udienza di precisazione delle conclusioni.Confermando quanto già indicato da S.U. n. 16037/2010, Cass., 28/1/2014, n. 1761, ha statuito che la procedura di correzione dell’errore materiale è applicabile alla sentenza che omette di provvedere sull’istanza di distrazione delle spese.Sempre in continuità con i propri precedenti, Cass., 30/1/2014, n. 2084, ha ribadito che la valutazione equitativa del danno, ex art. 1226 c.c., rientra nei poteri discrezionali che il giudice, in presenza delle condizioni richieste dal citato articolo, può esercitare senza necessità di richiesta della parte.Interessante è la posizione giurisprudenziale relativa all’equiparazione dell’avvocato al professionista ai fini della disciplina dei contratti sui consumatori: pertanto, s’applica l’art. 33, comma 2, lettera u), D.Lgs. n. 206/2005, che sancisce l’inefficacia della pattuizione di un foro competente diverso da quello di residenza o domicilio del consumatore e che è norma indicante un foro esclusivo e speciale, ciò che impedisce l’applicabilità del foro di cui all’art. 637, comma 3, c.p.c., per ottenere un decreto ingiuntivo da parte dell’avvocato relativamente al pagamento del compenso (Cass., ord. 24/1/2014,n. 1464).In tema di procura speciale alle liti, Cass., 22/5/2014, n. 11359, ha evidenziato che l’art. 182, comma 1, c.p.c., va inteso nel senso che il giudice, ove rilevi l’omesso deposito della procura, semplicemente enunciata o richiamata negli atti, deve invitare la parte a produrre l’atto mancante, e tale invito può e deve essere fatto in qualsiasi momento, con la conseguenza che l’invalidità della costituzione discende solo dall’eventuale infruttuosità di tale invito; mentre Cass., 3/6/2014, n. 12376, ha puntualizzato che la cancellazione dall’albo del procuratore costituito non comporta l’interruzione del processo, essendo l’ipotesi assimilabile alla rinuncia o revoca della procura ex art. 301, comma 3, c.p.c., non già alla morte, sospensione o radiazione ex art. 301, comma 1, c.p.c.In una complessa ed articolata pronuncia, la Suprema Corte ha puntualizzato che il passaggio in giudicato della sentenza che dichiara inammissibile o estinto un giudizio di  opposizione a decreto ingiuntivo, non preclude al debitore ingiunto di far valere, con azione di accertamento negativo o con opposizione a precetto od all’esecuzione, eventuali fatti modificativi, impeditivi od estintivi del diritto azionato in sede monitoria, verificatisi tra l’emissione del decreto ed il termine per proporre opposizione, ovvero sopravvenuti ex art. 645 c.p.c., ancorché gli stessi siano stati introdotti in tale sede senza formare oggetto di una specifica domanda di accertamento (Cass., 19/3/2014, n. 6337).In tema di processo civile telematico, Cass., 25/6/2014, n. 14337, ha puntualizzato che la prova della comunicazione del deposito del provvedimento coincide, qualora la parte non invochi un termine di comunicazione successivo, con la data di pubblicazione del provvedimento medesimo.E’ stato poi chiarito che il potere del giudice di rilievo d’ufficio dell’eccezione non implica il superamento del divieto di scienza privata, occorrendo pur sempre che determinati fatti modificativi, impeditivi od estintivi, risultino acquisiti agli atti (così Cass., 13/3/2014, n. 5923. Cfr. anche Cass., 13/6/2014, n. 13537, con riferimento all’eccezione di superamento del massimale, da qualificarsi come eccezione in senso lato rilevabile d’ufficio, ma solo se il fatto storico è allegato e provato); e che la conclusionale, pur avendo natura semplicemente illustrativa, può contenere la rinuncia ad una domanda in precedenza formulata (Cass., 15/4/2014, n. 8737).Si è poi statuito che le domande di risarcimento dei danni e di separazione personale con addebito sono soggette a riti diversi e non sono cumulabili nel medesimo giudizio, trattandosi di connessione cosiddetta debole ex art. 33 c.p.c., laddove il successivo articolo 40 c.p.c. consente il cumulo nell’unico processo di domande soggette a riti diversi esclusivamente in presenza di ipotesi di connessione cosiddetta forte ex artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c. (Cass., 8/9/2014, n. 18870).Pur se emesse nell’ultimo trimestre del 2013, hanno trovato spazio nelle riviste giuridiche del 2014, e sono indicate come di particolare rilievo nella relazione del Massimario civile della Corte, le pronunce con le quali si è statuito che il giudice successivamente adito deve dichiarare la litispendenza anche se la causa identica precedentemente iniziata pende davanti al giudice dell’impugnazione (Cass., S.U., 12/12/2013, n.27846); che è affetta da nullità assoluta ed insanabile, rilevabile anche d’ufficio, la sentenza scritta da un giudice diverso da quello davanti al quale sono state precisate le conclusioni in violazione dell’art. 276 c.p.c. (Cass., S.U., 2/12/2013, n. 26938); che la competenza funzionale a decidere sull’istanza di verificazione proposta in via incidentale è del giudice della causa in cui l’istanza stessa è proposta, anche se giudice di pace o monocratico (Cass., ord. 16/10/2013, n. 23433); che le sommarie informazioni rese nel corso di un procedimento cautelare, se assunte con l’impegno di rito ed in contraddittorio con le parti, sono utilizzabili nel successivo giudizio di merito come vere e proprie prove testimoniali (Cass., 4/10/2013, n. 22778); che al fine dell’osservanza delle norme che prevedono l’intervento obbligatorio del P.M., non è necessaria la presenza di un rappresentante di tale ufficio nelle udienze, né la formulazione di conclusioni, essendo sufficiente che il P.M., mediante l’invio degli atti, sia informato del giudizio e posto in condizione di sviluppare l’attività ritenuta opportuna (Cass., ord. 2/10/2013, n. 22567); che la legittimazione processuale, riguardando un presupposto della regolare costituzione del rapporto processuale, è questione esaminabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, salvo il solo limite del giudicato (Cass., 26/9/2013, n. 22099).<c) Circa la materia delle opposizioni esecutive, di rilievo è Cass., 7/2/2014, n. 2815, che disattende il precedente di Cass. n. 11316/2011, molto criticata, e ripropone l’orientamento tradizionale in tema di provvedimenti provvisori ex art. 708 c.p.c., emessi nell’ambito del giudizio di separazione o di divorzio. In particolare, dovendo il titolo esecutivo rivestire i caratteri di credito certo, liquido ed esigibile, ex art. 474 c.p.c., l’efficacia di titolo esecutivo dell’ordinanza presidenziale riguarda solo le obbligazioni già definite in tale provvedimento (ad esempio, l’importo del contributo al mantenimento per coniuge e figli), non anche le spese che devono essere affrontate in futuro: pertanto, se il coniuge separato non adempie all’obbligo, previsto dall’ordinanza, di rimborso pro quota delle spese straordinarie sostenute dall’altro coniuge per i figli, non si può procedere direttamente con l’esecuzione forzata, occorrendo un nuovo provvedimento giudiziale che accerti l’esistenza delle condizioni determinanti l’insorgenza dell’obbligo ed il suo esatto ammontare.Quanto al verbale di conciliazione, esso, pur se firmato davanti al giudice, è titolo esecutivo di natura stragiudiziale (Cass., 26/2/2014, n. 4564).In tema di opposizione a precetto, è poi chiarito che se la somma oggetto di intimazione risulta eccessiva, ciò non travolge l’atto per intero, ma ne determina nullità parziale o inefficacia parziale per la somma eccedente, e l’intimazione rimane quindi valida per la somma effettivamente dovuta (Cass., 27/3/2014, n. 7207).Quanto alla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, essa non s’applica a nessuno dei casi di opposizione all’esecuzione, e quindi in tale periodo vanno trattati le opposizioni all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., le opposizioni agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., le opposizioni di terzo ex art. 619 c.p.c., gli accertamenti dell’obbligo del terzo ex art. 548 c.p.c. (Cass., 8/4/2014, n. 8137 e Cass., 9/4/2014, n. 8270).
 d) Relativamente poi alle spese di lite – per la cui liquidazione è entrato in vigore il D.M. 10/3/2014, n. 55 – è stata fornita una lettura molto restrittiva dell’art. 91, comma 4, c.p.c., a tenore del quale le spese e gli onorari liquidati dal Giudice di Pace non possono superare il valore della domanda nelle cause in cui la parte può stare in giudizio personalmente ex art. 82 c.p.c.: si tratta infatti di norma costituzionalmente non illegittima (C. cost., 4/6/2014, n. 157), ma che opera solo nelle controversie devolute alla giurisdizione equitativa del Giudice di Pace, e quindi non anche nelle opposizioni ad ordinanza ingiunzione ed a verbale di accertamento di violazioni del Codice della Strada (Cass., 30/4/2014, n. 9557).Circa la compensazione delle spese ex art. 92, comma 2, c.p.c., le “gravi ed eccezionali ragioni” necessarie per disporla, possono essere integrate dall’inusitata reciproca litigiosità e dalla molteplicità di cause pendenti tra le parti (Cass., ord. 23/6/2014, n. 14155).Quanto al decreto di liquidazione delle spese a favore del CTU, lo stesso può essere opposto, ex art. 170, DPR n. 115/2002, dalle parti, dal P.M. e dallo stesso perito, con un procedimento civile monocratico in cui tutti sono contraddittori necessari e tutti possono stare in giudizio personalmente; e nel caso di liquidazione a carico dell’erario, si è ribadito che parte necessaria è altresì il Ministero di Giustizia, non l’Agenzia delle Entrate (Cass., 13/2/2014, n. 3312).e) Tra le pubblicazioni scientifiche del 2014 della più accreditata Dottrina, mette conto segnalare il Commentario al codice di procedura civile dei professori Carpi e Taruffo, Padova, 2014; il Codice di procedura civile commentato online dei professori Vaccarella e Comoglio, WKI; la nuova edizione del Manuale di procedura civile dei professori Mandrioli e Carratta, Torino, 2014.Con riferimento a temi più settoriali, di interesse sono i contributi di alcuni magistrati, quali I procedimenti Camerali di Roberto Masoni, Milano, 2014; Il processo civile telematico di Vincenzo di Giacomo, Milano, 2014; Il procedimento di divisione a domanda congiunta di Rosaria Giordano, Milano, 2014; nonché Il processo delle locazioni, di Giordano-Tallaro, Padova, 2014.

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Nella relazione predisposta da Aldo Carrato con riferimento al procedimento possessorio si affronta in primo luogo il tema della natura e della finalità dello stesso procedimento possessorio per poi passare ai profili processuali, che vengono esaminati avendo riguardo alla disciplina generale, ma anche, più in dettaglio, agli aspetti relativi alla competenza per territorio ed all’emissione dei provvedimenti inaudita altera parte.

Viene inoltre trattato il tema dei rapporti tra giudizio petitorio e giudizio possessorio, del regime dell’eccezione feci sed iure feci  e della possibilità o meno dell’introduzione di domande diverse ed ulteriori rispetto a quella avente per oggetto il conseguimento dell’immediata tutela contro l’autore dello spoglio e della turbativa (restituzione del bene e cessazione della condotta lesiva).

Infine, si opera un’accurata ed utile selezione della giurisprudenza di legittimità dell’ultimo biennio su possesso, azioni possessorie e usucapione.

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di Michele Ruvolo

1.     Il Decreto del fare e la legge 98/13.

Dopo che la Corte Costituzionale ha dichiarato, con la sentenza 272/2012, l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. 28/10 per eccesso di delega, e quindi per violazione  degli artt. 76 e 77 Cost., il c.d. Decreto del “fare” (decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito nella legge 98/13) ha reintrodotto, per determinate controversie ed a partire dal 20 settembre 2013, la mediazione obbligatoria, ossia l’obbligo, in relazione a determinati tipi di controversie, di instaurare un procedimento di mediazione a pena di improcedibilità della domanda giudiziale.

Tale reintroduzione è avvenuta soltanto per quattro anni. La legge 98/13 stabilisce, infatti, al comma 1 bis dell’art 5, che “l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. La presente disposizione ha efficacia per i quattro anni successivi alla data della sua entrata in vigore…”.

Si è quindi rinviata alla scadenza del quadriennio la decisione – da prendere alla luce dei risultati raggiunti e dell’effettiva diffusione nel contesto sociale di un cultura della mediazione – relativa alla stabilizzazione dell’obbligatorietà della mediazione o al mantenimento della sola mediazione volontaria.

Al di là dei casi di mediazione obbligatoria ex lege, la citata riforma normativa del 2013 ha pure stabilito che il giudice può – anche in grado di appello e valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione ed il comportamento delle parti – disporre l’esperimento del procedimento di mediazione a pena di improcedibilità della domanda. Ovviamente si tratta dei casi in cui la mediazione non è già obbligatoria per legge, essendo stato già il legislatore a configurare l’espletamento del procedimento di mediazione come condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

È stato pure previsto un limite temporale all’emissione del provvedimento del giudice che invia le parti in mediazione. Esso deve essere adottato prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni ovvero, quando tale udienza non è prevista, prima della discussione della causa. Insieme al provvedimento che dispone la mediazione ex officio il giudice fissa (senza sospendere il processo, trattandosi di mero differimento) la successiva udienza dopo la scadenza del termine massimo di durata della procedura di mediazione (fissato dal nuovo art. 6 del d.lgs. 28/10 in tre mesi e non più in quattro) e, quando la mediazione non è già stata avviata, assegna anche contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione.

Ecco che la legge 98/13 attribuisce al giudice il potere di imporre alle parti di intraprendere un procedimento di mediazione nel corso del processo (in passato, invece, il giudice poteva solo invitarle a svolgere un tentativo stragiudiziale di mediazione, attendendo l’eventuale risposta positiva delle parti), in tal modo creando una nuova condizione di procedibilità (sopravvenuta) per ordine del giudice.

Si tratta di una norma che rimette al giudice l’effettività di tale canale di accesso alla mediazione (che opera non quale filtro preventivo alle liti, ma successivo e non per questo meno utile ed efficace) e può operare in ogni lite, purché abbia ad oggetto diritti disponibili.

Un ruolo centrale nella rinnovata mediazione è quindi assegnato, oltre che all’avvocato (la cui assistenza è ormai obbligatoria), anche al giudice, il quale può ordinare alle parti di tentare la mediazione (ma senza indicare l’organismo di mediazione come era invece previsto in una disposizione del Decreto “del fare” poi opportunamente eliminata nella legge di conversione 98/13, che ha quindi lasciato spazio all’autodeterminazione delle parti nella relativa scelta).

Sono quindi due le possibili fonti dell’obbligatorietà della mediazione: 1) la prima è normativa e introduce un obbligo ex lege, limitato ad alcune materie e circoscritto nel tempo per una fase di sperimentazione; 2) l’altra si affida alla valutazione discrezionale del giudice e, per questo motivo, non è vincolata nella sua operatività né ad alcune materie né ad un determinato lasso temporale.

Rimane poi, la possibilità per le parti di vincolarsi alla mediazione tramite forme di patto che precedono l’insorgenza della lite (ad esempio inserendo clausole di mediazione nei contratti nelle materie non previste dalla legge come obbligatorie) o di avviare procedimenti di mediazione volontariamente, senza, cioè, che vi sia un obbligo legale o contrattuale. In queste circostanze la mediazione seguirà anche regole diverse sulla base dei regolamenti di procedura degli organismi di mediazione.

2.     Tipologie di mediazione.

Sotto il profilo della fonte da cui scaturisce, sono quindi stati previsti, essenzialmente, tre tipi di mediazione:

1) facoltativa, quando viene liberamente scelta dalle parti. È sempre facoltativa anche la mediazione c.d. concordata, ossia la mediazione scaturente da una clausola di mediazione (si tratta della mediazione prevista nel contratto o nello statuto o nell’atto costitutivo di un ente; v. il comma 5 dell’art. 5 d.lgs. 28/10);

2) obbligatoria ex lege, quando è imposta dalla legge (e la legge 98/13 è entrata in vigore il 21.9.2013, senza considerare comunque i casi di mediazione obbligatoria già esistenti nel nostro ordinamento);

3) obbligatoria ex officio iudicis (o semplicemente ex officio o giudizialmente prescritta o by judge)quando è il giudice a disporre (con ordinanza emessa, come detto, prima della precisazione delle conclusioni o prima della discussione della causa) che le parti intraprendano, a pena di improcedibilità della domanda, un percorso di mediazione.

Come già osservato, tale tipo di mediazione è stata introdotta dalla citata legge 98/13. Nella precedente versione del d.lgs. 28/10 era prevista, invece, la mediazione giudizialmente sollecitata. Si prevedeva, infatti, che il giudice potesse solo invitare le parti ad iniziare un procedimento di mediazione (con chiara differenza rispetto alla conciliazione giudiziale, nella quale è lo stesso giudice a svolgere in ambito endoprocessuale le funzioni conciliative). Effettuata questa valutazione di opportunità (sulla via conciliativa) da parte del giudice, la scelta spettava poi alle parti, che potevano aderire o meno all’invito giudiziale. Le parti potevano ritenere utile, magari per la natura della controversia o per alcune particolari vicende fattuali, il ricorso ad un mediatore che potesse adoperarsi per il raggiungimento di un accordo amichevole.

Con la nuova mediazione ex officio iudicis è il giudice che stabilisce (valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti) se le parti debbano o meno andare in mediazione, senza che occorra il consenso delle parti e creando così una condizione di procedibilità della domanda prima inesistente.

Il giudice può prendere questa decisione anche in grado appello e in questo caso non è semplice stabilire se, in caso di mancata instaurazione del procedimento prescritto dall’Autorità giudiziaria, si debba dichiarare improcedibile l’appello o la domanda giudiziale (in molti casi proposta dall’appellato e accolta in primo grado).

3.     Connessione tra due cause di cui una sola soggetta a mediazione  obbligatoria.

Molto interessante è il caso della mediazione che risulti obbligatoria soltanto in relazione ad una delle cause connesse. È quanto accaduto, anche se sotto il vigore della mediazione su mero invito del giudice di cui alla precedente formulazione del d.lgs. 28/2010, presso il Tribunale di Verona (ordinanza 18 gennaio 2012), dove pendevano due giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo. Nel primo era stato ingiunto il pagamento di una somma di denaro a titolo di corrispettivo per forniture di autovetture e parti di ricambio che la ricorrente aveva assunto di aver effettuato a favore dell’ingiunta in esecuzione del contratto di concessione di vendita che, sempre a detta della ricorrente, doveva intendersi risolto per inadempimento della resistente seguito di invio di diffida ad adempiere rimasta priva di riscontro. In questo giudizio la resistente aveva proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo evidenziando il grave inadempimento contrattuale della controparte e chiedendo in via riconvenzionale la condanna di quest’ultima al risarcimento dei danni contrattuali.

Nel secondo giudizio era stata ingiunta – con decreto provvisoriamente esecutivo chiesto sempre dalla medesima ricorrente di cui sopra (concedente in relazione al contratto di concessione di vendita) – la consegna delle insegne che identificavano l’ingiunta come concessionaria-auto e officina autorizzata della ricorrente. Nel ricorso la ricorrente aveva dedotto che l’obbligo di restituzione delle insegne era previsto, oltre che nel medesimo contratto di concessione di vendita succitato, in un contratto di comodato, avente ad oggetto proprio tali insegne, contratto del quale le parti avevano previsto l’automatica risoluzione quale conseguenza della cessazione degli effetti del contratto di concessione di vendita. Dopo la costituzione dell’opponente, che aveva fatto valere le medesime argomentazioni già svolte nel primo giudizio, l’opposta, nel costituirsi, eccepiva che la controversia, riguardando anche il contratto di comodato sopra menzionato, avrebbe dovuto essere preceduta dal tentativo di conciliazione avanti al mediatore ai sensi dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. 28/2010.

Alla prima udienza, su concorde richiesta delle parti, i due giudizi venivano riuniti. Ecco che – poiché il primo giudizio verteva sulla risoluzione o meno del contratto di concessione di vendita e solo il secondo giudizio verteva anche sul contratto di comodato – era con esclusivo riferimento alla seconda causa, riunita però alla prima, che poteva porsi un problema di condizione di procedibilità per mancato esperimento del tentativo di conciliazione. Per dar modo alle parti di esperire, nel caso di specie, il procedimento di mediazione, sarebbe stato necessario separare la controversia riguardante il contratto di comodato da quella concernente il contratto di concessione di vendita e revocare il decreto ingiuntivo opposto (anche se un simile effetto avrebbe richiesto l’emissione di una sentenza, il che avrebbe complicato l’iterdel giudizio in quanto, in caso di esito negativo del procedimento di mediazione, si sarebbe dovuto promuovere un nuovo giudizio relativo al contratto di comodato). Proprio per evitare una tale eventualità e, al contempo, per favorire appieno la prospettiva conciliativa propria del procedimento di mediazione, il Tribunale di Verona ha ritenuto opportuno che al procedimento di mediazione le parti devolvessero tutte le controversie di cui si è detto, giovandosi del disposto dell’art. 5 comma 2° d.lgs. 28/2010 e, quindi, della mediazione su invito del giudice. Stante la stretta connessione, non solo giuridica ma anche fattuale, esistente tra la controversia relativa al contratto di concessione di vendita e quella relativa al contratto di comodato, il decidente ha considerato opportuno, al fine di rendere utilmente esperibile il procedimento di mediazione, demandare ad esso entrambe le controversie. Ciò che risulta di particolare interesse è che in questo caso il Tribunale di Verona non ha chiesto esplicitamente alle parti se volessero accettare l’invito del giudice, ma, a scioglimento della riserva, invece di fissare l’udienza per la verifica dell’accettazione dell’invito ad opera delle parti, ha direttamente rinviato la causa ad un’udienza successiva di oltre quattro mesi per consentire alle parti di esperire il procedimento di mediazione su tutti i rapporti dedotti in causa ed ha assegnato alle stesse il termine di quindici giorni dalla comunicazione del provvedimento per presentare la domanda di mediazione. Ciò ha fatto in quanto ha ritenuto che il consenso delle parti all’avvio della mediazione giudizialmente sollecitata (con riferimento, quindi, al contratto di concessione di vendita), consenso richiesto dal citato comma 2 dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010, potesse presumersi sulla base del loro contegno processuale, estrinsecatosi, per quanto riguarda l’opposta, nel richiedere espressamente l’avvio della mediazione e, con riferimento all’opponente, nel non aver sollevato obiezioni di sorta in relazione a tale eventualità.

Dopo le modifiche apportate dalla legge 98/13, che ha trasformato la mediazione ex officio in obbligatoria prevedendo che il provvedimento del giudice che invia le parti in mediazione faccia sorgere una condizione di procedibilità della domanda giudiziale, la soluzione adottata dal Tribunale diventa ancor più semplice da adottare in quanto non occorre verificare la sussistenza del consenso delle parti.

4.     Quando può disporsi la mediazioneex officio iudicis.

Per Trib. Milano, sezione IX civile, 29.10.2013 (in Giur. Italiana, 2014, 1; v. pure, Trib. Milano, sez. Impresa, ordinanza 11 novembre 2013, Pres. est., E. Riva Crugnola, in www.ilcaso.it) la mediazione ex officio iudicis è possibile anche per i procedimenti pendenti (in quanto il nuovo comma 2 dell’art. 5 del d.lgs. 28/10 attribuisce un nuovo potere discrezionale al magistrato che va considerato come una nuova facoltà squisitamente processuale e quindi applicabile dal momento dell’entrata in vigore della norma a tutti i procedimenti, compresi quelli pendenti), nonché pure per le materie diverse da quelle assoggettare a mediazione obbligatoria ex lege in base al comma 1 bis dell’art. 5 del d.lgs. 28/10 (il che sembra del tutto evidente se si considera che per le materie di cui al citato comma 1bisè già prevista una forma di mediazione obbligatoria ed a nulla varrebbe la mediazione ex officio iudicis). 

Pure Trib. Firenze, sez. II civile, 19.3.2014 ritiene che la mediazione ex officio iudicis  possa essere disposta anche per i procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della legge 98/13 (e ciò in forza del principio per cui tempus regit actum). Con riferimento ai giudizi pendenti va poi osservato che nelle materie già selezionate dal Legislatore per la mediazione obbligatoria ex lege può ritenersi sussistente una “presunzione semplice” di opportunità, avendo già la normativa formulato ex anteuna prognosi favorevole quanto all’efficacia del procedimento di mediazione.

Inoltre, secondo Trib. Roma, sez. XIII, 28.11.2013 la mediazione ex officioiudicis  sarebbe ammissibile anche nei giudizi di querela di falso in quanto, essendo ammissibile tra i mezzi istruttori anche la confessione (pure tramite interrogatorio formale), allora verrebbero in questione diritti disponibili. Tale soluzione non trova comunque molti consensi.

Ancora, per Trib. Firenze, sez. II civile, 27.11.2013 l’esistenza di una clausola arbitrale non impedisce il ricorso alla mediazione ex officio iudicis.

La mediazione è poi certamente utile per i conflitti che riguardino rapporti destinati a proiettarsi nel tempo, come quelli di vicinato o come le relazioni commerciali.

Ed anche la sussistenza di legami tra le parti è un elemento rivelatore dell’opportunità della mediazione (es. liti tra coniugi).

Si è poi reputata adeguata la mediazione in caso di controversie recanti un valore così contenuto da far apparire l’utilizzo del processo sproporzionato. Recentemente si è pure ritenuto che il giudice possa far uso dell’istituto anche per far fronte ad eventuali fasi di stasi del processo per motivi che prescindono dalle parti, come lo smarrimento di atti di causa (cfr. Trib. Brescia, sez. II, 28 novembre 2013).

Trib. Verona (dott. M. Vaccari) 27.1.2014 ha infine inviato le parti in mediazione tenendo pure conto della probabilità che l’iter del contenzioso si sarebbe complicato per la possibile proposizione di un regolamento di competenza e per l’eventualità di dover dar corso ad un’attività istruttoria diretta a chiarire il rapporto intercorso tra le parti, con conseguente lievitazione dei costi per le parti.

Trib. Milano (sez. IX Civile, est. Buffone) 29 ottobre 2013 ha ritenuto che la mediazione ex officio iudicis possa avere grande utilità quando tra le parti vi siano anche altre controversie senza la cui contestuale definizione sarebbe difficile trovare una composizione conciliativa. In un caso relativo ad un appello su un’opposizione a precetto per crediti di mantenimento non integralmente pagati il Tribunale di Milano osserva che “i mediatori ben potrebbero estendere la “trattativa (rectius: mediazione)” ai crediti maturati successivamente alla instaurazione dell’odierna lite e non fatti valere in questo processo, così essendo evidente che l’eventuale soluzione conciliativa potrebbe definire il conflitto, nel suo complesso, mentre la sentenza di appello potrebbe definire, tout court, solo una lite, in modo parziale”.

Presso il Tribunale di Caltanissetta la mediazione ex officio iudicis ha avuto ottimi risultati (il 90% delle cause inviate in mediazione si è estinto ex art. 309 c.p.c.), è stata solitamente disposta dopo che le parti avevano depositato le memorieexart. 183 c.p.c. in modo da valutare compiutamente la loro posizione, ma è stata pure disposta alla prima udienza (soprattutto nel caso di liti tra parenti o vicini) o al termine dell’istruttoria (ad esempio nel contenzioso bancario).

Anche il Tribunale di Trapani ha usato non di rado l’istituto della mediazione ex officio iudicis e con buoni risultati.

In altri Tribunali ha invece avuto un esito parecchio negativo, probabilmente perché è difficile pervenire  a soluzioni conciliative in certi tipi di contenzioso.

Quel che bisogna ora mettere in evidenza è che devono comunque venire in questione diritti disponibili.

Invero, tutti i tipi di mediazione (e quindi anche quella ex officio iudicis) sono esperibili se relativi a controversie civili e commerciali vertenti su diritti disponibili. Ciò pare piuttosto evidente in considerazione della natura negoziale della conciliazione e del fatto che la materia dei diritti disponibili costituisce un limite naturale di qualsiasi atto negoziale dispositivo.

Certo, è bene precisare che la causa è nella disponibilità delle parti anche quando riguardi situazioni giuridiche soggettive indisponibili allorché oggetto del processo non sia l’an del diritto soggettivo ma la riparazione monetaria di natura patrimoniale che consegue alla violazione dello stesso (v. quanto ha precisato, in tempi recenti, la Suprema Corte in tema di Legge cd. Pinto: «il diritto al processo giusto e di durata ragionevole è indisponibile e, come tale, non è soggetto a conciliazione; esso è però sicuramente diverso da quello alla riparazione monetaria di natura patrimoniale della sua violazione di certo disponibile» – Cass. Civ., SS.UU., sentenza 22 luglio 2013 n. 17781, Pres. Trifone, rel. Forte). È chiaro, dunque, come il fascio applicativo dell’istituto sia ampio e, soprattutto, come esso certamente includa le controversie in cui il giudice sia chiamato a monetizzare la lesione arrecata ad un diritto della persona.

La mediazione ex officio iudicis può poi essere disposta anche se una delle parti del processo è una Amministrazione Pubblica. Nelle fonti normative non si rinvengono, infatti, disposizioni che escludono le pubbliche amministrazioni dall’ambito di applicazione della disciplina introdotta. Pertanto, la normativa in materia di mediazione in ambito civile e commerciale trova applicazione anche in riferimento al settore pubblico, come pure si legge nella circolare del Dipartimento della funzione pubblica n. 9/2012.

Né è ostativo al procedimento di mediazione il fatto che una delle parti sia sottoposta ad una misura di protezione (es. interdizione o amministrazione di sostegno): in questo caso, però, in ragione delle eventuali limitazioni previsti nel decreto di amministrazione o di quelle discendenti dalla sentenza di interdizione, occorrerà, per l’eventuale conciliazione/transazione, esplicita autorizzazione dell’Autorità giudiziaria competente (Tribunale o giudice tutelare).

A tal ultimo proposito si noti che, con riferimento al procedimento di mediazione ci si è interrogati, tra le altre cose, sulle modalità di partecipazione al tavolo della mediazione dei soggetti incapaci. In proposito Trib. Varese (decreto Giudice tutelare) 13 febbraio 2012 ha autorizzato il tutore a partecipare a tutti gli incontri dei mediatori, in sostituzione dell’interdetto e ciò in considerazione del fatto che la valida trattazione del procedimento di mediazione richiede la piena capacità di colui che vi partecipa. Il giudice varesino ha poi anche precisato sia che è compito dei mediatori quello di accertare che al tavolo di mediazione si presentino soggetti con la piena capacità di disporre del diritto conteso, tenuto conto delle pubblicità ex lege sottese alle misure di protezione degli adulti incapaci e della diligenza professionale cui deve godere il mediatore, sia che, in caso di possibile ipotesi transattiva, il tutore deve comunque munirsi, per l’adesione e la sottoscrizione, dell’autorizzazione di cui all’art. 375, comma 1, n. 4 c.c.

Pare poi opportuno osservare che, come tutte le ordinanze, anche quella che dispone la mediazioneex officio è da ritenere revocabile ai sensi dell’art. 177 c.p.c. Rispetto a tale ordinanza, non impugnabile, è quindi ammissibile lo ius poenitendi  di cui all’art. 177 c.p.c.

Del pari abbastanza pacifico deve poi ritenersi l’esclusione del fatto che la sospensione del giudizio possa determinare anche sospensione del procedimento di mediazione che sia stato disposto nel corso di esso, dal momento che questo incidente, pur inserendosi nel giudizio, ha una propria autonomia, ricollegabile alla sua esclusiva finalità conciliativa, cosicché non pare risentire delle sorti del processo (in questo senso Trib. Verona 27.1.2014, che aggiunge che un riscontro a tale ricostruzione è rinvenibile nel disposto dell’art. 6,. comma 2, d. Lgs. 28/2010 che prevede che il termine per lo svolgimento della mediazione non è soggetto a a sospensione feriale).

Ci si deve invece interrogare sulle conseguenze derivanti dalla mancata attivazione ad opera delle parti della mediazione prescritta dal giudice.

La soluzione preferibile è quella che ritiene necessaria l’emissione di una sentenza di improcedibilità della domanda.

Resta però da chiarire se tale tipo di decisione sia da ritenere non adottabile ogniqualvolta venga instaurato il procedimento di mediazione disposto dal giudice o se occorra qualcosa di più per ritenere adempiuto l’ordine giudiziale.

5.     A quali condizioni può ritenersi adempiuto l’ordine del giudice.

Il ricordato provvedimento del Trib. Firenze, sez. II civile, 19.3.2014 chiarisce le condizioni verificatesi le quali può ritenersi correttamente eseguito l’ordine del giudice e può quindi considerarsi formata la condizione di procedibilità. Esse sono: 1) che vi sia stata la presenza personale delle parti; 2) che le parti abbiano effettuato un tentativo di mediazione vero e proprio.

Ed anche per Trib. Firenze, sez. spec. impresa, 17.3.2014 occorre la comparizione personale delle parti. Ecco che, avendo nel caso di specie i difensori delle parti, all’uopo delegati, manifestato al mediatore la mera volontà dei deleganti di non procedere all’esperimento della mediazione, il Tribunale di Firenze ha rimesso le parti di nuovo davanti al mediatore. In altri termini, secondo il Tribunale di Firenze nel caso in cui il giudice disponga la mediazione la condizione di procedibilità non è soddisfatta quando i difensori si recano dal mediatore e, ricevuti i suoi chiarimenti su funzione e modalità della mediazione, dichiarano il rifiuto di procedere oltre. In caso di mediazione ex officioè necessario che le parti compaiano personalmente (assistite dai propri difensori come previsto dall’art. 8 d.lgs. n. 28/2010) e che la mediazione sia effettivamente avviata.

Nel suo articolato e ben strutturato ragionamento il giudice fiorentino (ord. 19.3.2014) parte dalla considerazione per cui l’art. 5 e l’art. 8 del d.lgs. 28/10 sono formulati in modo ambiguo, posto che nell’art. 8 sembra che il primo incontro sia destinato solo alle informazioni date dal mediatore ed a verificare la volontà di iniziare la mediazione (l’art. 8 prevede, infatti, che “durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento”). Tuttavia, nell’art. 5, comma 2bis, si parla di “primo incontro concluso senza l’accordo’‘. Sembra dunque che il primo incontro non sia una fase estranea alla mediazione vera e propria. Non avrebbe molto senso, secondo il Tribunale di Firenze, parlare di ‘mancato accordo’ se il primo incontro fosse destinato non a ricercare l’accordo tra le parti rispetto alla lite, ma solo la volontà di iniziare la mediazione vera e propria. Ciò a prescindere dalle difficoltà di individuare con precisione scientifica il confine tra la fase c.d. preliminare e la mediazione vera e propria (difficoltà ben nota a chi ha pratica della mediazione), data la non felice formulazione della norma.

Pertanto, il Tribunale di Firenze ha ritenuto necessario, al fine di spiegare la detta ambiguità interpretativa, ricostruire la regola avendo presente lo scopo della disciplina, anche alla luce del contesto europeo in cui si inserisce (direttiva 2008/52/CE).

Sei sono gli argomenti che hanno portato il Tribunale di Firenze a ritenere necessaria, per la formazione della condizione di procedibilità della domanda giudiziale dopo la mediazione ex officio iudicis, la presenza effettiva delle parti nel procedimento di mediazione e l’effettivo avvio di un sostanziale tentativo di mediazione:

1) i difensori, definiti mediatori di diritto dalla stessa legge, hanno sicuramente già conoscenza della natura della mediazione e delle sue finalità. Se così non fosse non si vede come potrebbero fornire al cliente l’informazione prescritta dall’art. 4, comma 3,  del d.lgs 28/2010, senza contare che obblighi informativi in tal senso si desumono già sul piano deontologico (art. 40 codice deontologico ). Non avrebbe dunque senso imporre l’incontro tra i soli difensori e il mediatore solo in vista di un’informativa;

2) la natura della mediazione esige che siano presenti di persona anche le parti: l’istituto mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto: questo implica necessariamente che sia possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore. L’assenza delle parti, rappresentate dai soli difensori, dà vita ad altro sistema di soluzione dei conflitti, che può avere la sua utilità, ma non può considerarsi mediazione. D’altronde, questa conclusione emerge anche dall’interpretazione letterale: l’art. 5, comma 1 bis e l’art. 8 prevedono che le parti esperiscano il (o partecipino al) procedimento mediativo con l’assistenza degli avvocati, e questo implica la presenza degli assistiti;

3) ritenere che la condizione di procedibilità sia assolta dopo un primo incontro in cui il mediatore si limiti a chiarire alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione vuol dire in realtà ridurre ad un’inaccettabile dimensione notarile il ruolo del giudice, quello del mediatore e quello dei difensori. Non avrebbe ragion d’essere una dilazione del processo civile per un adempimento burocratico del genere. La dilazione si giustifica solo quando una mediazione sia effettivamente svolta e vi sia stata un’effettiva chance di raggiungimento dell’accordo alle parti. Pertanto occorre che sia svolta una vera e propria sessione di mediazione. Altrimenti, si porrebbe un ostacolo non giustificabile all’accesso alla giurisdizione;

4) l’informazione sulle finalità della mediazione e le modalità di svolgimento ben possono in realtà essere rapidamente assicurate in altro modo: 1. Dall’informativa che i difensori hanno l’obbligo di fornireexart. 4 cit., come si è detto; 2. dalla possibilità di sessioni informative presso luoghi adeguati (v. direttiva europea) e, per quanto concerne il Tribunale di Firenze, presso l’URP (v. articolo 11 del protocollo  Progetto  Nausicaa2 ) e  da ultimo, sempre nell’ambito di tale Progetto, presso l’ufficio di orientamento gestito dal Laboratorio Unaltromodo dell’Università di Firenze;

5) l’ipotesi che la condizione si verifichi con il solo incontro tra gli avvocati e il mediatore per le informazioni appare particolarmente irrazionale nella mediazione disposta dal giudice: in tal caso, infatti, si presuppone che il giudice abbia già svolto la valutazione di ‘mediabilità’ del conflitto  (come prevede l’art. 5 cit.: che impone al giudice di valutare ”la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti”), e che tale valutazione si sia svolta nel colloquio processuale con i difensori. Questo presuppone anche un’adeguata informazione ai clienti da parte dei difensori; inoltre, in caso di lacuna al riguardo, lo stesso giudice, qualora verifichi la mancata allegazione del documento informativo, deve a sua volta informare la parte della facoltà di chiedere la mediazione. Come si vede, dunque, sono previsti plurimi livelli informativi e non è pensabile che il processo venga momentaneamente interrotto per un’ulteriore informazione anziché per un serio tentativo di risolvere il conflitto;

6) l’art. 5 della direttiva europea 2008/52/CE distingue le ipotesi in cui il giudice invia le parti in mediazione rispetto all’invito (sempre da parte del giudice) per una semplice sessione informativa: un ulteriore motivo per ritenere che nella mediazione disposta dal giudice viene chiesto alle parti (e ai difensori) di esperire la mediazione e cioè l’attività svolta dal terzo imparziale finalizzata ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole (secondo la definizione  data dall’art. 1 del d.lgs. n. 28/2010) e non di acquisire una mera informazione e di rendere al mediatore una dichiarazione sulla volontà o meno di iniziare la procedura mediativa.

Alla luce delle considerazioni che precedono il giudice fiorentino ha considerato quale criterio fondamentale la ragion d’essere della mediazione, che ruota attorno all’esigenza di tentare realmente di pervenire ad una soluzione non giudiziale della controversia, ed ha affermato la necessità che le parti compaiano personalmente (assistite dai propri difensori come previsto dall’art. 8 d.lgs. n. 28/2010) e che la mediazione sia effettivamente avviata.

Un’altra strada interpretativa è quella seguita (allo stato) dal Tribunale di Milano (strada, però, inaugurata prima della presa di posizione di Firenze): la condizione di procedibilità è soddisfatta anche quanto sia tenuto solo il primo incontro di mediazione senza accordo (l’incontro di cui all’art. 8 comma I d.lgs. 28/2010). Le differenze non sono di scarsa rilevanza. Nel primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti ed i loro avvocati ad esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento. Si tratta, dunque, secondo il Tribunale di Milano, dell’incontro dedicato alla cd. valutazione di mediabilità e, cioè, dell’anticamera del procedimento mediativo.

Secondo il primo indirizzo illustrato (Tribunale di Firenze), per soddisfare la condizione di procedibilità questo primo incontro non basta: occorre dare effettivamente inizio alla procedura. Per il secondo indirizzo segnalato (Tribunale di Milano) questa prima relazione al tavolo di mediazione è già sufficiente.

La lettura che conferisce maggiore razionalità all’istituto è certamente quella fiorentina e ciò almeno per quanto riguarda l’effettivo tentativo di mediazione, considerato che è invece difficile sostenere che le parti debbano essere personalmente presenti, essendo loro diritto conferire eventualmente una procura di carattere sostanziale ad un altro soggetto (che può pure essere l’avvocato difensore).

Sussiste, però, un nodo interpretativo da risolvere. Il Legislatore ha espressamente regolato il regime giuridico sotteso alla condizione di procedibilità e previsto, all’art. 5 comma 2 bis, che «quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo». La disposizione, dunque, sembra richiamare espressamente “il primo incontro” di cui all’art. 8 comma I cit.

Il giudice non potrebbe quindi esigere, al fine di ritenere correttamente formata la condizione di procedibilità, che le mediazione sia stata tentata anche oltre il primo incontro.

Tuttavia, egli può comunque richiedere che in questo primo incontro il tentativo di mediazione sia stato effettivo.

Certo, è vero che può sembrare che in questo primo incontro il mediatore potrebbe non avere neppure la possibilità di tentare un accordo se le parti non vogliono che ciò accada. Infatti, secondo quanto previsto dall’art. 8 del nuovo d.lgs. 28/10, “durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento”.

Una prima lettura delle disposizioni normative pare giustificare un’interpretazione per cui se le parti e i loro avvocati non vogliono effettuare un vero tentativo di conciliazione (magari per non pagare il compenso all’organismo di mediazione) ben possono esprimere in questa prima parte del primo incontro, di natura preliminare, la loro volontà contraria all’inizio di una mediazione e il tuto finisce lì. La disposizione normativa in questione, così interpretata, sarebbe molto discutibile in quanto rischierebbe di rendere la mediazione di fatto facoltativa. Il mediatore potrebbe pure pensare, alla luce di tale disposizione normativa, di non potere neppure tentare di verificare se effettivamente le posizioni delle parti sono inconciliabili. Se, infatti, in quest’ultimo caso si può parlare di un fallimento della mediazione, nel caso teoricamente consentito dal legislatore di manifestazione (anche ad opera di una sola delle parti) della sua volontà contraria alla mediazione vi sarebbe un aborto legale della mediazione. Peraltro, se si ritiene che ogni parte può impedire fin dall’inizio l’effettivo svolgimento del procedimento di mediazione, ognuno dei partecipanti sarebbe titolare di un diritto potestativo alla chiusura del procedimento e gli altri sarebbero tutti in una posizione di soggezione. Ed è da credere che tale diritto potestativo verrebbe spesso esercitato se si considera che, come accennato, è stato aggiunto il comma 5terdell’art. 17 del d.lgs. 28/10, secondo cui nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione.

Tuttavia, una corretta interpretazione (in linea con la ratio della direttiva europea – ed è noto che gli operatori nazionali sono tenuti, secondo la Corte di giustizia UE, a tentare un’interpretazione delle disposizioni nazionali conforme alle norme europee – che mira ad agevolare il più possibile la soluzione delle controversie in modo alternativo a quello giudiziario) è quella che ritiene che il mediatore, nell’invitare le parti e i loro procuratori a esprimersi sulla “possibilità” di iniziare la procedura di mediazione, deve verificare se vi siano i presupposti per poter procedere nell’effettivo svolgimento della mediazione (il cui procedimento comunque già inizia con il deposito dell’istanza di mediazione). Tali presupposti sono, ad esempio, l’esistenza di una delibera che autorizza l’amministratore di condominio a stare in mediazione (così come previsto dalla legge 220/12) o l’esistenza di un’autorizzazione del giudice tutelare se a partecipare alla mediazione deve anche essere un minore ovvero la presenza di tutti i litisconsorti necessari. Il mediatore non dovrebbe chiedere, come invece ritenuto da molti, se le parti vogliono andare avanti. Egli non deve verificare la “volontà” delle parti e dei procuratori, ma li invita ad esprimersi sulla “possibilità ” di iniziare la procedura di mediazione. E nel punto in cui la norma dice che “nel caso positivo, procede con lo svolgimento” essa non va intesa nel senso che se gli avvocati dicono che c’è tale possibilità si va avanti, mentre se dicono che non sussiste questa possibilità non si procede oltre. È il mediatore che, tenuto conto di quello che dicono le parti e gli avvocati, valuta se sussiste questa possibilità (nella norma, infatti, non si legge “nel caso di risposta positiva”, ma “nel caso positivo”). Si comprende, quindi, il motivo per cui il comma 5 ter dell’art. 17 del d.lgs. 28/10 contempla (come il comma 2 bisdell’art. 5) la possibilità di un accordo tra le parti in sede di primo incontro (prevedendo che in caso di mancato incontro non è dovuto compenso all’organismo).

Questa interpretazione è stata fatta propria nel 2014 dal Tribunale di Palermo (I Sezione civile), che, sulla base degli argomenti sopra indicati, ha affermato che la mediazione disposta dal giudice in corso di causa deve svolgersi in modo effettivo durante il primo incontro tra le parti e il mediatore, pena l’improcedibilità sopravvenuta del giudizio.

Con questa ordinanza del 16 luglio 2014, resa in una causa in materia di responsabilità sanitaria nella quale disposta ed effettuata la CTU, il giudice ha ritenuto di formulare in primo luogo una proposta conciliativa ai sensi dell’articolo 185 bis c.p.c. (con effetti ex articolo 91 c.p.c.

La proposta formulata dal giudice siciliano ha recepito sostanzialmente la CTU ed ha invitato le parti a riflettere sui rispettivi “vantaggi” di tale possibile soluzione negoziale, evidenziando sia per l’attore sia per il convenuto le diverse opportunità derivanti dall’adesione alla proposta conciliativa giudiziale. Il tribunale ha motivato brevemente le ragioni che erano alla base della proposta e le ragioni che dovevano indurre le parti a valutare con attenzione l’opportunità di una loro adesione.

Nell’ordinanza in questione il Tribunale di Palermo, dopo aver formulato la proposta conciliativa, ha preannunciato alle parti che in caso di mancata conciliazione in conseguenza della proposta formulata sarebbe stata disposta dal giudice la mediazione ex officio (ritenendola possibile per i processi già pendenti all’entrata in vigore della riforma del 2013 e precisando che, anzi, nelle materie già selezionate dal legislatore per la mediazione obbligatoria ex lege ,come la responsabilità medico-sanitaria di cui al giudizio in questione, poteva ritenersi sussistente una “presunzione semplice” di opportunità, avendo già la normativa formulato ex ante una prognosi favorevole quanto all’efficacia del procedimento di mediazione). Nel preannunciare questo tipo di provvedimento sono stati pure richiamati espressamente gli orientamenti del Tribunale di Milano e del Tribunale di Firenze.

Il giudice palermitano ha nella sostanza condiviso la sostanza dell’impostazione fiorentina, ritenendo che la mediazione debba effettivamente svolgersi (aggiungendo qualche argomento al riguardo, tratto da una interpretazione della lettera dell’art. 8 d.lgs. 28/2010, da leggere nel senso dell’impossibilità che il mediatore si accontenti dell’accertamento della volontà delle parti di procedere oltre, dovendo invece verificare l’effettiva possibilità del tentativo di conciliazione), ma discostandosi dall’interpretazione del giudice fiorentino sotto il profilo della presenza personale delle parti (“considerato che è invece difficile sostenere che le parti debbano essere personalmente presenti, essendo loro diritto conferire eventualmente una procura di carattere sostanziale ad un altro soggetto”).

Nell’ordinanza palermitana si precisa, quindi, che secondo la normativa vigente il mediatore al primo incontro non debba verificare la “volontà” delle parti e dei procuratori, ma debba accertare la “possibilità” di iniziare la procedura di mediazione. Aderire all’orientamento milanese che ritiene sufficiente per la condizione di procedibilità un primo incontro destinato alla informativa ed a una formale valutazione della mediabilità condurrebbe, peraltro, ad un “aborto legale della mediazione”.

In conclusione, il Tribunale di Palermo formula alle parti una proposta conciliativa e fissa per la verifica della posizione delle parti sulla proposta conciliativa un’udienza riservandosi di disporre in tale udienza, in caso di mancata accettazione della proposta conciliativa, l’esperimento del procedimento di mediazione ex officio iudicis quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, condizione che si riterrà formata soltanto se nel primo incontro il tentativo di mediazione sia stato effettuato dalle parti in modo effettivo.

Richiamando in particolar modo quest’ultimo provvedimento del Tribunale di Palermo e tutte gli altri argomenti già fatti valere per la mediazione ex officio, di recente il Tribunale di Firenze ha ritenuto necessario l’espletamento effettivo del tentativo di conciliazione (alla presenza personale delle parti) anche nella mediazione obbligatoria ex lege (ordinanza del 26.11.2014, est. Breggia).

Analogamente, con l’ordinanza del 16 luglio 2014 il Tribunale di Roma (XIII Sezione civile – Giudice Moriconi) nel corso di un giudizio (in materia di responsabilità medica) nel quale era stata acquisita una CTU disposta nel procedimento ai fini della conciliazione della lite (articolo 696-bis del Cpc.) ed in sede di trasformazione del rito ex articolo 702-ter, comma 3, Cpc, ha formulato una proposta conciliativa ed ha disposto immediatamente per il caso della mancata adesione delle parti la mediazione delegata, con l’avvertenza che è richiesta alle parti l’effettiva partecipazione al procedimento di mediazione demandata e che la mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione demandata dal giudice, oltre a poter attingere alla stessa procedibilità della domanda, è in ogni caso comportamento valutabile nel merito della causa. Principio di effettività della mediazione applicato dunque alla mediazione demandata dal giudice (articolo 5, comma 2, Dlgs 28/2010) ma che già viene ritenuta applicabile anche alla mediazione obbligatoria preventiva ex lege (articolo 5, comma 1-bis, Dlgs 28/2010).

6.     La proposta conciliativaexart. 185 bis c.p.c.

Ai sensi dell’art. 185 bis c.p.c. (Proposta di conciliazione del giudice), «il giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione, formula alle parti ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. La proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice».

Anche questa previsione normativa, di carattere processuale, è applicabile ai procedimenti pendenti e ciò in applicazione del principio tempus regit actum (Trib. Milano, sez. X civ., ordinanza 4 luglio 2013, est. A. Simonetti[2]). Ma oltre al fatto che l’art. 185 bis c.p.c. è norma processuale, e quindi applicabile ai processi pendenti in virtù del principiotempus regit actum, vi è anche il fatto che l’art. 77 del decreto legge 69/2013, che introduce la proposta di conciliazione del giudice, non contempla disposizioni transitorie ed il suo regime di efficacia temporale discende dalla norma finale (art 86), secondo la quale il decreto entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione.

Il Legislatore ha voluto espressamente tenere distinte, da un lato, la proposta “transattiva” e dall’altra quella “conciliativa” (e, infatti, modifica, in questi termini, anche il contenuto dell’art. 420 c.p.c.). La proposta avente natura transattiva è diretta a provocare nelle parti la transazione (art. 1966 c.c.), ovvero il contratto col quale i litiganti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine alla loro lite. La proposta conciliativa, invece, propone la composizione di una controversia a seguito dello svolgimento di una attività di mediazione che può anche prescindere da reciproche concessioni e non risolversi in una esternazione negoziale.

Per meglio comprendere la distinzione tra proposta transattiva e proposta conciliativa si valutino le due ordinanze di seguito indicate.

Trib. Fermo (ordinanza 17 ottobre 2013, est. Marziale) propone la soluzione “transattiva della lite” mediante accordo compositivo della controversia con cui si realizzi la “corresponsione, da parte dell’opponente, della somma relativa alla sola sorte capitale con esclusione degli accessori vari; spese compensate”.

Trib. Milano (ordinanza 27 novembre 2013, est. Vannicelli) propone una “soluzione conciliativa” della lite invitando i litiganti a valutare “la possibilità di rinunciare reciprocamente a qualsiasi pretesa e contro pretesa creditoria”.

Evidentemente, sia la proposta conciliativa che quella transattiva sono tanto più facilmente accoglibili quanto più chiaro è il panorama normativo-giurisprudenziale di riferimento.

Infatti, secondo Trib. Roma, sez. XIII, ordinanza 23 settembre 2013 (M. Morriconi) l’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, che legittima l’applicazione dell’art. 185 bis c.p.c., trova il suo fondamento logico nell’evidente dato comune che è meno arduo pervenire ad un accordo conciliativo o transattivo se il quadro normativo dentro il quale si muovono le richieste, le pretese e le articolazioni argomentative delle parti sia fin dall’inizio sufficientemente stabile, chiaro e in quanto tale prevedibile nell’esito applicativo che il Giudice ne dovrà fare.

La giurisprudenza di merito ha poi giudicato applicabile l’art. 185bisc.p.c. anche alle liti familiari, come strumento per potere proporre un assetto compositivo della lite e dunque per raggiungere un accordo omologabile dal giudice (v. art. 337octiesc.c.).

In particolare, con decreto del 26 giugno 2013 il Tribunale di Milano, sez. IX civ., ha affermato che l’art. 185bisc.p.c., pur non espressamente richiamato nel rito famiglia, costituisce l’espressione di un principio generale (e infatti si rinviene anche nell’art. 420 c.p.c.), pure per il fatto di distinguere espressamente tra proposta transattiva e conciliativa e per la difficoltà di ammettere settori o comparti divisi dell’ordinamento in cui il giudice possa o non possa aiutare i litiganti a pervenire ad un assetto condiviso per la soluzione pacifica della causa.

L’applicazione dell’istituto della proposta conciliativa ha poi condotto la Sezione IX civile del Tribunale di Milano ad una sperimentazione che vede concludersi con accordo l’80% dei procedimenti ex artt. 316 comma IV c.c. (cd. rito partecipativo).

Si è anche ritenuto che con la propostaexart. 185 bis c.p.c. si possa tenere pure conto delle altre liti tra le parti, non oggetto dello specifico processo pendente, ma pur sempre connesse con lo stesso, in modo che l’assetto conciliativo vada a comporre il conflitto nel suo complesso non limitandosi a definire la singola controversia. E così Trib. Milano, sez. IX, 14 novembre 2013, Pres. rel. Dell’Arciprete, ha formulato alle parti la seguente proposta conciliativa: “la ex moglie potrebbe acquistare la quota di casa del marito (avendone fatto proposta): euro 160.000,00 (valore della quota da liquidare) da cui detrarre la quota del TFR che le spetta (euro 30.000,00= con residuo da versare di euro 130.000,00. Per l’effetto, l’assegno divorzile verrebbe ridotto ad euro 550,00 mensili)”. La proposta è stata accolta dalle parti con delle modifiche apportate dalle stesse. Ed effettivamente è da ritenere possibile la formulazione da parte del giudice di una proposta conciliativa che comprenda anche pretese delle parti relative a liti diverse da quella oggetto di causa o addirittura ancora da instaurare. Invero, se il mediatore non è limitato nella sua attività conciliativa alle richieste formulate in giudizio dalle parti, anche il giudice, nel congegnare una proposta conciliativa, può fare riferimento a pretese estranee al contenzioso davanti a lui pendente.

7.     Alcune particolari questioni in tema di proposta conciliativa.

a)      La proposta conciliativa va motivata?

Generalmente i giudici o non motivano o motivano comunque poco le loro proposte conciliative e ciò per evitare anticipazioni di giudizio. Certo, qualcuno inserisce un minimo di motivazione (anche a costo di anticipare non tanto il giudizio, quanto gli elementi di cui si terrà conto in sede di definizione della causa[3]) perché questo aiuta le parti ad acquisire una maggiore consapevolezza della convenienza della soluzione proposta.

In questo senso si è orientato anche il Tribunale di Roma (sez. XIII, ordinanza del 4/11/2013, inGuida al diritto 2013, 49-50, ins., IV), che ha affermato che “benché la legge non preveda che la proposta formulata dal giudice ai sensi dell’art. 185 bis c.p.c. debba essere motivata (le motivazioni dei provvedimenti sono funzionali alla loro impugnazione, e la proposta ovviamente non lo è, non avendo natura decisionale), possono essere indicate alcune fondamentali direttrici utili a orientare le parti nella riflessione sul contenuto della proposta e nell’opportunità e convenienza di farla propria, ovvero di svilupparla autonomamente”[4].

Spesso accade che il giudice formuli ai procuratori o anche alle parti, se presenti, la proposta conciliativa in modo informale e se gli avvocati o le parti presenti si dimostrano disponibili viene fissata un’udienza apposita per la formulazione formale della proposta. Ciò pare un modo di procedere che può anche essere condivisibile, ma che, se non perviene alla formale formulazione della proposta, impedisce di applicare l’art. 91 c.p.c., con il venir meno, quindi, di un elemento (quello della possibile condanna alle spese anche in caso di vittoria del giudizio) che può eliminare qualche residuo dubbio nelle parti nell’accettare la proposta.

b)      In quale tipo di contenzioso la proposta conciliativa può produrre migliori risultati?

Generalmente è il settore delle pretese di carattere economico quello in cui le proposte conciliative possono portare risultati particolarmente positivi.

Grande successo ottiene, poi, la proposta formulata nei giudizi di separazione e divorzio o comunque in quelli relativi all’ambito familiare[5]. A quest’ultimo proposito si ribadisce che l’art. 185 bis c.p.c., pur non espressamente richiamato nel rito famiglia (per difetto di coordinamento) costituisce l’espressione di un principio generale (anche nell’art. 420 c.p.c. come riformato), anche perché sarebbe difficile distinguere settori dell’ordinamento in cui il giudice possa o non possa aiutare i litiganti a pervenire ad un assetto condiviso per la soluzione pacifica della causa (così Trib. Milano, sez.  IX  civ., decreto 26 giugno 2013).

Pure ottimi risultati sono stati ottenuti nei giudizi possessori o cautelari, nelle cause in materia di sinistri stradali e di risarcimenti danni da infiltrazioni.

È abbastanza difficile che la proposta possa portare a buoni risultati con riferimento alle cause ereditarie. Prescindendo dal tipo di contenzioso secondo Tribunale Milano 21/3/2014 al cospetto di una causa che, già in itinere, abbia avuto un corso sproporzionato rispetto ai termini reali della controversia, è opportuno che il giudice formuli una proposta conciliativa, sulla base dei fatti pacifici e non contestati.

Comunque, in generale la proposta conciliativa o la mediazione possono essere sperimentate in qualunque tipo di controversia se si percepisce che le parti sono disponibili a trovare una modalità alternativa di definizione della lite. Spesso non è una questione di materie, ma di tipologia di parti.

c)      In quale momento processuale è opportuno formulare la proposta conciliativa?

Non si può dire in astratto quando è bene formulare la proposta conciliativa. In alcuni casi potrebbe essere fatta subito (soprattutto se i fatti essenziali della causa sono pacifici). In altri giudizi può attendersi il momento dell’ammissione delle prove, mentre talvolta essa può avere margini di successo dolo dopo l’espletamento della CTU. Per esempio, è meglio aspettare l’esito della CTU nelle cause di responsabilità medica, considerato che in assenza di un elaborato del CTU che accerti la responsabilità del medico, né quest’ultimo né la struttura si accorderanno mai. Quando, invece, la CTU è stata espletata si andrà a sentenza se è stata esclusa l’imperizia del medico e si potrà, invece, formulare una proposta conciliativa se il CTU ha concluso per la responsabilità del medico. Peraltro, la proposta conciliativa formulata dal giudice è ritenuta dai dirigenti delle strutture mediche idonea per escludere loro responsabilità per il caso di transazione.

Secondo alcuni nei giudizi risarcitori è meglio formulare la proposta prima della CTU sul quantum del danno subito, se le prove orali danno prova dell’an, riducendo di circa un 40% le richieste di parte attrice. Infatti, dopo la CTU in questione si conosce l’ammontare del danno e l’unico ad avere interesse alla proposta conciliativa è il convenuto e non l’attore, il cui unico vantaggio sarebbe quello di ottenere prima quello che potrebbe comunque ottenere dopo.

Alcuni giudici ritengono di formulare la proposta conciliativa dopo avere sollecitato gli avvocati ad addivenire ad un accordo stragiudiziale e dopo avere constatato il fallimento delle trattative per questioni “di principio”.

Diversi giudici provano a formulare proposte conciliative talvolta in prima udienza, ma più spesso dopo un minimo di attività istruttoria o quantomeno dopo avere deciso sull’ammissione dei mezzi istruttori. È vero che la proposta avanzata prima dell’ammissione dei mezzi di prova evita di “sbilanciare” le posizioni. Tuttavia, ciò che importa non è fornire la soluzione maggiormente imparziale, ma quella che possa essere accettata da entrambe le parti con meno difficoltà, quella, cioè, che le scontenti meno e le scontenti (e le accontenti) sostanzialmente nella stessa misura. Pertanto, anche formulare la proposta dopo l’ammissione delle prove e dopo l’inizio della fase istruttoria può solo compromettere l’accettazione della stessa da parte di chi ritiene che il giudizio si sia orientato in suo favore. Tuttavia, sarà compito del giudice saper individuare quelle condizioni della proposta che possano essere accettate dalle parti a quel punto del giudizio e tenuto conto dell’attività istruttoria compiuta.

In alcuni casi la proposta è stata anche formulata alla fine dell’istruttoria. Sulla possibilità di formulare proposte conciliative anche ad istruttoria finita occorre comunque svolgere qualche ulteriore considerazione. 

d)      Può formularsi la proposta conciliativa dopo la fine dell’istruttoria?

Attenendosi al dato letterale dell’art. 185 bis c.p.c. il potere del giudice di formulare la proposta in questione trova un evidente limite è temporale. La norma prevede che “il giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione, formula alle parti ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa”.

L’inciso normativo “sino a quando è esaurita l’istruzione” indica, quindi, come limite temporale per la formulazione della proposta conciliativa, quello della fase istruttoria. Alla base di quest’impostazione legislativa sta sicuramente la considerazione per cui, dovendo la proposta essere congegnata in termini sufficientemente specifici e dettagliati, in una fase processuale in cui è già chiusa l’attività istruttoria al giudice non resta che rimettere le parti alla decisione, posto che, altrimenti, si rischierebbe anticipare il contenuto della probabile decisione finale.

Tuttavia, il limite temporale costituito dalla chiusura della fase istruttoria riguarda il dovere di formulare la proposta conciliativa fissato dall’art. 185 bis c.p.c.,

Nell’art. 185 bis c.p.c. non si prevede la possibilità di una proposta conciliativa ma un obbligo di formularla, sempre che ciò sia possibile. In generale vi è una differenza tra la facoltà di esercitare un potere e l’obbligo di compiere una certa attività quando questa è possibile (in questo caso in considerazione della natura del giudizio, del valore della controversia e dell’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto).

Certo, poiché si può sempre dire che le circostanze del caso concreto impediscono di formulare la proposta conciliativa, allora potrebbe sembrare facoltativa anche la formulazione della proposta conciliativa. In realtà, se l’art. 185 bis c.p.c. avesse previsto che il giudice “può formulare”, allora si sarebbe trattato di un vero potere discrezionale. Poiché la norma stabilisce che il giudice “formula” sempre una proposta conciliativa alle parti “ove possibile avuto riguardo” ad una serie di circostanze, allora il giudice dovrebbe sempre almeno motivare sull’esistenza nel caso di specie della possibilità o meno di formulare la proposta.

Quindi, l’art. 185 bis c.p.c. esclude l’obbligo del giudice di formulare la proposta dopo la chiusura dell’istruttoria.

Ma sembra preclusa anche la semplice facoltà di formulare una proposta conciliativa dopo la chiusura dell’istruttoria.

Infatti, l’art. 185 c.p.c. stabilisce  che “il giudice istruttore, in caso di richiesta congiunta delle parti, fissa la comparizione delle medesime al fine di interrogarle liberamente e di provocarne la conciliazione. Il giudice istruttore ha altresì facoltà di fissare la predetta udienza di comparizione personale a norma dell’articolo 117… Il tentativo di conciliazione può essere rinnovato in qualunque momento dell’istruzione. Quando le parti si sono conciliate, si forma processo verbale della convenzione conclusa. Il processo verbale costituisce titolo esecutivo”.

Pertanto, poiché il tentativo di conciliazione “può essere rinnovato in qualunque momento dell’istruzione”, chiusa l’istruttoria non vi è più né l’obbligo né la facoltà di formulare la proposta conciliativa.

Invece, secondo Trib. Milano, Sez. X, ord. 4.7.2013 quando il giudice è chiamato non a farsi promotore del contenuto di una transazione/conciliazione da sottoporre all’accettazione delle parti, ma più semplicemente ad esperire il tentativo di conciliazioneexart 185 cpc,, allora la legge non pone momenti preclusivi, stabilendo che la facoltà del giudice può essere esercitata in qualunque stato e grado del processoexartt. 117 e 185 comma 1 cpc.

In tal modo si tende a differenziare una funzione facilitativa della composizione della lite, priva di una specifica proposta, ed una funzione più specificamente propositiva.

Comunque, l’esigenza che porta ad operare queste differenze è il fatto che, se è vero che una proposta di composizione della lite che venga fatta ad istruttoria chiusa presenta un vantaggio per il sistema e per le stesse parti (anche in termini di risparmio sulle spese processuali) più modesto rispetto ad una composizione che avviene all’inizio della causa, tuttavia è anche vero che l’accordo raggiunto alla fine della causa ragionevolmente preclude ulteriori gradi di giudizio, che , quanto a tempi , sono spesso superiori a quelli di primo grado.

Non sembra cogliere nel segno, poi, l’obiezione relativa alla possibile anticipazione del giudizio contenuta in una proposta operata ad istruttoria conclusa.

Non solo, infatti, il giudice si pronuncia spesso in corso di causa sul merito della stessa (ammettendo le prove, negando o concedendo la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo, statuendo sull’emissione dell’ordinanza provvisoria di rilascio in materia di sfratti, modificando l’ordinanza presidenziale nel giudizi di separazione e divorzio, emettendo cautelari in corso di causa, ecc.), ma ciò che più conta è che la proposta spesso viene fatta tenendo conto soprattutto del possibile punto di incontro tra le parti e di quelle soluzioni “digeribili” ad opera delle stesse, senza granchè valutare “torti” e “ragioni” se non nei limiti in cui questi siano tali che portano uno e entrambe le parti ad accettare determinate condizioni.

Inoltre, questo pericolo di anticipazione (magari parziale, relativamente ad alcune questioni che non necessitano istruttoria) del giudizio finale esiste anche se la proposta viene fatta in corso di istruttoria, tanto che è lo stesso art. 185 bis c.p.c. che prevede che la formulazione della proposta non può costituire causa di ricusazione.

Ancora si osservi che, di contro, la proposta avanzata all’inizio del giudizio si presta all’obiezione per cui il giudice non avrebbe ancora sufficienti elementi e si affiderebbe solo al suo intuito, con l’alea che ne deriva.

e)      Le parti devono prendere posizione sulla proposta conciliativa?

Secondo il Tribunale di Roma (sez. XIII, 29/05/2014 n. 14521, in Guida al diritto 2014, 24, ins., II, 53, con nota di MARINARO) in relazione alla proposta conciliativa del giudice non può ontologicamente affermarsi a carico di alcuna delle parti l’obbligo cogente di accogliere la stessa. Ma il fatto stesso che la legge preveda la possibilità che il giudice formuli la proposta implica che non è consentito alle parti non prenderla in alcuna considerazione. Le parti hanno infatti l’obbligo di prendere in esame con attenzione e diligenza la proposta del giudice, e di fare quanto in loro potere per aprire e intraprendere su di essa un dialogo, una discussione fruttuosa, e, in caso di non raggiunto accordo, di fare emergere a verbale dell’udienza di verifica, lealmente, la rispettiva posizione al riguardo. Ne consegue che l’irragionevole e ingiustificato rifiuto sia della proposta conciliativa del giudice sia dell’invito a partecipare alla mediazione demandata può condurre a ritenere sussistente una responsabilità aggravata a carico della parte soccombente.

In particolare, sempre per il Tribunale di Roma (sez. XIII, 30/10/2014, in Guida al diritto 2014, 49-50, 24) è censurabile perché dolosa, grave e ingiustificata la condotta del professionista chiamato in giudizio per risarcire un danno connesso alla sua attività che dichiari tardivamente di voler aderire alla proposta conciliativa del giudice formulata ai sensi dell’art. 185 bis c.p.c., nonostante non l’avesse formalmente accettata nei termini prescritti. Per tali motivi il Tribunale di Roma con due sentenze di identica portata ha condannato a pagare un risarcimento oltre che una penale un notaio e un avvocato rispettivamente chiamati a risarcire un danno connesso alla stipula di una compravendita di un immobile.

Molti giudici fissano udienza per verificare la posizione delle parti sulla proposta conciliativa, posizione che rileva anche per la condanna alle speseexart. 91 c.p.c. In qualche caso è stato dato un termine alle parti fino all’udienza per decidere.

f)       Come si chiude il giudizio dopo l’accettazione della proposta?

Nei giudizi di separazione l’accoglimento della proposta conciliativa può portare ad una trasformazione della separazione giudiziale in consensuale. Nei giudizi di divorzio può portare all’emissione di una sentenza che recepisce le condizioni dell’accordo raggiunto.

Negli altri casi il giudizio può concludersiexart. 309 c.p.c. per inattività delle parti o con un verbale di conciliazione (che costituisce titolo esecutivo ex art. 185 c.p.c. e che richiede la procura speciale del difensore se manca la parte) o con una sentenza che prende atto dell’accordo e dichiara la cessazione della materia del contendere oppure con una sentenza che accoglie le conclusioni congiunte delle parti.

Sul punto ha affermato il Tribunale di Nocera Inferiore (con provvedimento del 07/11/2013) che “ove le parti del processo aderiscano alla proposta conciliativa del giudice, formulata ex art. 185 bis c.p.c., il tribunale può dichiarare estinto il giudizio, ratificando l’accordo conciliativo intervenuto che, se raccolto nel verbale di udienza, costituisce titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c.“. Tale organo giudicante ha rilevato che all’udienza tutte le parti avevano concordemente aderito alla proposta transattiva o conciliativa formulataexart. 185bisc.p.c. dal Giudice con ordinanza (“corresponsione all’attore della somma di euro 2.600,00 all’attualità e ad integrale ristoro – di cui euro 1.000,00 a carico della S. ed euro 800,00 a carico di ciascuno dei convenuti D’A. e S.- il tutto, con integrale compensazione delle spese di lite fra le parti”) ed ha pure evidenziato che, poiché la redazione di un verbale separato da quello di udienza prevista dall’art. 88 disp. att. c.p.c. non è requisito di validità dell’atto, la conciliazione giudiziale – che produce per effetto dell’accordo delle parti effetti sostanziali e processuali – costituisce, in presenza dei requisiti di legge, titolo esecutivoexart. 474 c.p.c., anche se sia inserita nel verbale d’udienza, come avvenuto nel caso di specie (v. Cass. Civ., Sez. III, 18 aprile 2003, n. 6288). Il dispositivo dell’ordinanza del Tribunale di Nocera Inferiore del 07/11/2013 è il seguente: “ratifica l’accordo conciliativo intervenuto fra le parti, di cui in parte motiva. Dispone la cancellazione della causa dal ruolo e dichiara estinto il giudizio”.

g)      Gli avvocati vedono bene la proposta conciliativa?

Generalmente gli avvocati non sono contrari alla proposta conciliativa formulata dal giudice. Ciò anche perché i clienti sono propensi ad accettarla in quanto proveniente non dalla controparte ma da un soggetto terzo ed imparziale come il giudice. Peraltro, tramite la proposta conciliativa formulata dal giudice l’avvocato può riuscire a far chiudere alcuni contenziosi di difficile soluzione e con riferimento ai quali non era possibile trovare l’accordo tra i legali delle parti senza che uno di essi sembrasse agli occhi del cliente meno pronto a difenderne gli interessi. Ancora, si osservi che con la proposta conciliativa l’avvocato viene a perdere, a livello di onorari, soltanto i compensi per la fase conclusiva, mentre spettano quelli per le altre fasi.

h)      L’art. 91 c.p.c. e la condanna alle spese di lite.

È noto che l’art. 91 c.p.c. prevede che il giudice, “se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 92”.

Ne deriva che il rifiuto della proposta di conciliazione, ai sensi del combinato disposto dell’art. 185bisc.p.c (come novellato dal Decreto Fare) e degli art. 91 e 92 c.p.c., deve sempre essere motivato per non incorrere nelle conseguenze di legge previste da queste ultime disposizioni (così Tribunale Nocera Inferiore, sez. I, 27/8/2013, in Diritto & Giustizia 2013, 2 settembre).

8.     Il Tribunale di Fermo e l’applicazione sistematica della proposta conciliativa.

In un provvedimento del 21.11.2013 il Tribunale di Fermo ha ritenuto che sussista la necessità, più che la possibilità, di iniziare sistematicamente una conciliazione secondo le seguenti direttive:

1) responsabilizzazione dei difensori che, sia pure su impulso ed indirizzo del giudice, si vedono investiti di una proposta che possono gestire ulteriormente con i loro assistiti , ai fini di una composizione;

2) necessità di attivare programmi sistematici di fuoriuscita dal processo nelle controversie di modesto valore, inferiore ad euro 10.000, salvo casi particolari da individuare con criteri predeterminati;

3) necessità che non si protragga un contenzioso praticamente inutile in quanto in tutto o in parte si tratta di questioni “seriali” su cui il giudice si è già pronunciato, magari con sentenze “pilota” (es. rapporti bancari in materia di anatocismo e commissione massimo scoperto).

Si è quindi continuata la scelta, già seguita nel corso di tutto l’anno 2011 e di parte del 2012, di operare in prima battuta con proposta “transattiva”, che coinvolga anche la possibilità di comunicazione e colloquio, sul punto, cliente/avvocato.

9.     Come può combinarsi l’invio in mediazione con la proposta conciliativaexart. 185 bis c.p.c.

Sulla combinazione tra proposta conciliativa ai sensi dell’art. 185 bis c.p.c. e mediazione ex officio si sono registrati diversi orientamenti. È bene riportare in sintesi i provvedimenti della giurisprudenza di merito maggiormente interessanti:

1) Trib. Roma, sez. XIII, 28.11.2013 ha effettuato una proposta conciliativa (dettagliatamente motivata) e ha inviato le parti in mediazione solo in caso di mancato accordo entro il termine concesso dal giudice per accettare la proposta conciliativa. Lo schema applicato può definirsi in termini di “proposta con invio in mediazione sub condicione“. Così anche Trib. Palermo 16.7.2014;

2) Trib. Roma, sez. XIII, 14.11.2013 ha stabilito che qualora vi sia il rischio di una decisione che acclari un concorso di colpa con riferimento ad un sinistro stradale, allora la mediazione ex officiopuò rivelarsi molto utile. In questo caso le parti sono state inviate in mediazione con avviso che in caso di mancato accordo si sarebbero ammesse e poi espletate le prove e successivamente sarebbe stata formulata una proposta conciliativaexart. 185 bis c.p.c. Questo modo di procedere risponde allo schema della “mediazione ex officio con riserva di proposta conciliativa”;

3) Trib. Milano, sez. Impresa, 27 novembre 2013, est. Vannicelli, ha invece formulato una proposta transattivo-conciliativa e ha rinviato il processo ad un’altra udienza per sentire le parti riservandosi in quella udienza di prescrivere il procedimento di mediazione ex officio. Si tratta di “proposta con riserva di mediazione”. La stessa soluzione ha adottato il Tribunale di Verona (est. Vaccari) nell’ordinanza del 17.6.2014 con la quale ha avanzato alle parti una proposta conciliativa anticipando la futura valutazione, alla successiva udienza ed al fine di agevolare la soluzione conciliativa o altra eventualmente ipotizzabile, della possibilità di demandare la mediazione. Anche per Trib. Milano 21.3.2014 “ove le parti rifiutino immotivatamente la proposta, il giudice ben può avviarle alla mediazione ai sensi dell’art. 5 comma 2 d.lg. 28/2010 (cd. mediazione ex officio)”;

4) Trib. Milano, sez. spec. Impresa B, 11.11.2013 ha formulato una proposta conciliativa (non motivata) e ha disposto la mediazione ex officio (all’interno della quale la proposta del giudice poteva costituire un punto di riferimento per pervenire alla conciliazione). In questo caso lo schema applicato non è quello della proposta con riserva di mediazione, ma quello della “proposta con mediazione”.

Sempre in relazione a tale ultimo provvedimento mette poi conto osservare che probabilmente la mancata (o comunque succinta) motivazione della proposta è, secondo chi scrive, la scelta maggiormente opportuna. In generale nelle proposte conciliative è preferibile al più spiegare i motivi per cui nella specifica causa è da ritenere possibile una conciliazione della lite, ma non anche i motivi per cui si effettua quella specifica proposta e come il Giudice sia arrivato alla determinazione degli specifici termini della proposta. Certo, l’art. 185bisc.p.c. esclude espressamente che la proposta di conciliazione possa costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice. Tuttavia, l’esplicitazione dell’iter logico posto a fondamento dell’individuazione delle concrete condizioni della proposta non aggiunge molto all’eventuale bontà intrinseca della stessa e rischia di determinare un’anticipazione di giudizio non gradita alle parti (o almeno non ad entrambe). Senza contare, infine, che una proposta può essere ben congegnata anche senza valutare le ragioni ed i torti emergenti dagli atti processuali ma tenendo soltanto conto del fascio di soluzioni “digeribili” ad opera delle parti al fine comunque di porre fine al contenzioso ed ai suoi costi.  

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Michele Ruvolo


[1] Relazione di Michele Ruvolo, giudice del Tribunale di Palermo.

[2] Sulla possibile formulazione della proposta conciliativa anche in tutti i procedimenti pendenti v. anche Trib. Nocera Inferiore, I Sez. Civile, ord. 27/8/2013; Trib. Milano, sez. IX civ., decr. 26.6.2013 e Trib. Roma Sez. XIII, 23.9.2013, 30.9.2013 e 4.11.2013.

[3] Sembra sul punto interessante quanto affermato da Tribunale Roma, sez. XIII, 17/03/2014, secondo il quale la relazione redatta dal consulente tecnico nel corso di un procedimento di mediazione, che si concluda senza accordo può essere prodotta nel successivo giudizio ad opera di una delle parti senza violare le regole sulla riservatezza, in virtù di un equilibrato contemperamento fra la citata esigenza di riservatezza che ispira il procedimento di mediazione e quella di economicità e utilità delle attività che si compiono nel corso ed all’interno di tale procedimento. Ne consegue che il giudice potrà utilizzare tale relazione “secondo scienza e coscienza con prudenza, secondo le circostanze e le prospettazioni, istanze, e rilievi delle parti” più che per fondare la sentenza “per trarne argomenti ed elementi utili di formazione del suo giudizio” ovvero anche “per costituire il fondamento conoscitivo ed il supporto motivazionale (più o meno espresso) della proposta del giudice ai sensi dell’art. 185 bis c.p.c.”.

[4] Così anche Tribunale Roma, sez. XIII, 30/9/2013, in Guida al diritto 2013, 45, ins., III, con nota di MARINARO e Tribunale Roma 23/9/2013 in Guida al diritto 2013, 41, 17 con nota di MARINARO..

[5] E così, ad esempio, il Tribunale di Milano ha, con ordinanza del 29.10.2013 ritenuto di dover iniziare un percorso conciliativo (anche se tramite mediazione ex officio iudicis e non attraverso la proposta conciliativa) in una causa per opposizione a precetto relativo al mancato pagamento di parte delle somme dovute a titolo di contributo per il mantenimento. Queste le ragioni che hanno portato il Tribunale di Milano a ritenere opportuno avviare un percorso conciliativo: “in primo luogo, la controversia involge due parti legate da pregresso rapporto affettivo; rapporto destinato a proiettarsi nel tempo, in quanto i litiganti, non più coniugi, sono tuttavia ancora genitori; quanto, inoltre, dovrebbe indurre le parti stesse ad agire tenendo sempre fermo e presente l’interesse “preminente” dei figli minori, che meglio è preservato ove gli stessi non diventino – seppur indirettamente – oggetto di procedure giudiziali (anche là dove le suddette procedure abbiano ad oggetto diritti disponibili – come nel caso di specie: recupero di un credito – che, però si ricollegano, intimamente, alla vita biologica del nucleo familiare). L’opportunità di un tentativo di conciliazione è pur resa evidente dal fatto che, in passato, i genitori sono stati in grado di pervenire ad accordi (v. ricorso congiunto per la fase del divorzio): hanno, dunque, rivelato la capacità di confrontarsi e di adottare soluzioni condivise. Vi è, poi, da segnalare come lo strumento giudiziale – almeno in questa fattispecie – si sia rivelato inidoneo a prevenire ulteriore contenzioso: risulta ad acta che la odierna appellante ha già notificato all’appellato un altro atto di precetto. Va, infine, rivelato come – sempre guardando all’odierna fattispecie – vi sia un evidente iato tra il diritto fatto valere (guardando al valore del credito secondo la prospettazione attorea) e lo strumento azionato per tutelarlo (due gradi di giudizio), nel senso che, tenuto conto del peso effettivo della controversia, in termini monetari, lo stesso creditore avrebbe potuto anteporre alla scelta sposata in via diretta (sistema di risoluzione pubblico delle controversie), l’opportunità di un sistema di risoluzione alternativo della controversia (es. mediazione familiare; mediazione civile; diritto collaborativo; etc.) e riservare, dunque, il percorso giurisdizionale solo alla res litigiosa residuata all’esito del fallimento delle procedure di confronto amichevole”.

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di Michele Ruvolo

Sommario: 1. Cos’è la negoziazione assistita? 2. Come si svolge il procedimento di negoziazione assistita? 3. Casi e particolarità della negoziazione assistita obbligatoria; 4. Le controversie soggette a negoziazione assistita obbligatoria; Cosa deve intendersi per “controversie in materia di…”? 5. Le principali questioni in tema di negoziazione assistita relativa a sinistri stradali; In materia di risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli natanti quali sono i rapporti tra la condizione di procedibilità di cui alla legge 162/14 e la condizione di proponibilità della domanda di cui all’art. 145, commi 1 e 2, D.lgs. 209/2005 (c.d. Codice delle assicurazioni)? Rientra nella negoziazione assistita obbligatoria il caso della domanda risarcitoria per danni derivanti a motociclisti o automobilisti da buche presenti sul manto stradale? Rientra nella negoziazione assistita obbligatoria (in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli) il caso della domanda risarcitoria per danni derivanti dal contratto di trasporto su mezzi pubblici o privati? Rientrano tra le azioni in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti soggette a negoziazione assistita obbligatoria anche le domande relative ai contratti assicurativi? 6. I procedimenti esclusi. 6.1. Negoziazione e procedimenti cautelari; Si deve attivare il procedimento di negoziazione assistita dopo il procedimento ex art. 669 bis e prima del giudizio di merito? È escluso il procedimento sommario di cognizione? È sempre esclusa la domanda monitoria? 7. Gli esiti della negoziazione assistita; 8. I possibili vizi, contenuti e sviluppi della convenzione di negoziazione assistita o dell’accordo. Cosa succede se nella convenzione di negoziazione assistita si prevede un termine di durata della negoziazione superiore ai 3 mesi? Cosa succede se nella convenzione di negoziazione assistita si prevede di negoziare anche su diritti indisponibili? Cosa succede se l’accordo raggiunto a seguito di negoziazione assistita coinvolge anche diritti indisponibili? Che cosa succede se l’accordo raggiunto a seguito di negoziazione assistita è successivo a qualche vizio della procedura di negoziazione? Che efficacia ha una clausola di negoziazione assistita inserita in un contratto per la risoluzione di future controversie? Sono ipotizzabili forme di responsabilità precontrattuale o contrattuale relativamente alla convenzione di negoziazione assistita? 9. Negoziazione assistita e patrocinio a spese dello Stato; 10. Le prospettate questioni di legittimità costituzionale; NEGOZIAZIONE E PROCESSO. 11. Il rilievo dell’improcedibilità da parte del giudice. Cosa succede se gli avvocati delle parti si accordano per evitare la procedura di negoziazione ed adire direttamente il giudice con l’intesa di non eccepire l’improcedibilità dell’azione e confidando nel mancato rilievo officioso del giudice? Nel caso in cui la prima udienza si strutturi materialmente in più udienze il rilievo officioso deve farsi alla prima di queste o anche nelle altre? Cosa deve fare il giudice in caso di mancata certificazione dell’autografia della firma da parte degli avvocati nell’accordo o di mancata certificazione della firma della parte nell’invito? Cosa accade se l’invito è inviato non alla parte ma all’avvocato con il quale era già in corso una corrispondenza informale? Cosa deve fare il giudice se nell’invito manca l’avvertimento che la mancata risposta all’invito entro 30 giorni o il suo rifiuto può essere dal giudice valutato ex artt. 96 e 642 c.p.c.? Quale può essere la valutazione giudiziale del comportamento dell’invitato di accettazione o di rifiuto dell’invito? Il giudice deve verificare che l’invito sia stato regolarmente portato a conoscenza dell’altra parte? Cosa succede se si ritiene non corretta tale comunicazione? Il giudice deve verificare la corrispondenza oggettiva tra la domanda giudiziale e l’oggetto del tentativo di conciliazione? Cosa deve fare il giudice se verifica che le parti non hanno rispettato il termine di 15 giorni da lui concesso per l’invio della comunicazione? Quesito: nei casi in cui la domanda relativa a controversia rientrante nella negoziazione obbligatoria viene formulata con ricorso il giudice che verifica l’assenza della condizione di procedibilità deve fissare udienza senza nulla dire sulla negoziazione o, nel fissare udienza, rileva l’improcedibilità, fissa udienza oltre il termine massimo della procedura di negoziazione e concede il termine di 15 giorni per comunicare l’invito? 12. A quali condizioni può ritenersi adempiuto l’ordine del giudice. Va richiesta la partecipazione effettiva delle parti nella procedura di negoziazione assistita? 13. Negoziazione assistita obbligatoria e domande connesse. Si può disporre una negoziazione assistita ex officio iudicis? Se proposte più domande di cui solo una o alcune soggette a negoziazione assistita obbligatoria? e se riunite cause connesse in cui solo alcune delle domande sono soggette a negoziazione assistita obbligatoria? 14. La durata del procedimento di negoziazione assistita e le conseguenze in ambito processuale; Quesito: cosa succede se il procedimento di negoziazione dura più del termine massimo fissato dalle parti o di quello legale di 3 mesi prorogabili per altri 30 giorni? 15. La riservatezza nel procedimento di negoziazione assistita; La riservatezza del procedimento di negoziazione assistita può limitare il diritto alla prova in sede giudiziale? 16. Sanzioni. Spese. Responsabilità aggravata e provvisoria esecuzione. Quando il giudice può fare ricorso alla responsabilità aggravata o alla provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo? Può valutarsi negativamente la condotta della mancata risposta all’invito alla negoziazione assistita o del suo rifiuto? Può applicarsi alla negoziazione assistita obbligatoria la sanzione prevista per la mancata ed ingiustificata comparizione in sede di mediazione? 17. Negoziazione assistita e contraddittorio. Che cosa succede se non viene garantito il litisconsorzio necessario nella fase della negoziazione assistita? Sussiste la condizione di procedibilità se non viene fatta al proprietario del mezzo danneggiante la comunicazione dell’invito alla stipula della convenzione di negoziazione? Quali sono, con riferimento alla negoziazione assistita ed alla relativa condizione di procedibilità, i rapporti tra il principio della ragionevole durata del processo ed il principio del contraddittorio? 18. La necessità o meno dell’esperimento del procedimento di mediazione in relazione alle domande riconvenzionali ed alle chiamate di terzo; Le riconvenzionali inedite e la negoziazione assistita obbligatoria; La reconventio reconventionis, la chiamata di terzo e le domande trasversali; 19. Altre questioni in tema di negoziazione assistita e processo. Nella negoziazione assistita in tema di sinistri stradali le parti ed i loro avvocati possono avvalersi dell’opera di un esperto? Può prodursi nel giudizio civile la consulenza svolta nel procedimento di negoziazione assistita?
 

Nella Gazzetta ufficiale del 10 novembre è stata pubblicata la legge 162/2014 (che ha convertito in legge il decreto legge 132/2014) ed ha, tra le altre cose, introdotto, quale nuovo ed ulteriore strumento per la risoluzione dei conflitti e delle controversie in via stragiudiziale, la procedura di negoziazione assistita da un avvocato.

Così come è stato per la mediazione, anche in questo caso l’obiettivo è di definire parte delle controversie fuori dalle aule giudiziarie.

1. Cos’è la negoziazione assistita?

La negoziazione assistita è un procedimento che può condurre prima alla sottoscrizione ad opera delle parti di un accordo (c.d. convenzione di negoziazione) mediante il quale esse convengono di cooperare per risolvere in modo stragiudiziale e tramite avvocati una lite che è tra di loro insorta e che riguarda diritti disponibili, nonché, in un secondo momento, alla successiva attività di negoziazione vera e propria, che può sfociare in un altro accordo (compositivo della lite) che, sottoscritto dalle parti e dagli avvocati che le assistono, costituisce titolo esecutivo e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale.

Il procedimento di negoziazione assistita può essere facoltativo o obbligatorio. Nel primo caso il ricorso al procedimento in questione viene liberamente scelto dalle parti. Rientra nella negoziazione assistita facoltativa anche quella in tema di famiglia.

La negoziazione assistita è obbligatoriaex lege, invece, nei casi in cui essa è imposta dalla legge.

La disciplina della negoziazione assistita è in molti suoi punti strutturata secondo quanto già previsto nel d.lgs. n. 28 del 2010 in tema di mediazione.

2. Come si svolge il procedimento di negoziazione assistita?

Quando viene conferito l’incarico all’avvocato questi deve informare (e ciò costituisce dovere deontologico, senza comunque conseguenze processuali) il proprio cliente della possibilità di ricorrere alla convenzione di negoziazione assistita. A questo punto se la parte sceglie, nei casi di negoziazione facoltativa, di fare ricorso al procedimento di negoziazione, allora l’avvocato (e può trattarsi anche di cd. avvocato stabilito ai sensi dell’articolo 6 del decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 96, e ciò in ossequio a quanto affermato dalla Corte Giust. UE, Grande Sezione, sentenza 17 luglio 2104) formulerà alla controparte un invito a stipulare una convenzione di negoziazione indicando l’oggetto della controversia (che non può concernere né diritti indisponibili né cause lavoristiche) e avvertendo l’altra parte del fatto che la sua eventuale mancata risposta all’invito entro trenta giorni dalla ricezione o il suo rifiuto potrebbe in futuro essere valutato dal giudice ai fini della determinazione del regime delle spese del giudizio e di quanto previsto dagli artt. 96 (in materia di responsabilità aggravata della parte) e 642, comma 1 (relativo ai casi in cui il giudice deve concedere l’esecuzione provvisoria al decreto ingiuntivo) del codice di procedura civile. Tale ultimo avvertimento è finalizzato a favorire la serietà del tentativo di conclusione dell’accordo.

Inoltre, l’invito in questione deve anche contenere la certificazione dell’autografia della firma apposta all’invito ad opera dell’avvocato che formula l’invito.

In merito agli effetti dell’invito in questione si noti che, che al fine di impedire che il tempo necessario allo svolgimento della procedura in questione possa risultare pregiudizievole per la parte il cui diritto sia prossimo alla prescrizione, è stato previsto che già la semplice comunicazione dell’invito (ma ciò vale anche per la sottoscrizione della convenzione) incide sulla prescrizione in quanto produce, con riferimento ad essa, gli stessi effetti della domanda giudiziale. Inoltre, dallo stesso momento è impedita, per una sola volta, la decadenza. Se però l’invito è rifiutato o non è accettato entro 30 giorni dalla ricezione allora la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza decorrente dall’eventuale rifiuto (in ipotesi di espresso rigetto dell’invito) ovvero dalla mancata accettazione dell’invito nel termine (in caso di mancata risposta) ovvero dalla dichiarazione di mancato accordo certificata dagli avvocati (in ipotesi di convenzione conclusa ma con mancato successivo accordo sul merito della controversia).

Dopo l’invito in questione è quindi possibile stipulare la “convenzione di negoziazione” che, evidentemente, altro non è che un accordo tra le parti tramite il quale queste pattuiscono di “cooperare in buona fede e con lealtà” per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza di avvocati.

In particolare, secondo la definizione normativa “la convenzione di negoziazione assistita da un avvocato è un accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza di avvocati iscritti  all’albo anche ai sensi dell’articolo 6 del decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 96”.

Tramite l’introduzione di questo tipo di convenzione non si vuole che le parti si obblighino a pervenire ad una definizione stragiudiziale della controversia, ma soltanto che esse si impegnino a “cooperare in buona fede e con lealtà” per tentare di definire bonariamente la loro controversia. Si tratta di un contratto che impegna le parti a negoziare al fine di trovare una composizione della lite.

Il testo legislativo precisa che sono tenute ad affidare la convenzione di negoziazione alla propria avvocatura le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001, e cioè, fra l’altro, tutte le amministrazioni dello Stato, le Regioni, le Province, i Comuni, le comunità montane, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, nonché le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale.

Con riferimento alla natura giuridica della detta convenzione di negoziazione va ora rilevato che essa rientra tra i negozi compositivi della lite e, in particolare, tra le transazioni se si considera che, come tutte le transazioni, la causa della convenzione di negoziazione è quella di porre fine a una controversia relativa a diritti disponibili.

Tuttavia, a differenza delle normali transazioni, la convenzione di negoziazione può essere conclusa anche in assenza di reciproche concessioni. Inoltre, essa richiede sempre l’assistenza di un avvocato (e ne basta anche uno solo, salvo che nella materia della famiglia, visto il definitivo testo del comma 5 dell’art. 2), che gestisce la procedura negoziativa.

Trattandosi, quindi, di un particolare tipo di transazione, risulta applicabile la disciplina in tema di transazione se non espressamente derogata dalle norme sulla negoziazione assistita. Conseguentemente, ad esempio, se viene stipulata una convenzione di negoziazione in materia di dritti indisponibili, allora la convenzione sarà nulla ex  art. 1967 comma II c.c. Chiaramente, infatti, per transigere le parti devono avere la capacità di disporre dei diritti che formano oggetto della lite (art. 1966, comma I, cod. civ.).

Sono poi previsti particolari requisiti formali per la convenzione di negoziazione, la quale deve essere redatta in forma scritta a pena di nullità, deve essere sottoscritta dalla parti e dagli avvocati, i quali certificano l’autografia delle sottoscrizioni, e deve indicare il termine concordato dalle parti per l’espletamento della procedura (termine che non può comunque essere inferiore ad un mese né superiore a tre mesi, prorogabile per ulteriori trenta giorni su accordo tra le parti) nonché l’oggetto della controversia (che non deve riguardare diritti indisponibili, né, come aggiunto in sede di conversione, vertere in materia di lavoro).

Cosa succede se manca uno dei citati requisiti di forma?

Deve ritenersi che in questo caso l’accordo potrà valere, se ne ricorrono comunque i requisiti, come normale transazione (v. sul punto v. G. Buffone, Processo civile:. tutte le novità (d.l. 132/2014, conv. con mod., in l. 162/2014), in Il Civilista, Giuffré, 2014) e ciò anche in considerazione di quanto stabilito dall’art. 1424 cod. civ. Si pensi al caso del difensore che non certifichi l’autografia delle sottoscrizioni o all’accordo concluso senza l’assistenza di un avvocato iscritto all’albo o all’accordo non sottoscritto dai difensori che le hanno assistite.

Tuttavia, tale mancata certificazione, così come l’eventuale mancanza di certificazione in ordine alla conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico, potrebbe essere ostativa all’esecutività del patto. In questo caso l’accordo potrebbe non valere come titolo esecutivo ex art. 5 legge 162/14.

Inoltre, se le parti omettono di indicare il termine per lo svolgimento della procedura di negoziazione tale omissione non comporta alcuna nullità dovendosi comunque ritenere applicabile il termine massimo di tre mesi previsto dalla legge.

In ogni caso, è da ritenere che anche le altre irregolarità non impediscono alle parti di andare avanti con la negoziazione.

Inoltre, relativamente alle materiali modalità di stipulazione della convenzione di negoziazione sembra fin troppo evidente che essa, integrando un normale contratto, possa essere redatta o contestualmente dalle parti o tramite lo scambio di proposta e di controproposta ex  art. 1326 c.c. (v. anche Porracciolo-Tona,Guida alla nuova giustizia civile, in Guida al diritto-Il Sole 24 ore, novembre 2014, pag. 12) .

Una volta stipulata la convenzione di negoziazione, si potrà procedere all’espletamento della procedura di negoziazione, che deve essere ovviamente svolta con l’assistenza degli avvocati che, cosi come le parti, sono tenuti a comportarsi con lealtà e devono tenere riservate le informazioni ricevute dall’altra parte. In particolare, le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel corso del procedimento non possono essere utilizzate nel giudizio avente in tutto o in parte il medesimo oggetto. Inoltre, i difensori delle parti e coloro che partecipano al procedimento non possono essere tenuti a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite. La violazione di tali regole di condotta costituisce per l’avvocato illecito disciplinare.

All’esito dello svolgimento del procedimento di negoziazione è possibile che le parti non riescano ad addivenire ad un accordo. In questo caso va redatta la dichiarazione di mancato accordo che gli avvocati designati certificano.

Se, invece, si riesce a raggiungere un accordo compositivo della controversia (che deve essere conforme alle norme imperative e all’ordine pubblico) questo viene sottoscritto dalle parti e dagli avvocati che le assistono e costituisce così titolo esecutivo e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale.

In questo contesto di redazione dell’accordo, cosi come in quello precedente di svolgimento del procedimento di negoziazione, è essenziale il ruolo dell’avvocato, il quale, tra le altre cose, certifica la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico e l’autografia delle firme (anche se quando con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti previsti dall’articolo 2643 del codice civile, per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione del processo verbale di accordo deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato).

Inoltre, l’accordo che compone la controversia deve essere integralmente trascritto nel precetto ai sensi dell’articolo 480, comma 2, c.p.c. E poiché le indicazioni che devono essere trasfuse nel precetto in base al citato art. 480 c.p.c. sono previste «a pena di nullità», allora anche la trascrizione dell’accordo che compone la controversia è richiesta ad substantiam.

Visto il rilevantissimo ruolo svolto dall’avvocato in sede di negoziazione, si è previsto che il legale che impugni un accordo alla cui redazione ha partecipato commette illecito deontologico.

3. Casi e particolarità della negoziazione assistita obbligatoria.

In alcuni casi il previo espletamento della procedura di negoziazione assistita costituisce condizione di procedibilità della domanda. Ciò a decorrere dall’11 novembre 2014. Si tratta delle ipotesi di negoziazione assistita obbligatoria, che ricalcano, a livello di disciplina, le previsioni in tema di c.d. mediazione obbligatoria.

Come in quest’ultima, infatti, in relazione a talune fattispecie il procedimento di negoziazione assistita deve essere esperito a pena di improcedibilità della domanda giudiziale.

Sono stati così introdotti altri casi di giurisdizione c.d. condizionata, in cui, cioè, chi vuole fare ricorso al giudice deve prima sperimentare un preliminare ricorso ad un meccanismo alternativo di risoluzione delle controversie, a pena di improcedibilità della domanda giudiziale. È un meccanismo attraverso il quale il legislatore pensa di poter fornire una reale spinta deflattiva (assegnando all’autorità giudiziaria solo le controversie non componibili) e di consentire una rapida definizione delle liti.

Due sono i casi in cui una parte ha l’obbligo, a pena di improcedilità della domanda, di invitare, tramite l’avvocato, l’altra parte a stipulare una convenzione di negoziazione assistita:

1) quando si vuole esercitare in giudizio un’azione in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti (non più rientrante tra i casi di mediazione obbligatoria dopo la riforma operata dal d.l. n. 69 del 2013, convertito in l. n. 98 del 2013);

2) quando si vuole proporre in giudizio una domanda di pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti 50.000 euro, ad eccezione delle controversie assoggettate alla disciplina della c.d. mediazione obbligatoria[1].

In questi due casi in cui la procedura di negoziazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la parte, come detto, deve, tramite il suo avvocato, invitare la controparte a stipulare una convenzione di negoziazione assistita. Comunque, la condizione si considera avverata se l’invito non è seguito da adesione o è seguito da rifiuto entro trenta giorni dalla sua ricezione ovvero quando è decorso il periodo concordato dalle parti per l’espletamento della procedura, comprensivo di eventuale proroga.

L’invito a stipulare la convenzione deve indicare l’oggetto della controversia e contenere l’avvertimento che la mancata risposta all’invito entro trenta giorni dalla ricezione o il suo rifiuto può essere valutato dal giudice ai fini delle spese del giudizio e di quanto previsto dagli articoli 96 e 642, primo comma, del codice di procedura civile. È l’avvocato che formula l’invito che certifica l’autografia della firma apposta allo stesso invito.

Affinché il giudice possa ritenere correttamente formata la condizione di procedibilità basta che i difensori producano in causa la dichiarazione di mancato accordo, certificata dai difensori medesimi, ovvero che l’avvocato che introduce la lite provi l’avveramento della condizione di procedibilità producendo, quindi, un invito contenutisticamente idoneo.

Evidentemente, invece, risulta ostativo al formarsi della procedibilità della domanda un invito che non indichi l’oggetto del controversia o che non contenga gli avvertimenti previsti dalla legge o che non sia stato correttamente comunicato al destinatario.

Come nel caso di mancato previo esperimento del procedimento di negoziazione assistita, anche il non idoneo svolgimento dello stesso comporta l’improcedibilità della domanda giudiziale, che deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza (che nel rito ordinario di cognizione è l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c.), al termine della quale il giudice assegna alle parti il termine di 15 giorni per la comunicazione dell’invito a stipulare la convenzione e, contestualmente, fissa la successiva udienza (nella cui determinazione egli deve evidentemente tenere conto della possibilità che le parti utilizzino per intero il termine massimo di tre mesi nonché la proroga di 30 giorni).

Diversa è l’ipotesi in cui alla prima udienza il giudice verifica che la negoziazione assistita è già iniziata, ma non si è conclusa, ipotesi nella quale il giudice fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine previsto dalle parti nella convenzione stessa per la durata della procedura di negoziazione e che, come detto, non può essere inferiore a un mese né superiore a tre mesi.

Comunque, la condizione di procedibilità si considera avverata se l’invito non è seguito da adesione o è seguito da rifiuto entro 30 giorni dalla sua ricezione ovvero quando è decorso il periodo di tempo previsto dalle parti nella convenzione per la durata della procedura di negoziazione.

In ogni caso la negoziazione non è condizione di procedibilità della domanda giudiziale quando la parte può stare in giudizio personalmente così come non lo è per le controversie concernenti obbligazioni contrattuali derivanti da contratti conclusi tra professionisti e consumatori (art. 3 legge 162/14).

Va ora evidenziato che la disciplina sopra esposta non si applica con riferimento ad alcuni procedimenti, che sono:

a) i procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione;

b) i procedimenti di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite di cui all’articolo 696bisdel codice di procedura civile;

c) i procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione forzata;

d) i procedimenti in camera di consiglio;

e) i procedimenti riguardanti l’azione civile esercitata nel processo penale.

Inoltre, l’obbligatorietà dell’esperimento del procedimento di negoziazione assistita “non preclude la concessione di provvedimenti urgenti e cautelari, né la trascrizione della domanda giudiziale”.

4. Le controversie soggette a negoziazione assistita obbligatoria.

La prima, e forse più importante, questione interpretativa che si deve affrontare è quella relativa all’ambito di estensione della negoziazione assistitaobbligatoria. In proposito è doveroso ricordare che l’art. 3, comma 1, della legge 162/2014 prevede la negoziazione assistitaobbligatoria (e, quindi, il previo esperimento del tentativo di conciliazione tra le stesse parti assistite da avvocatiquale condizione di procedibilità della domanda giudiziale) ogni qual volta si voglia far valere in giudizio una pretesa afferente ad una certa (e legislativamente individuata) materia.

La formula impiegata è quella per cui “chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa ad una controversia in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti” e “chi intende proporre in giudizio una domanda di pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti cinquantamila euro” devono, tramite il loro avvocato, “invitare l’altra parte a stipulare una convenzione di negoziazione assistita”.

Analogamente a quanto fa l’art. 5, comma 1bis, del d.lgs. 28/10 con riferimento alla mediazione obbligatoria, anche l’art. 3 della legge 162/14 prevede con riferimento ai sinistri stradali una condizione di procedibilità in caso di esperimento giudiziale di “un’azione relativa a una controversia in materia di…”.

Quesito: cosa deve intendersi per “controversie in materia di…”?

Tale formula è identica a quella impiegata dall’art. 447bisc.p.c. per il rinvio a talune disposizioni del rito lavoro in relazione alle “controversie in materia di locazione e di comodato di immobili urbani e di affitto di aziende”.

Ora, è pacifico in giurisprudenza che la formula “controversie in materia di” è più ampia della formula “controversie di”. Una controversia in materia di locazione può riguardare anche liti non strettamente dipendenti dal contratto di locazione, ma in qualche modo collegate allo stesso. Ecco che, ad esempio, è una “controversia in materia di locazione” anche quella (ex art. 2932 c.c.) relativa al preliminare di locazione o alla responsabilità precontrattuale connessa alla stipula di un contratto di locazione (v. Cass. 581/03; 4873/2005 e 15110/2007).

Giurisprudenza rilevante

“Tra le controversie ‘in materia di locazione’, attribuite dagli artt. 21 e 447-bis c.p.c. alla competenza territoriale inderogabile del giudice in cui si trova l’immobile, devono ritenersi comprese, data l’ampiezza della nozione di “materia”, tutte le controversie comunque collegate alla materia della locazione, e quindi anche quelle nelle quali si controverte in ordine ad un rapporto ancora da costituire, ma di cui si invoca la costituzione ai sensi dell’art. 2932 c.c. sulla base di un contratto preliminare” (Cass., sez. I, ord. 16 gennaio 2003, n. 581; v., analogamente,  Cass., sez. III, ord. 7 marzo 2005, n. 4873, in materia di domanda volta a “far dichiarare l’opponibilità, all’aggiudicatario di un immobile destinato ad albergo, del contratto d’affitto di azienda stipulato tra il proprietario originario ed un precedente dante causa dell’attuale affittuario”; v. anche Cass., sez. III, ord. 4 luglio 2007, n. 15110).

È comunque ora opportuno osservare che le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità, costituendo deroga all’esercizio del diritto di agire in giudizio, garantito dall’art. 24 Cost., non possono essere interpretate in senso estensivo (v. Cass. 967/04).

Giurisprudenza rilevante

Sez. L, Sentenza n. 967 del 21/01/2004 (Rv. 569540)

Premesso che le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità, costituendo deroga all’esercizio del diritto di agire in giudizio, garantito dall’art. 24 Cost., non possono essere interpretate in senso estensivo, deve ritenersi che, ai fini dell’espletamento del tentativo di conciliazione, il quale ai sensi dell’art. 412 cod. proc. civ. costituisce condizione di procedibilità della domanda, sia sufficiente, in base a quanto disposto dall’art. 410-bis cod. proc. civ., la presentazione della richiesta all’organo istituito presso le Direzioni provinciali del lavoro, considerandosi comunque espletato il tentativo di conciliazione decorsi sessanta giorni dalla presentazione, a prescindere dall’avvenuta comunicazione della richiesta stessa alla controparte. Tale comunicazione è invece necessaria, ai sensi dell’art. 410, comma secondo, cod. proc. civ., perché si verifichi la interruzione della prescrizione e la sospensione, per il periodo ivi indicato, di ogni termine di decadenza.

Ora, poiché il primo comma dell’art. 3 della legge 162/14 è una disposizione che prevede una condizione di procedibilità, anche per tale primo comma va esclusa un’interpretazione estensiva.

Bisogna, quindi, tenere conto, da un lato, dell’ampiezza della locuzione “controversie in materia di” e, dall’altro lato, dell’impossibilità di operare un’ampia interpretazione di tale locuzione.

5. Le principali questioni in tema di negoziazione assistita relativa a sinistri stradali.

La disciplina normativa della negoziazione assistita quale condizione di procedibilità delle domande giudiziali in materia di sinistri stradali pone a livello processuale molte questioni, alcune delle quali simili a quelle che sono state già affrontate con riferimento al procedimento di mediazione.

Quesito

In materia di risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli natanti quali sono i rapporti tra la condizione di procedibilità di cui alla legge 162/14 e la condizione di proponibilità della domanda di cui all’art. 145, commi 1 e 2, D.lgs. 209/2005 (c.d. Codice delle assicurazioni)?

Anche l’attività precontenziosa prevista dal Codice delle assicurazioni mira ad evitare la causa ed incide sull’azione (rendendo la domanda improponibile anche se non improcedibile come invece accade con la disciplina sulla negoziazione assistita).

Tuttavia, i due istituti sembrano potere convivere.

La raccomandata con la quale si chiede il risarcimento del danno alla compagnia di assicurazioni è sì imposta normativamente (così come è imposta l’attesa di 60 o 90 giorni prima di potere proporre la domanda giudiziale), ma non è affatto diversa da tutte quelle altre raccomandate contenenti le più svariate richieste che normalmente precedono l’instaurazione di un giudizio.

Come queste ultime (se relative a materie rientranti tra quelle assoggettate a negoziazione assistita obbligatoria), anche quella in tema di sinistri stradali dovrà essere seguita, in caso di silenzio o di risposta negativa del destinatario della richiesta extragiudiziale, dal procedimento di negoziazione assistita prima di potere (eventualmente) pervenirsi alla lite giudiziale.

Peraltro, un supporto testuale alla soluzione appena indicata si rinviene nell’art. 3, comma 5 del decreto legge, che prevede, con riferimento al caso dei rapporti tra negoziazione assistita c.d. obbligatoria ed altri procedimenti conciliativi, che “restano ferme le disposizioni che prevedono speciali procedimenti obbligatori di conciliazione e mediazione, comunque denominati”; disposizione così modificata in sede di conversione nella legge 162/14: “restano ferme le disposizioni che prevedono speciali procedimenti obbligatori di conciliazione e mediazione, comunque denominati. Il termine di cui ai commi 1 e 2, per materie soggette ad altri termini di procedibilità, decorre unitamente ai medesimi”.

In questo modo si è voluto evitare che la proposizione della domanda giudiziale potesse subire eccessivi rallentamenti a causa della necessità di attendere, per il ricorso alla negoziazione assistita, che fossero prima decorsi i termini di procedibilità previsti da altre normative. Certo, è vero che l’art. 145, commi 1 e 2, D.lgs. 209/2005 (c.d. Codice delle assicurazioni) contempla un condizione di proponibilità e non di procedibilità. Tuttavia, ricorrendo la medesima ratio sopra indicata, la soluzione normativa sulla contestuale decorrenza dei termini deve ritenersi valevole anche per il caso di specie.

In altri termini, sembra possibile, nello stesso periodo di tempo, inviare una raccomandata alla Compagnia di assicurazioni contenente la richiesta risarcitoria e inviare al contempo l’invito per la stipula della convenzione di negoziazione. Non essendo richiesto che le due condizioni (di proponibilità e di procedibilità) debbano sussistere in sequenza l’una rispetto all’altra, è quindi forse da credere che ciò che importa è che si verifichi la sussistenza delle stesse, a prescindere dal loro sviluppo temporale. Ed è verosimile che spesso, per evitare perdite di tempo, si intrecceranno le due procedure se anche si considera che la citazione non può essere notificata prima del decorso dei 60 o 90 giorni previsti per la condizione di proponibilità di cui all’art. 145 Cod. ass. mentre può essere notificata anche prima dell’instaurazione del procedimento di negoziazione assistita o anche prima del decorso del termine di 3 mesi (prorogabile di 30 giorni) di durata massima del procedimento di negoziazione assistita.

Il problema che può porsi è quello relativo al possibile rifiuto da parte della Compagnia di Assicurazioni di stipulare la convenzione di negoziazione assistita motivato alla luce della mancata decorrenza dello spatium deliberandi previsto per la condizione di proponibilità di cui all’art. 145 Cod. ass.

Quesito

Rientra nella negoziazione assistita obbligatoria il caso della domanda risarcitoria per danni derivanti a motociclisti o automobilisti da buche presenti sul manto stradale?

Al riguardo va ricordato quell’orientamento giurisprudenziale che si è formato in merito alla competenza del giudice di pace per le cause, sostanzialmente identiche a quelle cui fa riferimento la legge 162/14 in tema di “risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti”.

Si è affermato che la controversia relativa ai c.d. danni da buca non è una “causa di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli” visto che la c.d. “insidia stradale” si ricollega alla circolazione solo tramite un nesso di occasionalità e non di causalità efficiente.

Ed invero, perché si possa ritenere applicabile la disciplina di cui all’art. 7, comma 2, c.p.c. (sulla competenza del giudice di pace per le cause di risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti con valore non superiore ad € 20.000) occorre uno specifico nesso causale tra il fatto della circolazione stradale ed il danno, nel senso che il primo elemento deve essere causa efficiente del secondo e non costituirne, invece, semplice occasione (come accade invece nel caso delle buche, dove il danno è conseguenza dell’omessa manutenzione delle strade e solo occasionalmente connesso alla circolazione stradale .- v. Cass. 14564/2002).

Analogamente, il caso dei danni “da buca” non può essere fatto rientrare nella materia, rientrante tra le fattispecie di negoziazione assistita obbligatoria, «di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti».

Quesito

Rientra nella negoziazione assistita obbligatoria (in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli) il caso della domanda risarcitoria per danni derivanti dal contratto di trasporto su mezzi pubblici o privati?

Spesso nei giudizi relativi a responsabilità da trasporto viene fatto valere il c.d. concorso della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale (tipicamente e classicamente configurabile proprio in materia di trasporto).

In proposito è noto che in tema di trasporto di persone la scelta tra l’azione di risarcimento del danno da responsabilità contrattuale e quella da responsabilità extracontrattuale, fondata la prima sull’inadempimento delle obbligazioni nascenti dal contratto di trasporto e la seconda sulla violazione del principio generale del neminem laedere, e la scelta del loro esercizio cumulativo nel processo rientra nel potere dispositivo della parte, senza alcun possibile intervento del giudice (cfr. Cass. 6233/1999; 8656/1996; 1593/1979; 11766/2002).

Rientra invero nel potere dispositivo della parte proporre cumulativamente azione contrattuale ed azione extracontrattuale quando si ritiene che, con un unico comportamento, siano stati violati i doveri derivanti dal contratto concluso ed i doveri derivanti dal generale principio del neminem laedere  (Cass. 6233/1999; 8656/1996; 418/1996; 8090/1994).

Ciò chiarito, va ora precisato che l’art. 7, comma 2, c.p.c. riguarda sia i fatti illeciti prodotti dalla circolazione stradale di veicoli (arg.exCass. 746/2002; 15573/2000) che le ipotesi di responsabilità contrattuale.

Per “cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e natanti” devono invero intendersi, oltre a quelle in cui si fa valere una responsabilità aquiliana, anche quelle in cui l’attore fa valere la responsabilità contrattuale del vettore, magari insieme a quella extracontrattuale.

Pure quando la parte attrice chiede il risarcimento del danno contrattuale e fa valere un illecito contrattuale va ritenuta ricorrente una causa “di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e natanti”.

Vista l’ampiezza di tale ultima formula normativa, deve infatti reputarsi che nella formula in questione rientri, oltre al fatto illecito prodottosi nella circolazione di veicoli o natanti, anche l’inadempimento del contratto di trasporto determinativo di un danno, posto che anche in questo caso si tratta di un “danno prodotto dalla circolazione di veicoli e natanti”.

Ora, considerato che la legge 162/14 fa rientrare nella negoziazione assistita obbligatoria le cause in tema di “risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti”, formula sostanzialmente identica a quella di cui all’art. 7, comma 2, c.p.c., allora anche la controversia in cui si fa valere una responsabilità contrattuale da trasporto dovrebbe farsi rientrare nelle ipotesi di negoziazione assistita obbligatoria sottoposte al meccanismo della condizione di procedibilità.

A tale conclusione deve poi pure pervenirsi se si considera, tra le altre cose, l’orientamento giurisprudenziale formatosi a proposito della condizione di proponibilità della domandaexart. 22 della previgente legge n. 990/1969.

È noto, invero, che tale ultima disposizione prevedeva: «l’azione per il risarcimento di danni causati dalla circolazione dei veicoli o dei natanti, per i quali a norma della presente legge vi è obbligo di assicurazione, può essere proposta solo dopo che siano decorsi sessanta giorni da quello in cui il danneggiato abbia chiesto all’assicuratore il risarcimento del danno, a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento».

La ratio della norma (analoga all’attuale art. 145, D.lgs. n. 209/2005, Codice delle assicurazioni) è chiara, in quanto finalizzata alla deflazione del contenzioso e ad agevolare una composizione stragiudiziale di ogni questione risarcitoria sorta a seguito della circolazione di veicoli.

L’esigenza sottesa all’invio della richiesta di risarcimento in questione è invero individuabile in quella di fornire all’assicuratore un congruo spazio di tempo per esperire accertamenti e decidere se opporsi alla pretesa o avanzare proposte transattive.

È il caso di sottolineare come, in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli, l’assicurazione medesima con riguardo ai danni alla persona trasportata si riferisce tanto al caso in cui detta responsabilità venga invocata a titolo extracontrattuale, per violazione del precetto del neminem laedere, quanto al caso in cui venga fatta valere a titolo contrattuale, sicché, anche in questa seconda ipotesi (responsabilità contrattuale), la proponibilità della domanda, sia diretta contro il responsabile civile o l’autore materiale del fatto, è soggetta al decorso di un termine da quello in cui il danneggiato ha chiesto il risarcimento per mezzo di lettera raccomandata all’assicuratore (cfr. Cass. 1128/1985; 3242/1982; 6847/1982).

La preventiva messa in mora dell’assicuratore come condizione di proponibilità dell’azione di risarcimento contro il preteso responsabile è richiesta quindi anche relativamente all’azione di responsabilità contrattuale per danni alla persona subìti da viaggiatori a bordo di veicoli adibiti al trasporto pubblico.

Un’impostazione giurisprudenziale così rigorosa trova, d’altra parte, fondamento anche nella rationormativa di deflazionare il contenzioso mediante una tempestiva comunicazione del fatto all’assicuratore, in modo tale che il medesimo possa stragiudizialmente operare per una composizione della controversia.

Se, quindi, la Suprema Corte ha interpretato la locuzione contenuta nell’art. 22, L. 990/1969(«l’azione per il risarcimento di danni causati dalla circolazione dei veicoli o dei natanti, per i quali a norma della presente legge vi è obbligo di assicurazione») come relativa anche al caso in cui si faccia valere una responsabilità contrattuale, pure l’analoga locuzione (che più ci interessa) di controversie in materia di “risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti” di cui alla legge 162/14 deve essere intesa come comprensiva anche dei casi di responsabilità contrattuale.

Quesito

Rientrano tra leazioni in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti soggette a negoziazione assistita obbligatoria anche le domande relative ai contratti assicurativi?

Rientra nell’ambito della negoziazione assistita (riguardando il risarcimento del danno conseguente al sinistro stradale e non attenendo al contratto assicurativo) la domanda risarcitoria formulata nei confronti del proprietario del mezzo antagonista (e/o dell’autore dell’illecito) e della sua compagnia di assicurazione (nei confronti della quale l’attore agisce in forza di un’azione non scaturente da alcun contratto ma prevista ex lege), nonché quella esperita nei confronti della propria compagnia di assicurazione in forza del principio dell’indennizzo diretto (posto che anche in questo caso lacausa petendinon risiede nel contratto assicurativo).

Sono invece semplici eccezioni (e non richiedono, quindi, la condizione di procedibilità pretesa per le domande giudiziali) quelle formulate dalla Compagnie in ordine alla copertura assicurativa (esistenza o meno, eventuale scadenza, superamento del massimale, ecc.).

Infine, la riposta al quesito della sottoponibilità a negoziazione assistita delle azioni di rivalsa fatte valere dalle Compagnie di Assicurazione nei confronti dell’assicurato danneggiato è fortemente collegata alla risposta che si fornisce alla questione relativa all’invio in negoziazione assistita delle domande riconvenzionali (questione che si tratterà in un successivo paragrafo).

6. I procedimenti esclusi.

6.1. Negoziazione e procedimenti cautelari.

Si è già osservato che si può iniziare un procedimento cautelare anche in assenza del tentativo di conciliazione.

Il quarto comma dell’art. 3 della legge 162/14 prevede, infatti, che “l’esperimento del procedimento di negoziazione assistita nei casi di cui al comma1” (e quindi nei casi di negoziazione obbligatoria) “non preclude la concessione di provvedimenti urgenti e cautelari, né la trascrizione della domanda giudiziale”.

Peraltro, il fatto che il procedimento cautelare non sia inibito dall’esistenza di un tentativo obbligatorio di conciliazione era già un dato acquisito in giurisprudenza (v. anche C. Cost. 22 ottobre 2007, n. 355 e C. Cost. 30 novembre 2007, n. 403).

Invero, la tutela cautelare costituisce uno strumento d’azione necessario per l’effettiva tutela del diritto controverso, costituzionalmente rilevante ai sensi degli art. 24 e 111 Cost., quando si prospetti una situazione di pericolo nel ritardo, che, in quanto tale, non tollera attese e necessita di una risposta di tutela a volte immediata.

La negoziazione, infatti, non può andare a discapito della parte che ha interesse a ottenere un provvedimento urgente o cautelare. Imporre una sospensione in tali ipotesi significherebbe precludere l’accesso alla giurisdizione rispetto a situazioni che richiedono una decisione in tempi molto ristretti.

La questione forse meno pacifica è quella relativa all’ambito dei procedimenti di natura urgente in relazione ai quali non occorre il previo tentativo di conciliazione.

Sul punto risulta parecchio rilevante il tenore testuale della norma, la cui ampia formulazione  consente di includervi diverse fattispecie, come quelle relative ai provvedimenti volti a fronteggiare stati di bisogno, la cui qualificazione è incerta in giurisprudenza e dottrina. Si pensi, ad esempio, all’ordinanza provvisionale ex articolo 147 del codice delle assicurazioni private.

Quesito

Si deve attivare il procedimento di negoziazione assistita dopo il procedimento ex art. 669 bis e prima del giudizio di merito?

Anche l’accertamento tecnico preventivo finalizzato alla conciliazione di cui all’art. 696 bis c.p.c. è stato escluso dall’ambito della negoziazione obbligatoria. Questa modifica normativa non ha fatto altro che recepire l’orientamento che si era formato sul punto nella giurisprudenza di merito in tema di mediazione obbligatoria. In proposito, infatti, aveva stabilito il Tribunale di Varese, sez. I, 21 aprile 2011 (in Guida al diritto 2011, 44, 8 e in Il civilista 2011, 11), che la consulenza tecnica preventiva (art. 696 bis c.p.c.) e la mediazione (d.lgs. 28/2010) perseguono la medesima finalità, introducendo entrambi gli istituti un procedimento finalizzato alla composizione bonaria della lite, così da sembrare tra loro alternativi e, quindi, apparendo le norme di cui al d.lgs. 28/2010 incompatibili logicamente e, dunque, non applicabili quando la parte proponga una domanda giudiziale per una c.t.u. preventiva. Invero, la prevalente giurisprudenza di merito aderisce, vuoi implicitamente vuoi esplicitamente, alla tesi dottrinaria che inscrive l’istituto dell’art. 696 bis c.p.c. nell’alveo della alternative dispute resolution, valorizzando la tensione della norma verso la composizione della lite, l’intervento di un terzo neutrale e le agevolazioni fiscali. Pertanto, in caso di c.t.u. preventiva, non sussiste la condizione di procedibilità di cui all’art. 5, comma 1, d.lgs. 28/2010 e il difensore non è obbligato alla comunicazione di cui all’art. 4, comma 3, d.lgs. 28/2010[2].

Il problema che si pone è se sia necessario attivare, con riferimento alle materie oggetto di negoziazione obbligatoria, il procedimento di negoziazione assistita dopo l’espletamento di un accertamento tecnico preventivoexart. 696bise prima del giudizio di merito. Su tale questione si è pronunziato il Tribunale di Roma (Sezione XIII, 16.12.2014) in relazione alla mediazione obbligatoria accogliendo l’eccezione di improcedibilità della domanda e inviando le parti in mediazione sulla base della considerazione per cui non poteva estendersi al giudizio di merito ciò che era previsto per il procedimento ex art. 669 bis c.p.c. in quanto “il rischio di duplicazione di un’attività conciliativa in contrasto con i principi di ragionevole durata del procedimento si paleserebbe recessivo rispetto alla evidente e più grave elusione della condizione di procedibilità di cui all’art. 5, comma 1 bis, del d.lgvo n. 28/2010… con il sostanziale generalizzato azzeramento dell’auspicata efficacia deflattiva sul complessivo sistema giudiziario”.        

Quesito

È escluso il procedimento sommario di cognizione?

Non è escluso dalla negoziazione obbligatoria il processo sommario di cognizione (art. 702 bis c.p.c.) e ciò sia perché esso è, secondo l’impostazione preferibile, un processo a cognizione piena che non ha natura urgente o cautelare, sia perché, se fosse stato escluso, sarebbe stato facile eludere il procedimento di negoziazione obbligatoria instaurando processualmente la controversia con il sommario di cognizione (sul punto v., in materia di mediazione obbligatoria, Trib. Palermo, sezione distaccata di Bagheria, 16 agosto 2011, in Guida al diritto 2011, 43, 18; Trib. Genova 18 novembre 2011; Trib. Varese, 20 gennaio 2012 e Trib. Firenze 22 maggio 2012).

Pertanto, per iniziare un procedimento sommario di cognizione in relazione alle materie rientranti nella negoziazione obbligatoria occorre la condizione di procedibilità del previo esperimento del procedimento di negoziazione).

Quesito

È sempre esclusa la domanda monitoria?

A differenza di quanto previsto per la mediazione obbligatoria (con riferimento alla quale si stabilisce che la norma sul previo esperimento del procedimento di mediazione quale condizione di procedibilità non si applica “nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione”), la legge 162/14 esclude che si debba effettuare l’invito alla stipula della convenzione di negoziazione assistita “nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione”. Quindi, anche dopo l’emissione di provvedimenti sulla provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo (o sulla sospensione della stessa) non dovranno inviarsi le parti in negoziazione.

Tuttavia, non si comprende il motivo del diverso trattamento della stessa fattispecie nelle due normative in tema di mediazione obbligatoria e di negoziazione assistita obbligatoria[3]. Probabilmente potrebbe ritenersi non rispettato l’art. 3 Cost. per violazione del principio di ragionevolezza nella previsione del diverso trattamento normativo. Invero, anche in caso di negoziazione assistita dovrebbero valere le medesime argomentazioni che si leggono nella relazione illustrativa del d.lgs. 28/10[4]. Peraltro, molti potrebbero optare per chiedere l’emissione di un decreto ingiuntivo in modo da non dovere instaurare la procedura di negoziazione assistita.

7. Gli esiti della negoziazione assistita.

Se viene stipulata la convenzione di negoziazione assistita i possibili esiti sono: 1) il mancato accordo (e la dichiarazione di mancato accordo è certificata dagli avvocati ex art. 4 comma 3 legge 162/14); 2) il raggiungimento di un accordo.

Secondo l’art. 5 della legge 162/14 l’accordo che compone la controversia, sottoscritto dalle parti e dagli avvocati che le assistono, costituisce titolo esecutivo e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. Nell’accordo gli avvocati certificano l’autografia delle firme e la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico.

I difensori che sottoscrivono l’accordo raggiunto dalle parti a seguito della convenzione sono tenuti a trasmetterne copia al Consiglio dell’ordine circondariale del luogo ove l’accordo è stato raggiunto, ovvero al Consiglio dell’ordine presso cui è iscritto uno degli avvocati (art. 11, c. 1, legge 162/14).

Sempre secondo l’art. 5 della legge 162/14 se con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti soggetti a trascrizione, per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione del processo verbale di accordo deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato.

Costituisce poi illecito deontologico per l’avvocato impugnare un accordo alla cui redazione ha partecipato.

8. I possibili vizi, contenuti e sviluppi della convenzione di negoziazione assistita o dell’accordo.

Quesito

Cosa succede se nella convenzione di negoziazione assistita si prevede un termine di durata della negoziazione superiore ai 3 mesi?

Probabilmente niente. Opera comunque, con una sostituzione automatica di clausolaexart. 1339 c.c., la previsione normativa ed il termine si intenderà ridotto a tre mesi prorogabili per altri 30 giorni.

Quesito

Cosa succede se nella convenzione di negoziazione assistita si prevede di negoziare anche su diritti indisponibili?

In questa parte la convenzione sarà nulla per violazione di norme imperative. Tuttavia, generalmente la convenzione sarà efficace per il resto se non si tratta di clausola essenziale (art. 1419 c.c.)

Quesito

Cosa succede se l’accordo raggiunto a seguito di negoziazione assistita coinvolge anche diritti indisponibili?

Dovrebbe ritenersi nullo l’accordo, almeno in relazione alla parte in cui si dispone di diritti indisponibili. Non dovrebbe quindi tenersi conto di tale parte dell’accordo.

Quesito

Che cosa succede se l’accordo raggiunto a seguito di negoziazione assistita è successivo a qualche vizio della procedura di negoziazione o non risulta in linea con i requisiti formali richiesti dalla legge 162/14?

È da ritenere, insieme al prof. Luiso, che in nessun caso la negoziazione assistita condiziona la validità dell’atto compiuto, nel senso che il mancato rispetto delle regole proprie di essa costituisce ragione di invalidità dell’accordo. Le regole sulla validità dell’accordo sono comunque quelle codicistiche. Tuttavia, non dovrebbe potere avere efficacia di titolo esecutivo ex art. 5 legge 162/14 un accordo privo della forma scritta (se non richiesta ad substantiam da altre norme, quali l’art. 1350 c.c.) o privo della sottoscrizione degli avvocati o della certificazione da parte di questi ultimi dell’autografia delle firme delle parti o della conformità dell’intesa a norme imperative o all’ordine pubblico.

Quesito

Che efficacia ha una clausola di negoziazione assistita inserita in un contratto per la risoluzione di future controversie?

Dalla formulazione letterale dell’art. 2 si desume che la convenzione di negoziazione funziona solo con riferimento ad una controversia in atto e quindi come “compromesso” e non come “clausola compromissoria”. Conseguentemente, una convezione riferita a controversie future non sarebbe vincolante, potendo essere condizione di procedibilità solo se previsto dalla legge. Nel caso della mediazione essa è condizione di procedibilità anche quando è prevista contrattualmente perché così dispone la legge. 

Quesito

Sono ipotizzabili forme di responsabilità precontrattuale o contrattuale relativamente alla convenzione di negoziazione assistita?

Se dopo un’inziale corrispondenza nella quale si manifestava favore alla conclusione della convenzione di negoziazione assistita subentra invece un rifiuto alla stipula della stessa, allora sarebbe ipotizzabile una forma di responsabilità precontrattuale.

E se dopo la stipula della convenzione di negoziazione assistita una delle parti si sottragga, in vario e ripetuto modo, agli impegni presi, non partecipando agli incontri di negoziazione, si potrebbe ritenere configurabile una forma di responsabilità contrattuale. È vero che la convenzione di negoziazione assistita non obbliga le parti a pervenire ad una definizione stragiudiziale della controversia. Tuttavia, con tale convenzione le parti si impegnano a “cooperare in buona fede e con lealtà” per tentare di definire bonariamente la loro controversia. Si tratta di un contratto che impegna le parti a negoziare al fine di trovare una composizione della lite. Esso fa sorgere un obbligo a negoziare.

9. Negoziazione assistita e patrocinio a spese dello Stato.

Quando il procedimento di negoziazione assistita è condizione di procedibilità della domanda, e quindi anche per le controversie relative ai sinistri stradali, all’avvocato non è dovuto compenso dalla parte che si trova nelle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato ai sensi dell’articolo 76 del Dpr 115/2002 (T.U. spese di giustizia).

La parte è comunque tenuta in questo caso a depositare all’avvocato un’apposita dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, la cui sottoscrizione può essere autenticata dal medesimo avvocato, nonché a produrre, se l’avvocato lo richiede, la documentazione necessaria a comprovare la veridicità di quanto dichiarato.

Tuttavia, in relazione alla mediazione obbligatoria, è stato emesso un interessantissimo provvedimento del Tribunale di Firenze del 13.1.2015 (estensore Breggia) che ha riconosciuto la spettanza al difensore dei compensi per il patrocinio a spese dello Stato anche per la fase della mediazione e pure per il caso in cui non si sia arrivato a giudizio avendo la mediazione portato alla stipulazione di un accordo.

Il bravo giudice fiorentino ha valorizzato le fonti europee sull’estensione del patrocinio a spese dello Stato anche in relazione ai sistemi di risoluzione alternativa delle controversie, l’orientamento della Cassazione che riconosce il patrocinio a spese dello Stato anche per le attività extragiudiziali connesse a quelle giudiziali e l’irragionevolezza della soluzione (che peraltro scoraggerebbe la composizione extragiudiziale delle liti) che riconosca il patrocinio a spese dello Stato quando l’attività stragiudiziale non porta all’accordo e che, invece, non riconosca tale patrocinio nel caso in cui il difensore ha, facendo raggiungere l’accordo, svolto al meglio il suo compito.

Aderendo all’impostazione del Tribunale di Firenze, si verrebbe quindi a delineare un diverso (e forse ingiustificato) trattamento tra la mediazione e la negoziazione, il che giustificherebbe i dubbi di legittimità costituzionale di cui si dirà nel prossimo paragrafo.

10. Le prospettate questioni di legittimità costituzionale.

In dottrina sono stati evidenziati alcuni profili di possibile illegittimità costituzionale della nuova disciplina. Sinteticamente si tratta dei seguenti:

1) sovrapposizione di forme di a.d.r. diverse (in possibile contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.);

2) introduzione di una forma di giurisdizione condizionata economicamente onerosa. È vero, infatti, che, di per sé, introdurre come condizione di procedibilità della domanda un tentativo preliminare di conciliazione comunque disciplinato e denominato non viola la disposizione costituzionale sul diritto di azione se si tratta di un caso di giurisdizione condizionata che non rende troppo difficile l’accesso alla tutela giurisdizionale, come accade nella negoziazione assistita con riferimento alla brevità del tempo entro il quale la condizione di procedibilità viene meno (tra 1 e 3 mesi). Tuttavia, se si tiene conto di alcuni decisioni della Corte costituzionale (cfr. sentenze n. 522 del 2002 e n. 333 del 2001), se al condizionamento nell’esercizio dell’azione si accompagna in costo economico rilevante, allora potrebbe aversi la violazione dell’art. 24 co. 1 Cost. Nel caso della negoziazione assistita le spese che le parti devono affrontare sono piuttosto rilevanti tutte le volte che la procedura si svolge fino in fondo ma non ottiene alcun risultato conciliativo. E sono sicuramente non indifferenti per il futuro attore anche nel caso in cui alla comunicazione dell’invito a negoziare si risponda con un rifiuto o manchi la risposta entro il termine previsto;

3) introduzione di una forma di giurisdizione condizionata che viola l’autonomia privata. Sotto questo profilo si ritiene che ritardare l’avvio del processo obbligando le parti a negoziare e con l’assistenza dell’avvocato sembra collidere con i princìpi fondamentali che tutelano l’autonomia privata (art. 41 Cost.). Poiché le parti sono libere di negoziare dei loro diritti senza obblighi di assistenza alcuna (tantomeno degli avvocati, dei quali si sarebbe potuto prevedere l’intervento – come in mediazione – anche soltanto all’esito dell’accordo ai fini della sua esecutività) anche nella fase patologica del loro rapporto, obbligarle a negoziare (per giunta con l’assistenza dell’avvocato), ritenendo che in alcune controversie tale attività costituisca condizione di procedibilità, mortifica l’autonomia dei privati, senza al contempo offrire alle stesse parti un percorso di ADR eterodiretto che possa in qualche modo giustificare anche il ritardo nell’accesso alla giurisdizione;

4)  reintroduzione del gratuito patrocinio (contrasto con gli artt. 2, 3, 24 e 36 Cost.) con riferimento all’ipotesi di negoziazione assistita quale condizione di procedibilità della domanda ai sensi dell’art. 3, comma 1, quando la parte si trova nelle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. Il comma 6 del medesimo articolo stabilisce, infatti, che in questo caso non è dovuto alcun compenso all’avvocato. Le difficoltà di bilancio determinano qui una reintroduzione surrettizia, per un caso particolare, del patrocinio gratuito, introdotto nel 1923 e soppresso nel 1990 come doveroso ed onorifico compito dell’avvocatura;

5) irragionevole diversa disciplina, rispetto alla mediazione obbligatoria, relativa ai procedimenti monitori ed alla scelta, difficilmente comprensibile, di escludere del tutto la condizione di procedibilità per le cause di opposizione a decreto ingiuntivo (contrasto con l’art. 3 Cost.);

6) insussistenza dei presupposti della necessità ed urgenza (violazione dell’art. 77 Cost.). Invero, il caso straordinario di necessità e urgenza che deve connotare un decreto legge ai sensi dell’art. 77, comma 2, Cost. non sembra qui ravvisabile. In particolare, la disciplina dell’art. 2 è entrata in vigore mesi dopo l’emanazione del decreto del 12 settembre 2014, e ciò in conseguenza dei novanta giorni divacatiodalla pubblicazione della legge di conversione.

NEGOZIAZIONE E PROCESSO

11. Il rilievo dell’improcedibilità da parte del giudice.

Quesito

Cosa succede se gli avvocati delle parti si accordano per evitare la procedura di negoziazione ed adire direttamente il giudice con l’intesa di non eccepire l’improcedibilità dell’azione e confidando nel mancato rilievo officioso del giudice?

In diversi casi può succedere che gli avvocati delle parti si accordino per evitare la procedura di negoziazione assistita (ben sapendo dell’impossibilità o dell’elevata difficoltà di pervenire ad una conciliazione, magari alla luce dei rapporti tra le parti e dell’elevato contenzioso già esistente tra le stesse) ed adire direttamente il giudice con l’intesa di non eccepire l’improcedibilità dell’azione e confidando nel mancato rilievo officioso del giudice.

Tuttavia, questa scelta non sembra poter essere produttiva di esiti positivi. Ad esempio, Trib. Palermo, sezione distaccata di Bagheria (ordinanza del 13 luglio 2011), ha ritenuto, con riferimento alla mediazione obbligatoria, che la rilevabilità dell’improcedibilità è obbligatoria e non discrezionale in quanto, letteralmente, il comma 1 dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010 prevede che «l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto a pena di decadenza o rilevata d’ufficio dal giudice non oltre la prima udienza». Ed anche nel comma 1 dell’art. 3 della legge 162/14 il “deve” regge sia l’eccezione di parte che il rilievo officioso.

Quesito

Nel caso in cui la prima udienza si strutturi materialmente in più udienze il rilievo officioso deve farsi alla prima di queste o anche nelle altre?

Sembra preferibile configurare il concetto di prima udienza non in relazione alla sua configurazione formale ma a quella sostanziale, ossia a quella di udienzaexart. 183 c.p.c., con la conseguenza che il rilievo d’ufficio potrà essere effettuato, nel caso in cui la prima udienza si sia articolata, formalmente, in più udienze, anche dopo la prima (sul punto cfr., per casi analoghi Cass. (ord.) 19410/2010 e 1167/2007), ma comunque fino al momento in cui il giudice può porre alle parti,exart. 183, comma 4, c.p.c., le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione. Ecco che, concessi i termini ex art. 183, comma 6, c.p.c. o ammessi i mezzi istruttori, non può più effettuarsi il rilievo officioso dell’improcedibilità.

Tuttavia, secondo una certa tesi se l’eccezione viene formulata dalle parti tempestivamente ma viene disattesa dal giudice, quest’ultimo può in un secondo momento rilevare l’improcedibilità (dando quindi il termine di 15 giorni per la comunicazione dell’invito a stipulare una convenzione di negoziazione assistita rinviando ad un’udienza fissata ad oltre quattro mesi di distanza). Sempre in quest’ottica sarebbe pure un fondato motivo di appello quello relativo al rigetto dell’eccezione di improcedibilità tempestivamente formulata.

Tuttavia, è bene evidenziare, come già sopra si è fatto, che l’orientamento giurisprudenziale prevalente è nel senso di ritenere che ove l’improcedibilità dell’azione, ancorché segnalata dalla parte, non venga rilevata dal giudice entro il suddetto termine, la questione non possa essere riproposta nei successivi gradi di giudizio (v., per l’analogo caso del rito del lavoro, Cass. 21797/09; 13591/09; 7871/08; 13708/07; 15956/04; 11629/04; v. Cass. 3022/03, 10089/00 e 4578/96 per l’ipotesi di improcedibilità prevista dall’art. 5 della legge n. 108 del 1990).

Quesito

Cosa deve fare il giudice in caso di mancata certificazione dell’autografia della firma da parte degli avvocati nell’accordo o di mancata certificazione della firma della parte nell’invito?

L’accordo non è certamente nullo per l’assenza di certificazione della firma. Se le parti lo avessero stipulato al di fuori del procedimento di negoziazione assistita sarebbe comunque stato valido anche in assenza di certificazione della sottoscrizione. Forse, però, l’accordo che non rispetti le forme del procedimento di negoziazione assistita (e quindi anche quella della certificazione della firma) non potrà costituire titolo esecutivo ai sensi dell’art. 5 della legge 162/14.

Per divenire esecutivo il verbale d’accordo deve essere, infatti, sottoscritto, oltre che dalle parti, dagli avvocati, che devono anche attestare e certificare la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico[5].

Maggiormente problematica è la questione della mancata certificazione della sottoscrizione della parte nell’invito. Si è in questo caso formata una buona condizione di procedibilità? Forse la risposta preferibile è quella negativa. Per evitare qualunque questione sulla procedibilità della domanda (anche negli eventuali futuri gradi del giudizio) sarebbe il caso di far rinnovare la comunicazione dell’invito assegnando il termine di 15 giorni e rinviando ad oltre quattro mesi. Lo stesso dicasi per l’invito firmato dal solo avvocato, posto che l’art. 4 della legge 162/14 parla di autografia da parte dell’avvocato della firma apposta dalla parte all’invito (che sembra quindi necessaria nonostante l’art. 2 faccia riferimento ad un invito della parte “tramite il suo avvocato”) e per evitare comunque che possano sorgere questioni sulla prova che a quest’ultimo sia stato concesso un mandato prima della redazione dell’invito. L’invito con firma della parte non certificata dall’avvocato non potrà, poi, neppure portare a fare, in caso di suo rifiuto o di sua mancata accettazione, le valutazioni ex artt. 96 e 642, comma 1, c.p.c.

Quesito

Cosa accade se l’invito è inviato non alla parte ma all’avvocato con il quale era già in corso una corrispondenza informale?

In assenza dell’instaurazione di un rapporto processuale in forza del quale le comunicazioni alla parte possono farsi al suo procuratore, l’invito va comunicato alla parte personalmente.

Quesito

Cosa deve fare il giudice se nell’invito manca l’avvertimento che la mancata risposta all’invito entro 30 giorni o il suo rifiuto può essere dal giudice valutato ex artt. 96 e 642 c.p.c.?

Si potrebbe ritenere che, poiché le conseguenze della mancata risposta o del rifiuto sono previste dalla legge, allora non occorre che il giudice disponga che la parte effettui un nuovo invito nei confronti dell’altra parte. In altri termini, la mancanza dell’avvertimento nell’invito potrebbe non sembrare un vizio tale da comportare che la domanda non è munita di procedibilità e che il giudice debba concedere il termine di 15 giorni per inviare nuovamente un invito alla parte chiamata.

In realtà, pare preferibile adottare un’interpretazione maggiormente garantista che applichi la medesima soluzione prevista dall’art. 164 c.p.c. per la mancanza in citazione dell’avvertimento circa le decadenze ex artt. 38 e 167 c.p.c. Si dovrebbe fare comunicare un nuovo invito, così pure evitando eventuali motivi di appello fondati sull’improcedibilità della domanda dell’attore.  

Quesito

Quale può essere la valutazione giudiziale del comportamento dell’invitato di accettazione o di rifiuto dell’invito?

Secondo il comma 2 dell’art. 3 della legge 162/14, nei casi di negoziazione assistita obbligatoria la condizione di procedibilità si considera avverata quando nei 30 giorni dalla comunicazione dell’invito vi è stato rifiuto dell’invito o non vi è stata adesione.

Se, invece, la parte chiamata aderisce all’invito entro 30 giorni dalla sua comunicazione si potrà allora concludere la convenzione di negoziazione assistita, con la conseguenza che dovrà poi verificarsi se vi è stato o meno l’accordo e se sia o meno decorso il termine massimo concordato (tra uno e tre mesi, con possibile proroga di altri 30 giorni) dalle parti (al fine di stabilire se fissare nuova udienza dopo il decorso del termine massimo in caso di trattative ancora in corso).

Se il chiamato ha aderito all’invito dopo il decorso del termine di 30 giorni allora dovrà ritenersi comunque possibile la conclusione della convenzione di negoziazione assistita e sarà bene concedere un rinvio a dopo la scadenza del termine massimo legale (3 mesi + 1).

Infine, poiché (venendo qui in questione una condizione di procedibilità e non di proponibilità della domanda) la citazione può essere notificata anche prima della comunicazione dell’invito alla stipula della convenzione di negoziazione assistita (o in assenza di tale invito, caso nel quale il giudice concede il termine di 15 giorni per provvedere), il giudice dovrebbe pure accertarsi, qualora la comunicazione sia stata fatta e manchino un esplicito rifiuto o un’esplicita adesione, se siano decorsi i 30 giorni per potere accettare o rifiutare l’invito.

Quesito

Il giudice deve verificare che l’invito sia stato regolarmente portato a conoscenza dell’altra parte? Cosa succede se si ritiene non corretta tale comunicazione?

È da credere che, dovendo il giudice accertare la ricorrenza della condizione di procedibilità (condizione che è costituita dallo “esperimento del procedimento di negoziazione assistita”), il giudice possa sindacare la correttezza o meno della comunicazione in questione, con la conseguenza che (qualora il convenuto eccepisca di non avere ricevuto comunicazione del procedimento di mediazione) egli può richiedere la produzione della comunicazione dell’invito alla stipula della convenzione di negoziazione assistita e, qualora non ritenga idoneo il mezzo impiegato (es. mail non certificata), dovrebbe considerare insussistente la condizione di procedibilità ed assegnare il termine di 15 giorni per la comunicazione dell’invito.

Sarebbe quindi preferibile avvalersi dello strumento, particolarmente attendibile, della notificazione.

Quesito

Il giudice deve verificare la corrispondenza oggettiva tra la domanda giudiziale e l’oggetto del tentativo di conciliazione?

In caso di controversia rientrante tra le ipotesi di negoziazione assistita obbligatoria il giudice deve accertare che le domande formulate dalla parte attrice o ricorrente siano le stesse intorno alle quali il tentativo di conciliazione si è svolto (o si sarebbe dovuto, comunque, svolgere ove avesse avuto luogo) – cfr., in materia di contratti agrari, Cass. 15802/2005; 10497/2001; 10322/97; 6295/95.

Qualora la domanda giudiziale abbia ad oggetto rivendicazioni non menzionate nel procedimento di negoziazione il tentativo obbligatorio di conciliazione, in ragione di tale non corrispondenza del petitum, non risulta ritualmente esperito e si deve assegnare un termine per il rinnovo del tentativo obbligatorio di conciliazione (v., con riferimento alla materia lavoristica, Tribunale Roma, 26 settembre 2006).

Tuttavia, deve anche rilevarsi che non sussiste contraddizione tra la domanda anticipata nell’invito o nella convenzione di negoziazione e la domanda come formulata in sede giudiziaria qualora in entrambe le occasioni la parte istante abbia sollecitato la condanna delle controparti al pagamento di tutte le somme dovute, sebbene quantificate in modo diverso nel procedimento di conciliazione e nella domanda giudiziale.

Non è infatti rilevante che la pretesa ricavabile dal procedimento di conciliazione sia di contenuto quantitativo meno ampio di quella formulata in sede giudiziaria. Non si dubita, infatti, che la diversa quantificazione o specificazione della pretesa, fermi i fatti costitutivi di essa, non comporta prospettazione di una nuova causa petendim a integra una mera emendatio che come è ammissibile nel corso del giudizio di primo grado o di appello così, a maggior ragione, deve ritenersi consentita nei rapporti tra la richiesta come formulata nel procedimento di conciliazione e la successiva articolazione in sede giudiziaria (cfr. Cass. 9266/2010). 

Un problema può porsi quando nell’invito o nella convenzione di negoziazione manchi o sia indicato in modo molto generico “l’oggetto della controversia” (requisito richiesto dagli artt. 2 e 4 della legge 162/14[6]). In questi casi sembra preferibile ritenere che solo laddove l’invito o la convenzione di negoziazione non contenga alcuna specificazione dell’oggetto della controversia (o laddove tale elemento sia assolutamente incomprensibile) si potrà considerare il tentativo di conciliazione come non regolarmente instaurato.

Certo, sarebbe bene che gli avvocati effettuassero un controllo attento sul punto.

Va comunque precisato che è bene esaminare, al fine di valutare la coincidenza tra l’oggetto del procedimento di negoziazione e la domanda giudiziale, sia l’invito e la convenzione di negoziazione che il verbale di mancato accordo, posto che anche nel corso del procedimento si possono modificare le domande.

Quesito

Cosa deve fare il giudice se verifica che le parti non hanno rispettato il termine di 15 giorni da lui concesso per l’invio della comunicazione?

Quando il giudice verifica che non è stato esperito il tentativo di conciliazione, assegna il termine di 15 giorni per inviare l’invito alla stipula della convenzione di negoziazione assistita, fissando già l’udienza successiva dopo la scadenza del termine massimo stabilito dalle parti o, in sua assenza, del termine massimo di tre mesi (oltre i 15 giorni concessi per l’invio dell’invito).

Se, invece, la negoziazione risulta iniziata ma non ancora conclusa, allora il giudice non dovrà, evidentemente, concedere il termine di 15 giorni per la comunicazione dell’invito, ma fisserà solo la successiva udienza dopo la scadenza del termine massimo previsto per la durata del procedimento di negoziazione.

Bene ha fatto il legislatore, ad avviso di chi scrive, a non prevedere, come invece nell’art. 412bisc.p.c. in tema di rito del lavoro, la sospensione del processo. In questo caso si ha un mero differimento della trattazione della causa. Viene effettuato un mero rinvio.

In maniera condivisibile non si prevede che il processo si sospenda e che siano poi le parti a riassumerlo dopo la scadenza del termine massimo. Si stabilisce, invece, che sia il giudice a fissare già l’udienza di prosecuzione del giudizio In tal modo si sono evitati tempi, spesso lunghi, collegati alla redazione ed al deposito del ricorso in riassunzione, alla fissazione dell’udienza ed alla notificazione del provvedimento di fissazione dell’udienza. Si sono pure evitate tutte quelle questioni (comunque risolte negativamente dalla giurisprudenza) relative alla proponibilità di una domanda nuova con l’atto di riassunzione. Si sono anche eliminate le spese collegate alla riassunzione.  

All’udienza fissata il giudice accerterà (in caso di comparizione delle parti) se è stato espletato il procedimento di negoziazione e, se verificherà che la comunicazione dell’invito non è stata inviata (in caso di mancata previa comunicazione dell’invito), allora dichiarerà l’improcedibilità della domanda giudiziale con sentenza (v. Cass. 6326/04). Non convince la tesi di chi ritiene possibile un rinvio con concessione di un altro termine per comunicare l’invito in quanto se il giudice concede un rinvio nonostante la comunicazione dell’invito non sia stata fatta non solo entro i 15 giorni concessi, ma neppure prima dell’udienza di rinvio, allora dovrebbe concedere un altro rinvio se tale eventualità si verifica nuovamente alla successiva udienza. E non si potrà dire se l’improcedibilità andrà dichiarata al secondo, terzo o quarto inadempimento.

In caso, invece, di accertato invio della comunicazione, il giudice verificherà se sia stata raggiunta o meno la conciliazione e se la negoziazione sia ancora in corso. In caso di accertato accordo dovrà emanarsi sentenza di declaratoria della cessazione della materia del contendere. In caso di mancato accordo e di effettuazione della comunicazione il giudizio andrà avanti (e ciò anche in caso di conciliazione parziale, ipotesi nella quale la cessazione della materia del contendere riguarderà le sole questioni oggetto di conciliazione).

Si può anche verificare che la comunicazione dell’invito sia stata sì presentata ma non entro il termine di giorni 15 fissato dal giudice. In questo caso è preferibile la tesi per cui, non trattandosi di termine perentorio (non essendo così qualificato dalla legge; v. art. 152 c.p.c.), andrebbe fissata una nuova udienza a data successiva rispetto alla scadenza del termine massimo (negoziale o, assenza, legale) di durata della procedura (per casi analoghi risolti in modo simile v. Cass. 26849/10; 26039/05; 420/98; 1571/96; 9288/95). Certo, è comunque anche noto il principio per cui la proroga, anche d’ufficio, dei termini ordinatori è consentita dall’art. 154 c.p.c., soltanto prima della loro scadenza, sicché il loro decorso senza la presentazione di un’istanza di proroga, determinando gli stessi effetti preclusivi della scadenza dei termini perentori, impedisce la concessione di un nuovo termine (v. Cass. 1064/05; 3406/04; 808/99; 11774/98). Non può comunque non considerarsi che in caso di mancato rispetto del termine di 15 giorni nessun problema si porrà quando l’udienza risulterà fissata a data successiva rispetto a quella in cui il procedimento di negoziazione si è esaurito o è comunque già decorso il termine massimo della procedura. E pare difficile discriminare tale caso da quello in cui l’udienza cada prima della scadenza di tale termine.

Inoltre, può pure verificarsi il caso (ed è verosimile che non sarà ipotesi rara, soprattutto in caso di negoziazione con molte parti) in cui all’udienza fissata dal giudice si accerti che, nonostante sia decorso il termine massimo, il procedimento di negoziazione non sia ancora concluso. Viene quindi da chiedersi se il procedimento debba necessariamente chiudersi nel termine massimo e cosa succeda qualora questo non accada.

Sembra preferibile ritenere che il termine massimo convenuto o legale non abbia natura perentoria (non essendo così previsto per legge), con la conseguenza che le parti potranno validamente concludere una conciliazione anche oltre tale termine ovvero richiedere un allungamento dei tempi per la negoziazione con un rinvio dell’udienza. Ciò che importa è, secondo chi scrive, che prima dell’udienza fissata sia stata effettuata la comunicazione dell’invito.

E non dovrà attendersi la fine del procedimento di negoziazione per riattivare il giudizio. Il decorso del termine massimo comporta che il processo può iniziare o (nel nostro caso) proseguire.

Quesito: nei casi in cui la domanda relativa a controversia rientrante nella negoziazione obbligatoria viene formulata con ricorso il giudice che verifica l’assenza della condizione di procedibilità deve fissare udienza senza nulla dire sulla negoziazione o, nel fissare udienza, rileva l’improcedibilità, fissa udienza oltre il termine massimo della procedura di negoziazione e concede il termine di 15 giorni per comunicare l’invito?

Meno semplice è la questione del possibile rilievo d’ufficio già in sede di decreto di fissazione dell’udienza.

Non sembra comunque condivisibile l’impostazione per cui il rilievo officioso sia esercitabile già con il decreto di fissazione dell’udienza di discussione[7]. Certo, è vero che in tal modo si mira ad assicurare una più celere definizione del procedimento, dando attuazione al principio costituzionale della ragionevole durata del processo, ma è anche vero che non sembra ben rispettato il prevalente principio del contraddittorio (v. Cass., sez. un., 20604/08; sez. un. 9962/10). Occorre dare alle parti del giudizio la possibilità di interloquire sulla necessità o meno di instaurare un procedimento di negoziazione (che potrebbe non essere necessario in relazione a casi che non rientrino pacificamente in una delle categorie indicate dal legislatore). Senza considerare che il procedimento di negoziazione potrebbe pure essere stato posto in essere senza che, però, la parte ricorrente abbia allegato al suo fascicolo processuale il verbale negativo di conciliazione o la comunicazione dell’invito. In relazione ad un caso di questo tipo il detto rilievo officioso già in sede di decreto di fissazione di udienza comporterebbe addirittura, invece che una riduzione dei termini processuali, un allungamento degli stessi.

12. A quali condizioni può ritenersi adempiuto l’ordine del giudice.

Quesito

Va richiesta la partecipazione effettiva delle parti nella procedura di negoziazione assistita?

Per rispondere a tale quesito occorre innanzitutto ripercorrere il dibattito giurisprudenziale che si è formato in materia di mediazione.

Il ricordato provvedimento del Trib. Firenze, sez. II civile, 19.3.2014 chiarisce le condizioni verificatesi le quali può ritenersi correttamente eseguito l’ordine del giudice e può quindi considerarsi formata la condizione di procedibilità. Esse sono: 1) che vi sia stata la presenza personale delle parti; 2) che le parti abbiano effettuato un tentativo di mediazione vero e proprio.

Ed anche per Trib. Firenze, sez. spec. impresa, 17.3.2014 occorre la comparizione personale delle parti. Ecco che, avendo nel caso di specie i difensori delle parti, all’uopo delegati, manifestato al mediatore la mera volontà dei deleganti di non procedere all’esperimento della mediazione, il Tribunale di Firenze ha rimesso le parti di nuovo davanti al mediatore. In altri termini, secondo il Tribunale di Firenze nel caso in cui il giudice disponga la mediazione la condizione di procedibilità non è soddisfatta quando i difensori si recano dal mediatore e, ricevuti i suoi chiarimenti su funzione e modalità della mediazione, dichiarano il rifiuto di procedere oltre. In caso di mediazione ex officioè necessario che le parti compaiano personalmente (assistite dai propri difensori come previsto dall’art. 8 d.lgs. n. 28/2010) e che la mediazione sia effettivamente avviata.

Nel suo articolato e ben strutturato ragionamento il giudice fiorentino (ord. 19.3.2014) parte dalla considerazione per cui l’art. 5 e l’art. 8 del d.lgs. 28/10 sono formulati in modo ambiguo, posto che nell’art. 8 sembra che il primo incontro sia destinato solo alle informazioni date dal mediatore ed a verificare la volontà di iniziare la mediazione (l’art. 8 prevede, infatti, che “durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento”). Tuttavia, nell’art. 5, comma 2bis, si parla di “primo incontro concluso senza l’accordo”. Sembra dunque che il primo incontro non sia una fase estranea alla mediazione vera e propria. Non avrebbe molto senso, secondo il Tribunale di Firenze, parlare di ‘mancato accordo’ se il primo incontro fosse destinato non a ricercare l’accordo tra le parti rispetto alla lite, ma solo la volontà di iniziare la mediazione vera e propria. Ciò a prescindere dalle difficoltà di individuare con precisione scientifica il confine tra la fase c.d. preliminare e la mediazione vera e propria (difficoltà ben nota a chi ha pratica della mediazione), data la non felice formulazione della norma.

Pertanto, il Tribunale di Firenze ha ritenuto necessario, al fine di spiegare la detta ambiguità interpretativa, ricostruire la regola avendo presente lo scopo della disciplina, anche alla luce del contesto europeo in cui si inserisce (direttiva 2008/52/CE).

Sei sono gli argomenti che hanno portato il Tribunale di Firenze a ritenere necessaria, per la formazione della condizione di procedibilità della domanda giudiziale dopo la mediazione ex officio iudicis, la presenza effettiva delle parti nel procedimento di mediazione e l’effettivo avvio di un sostanziale tentativo di mediazione:

1) i difensori, definiti mediatori di diritto dalla stessa legge, hanno sicuramente già conoscenza della natura della mediazione e delle sue finalità. Se così non fosse non si vede come potrebbero fornire al cliente l’informazione prescritta dall’art. 4, comma 3,  del d.lgs 28/2010, senza contare che obblighi informativi in tal senso si desumono già sul piano deontologico (art. 40 codice deontologico ). Non avrebbe dunque senso imporre l’incontro tra i soli difensori e il mediatore solo in vista di un’informativa;

2) la natura della mediazione esige che siano presenti di persona anche le parti: l’istituto mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto: questo implica necessariamente che sia possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore. L’assenza delle parti, rappresentate dai soli difensori, dà vita ad altro sistema di soluzione dei conflitti, che può avere la sua utilità, ma non può considerarsi mediazione. D’altronde, questa conclusione emerge anche dall’interpretazione letterale: l’art. 5, comma 1 bis e l’art. 8 prevedono che le parti esperiscano il (o partecipino al) procedimento mediativo con l’assistenza degli avvocati, e questo implica la presenza degli assistiti;

3) ritenere che la condizione di procedibilità sia assolta dopo un primo incontro in cui il mediatore si limiti a chiarire alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione vuol dire in realtà ridurre ad un’inaccettabile dimensione notarile il ruolo del giudice, quello del mediatore e quello dei difensori. Non avrebbe ragion d’essere una dilazione del processo civile per un adempimento burocratico del genere. La dilazione si giustifica solo quando una mediazione sia effettivamente svolta e vi sia stata un’effettivachancedi raggiungimento dell’accordo alle parti. Pertanto occorre che sia svolta una vera e propria sessione di mediazione. Altrimenti, si porrebbe un ostacolo non giustificabile all’accesso alla giurisdizione;

4) l’informazione sulle finalità della mediazione e le modalità di svolgimento ben possono in realtà essere rapidamente assicurate in altro modo: 1. Dall’informativa che i difensori hanno l’obbligo di fornire ex art. 4 cit., come si è detto; 2. dalla possibilità di sessioni informative presso luoghi adeguati (v. direttiva europea) e, per quanto concerne il Tribunale di Firenze, presso l’URP (v. articolo 11 del protocollo  Progetto  Nausicaa2 ) e  da ultimo, sempre nell’ambito di tale Progetto, presso l’ufficio di orientamento gestito dal Laboratorio Unaltromodo dell’Università di Firenze;

5) l’ipotesi che la condizione si verifichi con il solo incontro tra gli avvocati e il mediatore per le informazioni appare particolarmente irrazionale nella mediazione disposta dal giudice: in tal caso, infatti, si presuppone che il giudice abbia già svolto la valutazione di ‘mediabilità’ del conflitto  (come prevede l’art. 5 cit.: che impone al giudice di valutare ”la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti”), e che tale valutazione si sia svolta nel colloquio processuale con i difensori. Questo presuppone anche un’adeguata informazione ai clienti da parte dei difensori; inoltre, in caso di lacuna al riguardo, lo stesso giudice, qualora verifichi la mancata allegazione del documento informativo, deve a sua volta informare la parte della facoltà di chiedere la mediazione. Come si vede, dunque, sono previsti plurimi livelli informativi e non è pensabile che il processo venga momentaneamente interrotto per un’ulteriore informazione anziché per un serio tentativo di risolvere il conflitto;

6) l’art. 5 della direttiva europea 2008/52/CE distingue le ipotesi in cui il giudice invia le parti in mediazione rispetto all’invito (sempre da parte del giudice) per una semplice sessione informativa: un ulteriore motivo per ritenere che nella mediazione disposta dal giudice viene chiesto alle parti (e ai difensori) di esperire la mediazione e cioè l’attività svolta dal terzo imparziale finalizzata ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole (secondo la definizione  data dall’art. 1 del d.lgs. n. 28/2010) e non di acquisire una mera informazione e di rendere al mediatore una dichiarazione sulla volontà o meno di iniziare la procedura mediativa.

Alla luce delle considerazioni che precedono il giudice fiorentino ha considerato quale criterio fondamentale la ragion d’essere della mediazione, che ruota attorno all’esigenza di tentare realmente di pervenire ad una soluzione non giudiziale della controversia, ed ha affermato la necessità che le parti compaiano personalmente (assistite dai propri difensori come previsto dall’art. 8 d.lgs. n. 28/2010) e che la mediazione sia effettivamente avviata.

Un’altra strada interpretativa è quella seguita (allo stato) dal Tribunale di Milano (strada, però, inaugurata prima della presa di posizione di Firenze): la condizione di procedibilità è soddisfatta anche quanto sia tenuto solo il primo incontro di mediazione senza accordo (l’incontro di cui all’art. 8 comma I d.lgs. 28/2010). Le differenze non sono di scarsa rilevanza. Nel primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti ed i loro avvocati ad esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento. Si tratta, dunque, secondo il Tribunale di Milano, dell’incontro dedicato alla cd. valutazione di mediabilità e, cioè, dell’anticamera del procedimento mediativo.

Secondo il primo indirizzo illustrato (Tribunale di Firenze), per soddisfare la condizione di procedibilità questo primo incontro non basta: occorre dare effettivamente inizio alla procedura. Per il secondo indirizzo segnalato (Tribunale di Milano) questa prima relazione al tavolo di mediazione è già sufficiente.

La lettura che conferisce maggiore razionalità all’istituto è certamente quella fiorentina e ciò almeno per quanto riguarda l’effettivo tentativo di mediazione, considerato che è invece difficile sostenere che le parti debbano essere personalmente presenti, essendo loro diritto conferire eventualmente una procura di carattere sostanziale ad un altro soggetto (che può pure essere l’avvocato difensore).

Sussiste, però, un nodo interpretativo da risolvere. Il Legislatore ha espressamente regolato il regime giuridico sotteso alla condizione di procedibilità e previsto, all’art. 5 comma 2 bis, che «quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo». La disposizione, dunque, sembra richiamare espressamente “il primo incontro” di cui all’art. 8 comma I cit.

Il giudice non potrebbe quindi esigere, al fine di ritenere correttamente formata la condizione di procedibilità, che le mediazione sia stata tentata anche oltre il primo incontro.

Tuttavia, egli può comunque richiedere che in questo primo incontro il tentativo di mediazione sia stato effettivo.

Certo, è vero che può sembrare che in questo primo incontro il mediatore potrebbe non avere neppure la possibilità di tentare un accordo se le parti non vogliono che ciò accada. Infatti, secondo quanto previsto dall’art. 8 del nuovo d.lgs. 28/10, “durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento”.

Una prima lettura delle disposizioni normative pare giustificare un’interpretazione per cui se le parti e i loro avvocati non vogliono effettuare un vero tentativo di conciliazione (magari per non pagare il compenso all’organismo di mediazione) ben possono esprimere in questa prima parte del primo incontro, di natura preliminare, la loro volontà contraria all’inizio di una mediazione e il tuto finisce lì. La disposizione normativa in questione, così interpretata, sarebbe molto discutibile in quanto rischierebbe di rendere la mediazione di fatto facoltativa. Il mediatore potrebbe pure pensare, alla luce di tale disposizione normativa, di non potere neppure tentare di verificare se effettivamente le posizioni delle parti sono inconciliabili. Se, infatti, in quest’ultimo caso si può parlare di un fallimento della mediazione, nel caso teoricamente consentito dal legislatore di manifestazione (anche ad opera di una sola delle parti) della sua volontà contraria alla mediazione vi sarebbe un aborto legale della mediazione. Peraltro, se si ritiene che ogni parte può impedire fin dall’inizio l’effettivo svolgimento del procedimento di mediazione, ognuno dei partecipanti sarebbe titolare di un diritto potestativo alla chiusura del procedimento e gli altri sarebbero tutti in una posizione di soggezione. Ed è da credere che tale diritto potestativo verrebbe spesso esercitato se si considera che, come accennato, è stato aggiunto il comma 5 ter dell’art. 17 del d.lgs. 28/10, secondo cui nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione.

Tuttavia, una corretta interpretazione (in linea con la ratio della direttiva europea – ed è noto che gli operatori nazionali sono tenuti, secondo la Corte di giustizia UE, a tentare un’interpretazione delle disposizioni nazionali conforme alle norme europee – che mira ad agevolare il più possibile la soluzione delle controversie in modo alternativo a quello giudiziario) è quella che ritiene che il mediatore, nell’invitare le parti e i loro procuratori a esprimersi sulla “possibilità” di iniziare la procedura di mediazione, deve verificare se vi siano i presupposti per poter procedere nell’effettivo svolgimento della mediazione (il cui procedimento comunque già inizia con il deposito dell’istanza di mediazione). Tali presupposti sono, ad esempio, l’esistenza di una delibera che autorizza l’amministratore di condominio a stare in mediazione (così come previsto dalla legge 220/12) o l’esistenza di un’autorizzazione del giudice tutelare se a partecipare alla mediazione deve anche essere un minore ovvero la presenza di tutti i litisconsorti necessari. Il mediatore non dovrebbe chiedere, come invece ritenuto da molti, se le parti vogliono andare avanti. Egli non deve verificare la “volontà” delle parti e dei procuratori, ma li invita ad esprimersi sulla “possibilità ” di iniziare la procedura di mediazione. E nel punto in cui la norma dice che “nel caso positivo, procede con lo svolgimento” essa non va intesa nel senso che se gli avvocati dicono che c’è tale possibilità si va avanti, mentre se dicono che non sussiste questa possibilità non si procede oltre. È il mediatore che, tenuto conto di quello che dicono le parti e gli avvocati, valuta se sussiste questa possibilità (nella norma, infatti, non si legge “nel caso di risposta positiva”, ma “nel caso positivo”). Si comprende, quindi, il motivo per cui il comma 5terdell’art. 17 del d.lgs. 28/10 contempla (come il comma 2 bisdell’art. 5) la possibilità di un accordo tra le parti in sede di primo incontro (prevedendo che in caso di mancato incontro non è dovuto compenso all’organismo).

Questa interpretazione è stata fatta propria nel 2014 dal Tribunale di Palermo (I Sezione civile), che, sulla base degli argomenti sopra indicati, ha affermato che la mediazione disposta dal giudice in corso di causa deve svolgersi in modo effettivo durante il primo incontro tra le parti e il mediatore, pena l’improcedibilità sopravvenuta del giudizio.

Con questa ordinanza del 16 luglio 2014, resa in una causa in materia di responsabilità sanitaria nella quale disposta ed effettuata la CTU, il giudice ha ritenuto di formulare in primo luogo una proposta conciliativa ai sensi dell’articolo 185 bis c.p.c. (con effetti ex articolo 91 c.p.c.

La proposta formulata dal giudice siciliano ha recepito sostanzialmente la CTU ed ha invitato le parti a riflettere sui rispettivi “vantaggi” di tale possibile soluzione negoziale, evidenziando sia per l’attore sia per il convenuto le diverse opportunità derivanti dall’adesione alla proposta conciliativa giudiziale. Il tribunale ha motivato brevemente le ragioni che erano alla base della proposta e le ragioni che dovevano indurre le parti a valutare con attenzione l’opportunità di una loro adesione.

Nell’ordinanza in questione il Tribunale di Palermo, dopo aver formulato la proposta conciliativa, ha preannunciato alle parti che in caso di mancata conciliazione in conseguenza della proposta formulata sarebbe stata disposta dal giudice la mediazione ex officio (ritenendola possibile per i processi già pendenti all’entrata in vigore della riforma del 2013 e precisando che, anzi, nelle materie già selezionate dal legislatore per la mediazione obbligatoria ex lege ,come la responsabilità medico-sanitaria di cui al giudizio in questione, poteva ritenersi sussistente una “presunzione semplice” di opportunità, avendo già la normativa formulato ex ante una prognosi favorevole quanto all’efficacia del procedimento di mediazione). Nel preannunciare questo tipo di provvedimento sono stati pure richiamati espressamente gli orientamenti del Tribunale di Milano e del Tribunale di Firenze.

Il giudice palermitano ha nella sostanza condiviso la sostanza dell’impostazione fiorentina, ritenendo che la mediazione debba effettivamente svolgersi (aggiungendo qualche argomento al riguardo, tratto da una interpretazione della lettera dell’art. 8 d.lgs. 28/2010, da leggere nel senso dell’impossibilità che il mediatore si accontenti dell’accertamento della volontà delle parti di procedere oltre, dovendo invece verificare l’effettiva possibilità del tentativo di conciliazione), ma discostandosi dall’interpretazione del giudice fiorentino sotto il profilo della presenza personale delle parti (“considerato che è invece difficile sostenere che le parti debbano essere personalmente presenti, essendo loro diritto conferire eventualmente una procura di carattere sostanziale ad un altro soggetto”).

Nell’ordinanza palermitana si precisa, quindi, che secondo la normativa vigente il mediatore al primo incontro non debba verificare la “volontà” delle parti e dei procuratori, ma debba accertare la “possibilità” di iniziare la procedura di mediazione. Aderire all’orientamento milanese che ritiene sufficiente per la condizione di procedibilità un primo incontro destinato alla informativa ed a una formale valutazione della mediabilità condurrebbe, peraltro, ad un “aborto legale della mediazione”.

In conclusione, il Tribunale di Palermo formula alle parti una proposta conciliativa e fissa per la verifica della posizione delle parti sulla proposta conciliativa un’udienza riservandosi di disporre in tale udienza, in caso di mancata accettazione della proposta conciliativa, l’esperimento del procedimento di mediazione ex officio iudicis quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, condizione che si riterrà formata soltanto se nel primo incontro il tentativo di mediazione sia stato effettuato dalle parti in modo effettivo[8].

Richiamando in particolar modo quest’ultimo provvedimento del Tribunale di Palermo e tutte gli altri argomenti già fatti valere per la mediazione ex officio, di recente il Tribunale di Firenze ha ritenuto necessario l’espletamento effettivo del tentativo di conciliazione (alla presenza personale delle parti) anche nella mediazione obbligatoria ex lege (ordinanza del 26.11.2014, est. Breggia).

E sono ormai numerosi i provvedimenti dei giudici di merito che richiedono la presenza effettiva delle parti quale presupposto per la formazione di una valida condizione di procedibilità sia nella mediazione ordinata dal giudice che nella mediazione obbligatoria ex lege [9].

Ciò posto con riferimento alla materia della mediazione, va ora osservato che la negoziazione assistita è una procedura in cui “le parti convengono di cooperare… per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza di avvocati”. Quindi, sarebbe possibile estendere alla negoziazione assistita le medesime argomentazioni utilizzate per la mediazione prevedendo nel provvedimento che rileva l’attuale improcedibilità della domanda e invia le parti in negoziazione la necessaria presenza delle parti alla procedura di negoziazione in caso di stipula della convenzione di negoziazione assistita. Anche qui occorre riattivare un’effettiva comunicazione tra le parti ed anche qui le parti partecipano alla procedura con la sola “assistenza” degli avvocati. Senza la presenza effettiva delle parti dopo la stipula della convenzione di negoziazione si rischierebbe di considerare la negoziazione assistita un tipo di ADR operante quale ingiustificabile ostacolo all’accesso alla giurisdizione.

13. Negoziazione assistita obbligatoria e domande connesse.

Quesito

Si può disporre una negoziazione assistitaex officio iudicis?

Con riferimento all’istituto della mediazione la legge 98/13 ha tra le altre cose stabilito che il giudice può – anche in grado di appello e valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione ed il comportamento delle parti – disporre l’esperimento del procedimento di mediazione a pena di improcedibilità della domanda. Ovviamente si tratta dei casi in cui la mediazione non è già obbligatoria per legge, essendo stato già il legislatore a configurare l’espletamento del procedimento di mediazione come condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

È stato pure previsto un limite temporale all’emissione del provvedimento del giudice che invia le parti in mediazione. Esso deve essere adottato prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni ovvero, quando tale udienza non è prevista, prima della discussione della causa. Insieme al provvedimento che dispone la mediazione ex officio il giudice fissa (senza sospendere il processo, trattandosi di mero differimento) la successiva udienza dopo la scadenza del termine massimo di durata della procedura di mediazione (fissato dal nuovo art. 6 del d.lgs. 28/10 in tre mesi e non più in quattro) e, quando la mediazione non è già stata avviata, assegna anche contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione.

Ecco che la legge 98/13 attribuisce al giudice il potere di imporre alle parti di intraprendere un procedimento di mediazione nel corso del processo (in passato, invece, il giudice poteva solo invitarle a svolgere un tentativo stragiudiziale di mediazione, attendendo l’eventuale risposta positiva delle parti), in tal modo creando una nuova condizione di procedibilità (sopravvenuta) per ordine del giudice.

Si tratta di una norma che rimette al giudice l’effettività di tale canale di accesso alla mediazione (che opera non quale filtro preventivo alle liti, ma successivo e non per questo meno utile ed efficace) e può operare in ogni lite, purché abbia ad oggetto diritti disponibili.

Un ruolo centrale nella rinnovata mediazione è quindi assegnato, oltre che all’avvocato (la cui assistenza è ormai obbligatoria), anche al giudice, il quale può ordinare alle parti di tentare la mediazione (ma senza indicare l’organismo di mediazione come era invece previsto in una disposizione del Decreto “del fare” poi opportunamente eliminata nella legge di conversione 98/13, che ha quindi lasciato spazio all’autodeterminazione delle parti nella relativa scelta).

Sono quindi due le possibili fonti dell’obbligatorietà della mediazione: 1) la prima è normativa e introduce un obbligo ex lege, limitato ad alcune materie e circoscritto nel tempo per una fase di sperimentazione; 2) l’altra si affida alla valutazione discrezionale del giudice e, per questo motivo, non è vincolata nella sua operatività né ad alcune materie né ad un determinato lasso temporale.

Nessun potere analogo è stato però previsto per il giudice dalla legge 162/14 con riferimento alla negoziazione assistita. Non è stata infatti introdotta una negoziazione assistita ex officio iudicis.

Quesito

Se proposte più domande di cui solo una o alcune soggette a negoziazione assistita obbligatoria? e se riunite cause connesse in cui solo alcune delle domande sono soggette a negoziazione assistita obbligatoria?

Molto interessante è il caso della negoziazione che risulti obbligatoria soltanto in relazione ad una delle domande o delle cause connesse.

Dopo le modifiche apportate dalla legge 98/13, che ha trasformato la mediazione ex officio in obbligatoria prevedendo che il provvedimento del giudice che invia le parti in mediazione faccia sorgere una condizione di procedibilità della domanda giudiziale, la soluzione è quella di non separare le domande ed inviare in negoziazione assistita le parti con riferimento alle domande oggetto di negoziazione assistita obbligatoria, invitandole a trattare in negoziazione anche le domande non rientranti nella mediazione obbligatoria.

Né eviterebbe la negoziazione assistita l’invioex officioin mediazione dell’intera causa, comprese le domande che non sono soggette a negoziazione assistita obbligatoria. Infatti, esclude la negoziazione obbligatoria soltanto la soggezione di una delle domande a mediazione obbligatoriaex legee non a mediazione obbligatoria ex officio iudicis (l’art. 2, comma 1, della legge 162/14 rinvia al comma 1bisdell’art. 5 del d.lgs. 28/10 e non al comma 2 del medesimo articolo).

Se, invece, in giudizio viene proposta una domanda soggetta a negoziazione obbligatoria ed un’altra che, di contro, è soggetta a mediazione obbligatoria ex lege (es. domanda relativa a contratto assicurativo e connessa domanda di risarcimento di somma inferiore a 50.000 euro per una fideiussione o domanda di condanna o accertamento di un diritto reale connessa ad una domanda risarcitoria inferiore ad € 50.000), allora occorrono due diverse condizioni di procedibilità per le due diverse domande (v. art. 3, comma 5, legge 162/14). Ciò ha portato qualcuno in dottrina a sospettare della legittimità costituzionale di una normativa che assoggetta alcuni casi a più forme di condizione di procedibilità.

14. La durata del procedimento di negoziazione assistita e le conseguenze in ambito processuale.

Si è già detto che nella convenzione di negoziazione assistita le parti stabiliscono il termine di durata massima della procedura, termine che comunque non può essere inferiore ad un mese né superiore a tre mesi, prorogabili di altri 30 giorni.

Orbene, è innanzitutto anomalo avere previsto un termine minino, posto che un buon accordo tra le parti può concludersi anche in poco tempo.

Talvolta poi tre mesi possono risultare troppo pochi (si pensi alle controversie con numerose parti o ai casi in cui occorre una consulenza di un esperto).

L’autonomia del procedimento di negoziazione assistita (avente comunque una finalità conciliativa) rispetto al giudizio contenzioso porta a ritenere che l’eventuale sospensione del giudizio pendente non determina la sospensione del procedimento di negoziazione e non sembra pertanto poter risentire delle sorti del processo (v., con riferimento alla mediazione, Tribunale Verona 27/1/2014).

Data la natura non processuale del procedimento di mediazione, il termine in questione non è soggetto alla sospensione feriale dei termini e ciò neppure quando il procedimento di mediazione trovi origine da una rimessione dovuta al giudice. Tale soluzione è anche funzionale ad impedire ulteriori ritardi nell’eventuale accesso al giudice.

Sempre per la sua natura non processuale, potrebbe ritenersi che il detto termine non rilevi neppure ai fini della valutazione della ragionevole durata del processo e della consequenziale applicazione della legge 89/2001 (c.d. legge Pinto) per la richiesta di risarcimento danni allo Stato (come previsto dall’art. 7 del d.lgs. 28/10 nella mediazione obbligatoria).

Tuttavia, se si considera che nelle ipotesi di negoziazione obbligatoria con conciliazione fallita il processo subisce inevitabilmente un oggettivo slittamento e che risulta prolungato il tempo complessivo per ottenere il provvedimento giudiziale, pare possibile ritenere non del tutto certa la conformità alla Costituzione ed alla CEDU della disposizione contenuta nell’art. 7, che sembra aggirare o limitare gli obblighi assunti dall’Italia a livello internazionale.

Inoltre, qualche dubbio sembra sorgere anche con riferimento all’eventuale mancata considerazione ai fini della legge Pinto del termine di almeno tre mesi che intercorre tra la prima udienza del giudizio civile e quella fissata dal giudice che si accorge che non vi è stato o che non si è concluso il procedimento di negoziazione.

Non può, invero, non evidenziarsi la differenza tra il caso della negoziazione posta in essere prima del giudizio ed il caso della negoziazione effettuata a processo in corso.

Infatti, non bisogna dimenticare che per la Corte europea dei diritti dell’uomo la pendenza del giudizio ai fini della determinazione della ragionevole durata del processo si ha dal momento del deposito del ricorso o dalla notificazione della citazione.

Quesito: cosa succede se il procedimento di negoziazione dura più del termine massimo fissato dalle parti o di quello legale di 3 mesi prorogabili per altri 30 giorni?

Anche considerato che le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità, costituendo deroga all’esercizio del diritto di agire in giudizio, garantito dall’art. 24 Cost., non possono essere interpretate in senso estensivo (v. Cass. 967/04), deve ritenersi che se il procedimento di negoziazione dura più di 3 mesi le parti sono libere di iniziare il giudizio di merito. Infatti, l’art. 3, comma 2, della legge 162/14 prevede che la condizione di procedibilità si considera avverata anche se è decorso il termine massimo negoziale o legale.

Se il procedimento di negoziazione è iniziato ma non ancora concluso il giudice non sospende il giudizio in attesa del termine del procedimento e di un’istanza di riassunzione del processo, ma fissa un’udienza in data successiva alla scadenza del termine massimo. Scaduto quest’ultimo termine si è liberi di adire (o continuare ad adire) il giudice per l’affermazione giudiziale dei propri diritti. Ma se questo è già scaduto il giudice non è tenuto a fissare una nuova udienza anche se il procedimento è iniziato ma non si è concluso (salvo che non vi sia una concorde richiesta delle parti) e ciò denota che l’aspetto limitativo per il processo non è l’esaurimento del procedimento di mediazione ma la scadenza del termine massimo.

Si ricordi che con sentenza del 26 ottobre 2007 n. 355 la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 410 bis comma 2 c.p.c., censurato, in riferimento all’art. 111 comma 2 Cost., nella parte in cui prevede che, nel processo del lavoro, trascorso inutilmente il termine di sessanta giorni dalla presentazione della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione, esso si considera comunque espletato ai fini di cui all’art. 412 bis c.p.c. La Consulta ha pure rilevato (con la sentenza della Corte costituzionale 19 dicembre 2006 n. 436) che questione analoga era già stata dichiarata inammissibile sulla base del rilievo che il legislatore può imporre condizioni all’esercizio del diritto di azione se queste, oltre a salvaguardare interessi generali, costituiscono, anche dal punto di vista temporale, una limitata remora all’esercizio del diritto stesso, mentre la pretesa secondo la quale “gli interessi generali” dovrebbero comunque prevalere impedendo l’esercizio del diritto di azione fino a quando il tentativo di conciliazione non sia stato effettivamente espletato, oltre ad essere contraddittoria rispetto al parametro costituzionale evocato, si risolve nel contrapporre una soggettiva valutazione al bilanciamento degli interessi, imposto dai valori costituzionali implicati.

L’imposizione di limiti all’accesso alla giustizia ordinaria non può tradursi in una sostanziale preclusionesine diedella tutela giurisdizionale. Una ragionevole limitazione all’esercizio del diritto di accesso alla giustizia richiede una compressione temporalmente limitata dello stesso, con la conseguenza che, trascorsi i tre mesi, si sarà liberi di adire il giudice.

Il tentativo di conciliazione deve quindi considerarsi come espletato decorso il termine massimo convenzionale o, in sua assenza, di quello legale.

15. La riservatezza nel procedimento di negoziazione assistita.

Quesito

La riservatezza del procedimento di negoziazione assistita può limitare il diritto alla prova in sede giudiziale?

L’art. 9 della legge 162/14 prevede che “è fatto obbligo agli avvocati e alle parti di comportarsi con lealtà e di tenere riservate le informazioni ricevute. Le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel corso del procedimento non possono essere utilizzate nel giudizio avente in tutto o in parte il medesimo oggetto. I difensori delle parti e coloro che partecipano al procedimento non possono essere tenuti a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite. A tutti coloro che partecipano al procedimento si applicano le disposizioni dell’art. 200 c.p.p. [segreto professionale] e si estendono le garanzie previste per il difensore dalle disposizioni dell’art. 103 c.p.p. [garanzia di libertà del difensore – ispezioni e perquisizioni] in quanto applicabili. La violazione delle prescrizioni di cui al comma 1 e degli obblighi di lealtà e riservatezza di cui al comma 2 costituisce per l’avvocato illecito disciplinare”.

Quest’obbligo di riservatezza comporta che ciò che si è saputo in sede di negoziazione assistita (es. che la controparte guidava senza casco) non può mai costituire oggetto di prova in giudizio (tramite interrogatorio formale o prova testimoniale)?

Iniziando da un’ipotesi esemplificativa, si pensi al caso in cui in negoziazione una parte ammetta che non indossava il casco protettivo al momento in cui si è verificato il sinistro stradale. In questo caso la riservatezza del procedimento di negoziazione impedirà di articolare interrogatorio formale o prova testimoniale su questa circostanza?

La risposta preferibile è quella negativa in quanto l’art. 9 della legge 162/14 impedisce di articolare prove sulle dichiarazioni rese o sulleinformazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione, ma non impedisce anche di articolare prove sui fatti oggetto di queste dichiarazioni. Diversamente opinando si verrebbe a compromettere eccessivamente il diritto alla prova. Inoltre, sarebbe ben possibile dire tutto in negoziazione per evitare alla controparte di provare in giudizio quelle circostanze.

16. Sanzioni. Spese. Responsabilità aggravata e provvisoria esecuzione.

Quesito

Quando il giudice può fare ricorso alla responsabilità aggravata o alla provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo?

Stabilisce l’art. 4 della legge 162/14 che “l’invito a stipulare la convenzione deve indicare l’oggetto della controversia e contenere l’avvertimento che la mancata risposta all’invito entro trenta giorni dalla ricezione o il suo rifiuto può essere valutato dal giudice ai fini delle spese del giudizio e di quanto previsto dagli articoli 96 e 642, primo comma, del codice di procedura civile”.

Analogamente a quanto previsto dagli artt. 91, comma 1, e 420, comma 1, c.p.c. e dagli artt. 8 e 13 d.lgs. 28/10 sulla mediazione si prevedono conseguenze negative per chi tiene un comportamento non collaborativo.

Con riferimento alla provvisoria esecuzione ci si chiede se il decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo possa essere concesso sulla sola base della mancata risposta all’invito a stipulare la convenzione di negoziazione assistita (o del rifiuto della stessa). Poiché il riferimento è al primo comma (e non al secondo comma) dell’art. 642 c.p.c., sembra da ritenere possibile l’emissione di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo fondato solo sulla detta mancata risposta o sull’indicato rifiuto. Probabilmente il legislatore ha ritenuto che potesse valere quale sostanziale ammissione della fondatezza della pretesa avversaria il semplice rifiuto o la semplice mancata risposta all’invito a stipulare la convenzione di negoziazione assistita. Poiché però si tratta di circostanza da valutare caso per caso ha attribuito al giudice la facoltà di concedere la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo. Invero, secondo l’art. 4 della legge 162/14 il giudice “può” valutare quel determinato comportamento ai sensi dell’art. 642, comma 1, c.p.c. (e ciò nonostante questa disposizione non concede poteri discrezionali al giudice). Pertanto, quando il creditore non è munito di cambiale o di assegno o di documentazione sottoscritta dal debitore comprovante il diritto fatto valere potrà ritenere per lui conveniente proporre invito alla stipula della convenzione di negoziazione assistita al fine di avere maggiori possibilità di ottenere la concessione della provvisoria esecuzione (con il solo sacrificio di attendere appena un mese). È quindi preferibile per il debitore che voglia ottenere una dilazione nel pagamento di quanto dovuto rispondere all’invito alla stipula della convenzione di negoziazione.

Va ora aggiunto che, poiché il citato art. 4 la norma lascia al potere discrezionale del giudice la decisione in merito alle dette conseguenze, pare eccessivo fare ricorso alla responsabilità aggravata o alla provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo quando il rifiuto abbia alla base un giustificato motivato.

Analogamente un rifiuto giustificato (così come un silenzio per i 30 giorni) difficilmente saranno posti a base della concessione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo e ciò in quanto tale rifiuto o tale silenzio non sembrano idonei a supportare la fondatezza delle ragioni creditorie.

Il problema è l’individuazione dei casi in cui può ritenersi ricorrente un giustificato motivo.

Si ripropone qui una questione analoga a quella che si è posta in materia di mediazione, questione in relazione alla quale il caso maggiormente discusso è stato quello del motivo legato all’infondatezza della pretesa avversaria, motivo spesso non ritenuto giustificato poiché alla base di qualunque controversia, senza la quale non esisterebbero i sistemi di ADR.

Quesito

Può valutarsi negativamente la condotta della mancata risposta all’invito alla negoziazione assistita o del suo rifiuto? Può applicarsi alla negoziazione assistita obbligatoria la sanzione prevista per la mancata ed ingiustificata comparizione in sede di mediazione?

È noto che il d.lgs. 28/10 prevede, al comma 4 bis dell’art. 8, che “dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall’articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio“.

La prima disposizione prevede un particolare regime probatorio, che non sembra applicabile analogicamente al caso della negoziazione assistita in considerazione del divieto, sancito dall’articolo 14 delle disposizioni sulla legge in generale (disp. prel. c.c.), non è possibile l’applicazione analogica per le norme che derogano a principi generali (c.d. norme eccezionali).

E l’art. 8, comma 4 bis, del d.lgs. 28/10 deroga proprio ad un principio generale, che è quello per cui “il giudice può desumere argomenti di prova… dal contegno delle parti… nel processo” (art. 116 c.p.c.) e non dal comportamento tenuto delle parti fuori dal processo.

E l’altra disposizione contenuta nel citato comma 4bisdell’art. 8 del d.lgs. 28/10 contempla una misura sanzionatoria (tanto che la somma di denaro va corrisposta in favore dello Stato e non della controparte processuale) che, in quanto tale, deve soggiacere al principio di legalità, richiedendo una previsione esplicita e specifica.

Conseguentemente, se l’invito alla stipula della convenzione di negoziazione non è seguito da adesione o è seguito da rifiuto entro trenta giorni dalla sua ricezione l’unica conseguenza è quella che sarà possibile instaurare il giudizio essendosi formata la condizione di procedibilità (in base al comma 2 dell’art. 3 della legge 162/14). Non vi è però spazio per alcuna sanzione.

17. Negoziazione assistita e contraddittorio.

Quesito

Che cosa succede se non viene garantito il litisconsorzio necessario nella fase della negoziazione assistita? Sussiste la condizione di procedibilità se non viene fatta al proprietario del mezzo danneggiante la comunicazione dell’invito alla stipula della convenzione di negoziazione?

Oltre a verificare la detta corrispondenza oggettiva, il giudice deve anche accertare che esista coincidenza soggettiva fra coloro che hanno partecipato al tentativo di conciliazione e quanti hanno assunto, nel successivo giudizio, la qualità di parte.

Certo, nessun problema si porrà se tale coincidenza soggettiva non sussiste solo perché la domanda giudiziale viene avanzata nei confronti di uno solo dei più soggetti chiamati in negoziazione laddove non ricorra un caso di litisconsorzio necessario.

Invece, considerato che nei giudizi a litisconsorzio necessario (come sono quelli relativi ai sinistri stradali) non può prescindersi dalla presenza delle parti necessarie, non può iniziarsi un giudizio ritenendo che vi sia la condizione di procedibilità per alcune e non per altre. La condizione di procedibilità deve ricorrere per tutte le parti necessarie. E nelle cause sui sinistri stradali litisconsorte necessario è il proprietario del mezzo danneggiante e non il conducente (v., da ultimo, Cass. 13671/14 e 3875/14, v. anche Cass. 11885/07) Se la negoziazione è stata svolta senza la comunicazione dell’invito al proprietario del mezzo danneggiante il giudice dovrà ritenere assente la condizione di procedibilità.

Conseguentemente, il giudice dovrebbe assegnare il termine di 15 giorni per la comunicazione dell’invito alla negoziazione nei confronti di tutti (comprese le parti che già vi hanno partecipato).

Tuttavia, per quanto si dirà meglio sulla prevalenza del principio del contraddittorio sul principio della ragionevole durata del processo, si dovrebbe disporre l’integrazione del contraddittorio per l’udienza successiva e, solo dopo che il contraddittorio sarà stato regolarmente instaurato e tutte le parti avranno potuto interloquire sulle condizioni per svolgere la negoziazione, assegnare il termine per la nuova proposizione del procedimento di negoziazione nei confronti di tutti i litisconsorti.

Quesito

Quali sono, con riferimento alla negoziazione assistita ed alla relativa condizione di procedibilità, i rapporti tra il principio della ragionevole durata del processo ed il principio del contraddittorio?

Per rispondere a tale domanda può essere utile ricordare ciò che è stato deciso con riferimento alla mediazione obbligatoria, in relazione alla quale particolare rilievo al principio del contraddittorio ha dato il Tribunale di Palermo. Infatti, in un caso in cui non era andata a buon fine la notificazione dell’atto di citazione ad uno dei convenuti in un giudizio relativo ad una controversia in materia di diritti reali non preceduto dal procedimento di mediazione il Tribunale di Palermo (sezione distaccata di Bagheria, ordinanza del 30 dicembre 2011) non ha assegnato il termine di 15 giorni per la presentazione della domanda di mediazione (con rinvio della causa ad un’udienza successiva alla scadenza del termine, di 4 mesi, di durata massima della mediazione), ritenendo che dovesse prima instaurarsi correttamente il contraddittorio tra le parti. Si è ritenuto, in generale, che non può disporsi la rinnovazione della citazione o della notificazione della stessa o l’integrazione del contraddittorio per una successiva udienza con contestuale assegnazione del termine per la proposizione dell’istanza di mediazione. Come detto, è infatti necessario garantire a tutte le parti del giudizio la possibilità di interloquire sulla necessità o meno di instaurare il procedimento conciliativo (con riferimento, ad esempio, alla circostanza della sussumibilità della specifica controversia in quelle soggette per legge alla mediazione obbligatoria).

L’invio delle parti in mediazione (o, analogamente, in negoziazione assistita) contestualmente all’imposizione degli adempimenti per la regolare instaurazione del contraddittorio sarebbe sì una soluzione attuativa del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, ma impedirebbe alle parti ancora non presenti in giudizio di evidenziare le ragioni per cui non andrebbe effettuata la mediazione obbligatoria e potrebbe comportare, in caso di presentazione davanti al mediatore del chiamato in mediazione, la sopportazione di costi ad opera di quest’ultimo soggetto ancora non costituito in giudizio e la necessità per lo stesso chiamato, in caso di sua contumacia nel procedimento di mediazione, di dover motivare il giustificato motivo della sua assenza qualora decidesse di costituirsi poi in giudizio e ciò al fine di evitare le conseguenze negative previste dall’art. 8, comma 5, d.lgs. 28/10 (nello stesso senso del Tribunale di Palermo anche Trib. Como, sez. distaccata di Cantù, 2 febbraio 2012, che, prima di invitare le parti alla mediazione giudizialmente sollecitata, ha ritenuto di dovere integrare il contraddittorio). Per il Tribunale di Palermo è vero che più volte la Corte di Cassazione ha evidenziato che l’ordinamento vigente impone la necessità di interpretare ed applicare la normativa processuale in armonia con il principio di cui all’art. 111 Cost. sulla ragionevole durata del processo come principio che conduce ad escludere che il mancato compimento di adempimenti processuali che si siano appalesati del tutto superflui possa condurre ad una conseguenza di sfavore per il processo, ma che è anche vero che ciò vale sempre che siano rispettati il principio del contraddittorio ed il diritto di difesa (v. Cass., sez. un., 20604/08; sez. un. 9962/10; sull’incidenza sulle regole processuali del principio della ragionevole durata del processo solo dopo la regolare instaurazione del contraddittorio v. anche, in materia di decisioni della c.d terza via, Cass., sez. III, 6051/10).

18. La necessità o meno dell’esperimento del procedimento di mediazione in relazione alle domande riconvenzionali ed alle chiamate di terzo.

È innanzitutto del tutto evidente che se in un giudizio vi sono più attori tutte le domande di questi richiedono la condizione di procedibilità se concernono controversie sottoposte a negoziazione assistita obbligatoria, con la conseguenza che se solo per alcune domande sussiste la condizione di procedibilità, allora talune domande potrebbero essere separate dalle altre (per evitare di allungare i tempi per tutti) purché ricorra (e non è semplice) un caso di litisconsorzio facoltativo. Certo, sarà difficile procedere ad una separazione delle domande in caso di loro connessione.

Più complessa è la questione dei rapporti tra negoziazione assistita obbligatoria e domanda riconvenzionale.

Al riguardo va in primo luogo chiarito che sicuramente non occorre il previo espletamento del procedimento di negoziazione assistita se la riconvenzionale amplia solo ilpetitumma non anche l’oggetto della controversia (v, in tema di controversie sui contratti agrari, Cass. 27255/08 e Cass. 2388/02, 1897/02 e 4982/01. Sull’onere, ai fini della proponibilità della domanda, del preventivo esperimento del tentativo di conciliazione anche nei confronti del convenuto che proponga una domanda riconvenzionale v. pure Cass. 830/06; 15802/05; 10993/03; 14900/02).

Giurisprudenza rilevante

Per Cass. 27255/08 “in tema di controversie concernenti contratti agrari, anche la domanda riconvenzionale deve essere preceduta, a pena di improponibilità, dal tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dall’art. 46 della legge 3 maggio 1982 n. 203. Tale regola, tuttavia, non si applica allorché ricorrano due presupposti, ovvero che le parti del giudizio coincidano con le parti del tentativo obbligatorio di conciliazione e che la formulazione della domanda riconvenzionale non comporti alcun ampliamento della controversia già oggetto della tentata conciliazione, perché fondata su questioni già esaminate in quella sede. Ove ricorrano tali presupposti, la domanda riconvenzionale sarà proponibile pur se non preceduta dal tentativo di conciliazione, a nulla rilevando che essa abbia l’effetto di ampliare il “petitum” rispetto alla fase conciliativa”. V. anche Cass. 2388/02, 1897/02 e 4982/01.

Per Cass. 23816/07 “in tema di contratti agrari, la domanda riconvenzionale, al pari di quella proposta dall’attore, deve essere preceduta dal tentativo di conciliazione di cui all’art. 46 della legge 3 maggio 1982, n. 203 e, in mancanza, deve essere dichiarata improponibile; tuttavia, non sussiste la necessità di tale preventivo tentativo qualora il convenuto abbia già dedotto le relative richieste nella procedura di conciliazione sperimentata dall’attore”.

Nessun problema si pone, quindi, quando il tentativo di conciliazione sia stato svolto su tutte le pretese delle parti.

In ipotesi di confronto effettivo e completo tra i litiganti, la procedura di negoziazione assistita poteva già conseguire la finalità deflattiva cui è preordinata. E se le parti non si sono conciliate sulla domanda dell’attore pur avendo trattato dei fatti e delle questioni posti dal convenuto a base della domanda riconvenzionale poi proposta in sede di giudizio, allora è evidente che non si concilieranno se il giudice invia in mediazione la sola domanda riconvenzionale. Venuto meno lo scopo compositivo della lite e deflattivo del contenzioso giudiziario, resta solo l’interesse al celere e sollecito esaurimento della fase processuale. 

Non sussiste quindi la necessità del previo espletamento del procedimento di negoziazione assistita qualora il convenuto abbia già dedotto le relative richieste nella procedura compositiva sperimentata dall’attore.

Ed anche in assenza di una specifica richiesta in fase di negoziazione assistita, certamente basta pure (non rilevando il petitum ma l’oggetto del procedimento di negoziazione assistita) che la questione specifica, oggetto di quella pretesa poi formulata in sede giudiziaria in via riconvenzionale, sia stata trattata nel contraddittorio di tutte le parti interessate alla controversia in occasione del procedimento di negoziazione assistita, ancorché questo si sia svolto su istanza della parte attrice (v. Cass. 14 novembre 2008, n. 27255; Cass. 19436/08; Cass. 16 novembre 2007, n. 23816; Cass. 14 luglio 2003, n. 10993; Cass. 19 febbraio 2002, n. 2388; Cass. 17 gennaio 2001, n. 593; Cass. 8 giugno 1999, n. 5613; Cass. 8 agosto 1995, n. 8685; Cass. 5 ottobre 1995, n. 10447; Cass. 27 aprile 1995, n. 4651). Se in sede di procedimento di negoziazione assistita la questione posta dal convenuto è stata dibattuta tra le parti, allora è sicuramente procedibile la domanda riconvenzionale.

Deve ora pure chiarirsi che va escluso che l’onere del preventivo esperimento del procedimento di negoziazione assistita possa gravare sulla parte che, convenuta in giudizio, ed al fine di resistere alle altrui pretese, si limiti a spiegare, in sede difensiva, delle mere eccezioni in senso proprio, negando fondamento alla pretesa di controparte. È infatti certamente da escludere l’onere del previo esperimento del procedimento di negoziazione assistita quando il giudice accerti che le difese svolte dal convenuto non integrano una domanda riconvenzionale, tenendo conto che l’elemento distintivo della eccezione (anche riconvenzionale) rispetto alla domanda riconvenzionale risiede non già nella natura del diritto fatto valere dal convenuto, ma nel fine che questi si propone, e cioè nel contenuto della sua istanza processuale, dovendosi ravvisare la configurabilità di una domanda riconvenzionale nella sola ipotesi in cui questa tenda ad un risultato concreto ulteriore rispetto al semplice rigetto della domanda avversaria, consistente nella richiesta, con effetto di giudicato di un provvedimento giudiziale a sè favorevole e sfavorevole alla controparte (v. Cass. 10017/03).

Le riconvenzionali inedite e la negoziazione assistita obbligatoria.

Meno semplice è il caso in cui la negoziazione assistita non sia stata svolta anche sui fatti posti dal convenuto a base delle pretese (qualificabili in termini di domanda riconvenzionale) del convenuto. Questa è, quindi, la fattispecie delle riconvenzionali inedite, emerse, cioè, solo nella fase giudiziale della lite ma non anche dinanzi ai soggetti preposti alla negoziazione assistita.

In questi casi la domanda riconvenzionale viene ad ampliare l’ambito della controversia rispetto a quelli che sono stati i confini della stessa in sede di procedimento di negoziazione assistita, investendo aspetti nuovi della lite.

Si pensi al caso della domanda riconvenzionale di regresso formulata dalla Compagnia di Assicurazioni che non aveva aderito alla negoziazione assistita o che non aveva fatto cenno a questa sua richiesta in sede di negoziazione.

In relazione al tema delle c.d. riconvenzionali inedite è bene partire dal testo dell’art. 3 della legge 162/14 che prevede che “chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti deve, tramite il suo avvocato, invitare l’altra parte a stipulare una convenzione di negoziazione assistita. Allo stesso modo deve procedere, fuori dei casi previsti dal periodo precedente e dall’articolo 5, comma 1-bis, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, chi intende proporre in giudizio una domanda di pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti cinquantamila euro. L’esperimento del procedimento di negoziazione assistita è condizione di procedibilità della domanda giudiziale”.

Trattasi di formula analoga a quella impiegata per il rito del lavoro, in relazione al quale la giurisprudenza di legittimità non ha avuto modo di pronunciarsi, la dottrina ha in diversi casi sostenuto la tesi della non estendibilità del tentativo di conciliazione alle domande riconvenzionali e la giurisprudenza di merito ha avuto modo di affermare entrambe le tesi.

Giurisprudenza rilevante

Contro l’applicabilità del tentativo di conciliazione alle domande riconvenzionali, v. Trib. Ivrea 22 dicembre 2004 in Giur. it., 2005, 1684 e in Nuova giur. civ. comm. 2006, p. 68, con nota di Demontis; Trib. Taranto ord. 18 aprile 2002, in Giur. it. 2003, 78, con nota di Rascio; Trib. Torino 14 febbraio 2002, in Giur. piem. 2003, 181; Trib. Milano 10 febbraio 2001, in Lav. nella giur., 2001, 997; Trib. Forlì ord 11 maggio 2000, in Lav. nella giur 2000, 979. V anche Trib. Campobasso 8 ottobre 1999, in Giust. civ., 2000, I, 909, ove però si esclude l’applicazione del tentativo obbligatorio di conciliazione sul presupposto che si tratti di una eccezione riconvenzionale. In favore dell’applicabilità del tentativo di conciliazione v. invece Trib. Milano 10 marzo 2005, in Riv. crit. dir. lav., 2005, 634; Trib. Voghera ord 21 dicembre 2004, in Riv. crit. dir. lav., 2005, 315, con nota di Busico; Trib. Pordenone 13 febbraio 2001, in Dir. lav., 2001, 271, con nota di Pamio; Trib. Velletri 7 marzo 2000, in Mass. giur. lav., 2000, 875; Pret. Napoli 31 marzo 1999, in Guida al lav., 1999, fasc. 21, 14; Pret. Milano 9 marzo 1999, in Lav. nella giur., 1999, 575.

Con riferimento al settore dei contratti agrari, settore in relazione al quale è prevista una condizione di proponibilità e non di procedibilità (v. il primo comma dell’art. 46 della legge 3 maggio 1982 n. 203), la Suprema Corte ha invece avuto modo di prendere posizione sostenendo la necessità del tentativo di conciliazione anche per le domande riconvenzionali (v., in materia di contratti agrari, Cass. 19436/08; 23816/07; 830/06; 11192/05; 10993/03; 10017/03; 467/02; 408/02; 12756/01; 10497/01; 7445/01; 593/01).

Riferimenti normativi

Il primo comma dell’art. 46 della legge 3 maggio 1982 n. 203 recita: “chi intende proporre in giudizio una domanda relativa a una controversia in materia di contratti agrari è tenuto a darne preventivamente comunicazione, mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, all’altra parte e all’ispettorato provinciale dell’agricoltura competente per territorio”.

Analogamente, in tema di responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli e natanti ed in relazione all’abrogato art. 22 della legge 24 dicembre 1969, n. 990, si è affermato che la relativa condizione di proponibilità (e non di procedibilità) dell’azione risarcitoria trova applicazione, “tenendo conto del difetto di espresse limitazioni e della “ratio” della disposizione medesima (favore per il soddisfacimento stragiudiziale delle istanze di risarcimento), anche con riguardo alla domanda riconvenzionale avanzata dal convenuto che assuma a sua volta la responsabilità dell’attore” (Cass. 12189/98. In questo senso v. anche Cass. 2269/06 e 22597/09).

Invece, all’art. 2 del regolamento in materia di procedure di risoluzione delle controversie tra operatori di comunicazioni elettroniche ed utenti, approvato con delibera n. 173/07/CONS. dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, si prevede che “l’utente finale non è tenuto ad esperire il tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dall’art. 3 per formulare eccezioni, proporre domande riconvenzionali ovvero opposizione a norma degli articoli 641 c.p.c. e ss.”.

Passando ora all’esame delle domande riconvenzionali formulate nelle controversie relative alle materie soggette a negoziazione assistita obbligatoria in base alla legge 162/14, va in primo luogo osservato che potrebbe sembrare risolutivo il chiaro dettato normativo del comma 1 dell’art. 3, che richiede, come già visto, la condizione di procedibilità del previo esperimento del tentativo in relazione ad ogni domanda che si vuol fare valere in giudizio.

D’altronde, nell’ottica dell’estensione della negoziazione assistita obbligatoria anche alle domande riconvenzionali si può evidenziare che la negoziazione assistita obbligatoria riguarda le domande formulate in giudizio in certe “materie” ed all’interno di queste ultime non può distinguersi in relazione alle modalità di presentazione della domanda.

Senza considerare che, ritenendo diversamente, potrebbe risultare economicamente conveniente, in caso di controversia tra due parti con richieste reciproche, attendere l’iniziativa altrui in sede di negoziazione assistita, non stipulare la convenzione di negoziazione e poi formulare le domande riconvenzionali in giudizio.

Tuttavia, sono diversi gli argomenti che portano a ritenere preferibile la tesi per cui il tentativo obbligatorio di negoziazione non si estende alle domande riconvenzionali in quanto:

1) il suo esperimento non sortirebbe l’effetto di chiudere il giudizio in corso. La conciliazione stragiudiziale, proprio in quanto stragiudiziale, ha lo scopo – nell’intento deflativo perseguito da tutti i sistemi di ADR – di evitare il giudizio, mentre il procedimento di negoziazione assistita sulla domanda riconvenzionale non è generalmente idoneo, dopo il fallimento del procedimento di negoziazione assistita sulla domanda principale, a porre fine al giudizio. Peraltro, difficilmente l’attore, che ha già (vanamente) sperimentato il procedimento di negoziazione assistita sulla sua domanda, si presenterà di nuovo al tavolo della negoziazione;

2) si allungherebbero notevolmente i tempi di definizione del processo (in contrasto con l’art. 111 della Costituzione). Il procedimento di negoziazione assistita, come gli altri sistemi di risoluzione alternativa delle controversie, può produrre effetti positivi se non prolunga i tempi processuali, anche considerato che per C. Cost. 276/00 il diritto di azione può essere limitato con la previsione di procedure di negoziazione se vi è un limite temporale. In proposito è il caso di osservare che la possibile violazione del parametro dell’art. 111 Cost. sulla ragionevole durata del processo non si pone con riferimento ai contratti agrari ed alla materia della responsabilità civile per sinistri stradali (con riferimento alla proponibilità della domanda di cui all’art. 145, commi 1 e 2, D.lgs. 209/2005, c.d. Codice delle assicurazioni)in quanto in questi casi il previo esperimento del procedimento di negoziazione si configura come condizione di proponibilità (e non di procedibilità come nella legge 162/14). Conseguentemente, la domanda riconvenzionale non preceduta dal tentativo di conciliazione viene dichiarata, nei due casi appena indicati, improponibile e non comporta alcun allungamento dei tempi processuali. Diversamente, quando il procedimento di negoziazione viene configurato come condizione di procedibilità, il procedimento va instaurato anche a processo giurisdizionale iniziato, con inevitabile dilatazione dei tempi. Fare rientrare la domanda riconvenzionale nell’ambito della negoziazione assistita obbligatoria rischierebbe di esporre, sotto questo profilo, l’art. 3 della legge 162/14 a possibili censure di incostituzionalità per violazione dell’art. 111 Cost. Occorre invece assolutamente procedere ad un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme della legge 162/14. Peraltro, si consideri che nella realtà dei fatti il giudice, qualora dovesse inviare le parti in negoziazione sulla riconvenzionale, rinvierebbe spesso ad un’udienza di ben oltre tre mesi successiva a quella nella quale ha rilevato l’improcedibilità della riconvenzionale;

3) il tentativo di conciliazione non avrebbe comunque modo di essere esperito in via preventiva (cfr. Tribunale Taranto  sez. III, 18 aprile 2002, inGiur. it. 2003, 78 con nota di Rascio,  inGiur. merito2003, 1394 con nota di Tiscini, inDir. e giur. 2003, 406 con nota di Della Pietra). Non sarebbero invero compatibili, da un lato, una domanda che (come la riconvenzionale) presuppone l’avvenuta instaurazione del processo e, dall’altro, una procedura che, invece, ha l’obiettivo di evitare che il giudizio venga mai ad esistenza;

4) l’art. 3 della legge 162/14 prevede che l’improcedibilità vada eccepita dal “convenuto”, in tal modo evidenziando che l’improcedibilità si riferisce solo alle domande dell’attore. Né varrebbe sostenere che l’attore è da qualificare come convenuto in relazione alla domanda riconvenzionale dell’altra parte. In realtà, il destinatario di una domanda riconvenzionale non è un convenuto. Convenuto è solo chi è chiamato in giudizio, chi riceve una vocatio in ius. Il codice di rito non definisce mai come convenuto l’attore che è destinatario di una domanda riconvenzionale. Anche l’art. 183 c.p.c. parla sempre di attore in relazione a colui nei cui confronti viene formulata una domanda riconvenzionale e che può avanzare una reconventio reconventonis. Se il legislatore parla di “convenuto” deve farsi riferimento al concetto di “convenuto” impiegato dallo stesso legislatore;

5) le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità, costituendo deroga all’esercizio del diritto di agire in giudizio, garantito dall’art. 24 Cost., non possono essere interpretate in senso estensivo (v. Cass. 967/04). Peraltro, questa non è una condizione di procedibilità gratuita ma costosa. E non può non considerarsi, inoltre, che se il giudice manda le parti in negoziazione assistita per la domanda riconvenzionale non è solo il convenuto a pagare il suo avvocato ma vi è anche il fatto che se l’attore accetta di stipulare la convenzione di negoziazione, egli deve pagare il suo legale anche se ha già pagato per la negoziazione assistita sulla domanda principale. E tutto ciò non pare esigibile e sembra lontano dalle effettive esigenze delle parti;

6) occorre evitare che vengano formulate domande riconvenzionali al solo fine di costringere il giudice a mandare le parti di nuovo in negoziazione, allungando così i tempi del giudizio. Né varrebbe osservare che per le riconvenzionali strumentalmente formulate esiste il rimedio previsto dal terzo comma dell’art. 96 c.p.c. come sanzione degli abusi del processo. A parte il fatto che è noto quanto poco sia stata di fatto applicata tale norma (ed è prevedibile che continuerà ad essere scarsamente impiegata anche dopo la sua recente modifica), vi è che, se si fanno rientrare le domande riconvenzionali nell’ambito della negoziazione assistita obbligatoria, intanto tali domande verranno formulate e dovranno essere pure istruite prima di comprendere se sono infondate.

Sarebbe quindi preferibile intendere la locuzione “chi intende esercitare in giudizio un’azione” (art. 3, comma 1, legge 162/14) come “chi intende instaurare un giudizio”. In questo senso, con riferimento alla mediazione obbligatoria, v. Trib. Palermo, sezione distaccata di Bagheria 11 luglio 2011.

Ecco che non sembra condivisibile l’impostazione per cui, in caso di proposizione di domanda riconvenzionale non preceduta dal procedimento di negoziazione assistita, il giudice dovrebbe (eventualmente anche disponendo, quando le domande non sono connesse, la separazione della domanda principale dalla domanda riconvenzionale) concedere il termine di 15 giorni per la comunicazione dell’invito alla stipula della convenzione di negoziazione assistita e rinviare ad un’udienza successiva alla scadenza del termine massimo di durata della negoziazione assistita, fissato dall’art. 2 della legge 162/14 in 3 mesi prorogabile di altri 30 giorni su accordo delle parti (cfr. sul punto, sempre in relazione alla mediazione obbligatoria, anche Tribunale Padova 22 gennaio 2004, inRiv. dir. agr. 2004, II, 136. Vale comunque la pena di precisare che, pur adottando tale prospettiva, l’accertata improcedibilità di una domanda riconvenzionale in conseguenza dell’omesso tentativo di conciliazione non spiegherebbe ipso facto influenza sulla procedibilità della domanda di parte attrice, dovendosi, anche in relazione ad essa, accertare autonomamente se sia stata o meno preceduta dal tentativo in questione – v. Cass. 11374/02).

Il giudice, pertanto, non deve effettuare alcun rinvio e non deve concedere alcun termine per la negoziazione assistita sulla domanda riconvenzionale, la quale va considerata procedibile. Il giudizio deve andare avanti normalmente, in modo da potere avere una durata ragionevole.

Peraltro, si consideri che, se si ritenesse di assoggettare la domanda riconvenzionale al previo espletamento del procedimento di negoziazione assistita, si verificherebbe che il giudice, per non ritardare l’iterprocessuale sulla domanda principale, dovrebbe, se possibile, come già accennato, separare,exart. 103 comma 2 c.p.c., la domanda riconvenzionale da quella principale. Ed è del tutto evidente l’enorme incremento del numero dei fascicoli processuali che discenderebbe da un’operazione di sdoppiamento delle cause effettuata tutte le volte in cui c’è una domanda riconvenzionale.

Ponendosi quindi nell’ottica (che non si condivide) di ricondurre la riconvenzionale nell’ambito della negoziazione assistita obbligatoria, è prevedibile che tale separazione avverrebbe di fatto molto raramente, considerato che verrebbe quasi sempre ritenuto non opportuno né una separata decisione delle due domande, molto spesso connesse (oggettivamente e soggettivamente) tra loro, né una sopportazione ad opera delle parti dei costi e degli oneri di due processi.

Nella pratica succederebbe che il giudice rinvierebbe in negoziazione assistita la domanda riconvenzionale senza separare le domande, rinviando tutta la causa ad un’udienza di almeno 4 mesi (3 mesi prorogabili di altri 30 giorni secondo il citato art. 2 legge 162/14) successiva ed invitando le parti a riportare in negoziazione assistita anche la domanda principale e ciò nella consapevolezza che difficilmente la negoziazione assistita andrebbe a buon fine su una sola parte della materia del contendere e che comunque nella negoziazione assistita sulla riconvenzionale si tratterebbe inevitabilmente anche della domanda principale.

In presenza di una negoziazione assistita obbligatoria sulla riconvenzionale è da credere che si riterrà che il termine di 3-4 mesi per il procedimento di negoziazione assistita in questione non si dovrebbe contare ai fini della legge Pinto (analogamente a quanto previsto dall’art. 7 del d.lgs. 28/2010). Certo, è bene precisare che l’art. 7 del d.lgs. 28/2010 è poco compatibile con la giurisprudenza della Corte EDU che ritiene che il dies a quo della ragionevole durata coincida con il deposito del ricorso o con la notifica della citazione, con la conseguenza che, a giudizio in corso, la sottrazione di tempi per effetto di previsioni normative su subprocedimenti non giurisdizionali (come la mediazione) sembra togliere unospatium temporische per la Corte Edu potrebbe risultare lesivo del principio di cui all’art. 6 CEDU.

Comunque, l’invio in negoziazione assistita delle parti sulla domanda riconvenzionale si risolverebbe, molto spesso, dopo il già accertato fallimento della negoziazione assistita sulla domanda principale, nel fallimento anche della negoziazione assistita sulla domanda riconvenzionale, la quale va quindi tenuta fuori, per tutte le ragioni sopra indicate, dalla negoziazione assistita obbligatoria.

A queste conclusioni è giunto, come già osservato e con riferimento alla mediazione obbligatoria, Trib. Palermo, sezione distaccata di Bagheria 11 luglio 2011.

A soluzione diversa è invece pervenuto, con riferimento alla sola ipotesi delle riconvenzionali inedite e sempre relativamente alla mediazione obbligatoria, il Trib. Firenze 14 febbraio 2012, che – in relazione ad un caso in cui la domanda principale non rientrava, ratione temporis, nelle previsioni dell’art. 5 d.lgs. n. 28/2010, mentre la domanda riconvenzionale era stata proposta il 13.2.2012, quando cioè il primo comma dell’art. 5 in questione era già entrato in vigore relativamente alla materia oggetto del giudizio, ossia quella locatizia – ha affermato che la domanda riconvenzionale c.d. inedita, cioè non inserita prima in sede di mediazione (ad esempio, nella procedura di mediazione iniziata per la domanda principale), deve reputarsi soggetta al tentativo obbligatorio di conciliazione. Il giudice fiorentino ha valorizzato il favor per le soluzioni alternative delle controversie che emerge dalla direttiva europea in tema di mediazione (2008/52/CE), dalla “magna charta of judges” approvata il 17 novembre del 2010 dal Consiglio consultivo dei giudici europei in seno al consiglio d’Europa e dalla Raccomandazione sui giudici approvata dal Comitato dei Ministri degli Stati europei.

Affermando, poi, che il principio della ragionevole durata del processo andava valutato insieme al principio della ragionevole durata della risoluzione della lite, che la mediazione poteva fare venire meno del tutto, e precisando che non andava disposta la separazione delle domande tenuto conto delle finalità compositive della procedura di mediazione e del fatto che la mediazione deve, per sua natura, riguardare il rapporto nella sua interezza, il Tribunale di Firenze ha quindi non soltanto differito l’udienza ex art. 418 c.p.c. in relazione alla domanda riconvenzionale inedita, ma ha anche assegnato il termine per la proposizione della domanda di mediazione relativamente alla medesima riconvenzionale, rinviando la causa ad epoca successiva al periodo previsto dall’art. 6 del d.lgs. n. 28/10 per il procedimento di mediazione.

Molto simile era il caso che si è posto davanti al Trib. Como, sez. distaccata di Cantù, ordinanza 2 febbraio 2012. Si trattava di una domanda principale non soggetta alla mediazione obbligatoria (non ratione temporis, però, ma perché afferente materia diversa da quelle indicate al primo comma dell’art. 5 d.lgs. 28/10) e di una domanda riconvenzionale (di usucapione) ritenuta dal giudice rientrante nella mediazione obbligatoria. Il Tribunale di Como ha affermato che anche le domande riconvenzionali inedite vanno in mediazione obbligatoria (anche per evitare un’ingiustificata disparità di trattamento tra attore, onerato di proporre la domanda di mediazione, e convenuto) e che sulle domande principali, che dovrebbero essere separate per evitare l’irragionevole durata del processo, è bene dare luogo alla mediazione su provvedimento del giudice.

La reconventio reconventionis, la chiamata di terzo e le domande trasversali.

È noto che il codice di procedura civile consente all’attore di proporre, nell’udienza di prima comparizione, domande ed eccezioni in conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto (art. 183, comma V, c.p.c.). La domanda in questione è la c.d.reconventio reconventionis.

È altrettanto noto, poi, che il convenuto può proporre domanda contro altro convenuto già parte del processo, così come può avanzarle verso chi, non essendo ancora parte del processo, venga chiamato a parteciparvi (artt. 106, 167, ultimo comma e 269, 2° comma, c. p. c.). Si tratta delle domande trasversali.

Ora, in relazione alla reconventio reconventionis  possono riproporsi, mutatis mutandis, le stesse argomentazioni sopra esposte con riferimento alla tesi dell’esclusione della necessità del previo procedimento di negoziazione assistita ai fini della procedibilità della domanda riconvenzionale (invece, sostiene, con riferimento ai contratti agrari, la necessità del tentativo di conciliazione anche alla reconventio reconventionis  formulata dall’attore – convenuto in riconvenzionale – Cass. civ., Sez. III, 27 aprile 1995, n. 465). Si può però aggiungere che l’art. 3 della legge 162/14 prevede che l’eccezione di improcedibilità vada formulata dal convenuto entro la prima udienza (in base a quanto previsto dall’art. 3 della legge 162/14 l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza ed in particolare prima della concessione dei termini ex art. 183, comma 6, c.p.c., in quanto rientrante tra le questioni rilevabili d’ufficio, che vanno evidenziate dal giudice, secondo quanto previsto dall’art. 183 c.p.c., prima della concessione dei termini in questione). E pare davvero inverosimile che il legislatore abbia imposto al convenuto di formulare un’eccezione nella stessa udienza in cui può proporsi la reconventio reconventionis  (e lo stesso ragionamento vale, poi, anche per la chiamata del terzo fatta dall’attore). 

Con riferimento alle domande trasversali (verso altro convenuto o verso terzi chiamati in causa) ed alle domande del terzo interveniente (in ipotesi di interventi di terzo c.d. innovativi, ossia quelli che comportano un ampliamento del thema decidendum) si noti che anche in questo caso, al pari delle domande riconvenzionali del convenuto, è bene non richiedere la condizione di procedibilità.

La mediazione sulla domanda da parte del terzo o verso il terzo o altro convenuto non ha, in presenza del fallimento della mediazione sulla domanda principale, quasi nessuna possibilità di evitare la controversia. E valgano, poi, le stesse ragioni sopra esposte in relazione all’esclusione dall’ambito della negoziazione assistita obbligatoria delle domande riconvenzionali.

Di contro, nessun problema si pone, all’evidenza, con riferimento agli interventi di terzo non innovativi, poiché non allargano l’oggetto del giudizio.

Inoltre, non ha senso, in caso di negoziazione assistita già effettuata in modo fallimentare sulla domanda principale, inviare al procedimento di negoziazione assistita solo, ad esempio, una domanda di garanzia senza che sia ancora definito processualmente il rapporto principale. Se la domanda di un convenuto verso altro convenuto presuppone la soccombenza del primo nei confronti dell’attore, non vi è alcuna ragione (né mirante ad una composizione della lite né finalizzata ad una deflazione del contenzioso giudiziario) per inviare in negoziazione assistita dopo l’esito negativo della negoziazione assistita sulla domanda principale e prima della statuizione giudiziale definitiva su tale domanda, la domanda in questione. In questo caso, in cui la domanda trasversale del convenuto dipende dalla domanda dell’attore, la negoziazione assistita non avrebbe la possibilità di evitare la controversia. Il processo deve continuare regolarmente.

Certo, è quantomeno utile che gli avvocati indichino nel verbale eventuali contropretese del convenuto in negoziazione e dispongano la chiamata in negoziazione assistita di terzi (quali le compagnie di assicurazione) verso i quali una delle parti intende avanzare domande. Anche perché, altrimenti, l’eventuale accordo raggiunto tra le parti non potrebbe essere fatto valere nei confronti della compagnia.

Ancora si osservi che se si ritenesse di dovere inviare in negoziazione assistita anche le domande riconvenzionali o di terzi o formulate verso terzi si potrebbe pure verificare che, instaurato da un danneggiato un giudizio per un sinistro stradale dopo il fallimento del procedimento di negoziazione assistita, il giudice debba inviare le parti in negoziazione assistita (e rinviare la causa ad oltre 4 mesi) sia dopo l’eventuale riconvenzionale della compagnia si assicurazione sia (a giudizio ripreso dopo la tentata ulteriore negoziazione assistita) dopo l’intervento di un terzo danneggiato che voglia anch’egli ottenere il risarcimento del danno. Né potrebbe dirsi che a questo punto la negoziazione assistita obbligatoria non si applica. Tutte le domande formulate da terzi intervenienti nel corso del giudizio potrebbero comportare procedimenti di negoziazione assistita ulteriori rispetto a quelli già effettuati sulla domanda principale e sulla domanda riconvenzionale.     

In conclusione, sembra che vadano escluse dall’ambito della negoziazione assistita obbligatoria tutte le domande (riconvenzionale inedita, domanda trasversale, reconventio reconventionis) che siano diverse da quella dell’attore proposta con l’atto introduttivo del giudizio. Lo scopo del legislatore che ha introdotto la negoziazione assistita obbligatoria è quello di aumentare i casi di composizione extragiudiziale della lite e di introdurre una ridotta limitazione del principio della ragionevole durata del processo. Probabilmente le stesse parti non vedrebbero con favore una soluzione giurisprudenziale costruita nel senso di imporre la (comunque costosa) negoziazione assistita anche sulle riconvenzionali, dopo che un procedimento di negoziazione assistita sulla domanda principale è stato già sperimentato senza che sia emersa in quella sede la questione posta dal convenuto alla base della riconvenzionale. Ed è bene che le soluzioni giurisprudenziali, oltre ad essere costituzionalmente ed eurounitariamente conformi, tengano anche conto del loro impatto pratico.

19. Altre questioni in tema di negoziazione assistita e processo.

Quesito

Nella negoziazione assistita in tema di sinistri stradali le parti ed i loro avvocati possono avvalersi dell’opera di un esperto?

È noto a tutti che le controversie in tema di sinistri stradali possono avere concrete possibilità di trovare una soluzione concordata se sussiste un punto di riferimento in termini determinazione dell’entità del danno biologico e dei giorni di inabilità temporanea.

Tuttavia, la legge 162/14 non contiene, a differenza del d.lgs. 28/10 in tema di mediazione (v. art. 8, comma 4), una disposizione normativa che preveda che ci si possa avvalere di esperti iscritti negli albi dei consulenti presso i tribunali.

Nulla però esclude che le parti ed i loro avvocati possano nominare dei comuni consulenti medico-legali.

Certo, mentre il d.lgs. 28/10 prevede che il regolamento di procedura dell’organismo di mediazione disciplini le modalità di calcolo e liquidazione dei compensi spettanti agli esperti, nel caso della negoziazione assistita il compenso del consulente nominato sarà determinato d’intesa tra il professionista e le parti o, in assenza di accordo preventivo, secondo le tariffe vigenti (v. art. 2225 c.c.).

Quesito

Può prodursi nel giudizio civile la consulenza svolta nel procedimento di negoziazione assistita?

Posto, quindi, che si può espletare una consulenza in sede di negoziazione assistita, è possibile ritenere che, stante la riservatezza che caratterizza il procedimento di negoziazione assistita (come gli altri procedimenti conciliativi), per prodursi in giudizio la consulenza espletata nel procedimento di mediazione sembra necessario il consenso di entrambe le parti. E ciò nonostante l’art. 9, comma 2, legge 162/14 preveda l’inutilizzabilità in giudizio delle “informazioni acquisite nel corso del procedimento” senza contemplare una deroga per il caso di “consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni”, come invece accade per la mediazione ex art. 10, comma 1, d.lgs. 28/10.Con il consenso di entrambe le parti possono, infatti, derogarsi molti limiti processuali.

Occorre poi chiedersi, con riferimento al caso in cui vi sia il consenso delle parti alla produzione della consulenza redatta dall’esperto nominato dal mediatore, se sia utilizzabile in giudizio una tale consulenza.

L’opinione negativa si fonda sul rilievo per cui “il consulente non ha offerto la propria prestazione sotto il vincolo del giuramento di cui all’art. 193 c.p.c. Tale incombente non `e certo una formalità posto che, se svolto senza contraddittorio delle parti (v. Cass. civ., Sez. Un., 29 novembre 1974, n. 3907) o del tutto omesso, determina addirittura la nullità dell’elaborato peritale (in passato, la Corte ha statuito che la nomina del consulente tecnico effettuata dal notaio delegato dal Giudice istruttore per le operazioni divisionali, anziché dal Giudice istruttore che ne deve ricevere il giuramento ai sensi dell’art. 193, c.p.c., è nulla, cfr. Cass. civ. 30 ottobre 1961, n. 2490, in «Mass. Giur. It.» 1961, 763). L’eventuale elaborato potrà, allora, semmai essere acquisito al processo al solo fine di confluire nell’incartamento del CTU nominando per l’espletamento del suo incarico, quale documento ulteriore di ausilio ai fini dell’attività; giammai, invece, il Giudice potrebbe decidere la lite sulla base della sola perizia consegnata ai mediatori” (v. G. Buffone,Risoluzione alternativa delle liti civili e commerciali, in Il civilista, marzo 2010, pag. 24).

A ciò si aggiunga che il valore attribuibile alla consulenza fatta redigere in sede di negoziazione assistita non sarebbe comunque inferiore a quello attribuito dalla giurisprudenza alla consulenza stragiudiziale di parte, con l’aggiunta che la consulenza posta in essere nel procedimento di negoziazione assistita è disposta da un soggetto imparziale (in quanto scelto da tutte le parti) ed è realizzata da un soggetto non legato da vincoli alle parti.

Ora, è vero che la consulenza di parte, ancorché confermata sotto il vincolo del giuramento, costituisce una semplice allegazione difensiva di carattere tecnico, priva di autonomo valore probatorio (non trattandosi di circostanze acquisite alla causa attraverso prove orali o documentali), con la conseguenza che il giudice di merito, ove di contrario avviso, non è tenuto ad analizzarne e a confutarne il contenuto, quando ponga a base del proprio convincimento considerazioni con esso incompatibili e conformi al parere del proprio consulente (v. Cass. 20821/06; 5687/01; 8240/96).

Tuttavia, è anche vero che il giudice di merito può fondare la propria decisione su una consulenza tecnica stragiudiziale, purché fornisca adeguata motivazione di tale sua valutazione (v. Cass. 2574/92; 1416/87; 1504/83; 3882/81)[10].


[1] Sono escluse le controversie concernenti obbligazioni contrattuali derivanti da contratti conclusi tra professionisti e consumatori. Sono anche esclusi i casi in cui la parte può stare in giudizio personalmente (art. 3 comma 7) e le ipotesi già rientranti nella mediazione obbligatoria (art. 3 comma 1).

[2] Alle medesime conclusioni perveniva, anche se sulla base di un diverso ragionamento, il Tribunale di Pisa, ordinanza 3 agosto 2011 (in Foro it., 2012, 1, I, 270) che assumeva consapevole posizione difforme rispetto al Tribunale di Varese sotto il profilo della motivazione. Secondo il Trib. di Pisa la domanda per CTU preventiva ex art. 696 bis c.p.c. va esclusa dalla mediazione in quanto procedimento “urgente”, sottratto alla mediazione in virtù dell’art. 5 comma 3 d.lgs. 28/2010. Il Trib. di Pisa precisa anche che la mediazione va richiesta solo per le controversie che orbitano su “giudizi di merito” e non anche riguardo a quelle che, come la CTU preventiva, sono finalizzate alla raccolta di una prova preventiva. 

[3] Tale diversa disciplina è probabilmente dovuta al fatto che il legislatore ha voluto evitare che si ponesse nella negoziazione assistita la questione (che già si era posta nella mediazione) dell’individuazione del soggetto (opposto o opponente) su cui fare gravare l’onere dell’instaurazione del procedimento stragiudiziale.

[4] Nella quale si legge che “l’esclusione dei procedimenti di ingiunzione e di convalida di licenza o sfratto (lettere a e b) si giustifica per il fatto che in essi ci troviamo di fronte a forme di accertamento sommario con prevalente funzione esecutiva. Il procedimento è caratterizzato da un contraddittorio differito o rudimentale, e mira a consentire al creditore di conseguire rapidamente un titolo esecutivo. Appare pertanto illogico frustrare tale esigenza imponendo la mediazione o comunque il differimento del processo (sulla non applicabilità del tentativo obbligatorio di conciliazione al procedimento ingiuntivo v. del resto Corte cost. 6 febbraio 2001, n. 29; Corte cost. 13 luglio 2000, n. 276). È stato peraltro previsto che la mediazione possa trovare nuovamente spazio all’esito della fase sommaria, quando le esigenze di celerità sono cessate, la decisione sulla concessione dei provvedimenti esecutivi è stata già presa e la causa prosegue nelle forme ordinarie”.

[5] È da ritenere che in qualche caso questa certificazione mancherà in conseguenza della valutazione, da parte di qualche avvocato, della responsabilità connessa alla formulazione di un’errata attestazione.

[6] E che è requisito molto più generico di quello richiesto per la mediazione obbligatoria, in relazione alla quale il comma 2 dell’art. 4 del d.lgs. 28/10 prevede che nella domanda di mediazione siano indicati “l’oggetto e le ragioni della pretesa”.

[7] È questa la soluzione adottata, con riferimento alla mediazione obbligatoria, dal Trib. Modena (sez. II, 5 maggio 2011, in Giur. merito 2011, 7-8, 1820, inGuida al diritto 2011, 44, 8, ed inArch. locazioni 2011, 6, 825) che, in un caso di un ricorsoex art. 447bis c.p.c. contenente una domanda di rilascio di un immobile per detenzione senza titolo e di condanna del resistente al pagamento dei canoni di occupazione, ha ritenuto possibile, già in sede di emanazione del decreto di fissazione dell’udienza di discussioneex art. 415 c.p.c., il rilievo d’ufficio relativo al mancato espletamento della procedura obbligatoria di mediazione. Ecco che il Tribunale di Modena ha subito assegnato il termine di quindici giorni per presentare la domanda di mediazione, fissando contestualmente anche l’udienza per la discussione ad una data successiva alla scadenza del termine di quattro mesi di durata massima del procedimento di mediazione. La stessa impostazione è stata seguita da Trib. Prato (decreto del 30 marzo 2011) e dallo stesso Tribunale di Modena (sez. II) in data 22/10/2013.

[8] Analogamente, con l’ordinanza del 16 luglio 2014 il Tribunale di Roma (XIII Sezione civile – Giudice Moriconi) nel corso di un giudizio (in materia di responsabilità medica) nel quale era stata acquisita una CTU disposta nel procedimento ai fini della conciliazione della lite (articolo 696-bis del Cpc.) ed in sede di trasformazione del rito ex articolo 702-ter, comma 3, Cpc, ha formulato una proposta conciliativa ed ha disposto immediatamente per il caso della mancata adesione delle parti la mediazione delegata, con l’avvertenza che è richiesta alle parti l’effettiva partecipazione al procedimento di mediazione demandata e che la mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione demandata dal giudice, oltre a poter attingere alla stessa procedibilità della domanda, è in ogni caso comportamento valutabile nel merito della causa. Principio di effettività della mediazione applicato dunque alla mediazione demandata dal giudice (articolo 5, comma 2, Dlgs 28/2010) ma che già viene ritenuta applicabile anche alla mediazione obbligatoria preventiva ex lege (articolo 5, comma 1-bis, Dlgs 28/2010).

[9] Da ultimo v. Tribunale di Vasto 9.3.2015.

[10] In giurisprudenza ha ritenuto producibile in giudizio, ma con limitato valore probatorio, la perizia espletata in mediazione Trib. Roma, sez. XIII, 17/3/2014, secondo il quale la relazione redatta dal consulente tecnico nel corso di un procedimento di mediazione che si concluda senza accordo può essere prodotta nel successivo giudizio ad opera di una delle parti senza violare le regole sulla riservatezza, in virtù di un equilibrato contemperamento fra l’esigenza di riservatezza che ispira il procedimento di mediazione e quella di economicità e utilità delle attività che si compiono nel corso ed all’interno di tale procedimento. Ne consegue che il giudice potrà utilizzare tale relazione “secondo scienza e coscienza con prudenza, secondo le circostanze e le prospettazioni, istanze, e rilievi delle parti” più che per fondare la sentenza “per trarne argomenti ed elementi utili di formazione del suo giudizio” ovvero anche “per costituire il fondamento conoscitivo ed il supporto motivazionale (più o meno espresso) della proposta del giudice ai sensi dell’art. 185 bis c.p.c.”. Nel caso di specie – un’assunta “malpracrice” medico-sanitaria – il giudice, pur ammettendo la produzione della relazione dell’esperto non ritiene di trarne elementi di utilità, neppure fra le parti fra le quali si è validamente svolto l’esperimento di mediazione.

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Intervista al dott. Nicola Cerrato, P.M. a Milano, autore delle utili linee guida emesse dalla Procura della Repubblica di Milano sulla materia a cura di Michele Ius Avvocato in Pordenone e Treviso

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estensore G. Buffone

Mediazione civile e diritti indisponibili

Trib. Milano, sez. IX civ., ordinanza 15 luglio 2015 (Est. G. Buffone)

MEDIAZIONE DEMANDATA DAL GIUDICE – ESPUNZIONE DELL’ISTITUTO DAL DLGS 28 DEL 2010 AD OPERA DEL DL 69 DEL 2013 – PERSISTENTE DEL POTERE IN CAPO AL GIUDICE – SUSSISTE (ART. 5 DLGS 28 DEL 2010)

La nuova formulazione normativa dell’art. 5 comma II d.lgs. 28 del 2010 non è incompatibile con un generale potere del giudice (art. 175 c.p.c.) di sollecitare un percorso volontario di mediazione mediante un invito: invito che, se seguito dalla adesione delle parti, ha il vantaggio (per le parti stesse) di non comportare conseguenze in punto di procedibilità della domanda. Infatti, la mediazione demandata dal giudice, altro non è se non una forma di mediazione volontaria, veicolata dal suggerimento del magistrato: l’espunzione dell’istituto della cd. mediazione demandata dal giudice (a seguito del d.l. 69 del 2013), pertanto, non esclude e nemmeno limita la facoltà del giudicante di sollecitare una riflessione nei litiganti, mediante invito a rivolgersi spontaneamente ad un organismo di mediazione. Si ricade nell’ambito dei normali poteri di governance giudiziale (175 c.p.c.). Né più e né meno di quanto già avviene per il celebre «invito a coltivare trattative». Pertanto, è sempre possibile – pur nella vigenza dell’attuale versione normativa del dlgs 28 del 2010 – che il giudice inviti le parti ad avviare il procedimento di mediazione, su scelta volontaria.

Trib. Milano, sez. IX civ., ordinanza 15 luglio 2015 (Est. G. Buffone)

MEDIAZIONE CIVILE DEMANDATA DAL GIUDICE – ESPERIBILITÀ IN PROCESSI AVENTI AD OGGETTO DIRITTI INDISPONIBILI – POSSIBILITÀ – SUSSISTE – CONDIZIONI (ART. 5 DLGS 28 DEL 2010)

La presenza del «diritto indisponibile» nel procedimento civile non esclude la co-presenza di diritti del tutto disponibili e, quindi, negoziabili. E, in genere, a fronte di una azione che ricada su diritti disponibili è sussistente un interesse sostanziale della parte che (anche solo) indirettamente mira al soddisfacimento di situazione giuridiche soggettive negoziabili. In un habitat processuale in cui convivano pretese a giurisdizione necessaria e interessi suscettibili di transazione, deve trovare spazio il principio secondo il quale la mediazione civile è suscettibile di trovare applicazione per quella “parte” di procedimento in cui imperano interessi disponibili e, perciò, negoziabili. L’eventuale accordo sulla parte disponibile del processo può, infatti, avere poi ricadute sul procedimenti in generale: infatti, la composizione del conflitto “spegne” l’interesse delle parti per la procedura giudiziale che può, a questo punto, essere oggetto di atti dispositivi anche indiretti (negozi processuali. Si pensi al caso della parte attrice che rinuncia alla domanda giudiziale avente ad oggetto diritti indisponibili).

Rileva in fatto

X nato a … (.., USA), in data .. 1920, residente in .., .., contraeva matrimonio con rito civile con .. (nata a .., il .. 1936), in Genova, in data .. 1959 (atto n…). Dall’unione nascevano i figli … e .. .. (nato a .. 1960). I coniugi si separavano dinanzi al Tribunale di Genova, in data .. 1979. Nel 1983, a seguito di ricorso del .., il Tribunale della West Virginia pronunciava il divorzio tra la . e il marito; della pronuncia divorzile, la .. veniva a conoscenza solo in un momento successivo. In particolare, quando apprendeva che, dopo tale pronuncia, il .. aveva contratto matrimonio, a New York, con .. .. (nata a .., Colombia, in data .. 1955). La .. denunciava il .. che, a seguito di giudizio di appello celebrato dinanzi alla Corte di Appello di Genova, veniva giudicato responsabile del delitto di bigamia, di cui all’art. 556 c.p. (sentenza … 1990). Pronuncia che risulta passata in giudicato. In data 5 dicembre 1990, con sentenza n. .., il Tribunale di Genova pronunciava lo scioglimento del matrimonio trascritto al n. .., anno 1959, .., celebrato dalla .. e dal ..; su accordo delle parti, il Tribunale riconosceva alla moglie un assegno una tantum di 250.000 dollari americani. In data .. 2008, … e .. trascrivevano il loro matrimonio presso i registri dello Stato Civile del Comune di .. (..), .. 1998 (matrimonio contratto in New York, il .. 1983). Con atto di citazione notificato in data .. 2014, X citava in giudizio la .. affinché fosse dichiarata la nullità del matrimonio contratto in America nel 1983, con efficacia ex tunc. Il giudizio veniva iscritto al n. .. dell’anno 2014. La . si costituiva in data …2015 resistendo alle domande. Con atto di citazione notificato in data .. 2014, … citava in giudizio la .. affinché fosse dichiarata la nullità del matrimonio contratto da lei e da X, in America nel 1983, con efficacia ex tunc. Il giudizio veniva iscritto al n. .. dell’anno 2014. La .. si costituiva in data .. 2015 resistendo alle domande. In corso di processo, X decedeva. All’udienza del .. 2015, il giudice proponeva alle parti di valutare l’opportunità di intraprendere un percorso di mediazione civile. Con note trasmesse entro i termini, le parti aderivano all’invito del giudice.

Osserva in diritto

[1]. Il decreto legge 21 giugno 2013 n. 69 (convertito in L. 9 agosto 2013 n. 98) ha, come noto, espunto dal decreto legislativo n. 28 del 2010 la «cd. mediazione su invito del giudice» sostituendola con la cd. mediazione ex officio: in quest’ultimo caso, il tribunale prescrive alle parti di intraprendere un percorso di mediazione, a pena di improcedibilità della domanda. La nuova formulazione normativa dell’art. 5 comma II d.lgs. 28 del 2010 non è affatto incompatibile con un generale potere del giudice (art. 175 c.p.c.) di sollecitare un percorso volontario di mediazione mediante un invito: invito che, se seguito dalla adesione delle parti, ha il vantaggio (per le parti stesse) di non comportare conseguenze in punto di procedibilità della domanda. Infatti, la mediazione demandata dal giudice, altro non è se non una forma di mediazione volontaria, veicolata dal suggerimento del magistrato: l’espunzione dell’istituto, pertanto, non esclude e nemmeno limita la facoltà del giudicante di sollecitare una riflessione nei litiganti, mediante invito a rivolgersi spontaneamente ad un organismo di mediazione. Si ricade nell’ambito dei normali poteri digovernance giudiziale (175 c.p.c.). Né più e né meno di quanto già avviene per il celebre «invito a coltivare trattative». Pertanto, è sempre possibile – pur nella vigenza dell’attuale versione normativa del dlgs 28 del 2010 – che il giudice inviti le parti ad avviare il procedimento di mediazione, su scelta volontaria.

[2]. Assodato che il giudice può imporre/prescrivere la mediazione civile ma anche semplicemente suggerirla, deve rilevarsi che, nella fattispecie, il procedimento ha ad oggetto diritti non disponibili: l’azione primaria, infatti, mira a caducare il vincolo matrimonio celebrato tra l’attore principale (defunto in corso di processo) e la convenuta. La presenza del «diritto indisponibile» nel procedimento civile non esclude la co-presenza di diritti del tutto disponibili e, quindi, negoziabili. E, in genere, a fronte di una azione che ricada su diritti disponibili è sussistente un interesse sostanziale della parte che (anche solo) indirettamente mira al soddisfacimento di situazione giuridiche soggettive negoziabili. In un habitat processuale in cui convivano pretese a giurisdizione necessaria e interessi suscettibili di transazione, deve trovare spazio il principio (peraltro) anche affermato dalla Suprema Corte secondo il quale la mediazione civile è suscettibile di trovare applicazione per quella “parte” di procedimento in cui imperano interessi disponibili e, perciò, negoziabili (v. Cass. Civ., Sez. Un., 22 luglio 2013 n. 17781). L’eventuale accordo sulla parte disponibile del processo può, infatti, avere poi ricadute sul procedimenti in generale: infatti, la composizione del conflitto “spegne” l’interesse delle parti per la procedura giudiziale che può, a questo punto, essere oggetto di atti dispositivi anche indiretti (negozi processuali. Si pensi al caso della parte attrice che rinuncia alla domanda giudiziale avente ad oggetto diritti indisponibili.

[3]. Nel caso di specie, il soggetto che predicava un interesse morale sovrastante ogni altra pretesa (cioè, il marito) è, purtroppo, deceduto. Le parti rimaste in causa (eredi del marito e moglie superstite), all’esito dell’audizione – risultata utile grazie alla collaborazione degli Avvocati – hanno lasciato emergere, al di là della formale posizione processuale, l’effettivo “interesse” nel conflitto: un interesse squisitamente patrimoniale e, in specie, i diritti sul patrimonio del de cuius. Interesse affatto secondario rispetto agli altri oggetto del processo e nemmeno meritevole di un diverso trattamento rimediale facendo capo a una situazione giuridica soggettiva presidiata dall’Ordinamento. Tuttavia, si tratta di un interesse che potrebbe ottenere un soddisfacimento diretto ed effettivo anche ricorrendo a una strada di composizione del conflitto diversa da quella attivata in sede giurisdizionale. Mediante l’annullamento del matrimonio, la convenuta perderebbe la titolarità dei diritti sul patrimonio, in qualità di coniuge; ciò nondimeno, resterebbe nella piena disponibilità di beni già del de cuius trasmessi alla stessa dal medesimo allorché questi era in vita; beni rispetto ai quali, potrebbero profilarsi altre azioni, soprattutto nel caso in cui tali “trasferimenti” fossero qualificabili come liberalità indirette. Stima, dunque, questo Tribunale che una soluzione opportuna per le parti potrebbe essere quella di un accordo bonario in merito alla divisione del patrimonio del de cuius mediante l’assistenza di uno o più mediatori che possano assistere i litiganti e i loro Avvocati in una difficile e complicata opera di accertamento dei beni stessi e di possibile loro divisione: valga ricordare, che i beni in questione sono eterogeni, riguardando mobili, immobili quote societarie e alcuni di essi versano pure in condizioni giuridiche affatto semplici da comporre (es. i beni vincolati in Trust); inoltre, una parte del patrimonio è all’estero e localizzata in diversi Stati. A parere di questo Tribunale, pertanto, l’eventuale sentenza (soprattutto se di accoglimento) non sarebbe idonea a comporre il conflitto potendo solo definire il procedimento. Peraltro, i tempi della procedura non possono stimarsi ristretti: il processo è stato iscritto il 24 luglio 2014 e, già per le vicende anomale verificatesi (decesso di una delle parti), è decorso un anno e si è tuttora nella fase della trattazione. Inoltre, si sono cumulate questioni processuali da affrontare che potrebbero determinare finanche la regressione del procedimento alla fase anteriore alla concessione dei termini ex art. 183 comma VI c.p.c.

[4]. All’esito del colloquio con i difensori, è parso dunque opportuno invitare le parti a sperimentare un percorso di mediazione civile, al fine di verificare la sussistenza (in concreto) di possibili assetti conciliativi: ovviamente, con riferimento solo ed esclusivamente ai diritti di entrambi i litiganti sul patrimonio del de cuius, fermo il monopolio della giurisdizione sull’azione di annullamento. La seria collaborazione offerta dai difensori, induce, dunque, ad accogliere l’adesione delle parti all’invito del giudice e a fissare una udienza interlocutoria, con gli Avvocati, per fissare la modalità della mediazione (luogo, tempi, organismo) secondo quanto scelto dalle parti stesse; udienza interlocutoria, peraltro, che risponde ai desiderata dei difensori. In quella sede, peraltro, questo Tribunale stima opportuno anche eventualmente formulare una proposta conciliativa ex art. 185-bis c.p.c., al fine di offrire spunti ai mediatori e alle parti per le trattative: proposta che, inevitabilmente, potrà essere anche di tipo predittivo, mediante una prognosi in merito alla possibile/probabile fondatezza dell’azione, sulla scorta dell’attuale stato e condizione della piattaforma probatoria.

PER QUESTI MOTIVI

RISERVA la decisione sulle questioni pendenti,

DÀ ATTO che le parti hanno aderito all’invito giudiziale di procedere alla mediazione,

FISSA l’udienza in data 16 SETTEMBRE 2015, ore 13.15, per quanto di cui in parte moti

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a cura di Andrea Penta

1.     Premessa.

Il d.l. n. 132/2014, come emendato a seguito della legge di conversione n. 162/2014, ha introdotto delle modifiche finalizzate a realizzare una migliore “efficienza” del processo di cognizione.

In particolare, il legislatore della riforma appare mosso da un duplice scopo: a) quello di rendere più efficiente e snello il detto processo e quello di esecuzione, onde ridurre la convenienza di strategie processuali basate su tattiche ostruzionistiche; b) quello di disincentivare le parti dal rivolgersi all’autorità giudiziaria, favorendo o, talvolta, anche imponendo come obbligatorio il ricorso ai mezzi alternativi di composizione della lite.

Nella prima direzione si muovono le misure dirette alla tutela del credito. In quest’ottica, da un lato, quanto al giudizio di cognizione, è stato elevato in maniera considerevole il saggio degli interessi moratori da computare dopo la proposizione della domanda giudiziale, e, dall’altro lato, quanto al processo di esecuzione, sono stati potenziati in modo significativo gli strumenti per la individuazione dei beni da espropriare. In entrambi i casi si è al cospetto di mezzi che rendono assai meno conveniente la resistenza dilatoria del debitore in mala fede.

Si nutrono forti dubbi in ordine alla possibilità di realizzare l’obiettivo della ragionevole durata dei giudizi incentivando il ricorso ai mezzi di Alternative Dispute Resolution, in quanto la parte che è consapevole di essere nel torto ha tutto l’interesse ad allungare i tempi del processo (e, quindi, ad evitare accordi con l’avversario) e, di riflesso, a ritardare l’adempimento alle proprie obbligazioni.

Tra le misure che, invece, possono favorire una più rapida definizione del giudizio vi è quella che ha elevato il tasso degli interessi moratori, anche se si presta anch’essa ad usi strumentali, se solo si considera che il titolare del diritto, consapevole della fondatezza delle sue ragioni, potrebbe, per assurdo, avere interesse a continuare (recte,a protrarre) la lite giudiziaria in modo da conseguire vantaggi (gli elevati interessi moratori) cui giammai potrebbe aspirare ricorrendo al sistema bancario.

2.     Il saggio degli interessi moratori.

L’art. 17 del menzionato decreto legge, intitolato “Misure per il contrasto del ritardo nei pagamenti”, ha aggiunto all’articolo 1284 del codice civile dopo  il  terzo  comma  le seguenti disposizioni:

«Se le parti non ne hanno  determinato  la  misura,  da  quando  ha inizio un procedimento di cognizione il saggio degli interessi legali e’ pari a quello previsto dalla  legislazione  speciale  relativa  ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. La disposizione del quarto comma si applica anche all’atto con  cui si promuove il procedimento arbitrale.».

In estrema sintesi, per evitare che il processo civile sia strumentalizzato in ragione dell’applicazione del tasso legale d’interesse ed in coordinamento con la disciplina sui ritardi nei pagamenti relativi alle operazioni commerciali, si incrementa il saggio di interesse moratorio durante la pendenza della lite, prevedendosi che dal momento della proposizione della domanda giudiziale (ovvero dall’atto con il quale si promuove l’arbitrato) il tasso degli interessi legale deve considerarsi pari a quello previsto dalle disposizioni in tema di ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali (art. 5, co. 3, d.lgs. 9.10.2002, n. 231) [1].

Come si è già anticipato, il fatto che il saggio degli interessi applicato dal giudice nel pronunciare le condanne fosse inferiore a quello per accedere al credito induceva il debitore a non adempiere spontaneamente, ma a resistere in giudizio il più possibile, anche al fine di lucrare la differenza tra la misura degli interessi.

La nuova disposizione introduce di fatto un regime giuridico differenziato per il saggio degli interessiper le obbligazioni pecuniarie che costituiscono oggetto di condanna giudiziale, estendendo il tasso stabilito dal d.lgs. n. 231/2002 [2] a qualsiasi rapporti di debito-credito di cui venga chiesta la tutela in un procedimento di cognizione, anche se non rientrante nell’ambito di applicazione del menzionato decreto (per non attenere ad una “transazione commerciale”).

Si tratta di una notevole innovazione a tutela del credito controverso o, comunque, non soddisfatto spontaneamente dall’obbligato, tenuto conto che tale importo è stato fissato, per il semestre in corso, all’8,15% su base annua[3], mentre il tasso degli interessi legali è attualmente pari all’1% (ai sensi dell’art. 1284, co. 1, c.c., come modificato dall’art. 2, comma 185, l. 23 dicembre 1996, n. 662, il tasso è stato così fissato dal Ministero dell’Economia con d.m. 12 dicembre 2013, in G.U. n.

392 del 13 dicembre 2013), sempre su base annua. Ovviamente, tale regola di determinazione degli interessi opera soltanto qualora le parti non ne abbiano determinato convenzionalmente la misura[4].

Come è noto, soltanto gli interessi compensativi sulle somme liquidate a titolo di risarcimento da atto illecito, costituendo una componente del risarcimento del danno, possono essere attribuiti anche in assenza di espressa domanda della parte creditrice, mentre, in tutti gli altri casi, gli interessi, avendo un fondamento autonomo e integrando obbligazioni distinte rispetto a quelle principali, attinenti alle somme alle quali si aggiungono, possono essere riconosciuti solo su espressa domanda degli aventi diritto (cfr., infra alios, Cassazione civile, sez. II, 18/01/2007, n. 1087, in Giust. civ. Mass. 2007, 1). Pertanto, finora, il giudice, solo se richiesto, doveva condannare la parte soccombente al pagamento di quanto dovuto, oltre interessi legali dal momento della costituzione in mora e fino al soddisfo. Ora, invece, i nuovi commi dell’art. 1284 c.c., essendo disposizioni di legge, troveranno applicazione d’ufficio, senza la necessità che siano specificamente invocati, tuttavia, in forza del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (di cui all’art. 112 c.p.c.), occorrerà comunque che sia formulata una espressa domanda di condanna al pagamento degli interessi maturati dalla proposizione della domanda giudiziale. Questa impostazione è in linea con la disciplina, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, contenuta nel d.lgs. n. 231 del 2002, che ha dettato una minuziosa disciplina della decorrenza degli interessi moratori[5] stabilendone la automatica decorrenza (senza, quindi, la necessità della costituzione in mora del debitore) alla scadenza del termine legale, variamente individuato, con riferimento ad una pluralità di fatti, quali la data di ricevimento della fattura da parte del debitore, o quella di ricevimento “di una richiesta equivalente di pagamento”, o quella di altri eventi (ricevimento delle merci o della prestazione dei servizi o dell’accettazione o della verifica ai fini della conformità delle merci o dei servizi rispetto alle previsioni contrattuali), finanche quando “non è certa la data di ricevimento della fattura o della richiesta equivalente di pagamento” (art. 4).

La prima domanda che occorre porsi concerne l’individuazione del momento a partire dal quale il giudizio debba ritenersi pendente e, quindi, possano essere riconosciuti i predetti interessi.

In termini generali, trattandosi di un nuovo effetto sostanziale della domanda giudiziale, anche alla luce dell’art. 39, co. 3, c.p.c., dovrebbe guardarsi, a seconda dei casi, al momento della notificazione dell’atto di citazione o del deposito del ricorso introduttivo. Tuttavia, è controverso se l’effetto sostanziale di interruzione del termine di prescrizione (ex art. 2943, co. 1, c.c.) necessiti o meno della ricezione dell’atto giudiziario da parte del destinatario. In particolare, si discute se il predetto effetto si produca, con riferimento ai processi introdotti con atto di citazione, già a partire dalla consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario (così Cassazione civile, sez. III, 19/08/2009, n. 18399, in Vita not. 2009, 3, 1453, che, in applicazione del principio della scissione del momento perfezionativo della notificazione per il richiedente e per il destinatario, sostiene che l’esigenza che la parte non subisca le conseguenze negative di accadimenti sottratti al proprio potere d’impulso sussista non solo in relazione agli effetti processuali, ma anche a quelli sostanziali dell’atto notificato) oppure se all’uopo occorra altresì la ricezione effettiva dello stesso nelle mani del destinatario (così Cassazione civile, sez. I, 29/11/2013, n. 26804, in Giustizia Civile Massimario 2013, rv. 629041, in un caso di azione revocatoria fallimentare, secondo cui la regola della differente decorrenza degli effetti della notificazione per il notificante e il destinatario, sancita dalla giurisprudenza costituzionale, si applica solo agli atti processuali, e non anche a quelli sostanziali, né agli effetti sostanziali dei primi)[6].

La complessità della questione è acuita dall’indirizzo che ormai sembra decisamente prevalente in tema di effetti processuali della domanda, che propende per privilegiare, ai fini dell’applicazione del criterio della prevenzione di cui all’art. 39, co. 3, c.p.c., il momento in cui la notifica dell’atto di citazione si perfeziona con la consegna al destinatario[7].

In realtà, solo in materia di decadenza appare condivisibile l’orientamento (Cass. Sez. Un. 14.4.2010, n. 8830) secondo cui, ove l’atto tipico richiesto per l’esercizio del potere sia un atto recettizio (si pensi all’impugnazione del licenziamento), ciò non implicaex seche sia necessaria la ricezione per la produzione di ogni effetto impeditivo della decadenza, perché, al contrario, di regola l’atto esiste già nella sua compiutezza ed assume una propria rilevanza giuridica ai fini dell’impedimento della decadenza, mentre la condizione di efficacia della ricezione (cioè che pervenga nella sfera di conoscibilità del destinatario) costituisce, a tali fini, un elemento estrinseco alla fattispecie decadenziale. Pertanto, è sufficiente che l’atto impeditivo della decadenza sia spedito entro il termine previsto (dalla legge o dal contratto). La necessità della ricezione è stata, invece, ritenuta in relazione al termine per l’accettazione della proposta contrattuale (art. 1326, co. 2, c.c.), per la revoca della proposta contrattuale, per la prelazione ed il riscatto agrario da parte dell’affittuario (art. 8 l. n. 590/1965) e per la disdetta del contratto in cui la legge (o specifiche clausole contrattuali) attribuisce alla comunicazione dell’atto una funzione di preavviso (in materia di locazione, di appalto).

Orbene, sia nel caso di procedimenti instaurati con ricorso (si pensi alle controversie laburistiche o a quelle aventi ad oggetto i rapporti indicati nell’art. 447 bis c.p.c.) sia nell’ipotesi di giudizio introdotto con atto di citazione, si deve ritenere che gli effetti sostanziali della domanda giudiziale (tra cui deve annoverarsi anche la decorrenza degli interessi) si producano solo dalla notificazione, rispettivamente, della citazione e del ricorso unitamente al pedissequo decreto giudiziale[8] (cioè dal momento dell’effettiva instaurazione del contraddittorio con la controparte), pur essendo a tal fine sufficiente che l’atto sia entrato nella sfera di conoscenza (recte,conoscibilità) legale del convenuto.

Da ultimo, così come per quanto concerne la domanda riconvenzionale, occorre far riferimento al deposito in cancelleria, all’atto della costituzione tempestiva, della comparsa di risposta che la contiene, nell’ipotesi di mutatio libelli il dies a quo è rappresentato dal deposito della relativa memoria. Solo nell’evenienza in cui la controparte sia contumace, il calcolo degli interessi moratori deve partire dal momento della notifica, ai sensi dell’art. 292 c.p.c., della comparsa che contiene la domanda nuova o riconvenzionale.
 

2.1.L’ambito di applicazione del comma 4 dell’art. 1284 cod. civ.

La nuova norma, in assenza di limitazioni espresse, si applica avanti a qualsiasi giudice (ordinario, amministrativo, contabile, tributario) ed a qualsiasi tipologia di procedimento giurisdizionale che sia rivolto all’accertamento del diritto (e conseguente condanna) al pagamento di una somma di danaro.

Autorevole dottrina[9] sostiene condivisibilmente che la norma in esame si applichi anche nei confronti delle pubbliche amministrazioni, ovviamente sempre per mancato pagamento di prestazioni pecuniarie[10].

Altra questione delicata è rappresentata dall’effettivo ambito di applicazione delle disposizioni di nuovo conio.

A tal riguardo, si discute anzitutto sulla estensibilità del nuovo tasso di interesse legale moratorio anche ad obbligazioni di natura non contrattuali (quali quelle ex lege e quelle derivanti da responsabilità aquiliana, da negozi unilaterali o da successioni). In definitiva, ci si domanda se il detto tasso sia applicabile a prescindere dalla natura (di valuta o di valore) e dal titolo del credito (contrattuale, da contatto sociale od extracontrattuale). Probabilmente, occorre partire da una considerazione preliminare: il principio secondo cui gli interessi sulle somme di denaro, liquidate a titolo risarcitorio, decorrono dalla data in cui il danno si è verificato è applicabile solo in tema di responsabilità extracontrattuale da fatto illecito, in quanto, ai sensi dell’art. 1219, comma 2, c.c., il debitore del risarcimento del danno è in mora (mora ex re) dal giorno della consumazione dell’illecito; invece, se l’obbligazione risarcitoria derivi da inadempimento contrattuale, gli interessi decorrono dalla domanda giudiziale, che è l’atto idoneo a porre in mora il debitore, siccome la sentenza costitutiva, che pronuncia la risoluzione, produce i suoi effetti retroattivamente dal momento della proposizione della detta domanda[11]. Da ciò dovrebbe trarsi la conseguenza che gli interessi moratori de quibus possano estendersi solo alle obbligazioni traenti origine da un inadempimento contrattuale, anche se dei dubbi potrebbero nutrirsi con riferimento ai casi in cui, pur essendosi in presenza di un debito di valuta, la mora sia automatica (art. 1219, co. 2, nn. 1, 2 e 3)[12].

L’art. 17 è applicabile alle cause da celebrarsi non solo secondo il rito ordinario a cognizione piena (artt. 163 ss. c.p.c. e da 31 a 33 del d.lgs. 1.9.2011, n. 150), ma anche secondo il processo del lavoro (artt. 409, 442 e 447 bis c.p.c. e da 6 a 13 del d.lgs. n. 150/2011), il processo sommario di cognizione (artt. 183 bis e 702 bis c.p.c. e da 14 a 30 d.lgs. citato), nonché qualsiasi altro procedimento speciale.

A tal ultimo proposito, rientrano sotto l’egida della novità normativa i procedimenti di ingiunzione (sin dalla fase monitoria), quelli di convalida di sfratto con pagamento dei canoni [art. 664 c.p.c.; in difetto di domanda di pagamento di una somma di denaro, infatti, le nuove norme sono inapplicabili (es.: intimazione di licenza o di sfratto per finita locazione)], i provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c. (ove abbiano ad oggetto il pagamento di una somma di denaro; cfr. art. 669 quaterdeciesc.p.c.), i procedimenti di separazione e divorzio (relativamente alle condanne di pagamento di somme pecuniarie) ed i processi di classe di cui all’art. 140 del codice del consumo.

Vanno esclusi, invece, dall’alveo delle nuove disposizioni i provvedimenti resi per la risoluzione delle controversie in sede di concorso dei creditori nell’espropriazione forzata ex art. 512 c.p.c. (trattandosi di procedimenti che hanno contenuto non autenticamente di condanna, ma, in realtà, di ripartizione del ricavato), quelli di accertamento dello stato passivo ex artt. 93 ss. l.f., quelli di omologazione degli accordi di ristrutturazione ovvero dei concordati preventivi o fallimentari (anche se questi ultimi due potrebbero, in teoria, convenzionalmente prevedere l’applicazione del saggio di interesse de quo).

In conclusione, fermo restando che l’art. 1284, commi 4 e 5, c.c., al pari dell’art. 96 c.p.c., ha finalità all’evidenza deflattive, lo scopo del legislatore è quello di contrastare i ritardi nei pagamenti, costringendo i debitori a formulare offerte reali, anziché puramente verbali (quali quelle contemplate nell’art. 91, co.1, seconda parte, c.p.c. ai fini delle spese di lite).

Sul piano del requisito soggettivo, va ricordato che, in base alla direttiva Ce 2000/35, il debitore non deve essere considerato responsabile di ritardi a lui non imputabili. In altri termini, in materia di lotta ai ritardi nel pagamento delle transazioni commerciali, si esclude il pagamento di interessi moratori, qualora il ritardo nel pagamento non sia conseguenza del comportamento del debitore che abbia diligentemente tenuto conto dei tempi normalmente necessari per l’esecuzione di un bonifico bancario[13]. Una parte della dottrina[14], tuttavia, partendo dalla configurazione della sanzione degli interessi moratori “aggravati” come una sanzione civile punitiva (id est, come una pena privata), dubita che, in caso di mora non imputabile al debitore (per non essere egli nelle condizioni di poter onorare il proprio debito), non trovi applicazione la nuova normativa.

Da ultimo, premesso che, quanto alla disciplina transitoria della nuova disciplina, l’art. 17, co. 2, del decreto, precisa che l’art. 1284, commi 4 e 5, c.c., produce i suoi effetti rispetto ai procedimenti

giudiziali o arbitrali iniziati a decorrere dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della legge di conversione (ossia rispetto alle azioni processuali intraprese a far data dal giorno 11 dicembre 2014), dovrebbe pervenirsi alla conclusione che, per quanto riguarda i procedimenti già iniziati e non ancora conclusi, si dovrebbe continuare ad applicare la precedente normativa (e, quindi, il tasso degli interessi legali) anche per il periodo di tempo successivo all’entrata in vigore del nuovo art. 1284 c.c. E’ evidente, però, che in tal guisa ragionando si realizza di fatto una evidente sperequazione, a tal punto che potrebbero ricorrere i presupposti per sollevare una questione di legittimità costituzionale della norma ai sensi dell’art. 3 Cost.

3.     La compensazione delle spese processuali: considerazioni preliminari.

Prima di analizzare le novità introdotte nell’art. 92 c.p.c. in tema di compensazione, è opportuno operare un rapido excursus sulla disciplina complessiva delle spese processuali.

In primo luogo, il giudice è in alcuni casi tassativi vincolato nella liquidazione delle spese. Invero, in base al quarto comma dell’art. 91 c.p.c., nelle cause previste dall’art. 82, co. 1, c.p.c. (e, quindi, in quelle davanti al giudice di pace di valore non eccedente l’importo di euro 1.100,00) le spese ed i compensi liquidati non possono superare il valore della domanda. Inoltre, nei giudizi per prestazioni previdenziali, le stesse voci non possono superare il valore della prestazione dedotta in giudizio (art. 152  disp. att. c.p.c.). Infine, alla luce dell’art. 8 del d.m. n. 140/2012, nelle controversie di lavoro il cui valore non superi 1.000,00 euro, il compenso è ridotto, di regola, fino alla metà.

In secondo luogo, l’applicazione della regola della soccombenza, per quanto sia priva di qualsivoglia connotazione sanzionatoria, non richiede una specifica motivazione, prescindendo dalla valutazione dell’elemento soggettivo. L’unico limite è rappresentato dal divieto di porre per intero le spese a carico della parte totalmente vittoriosa.

Incertezze sussistono, però, in ordine alla esatta individuazione dei contorni della figura del soccombente. Di regola, si sostiene che tale sia la parte le cui domande non sono state accolte, sia pure per motivi diversi dal merito (ad esempio, per incompetenza), o che, non avendo proposto alcuna domanda, vede accolte le domande della controparte. Si tende a ritenere che la riduzione, anche sensibile, della somma inizialmente richiesta con la domanda giudiziale non integri il requisito della soccombenza.

L’altro criterio sulla cui base si identifica il soccombente è rappresentato dal principio di causalità. In virtù di quest’ultimo, è parte soccombente quella che, resistendo con argomenti ed in forma non rispondenti al diritto o azionando una pretesa poi rivelatasi come infondata, abbia dato causa alla lite. A tal proposito, rileva anche il comportamento tenuto fuori e prima del processo; applicando questo principio, anche il convenuto soccombente rimasto contumace deve essere condannato al rimborso delle spese sostenute dalla parte vittoriosa (Cass. 13.1.2015, n. 373).

L’individuazione della parte soccombente deve essere, in ogni caso, operata con riguardo all’esito finale del processo. Occorre, cioè, effettuare una valutazione globale ed unitaria, per la quale non rilevano né l’esito delle varie fasi del procedimento (se vi sono stati più gradi del giudizio) né la pronuncia emessa su singoli oggetti della domanda (si pensi alle spese relative al grado di cassazione quando vi sia stato il successivo giudizio di rinvio). Trattasi del principio di globalità, di recente ribadito da Cass. ord. 21.1.2015, n. 930. Tuttavia, occorre altresì tener presente che, così come nel caso in cui vi siano stati più gradi del giudizio, non è ammissibile una liquidazione cumulativa, nell’ipotesi di riunione di cause la liquidazione deve essere operata in relazione ad ogni singolo giudizio.

Vi sono dei casi in cui l’applicazione automatica della regola della soccombenza è esclusa:

a) il rinunciante, in genere, è tenuto a rimborsare le spese alle altre parti; le spese vanno poste a carico del rinunciante solo nell’evenienza in cui la controparte, già costituita, abbia accettato la rinuncia (art. 306, co. 4, c.p.c.);

b) in caso di conciliazione, salvo diverso accordo, le spese si intendono compensate (art. 92, co. 3, c.p.c.);

c)  nell’ipotesi di estinzione per inattività, le spese restano a carico delle parti che le hanno anticipate (art. 310, ult. co., c.p.c.);

d) laddove si verifichi la cessazione della materia del contendere, trova applicazione il principio della soccombenza virtuale;

e)  in base all’art. 91, co. 1, c.p.c., se il giudice accoglie la domanda in misura non superiore (nel caso opposto, trova, invece, applicazione la regola generale per cui le spese seguono la soccombenza) all’eventuale proposta conciliativa, al di là della possibilità di compensazione integrale o parziale (nell’evenienza in cui una delle parti abbia “ragionevolmente” rifiutato la proposta), condanna d’ufficio la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la detta proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la sua formulazione[15].

Vi sono poi delle fattispecie particolari, in ordine alle quali la disciplina delle spese è peculiare. Da questo punto di vista, meritano di essere segnalate le ipotesi della domanda di ingiunzione proposta in carenza delle condizioni di ammissibilità prescritte dagli artt. 633 ss. c.p.c. (nel qual caso il giudice dell’opposizione ha la facoltà di non porre a carico dell’opponente soccombente nel merito le spese riguardanti la fase monitoria, ma solo quelle della fase a cognizione piena) e dei procedimenti camerali, tutte le volte in cui occorra ristorare la parte vittoriosa degli oneri inerenti il dispendio di attività processuale legata da nesso causale con l’iniziativa dell’avversario (si pensi al caso della revoca dell’amministratore di condominio).

E’ bene ricordare che la condanna alle spese può essere emessa anche d’ufficio, in assenza di specifica domanda di parte.

La mancata statuizione sulle spese integra gli estremi di un vizio di omissione di pronuncia, che può essere fatto valere con gli ordinari mezzi di impugnazione (laddove non si potrebbe all’uopo ricorrere alla procedura di correzione degli errori materiali).

Mentre il convenuto soccombente può essere condannato alle spese sopportate dalla parte vittoriosa anche quando sia rimasto contumace, la condanna alle spese non può essere pronunciata in favore del contumace vittorioso.

La palese infondatezza della domanda di garanzia proposta dal convenuto nei confronti del terzo chiamato comporta l’applicabilità del principio della soccombenza nel rapporto processuale instaurato tra convenuto e terzo chiamato, anche quando l’attore principale sia a sua volta soccombente nei confronti del convenuto. Se, invece, viene accolta la domanda di garanzia proposta dal convenuto nei confronti di un terzo, quest’ultimo deve rifondere, oltre alle spese sostenute dall’attore, anche quelle occorse per la sua chiamata.

3.1. La soccombenza reciproca.

L’art. 92 c.p.c. fissa una serie di criteri che consentono di correggere e mitigare il rigore della regola fondamentale contenuta nell’art. 91, co. 1, c.p.c., quando l’applicazione di essa possa apparire iniqua o inopportuna.

Il d.l. 132/14, convertito, con modificazioni, dalla l. 10 novembre 2014 n. 162, è intervenuto modificando il 2° comma dell’art. 92 c.p.c., dedicato al tema della compensazione delle spese di lite nel processo civile. Non è la prima volta che il legislatore modifica il 2° comma dell’art. 92 c.p.c.

Originariamente il testo recitava che, «se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti».

La fattispecie più frequente al verificarsi della quale il giudice può compensare in tutto o in parte le spese processuali è quella della soccombenza reciproca. In termini generali, quest’ultima si realizza quando siano state rigettate la domanda principale e quella riconvenzionale; quando le domande di entrambe le parti siano state in parte accolte ed in parte respinte; quando siano state accolte solo alcune delle domande proposte da un’unica parte. Può giustificare la compensazione, almeno parziale, anche l’accoglimento in parte (nel caso in cui la domanda sia stata articolata in più capi e solo alcuni di essi siano stati accolti) o la riduzione sensibile (in tal caso la parzialità dell’accoglimento della domanda articolata in un solo capo è esclusivamente quantitativa) dell’unica domanda proposta.

Nessuna norma, peraltro, prevede un criterio di valutazione della prevalenza della soccombenza dell’una o dell’altra parte basato sul numero delle domande accolte o respinte per ciascuna di esse, dovendo essere valutato l’oggetto della lite nel suo complesso (Cass. ord. 21.1.2015, n. 930).

Si ritiene, in proposito, che, ai fini del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente, il valore della controversia vada fissato sulla base del criterio del disputatum (ossia di quanto richiesto nell’atto introduttivo del giudizio ovvero nell’atto di impugnazione parziale della sentenza); peraltro, ove il giudizio di secondo grado abbia per oggetto esclusivo la valutazione della correttezza della decisione di condanna di una parte alle spese del giudizio di primo grado, il valore della controversia, ai predetti fini, è dato dall’importo delle spese liquidate dal primo giudice, costituendo tale somma il disputatum posto all’esame del giudice di appello (Cassazione civile, sez. III, 12/01/2011, n. 536, in Giust. civ. Mass. 2011, 1, 44). Si tende ad escludere che la ‘soccombenza reciproca’ consista nella riduzione del quantum debeatur preteso dall’attore (ancorchè in misura esorbitante rispetto al decisum), dovendosi liquidare le spese di lite a carico del soccombente in misura proporzionata alla somma statuita come dovuta (disputatum), piuttosto che avendo riguardo a quella richiesta (dal che deriva una riduzione dei compensi liquidabili per minore scaglione di valore).

3.2. I giusti motivi.

In passato, la valutazione dell’opportunità della compensazione rientrava nei poteri discrezionali del giudice di merito e non richiedeva una specifica motivazione (Cass. 6.10.2011, n. 20457). La decisione era censurabile in cassazione (ex art. 360, n. 5, c.p.c.) solo se i (giusti) motivi fossero stati esplicitati e fossero risultati palesemente illogici o erronei[16]. Ciò nonostante, la decisione di compensazione giustificata da generici “motivi di opportunità e di equità” si riteneva determinasse una violazione di legge. Parimenti, erano considerati insufficienti i riferimenti al “valore esiguo della causa” ed alla particolare complessità degli aspetti sia sostanziali che processuali[17].

Avuto riguardo alla indicazione dei motivi, l’utilizzo dell’avverbio “esplicitamente” (in luogo di “specificamente”) induceva, poi, a ritenere che non fosse idonea una motivazione operata con riferimento alla motivazione della sentenza (vale a dire, per relationem).

Va tenuto presente che, quando si potevano invocare i giusti motivi, la compensazione poteva essere disposta (in applicazione del principio di causalità) anche nei confronti della parte totalmente vittoriosa, non presupponendo la reciproca soccombenza. Gli stessi potevano riguardare tanto il merito della controversia, quanto aspetti processuali o preprocessuali delle parti, con riguardo alla necessità o meno della lite.

Senza pretese di esaustività, ricorrevano i giusti motivi nei seguenti casi: a) ingiustificato rifiuto della proposta transattiva, proveniente dalla controparte, per una somma superiore a quella poi riconosciuta dal giudice d’appello; b) l’aver il convenuto adottato posizioni difensive concilianti o di parziale contestazione degli assunti avversari; c) la particolare complessità e novità delle questioni trattate (Cass. nn. 18352/2003, 8210/2003, 22231/2011); d) la mancanza, al momento della proposizione della domanda giudiziale, di un’interpretazione giurisprudenziale consolidata di una determinata norma giuridica (Cass. n. 3218/2008)[18]; e) la non univocità della giurisprudenza, soprattutto di merito (Cass. n. 316/2012, ord.); f) la sussistenza di obiettive difficoltà interpretative del dato contrattuale; g) la sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità di una norma di legge; h) la natura della controversia.

3.3. Le gravi ed eccezionali ragioni.

A seguito dell’intervento normativo operato dalla l. 18.6.2009, n. 69, è stata introdotta, accanto alla “soccombenza reciproca” ed in luogo dei “giusti motivi”, l’alternativa delle “gravi ed eccezionali ragioni”. Ciò avrebbe dovuto comportare una forte riduzione della possibilità di compensare le spese. Tuttavia, si era consapevoli che l’art. 92, co. 2, c.p.c., nella parte in cui permetteva la compensazione delle spese di lite allorché concorrevano “gravi ed eccezionali ragioni”, costituiva una norma elastica, quale clausola generale che il legislatore aveva previsto per adeguarla ad un dato contesto storico-sociale o a speciali situazioni, non esattamente ed efficacemente determinabili a priori, ma da specificare in via interpretativa da parte del giudice del merito. Ciò nonostante, era stato ritenuto insufficiente il mero richiamo alla formula generica ed apodittica “in considerazione delle questioni trattate”, non altrimenti specificate e senza che vi fosse soccombenza reciproca tra le parti (Cassazione civile, sez. VI, 13/07/2011, n. 15413, in Giust. civ. Mass. 2011, 7-8, 1061).

In particolare, anche la novità delle questioni affrontate integrava la suddetta nozione, ma se ed in quanto fosse sintomo di un atteggiamento soggettivo del soccombente, ricollegabile alla considerazione delle ragioni che lo avevano indotto ad agire o resistere in giudizio e, quindi, da valutare con riferimento al momento in cui la lite era stata introdotta o era stata posta in essere l’attività che aveva dato origine alle spese (la valutazione era, dunque,ex ante), sempre che si fosse trattato di questioni sulle quali si era determinata effettivamente la soccombenza, ossia di questioni decise (Cassazione civile, sez. un., 22/02/2012, n. 2572, in Giust. civ. Mass. 2012, 2, 193; conf. Cassazione civile, sez. VI, 10/02/2014, n. 2883, in Giustizia Civile Massimario 2014, rv. 629612).

Le “gravi ed eccezionali ragioni”, da indicarsi esplicitamente nella motivazione, in presenza delle quali il giudice poteva compensare, in tutto o in parte, le spese del giudizio non potevano, poi, essere tratte dalla struttura del tipo di procedimento contenzioso applicato né dalle particolari disposizioni processuali che lo regolavano, ma dovevano trovare riferimento in specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa (Cassazione civile, sez. VI, 15/12/2011, n. 26987, in Giust. civ. Mass. 2011, 12, 1775). A tal fine non poteva ritenersi sufficiente il mero riferimento alla “natura processuale della pronuncia”, che, in quanto tale, poteva trovare applicazione in qualunque lite che venisse risolta sul piano delle regole del procedimento (Cassazione civile, sez. VI, 11/07/2014, n. 16037, in Giustizia Civile Massimario 2014, rv. 631930).

Parimenti non erano configurabili quando il giudice avesse compensato le spese “per motivi di equità”, non altrimenti specificati (Cass. n. 21821/2010).

Infine, le dette ragioni non potevano essere ravvisate nella oggettiva “opinabilità della soluzione accolta”, in quanto la precisa individuazione del significato di un testo normativo in relazione alla fattispecie concreta a cui deve essere applicato costituisce il nucleo della funzione giudiziaria, sicché l’ordinario esercizio nell’esegesi del testo normativo non poteva essere valutato come evento inusuale, almeno finché non fossero state specificamente identificate le ragioni per le quali la soluzione assegnata al dubbio interpretativo assurgeva (per la sua contrarietà alla consolidata prassi applicativa, ovvero per la del tutto insolita connotazione lessicale e sintattica del tessuto letterale della norma) a livello di eccezionale gravità (Cassazione civile, sez. VI, 09/01/2014, n. 319, in Giustizia Civile Massimario 2014, rv. 629101).

Viceversa, l’oggettiva opinabilità ed oscillante soluzione in giurisprudenza in ordine alle questioni giuridiche affrontate nel giudizio integrava una ‘grave ed eccezionale ragione’ che giustificava la compensazione delle spese di lite (Cassazione civile, sez. VI, 10/02/2014, n. 2883, cit., anche in Diritto & Giustizia 2014, con nota di Valerio, con riferimento ad un caso in cui la questione dell’autonoma impugnabilità del provvedimento di fermo non poteva intendersi, dal punto di vista giurisprudenziale, definitivamente risolta).

4.     L’intervento riformatore: la novità delle questioni trattate.

Con l’ennesimo intervento riformatore (art. 13, co. 1, d.l. 12.9.2014, convertito, con modificazioni, nella legge 10.11.2014, n. 162)[19], il secondo comma dell’art. 92 c.p.c. è stato modificato nei termini che seguono: “Se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di novità della questione trattata o mutamento di giurisprudenza, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti”.

Premesso che tale disposizione trova applicazione non solo nei processi civili ordinari, ma anche in quelli tributari ed amministrativi, è evidente la ratio di circoscrivere il più possibile le pronunce di compensazione delle spese, onerando l’organo giudicante del dovere di motivare esplicitamente ogni deroga dal principio generale della soccombenza.

Per quanto concerne gli effetti, viene eliminata quasi completamente il potere discrezionale del giudice e vengono fissati esclusivamente e tassativamente[20] tre casi in cui la compensazione (totale o parziale) delle spese può essere disposta: a) la soccombenza reciproca; b) l’assoluta novità della questione trattata; c) il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti della causa.

Con riferimento alla “novità delle questioni trattate”, nel richiamare quanto detto in ordine alle ‘gravi ed eccezionali ragioni’, va qui aggiunto che, per la configurabilità del presupposto, occorre che il giudice, al fine di decidere la causa, si trovi a dover affrontare una o più questioni nuove, da considerarsi tali per l’assenza di precedenti editi sulle stesse in giurisprudenza. Potrebbe anche ritenersi all’uopo sufficiente la presenza di precedenti non univoci, ma tra loro in contrasto[21]. La presenza di un pacifico orientamento giurisprudenziale, ancorchè formato esclusivamente da decisioni di merito, è sufficiente per escludere che la questione sia ‘nuova'[22].

E’ a dubitarsi che sia sufficiente la circostanza che il giudice sia chiamato a decidere sulla questione per la prima volta.

In ogni caso, anche al cospetto di una questione che si profila come completamente nuova, il giudice sarà tenuto a vagliare la non manifesta infondatezza delle difese avanzate dalla parte, dovendo trovare applicazione il principio della soccombenza se le argomentazione della parte soccombente siano prive di qualsiasi pregio.

Indubbiamente, potrebbe giustificare la compensazione, oltre che una quaestio mai dibattuta in passato, una legge nuova da poco approvata e criptica in alcuni passaggi rilevanti.

In passato la Suprema Corte (Cassazione civile, sez. lav., 20/01/2003, n. 770, in DeG – Dir. e giust.2003, 6, 107) aveva precisato che la complessità e la novità delle questioni trattate permangono fino a che non si formi su di esse un orientamento di legittimità, essendo, invece, irrilevante la circostanza che le stesse questioni siano state decise in una molteplicità di cause, con pronunce di primo grado conformi a quella investita di gravame

4.1. Il mutamento della giurisprudenza: il cd.overruling.

In merito alla species “mutamento della giurisprudenza”, in termini generali, la stessa è configurabile ove la decisione della causa si fondi su una o più questioni che, pur essendo vecchie, siano state decise in modo difforme rispetto al passato (discostandosi, cioè, dall’orientamento giurisprudenziale, sia soltanto di merito, sia, eventualmente, di legittimità, che si era formato).

In siffatta evenienza il giudice dovrebbe ritenersi obbligato ad operare la compensazione delle spese, atteso che non potrebbe muoversi alcun rimprovero alla parte che abbia fatto affidamento sull’orientamento giurisprudenziale esistente al momento della proposizione della propria difesa.

Questo non vuol dire che, in caso di mutamento di giurisprudenza, il giudice non goda di alcun margine di discrezionalità, diversamente da quanto avvenga nell’ipotesi di questione nuova; in entrambi i casi, infatti, il giudice è investito di ampi poteri discrezionali, dovendo stabilire se disporre la compensazione totale o parziale sulla base della complessiva valutazione dell’esito dell’insieme delle questioni affrontate e decise.

A ben vedere, il tema involge la delicata questione del cd.overruling.

Nel caso di vero e proprio overruling (vale a dire, quello interpretativo rispetto ai precedenti orientamenti della giurisprudenza), la parte che sia incorsa in decadenza o in una preclusione ha il mezzo per ovviare all’errore oggettivamente scusabile (dato dalla rimessione in termini)[23].

Come è noto, il menzionato fenomeno si ha al cospetto del radicale mutamento di un consolidato orientamento ad opera del giudice della nomofilachia, al quale si deve negare efficacia retroattiva, in modo da non travolgere gli atti processuali già compiuti alla luce della soluzione poi ribaltata[24]. Non va ricompreso nel detto alveo l’interpretazione con la quale si sia, invece, semplicemente composto un contrasto di opposti indirizzi di giurisprudenza. Solo nel caso di mera composizione di contrasti il mutamento della propria precedente interpretazione della norma processuale da parte del giudice della nomofilachia, il quale porti a ritenere esistente, in danno di una parte del giudizio, una decadenza od una preclusione prima escluse, opera come interpretazione correttiva che si salda alla relativa disposizione di legge processuale « ora per allora », nel senso di rendere irrituale l’atto compiuto o il comportamento tenuto dalla parte in base all’orientamento precedente.

Affinché, invece, un orientamento del giudice della nomofilachia non sia retroattivo, come invece dovrebbe essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali, ovvero affinché si possa parlare di “prospective overruling”, devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: a) che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; b) che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; c) che il suddetto “overruling” comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte (cfr., in tal senso, Cassazione civile, sez. lav., 11/03/2013, n. 5962; vedi anche: Cass. civ., sez. un., 30 marzo 2007 n. 7880, Cass. civ., sez. lav., 17 gennaio 2011 n. 897)[25].

Ed allora può essere importante chiarire che per “overruling” deve intendersi il mutamento di giurisprudenza nell’interpretazione di una norma giuridica o di una sistema di norme dal carattere se non repentino, quanto meno inatteso o privo di preventivi segni anticipatori del suo manifestarsi; segnali che possono essere quelli di un pur larvato dibattito dottrinale o di qualche intervento giurisprudenziale sul temo oggetto di indagine (Cassazione civile, sez. un., 12/10/2012, n. 17402). E’ utile sul tema altresì sapere che, in tema di overrulling, non ricorrono i presupposti per escludere l’applicazione di una decadenza processuale ove dal deposito della pronuncia che ha mutato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità siano trascorsi sei mesi, poiché, pur tenendo conto dei normali tempi tecnici di memorizzazione di tale precedente nella banca dati della Suprema Corte di cassazione consultabile in rete, deve ritenersi che la parte (ed a maggior ragione il giudice) abbia avuto a sua disposizione un arco temporale sufficiente a tener conto della nuova giurisprudenza e, conseguentemente, a prevenire il verificarsi della menzionata decadenza (Cassazione civile, sez. lav., 28/02/2012, n. 3042).

Il carattere della novità o la circostanza del sopravvenuto mutamento di giurisprudenza deve essere valutato non con riguardo al momento della pronuncia della decisione, bensì della proposizione della difesa[26]. Pertanto, se nelle more tra gli atti introduttivi del grado di giudizio e la decisione muta la giurisprudenza, può comunque essere disposta la compensazione delle spese per quel grado di giudizio, atteso che al momento della proposizione della domanda la questione era comunque da considerarsi nuova o la giurisprudenza era orientata nel senso sostenuto dalla domanda.

5.     Conclusioni.

Le misure che si sono analizzate vanno salutate positivamente in un’ottica di deflazionare il contenzioso, anche sotto forma di disincentivo ad instaurare un giudizio. Sicuramente, tra i vari strumenti introdotti dal legislatore della riforma, la previsione di un elevato tasso di mora degli interessi ed il contenimento dei casi di compensazione integrale o parziale delle spese processuale, unitamente ad alcune novità inserite nel corpo del processo esecutivo (avuto particolare riguardo agli strumenti di ricerca dei beni da pignorare), sembrano garantire una maggiore efficienza del sistema giustizia.

Tuttavia, non può non evidenziarsi che l’applicazione del tasso di mora ha ragion d’essere solo nel caso in cui la parte convenuta, pur essendo consapevole ab initio di essere nel torto, resista ciò nonostante all’avversa domanda; laddove dubbi esistono sulla bontà della scelta nei casi (che rappresentano la stragrande maggioranza) in cui una parte sia convinta della fondatezza delle sue difese o, comunque, non imposti una strategia difensiva meramente dilatoria. Senza tralasciare l’evenienza, di frequente verificazione, in cui una parte, le cui ragioni siano fondate nel merito, perda la causa in virtù di un errore processuale imputabile al suo difensore.

Al contempo, la drastica contrazione dei presupposti in presenza dei quali il giudice potrà compensare le spese, se da un lato, avvicina maggiormente la loro regolamentazione alla regola oggettiva della soccombenza, dall’altro lato priverà l’organo giudicante di un valido mezzo per tener conto delle numerose variabili che connotano i giudizi, non sempre preventivabili al momento della loro introduzione. Invero, con la precedente formulazione, le spese, al termine del processo, si sarebbero potute liquidare tenendo in considerazione il comportamento delle parti, la buona fede nel sostenere le reciproche posizioni, l’onestà intellettuale dei litiganti e persino le loro condizioni economiche o qualità personali.

Inoltre, si allargheranno le maglie delle impugnazioni. A tal riguardo, premesso che nemmeno la novità della questione, se non assoluta, così come il mutamento di giurisprudenza, se non avente ad oggetto una questione dirimente, saranno in grado di autorizzare il giudice alla compensazione delle spese, oggi, se il giudice compensa le spese fuori dei casi tipicamente individuati dal legislatore, commette violazione di legge e la pronuncia può essere così riformata o cassata a prescindere dalla congruità della motivazione[27].

Ma tant’è: dura lex sed lex!


[1] Sulla disciplina speciale degli interessi moratori per il ritardo nei pagamenti delle transazioni commerciali, v. M. GRADI, Inefficienza della giustizia civile e “fuga dal processo”, su Judicium.it, 29.12.2014; E. RUSSO, La nuova disciplina deiritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Contratto e impr., 2003, p. 445 ss.; V. PANDOLFINI, Il nuovo tasso di interesse legale per i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (art. 5 d.leg. n. 231/2002), in Giur. it., 2003, p. 2414 ss.; ID., Le modifiche alla disciplina sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Corr. merito, 2013, p. 378 ss.; ID., I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali dopo il d.leg. 9 novembre 2012 n. 192, Torino, 2013.

[2] Peraltro, questo istituto di matrice comunitaria fa sì che per i soggetti interessati l’applicazione del tasso maggiorato dell’interesse legale di mora dipenda dal semplice ritardo dell’adempimento e non necessiti affatto della pendenza del processo (e, quindi, di una domanda giudiziale) per attivarsi.

[3] A decorrere dal 1° gennaio 2013, il tasso degli interessi legali di mora è stato, infatti, innalzato dal 7% all’8%, ai sensi del d.lgs. 9 novembre 2012, n. 192, che ha recepito la direttiva 2011/7/UE, cui va aggiunto il tasso di riferimento fissato di volta in volta dal Ministero dell’Economia, che per il secondo semestre dell’anno 2014 è pari allo 0,15%.

[4] Quanto alla negoziazione tra imprese, la possibilità di concordare un diverso tasso di interesse è espressamente consentita dall’art. 5 d.lgs. 231/02 (ancorché nei limiti stabiliti dal successivo art. 7).

[5] Si segnala, sul punto, Cassazione civile, sez. I, 29/07/2004, n. 14465, in Foro amm. CDS 2004, 2490.

[6] Alla stregua di questa più recente pronuncia, tale regolamentazione non si pone in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., dal momento che il principio della scissione degli effetti della notificazione tutela l’interesse del notificante a non vedersi addebitato l’esito intempestivo della notifica, mentre la prescrizione incide sul diverso profilo sostanziale del diritto, rispetto al quale si pone, in via prevalente, la tutela della certezza del diritto del destinatario.

[7] In particolare, Sez. U, ord. n. 23675 del 06/11/2014 (Rv. 632845), ha statuito che, per determinare la litispendenza ai fini della prevenzione tra cause in rapporto di continenza, una iniziata con ricorso monitorio ed una iniziata con citazione, per quest’ultima si deve aver riguardo al perfezionamento del procedimento di notificazione tramite consegna dell’atto al destinatario, non operando la scissione soggettiva del momento perfezionativo per il notificante e il destinatario, che vale solo per le decadenze non addebitabili al notificante; né può invocarsi il principio di uguaglianza tra gli attori, in rapporto alla pendenza della lite monitoria già al momento del deposito del ricorso, atteso che la maggiore o minore incidenza dell’impulso di parte nell’individuazione del giudice naturale della controversia è solo l’effetto indiretto della differente disciplina processuale, discrezionalmente prevista dal legislatore. Con questa pronuncia i giudici di legittimità si sono allineati ad altra precedente (Cassazione civile, sez. un., 19/04/2013, n. 9535, in Giustizia Civile Massimario 2013, rv 625806) la quale, in tema di notificazioni, aveva escluso che il principio della scissione soggettiva del momento perfezionativo del procedimento notificatorio per il notificante ed il destinatario (che si impone ogni qual volta dall’individuazione della data di notificazione possano discendere decadenze, o altri impedimenti, distintamente a carico dell’una o dell’altra parte) operasse, esulando da un tale ambito la corrispondente questione, per la determinazione della pendenza della lite rilevante ai fini del riparto di giurisdizione, che non può che farsi coincidere con il momento in cui il procedimento di notificazione dell’atto introduttivo della causa si è completato, necessariamente corrispondente, quindi, con quello nel quale la notifica si è perfezionata mediante la consegna dell’atto al destinatario o a chi sia comunque abilitato a riceverlo.

[8] Nel senso che, in caso di domanda proposta nelle forme del processo del lavoro, il mero deposito del ricorso presso la cancelleria del giudice non produce un effetto interruttivo, restando escluso – ove la domanda giudiziale non sia il solo mezzo previsto dall’ordinamento per l’interruzione della prescrizione di un determinato diritto – che ciò consenta di dubitare, in riferimento all’art. 3 Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 2943 c.c. in relazione all’art. 414 c.p.c. e all’art. 2934 c.c., cfr. Cassazione civile, sez. lav., 11/06/2009, n. 13588, in Giust. civ. Mass. 2009, 6, 909.

[9] C. CONSOLO, Un d.l. processuale in bianco e nerofumo sullo equivoco della «degiurisdizionalizzazione», su Danno e Responsabilità 10/2014, p. 1182.

[10] Per quanto riguarda il d.lgs. n. 231/2002, poiché lo stesso costituisce espressione dei principi fissati nella direttiva comunitaria 2000/35/CE, finalizzata a contenere entro limiti ragionevoli (in chiave di tutela del regolare svolgimento delle operazioni di mercato) il fenomeno dei ritardi nel pagamento delle obbligazioni, è a ritenersi che le relative disposizioni nazionali trovino attuazione ad ogni pagamento previsto a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale, senza alcuna particolare limitazione di carattere soggettivo e, quindi, anche per i contratti in cui è parte una p.a.. Per Consiglio di Stato, sez. V, 01/04/2010, n. 1885, in Il civilista 2012, 1, 61, con nota di Santi Di Paola, la direttiva n. 2000/35/CE (556), recepita in Italia con il d.lgs. n. 231/2002, sulla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, contiene norme imperative, applicabili anche alle p.a., che non sono derogabili mediante la tacita accettazione delle condizioni difformi con la presentazione di una offerta in una gara pubblica di appalto. Conf. T.A.R. Liguria Genova, sez. II, 01/02/2005, n. 126, in Ragiusan 2005, 259-260, 149.

[11] Cfr., inter ceteros, Cassazione civile, sez. III, 20/04/2009, n. 9338, in Giust. civ. Mass. 2009, 4, 646,

[12] Contra Pardolesi – Sassani, Il decollo del tasso di interesse: processo e castigo, su Foro it., 2015, 55, secondo cui l’area di applicazione dell’automatico aumento dell’interesse alla proposizione della domanda andrebbe esteso anche alle obbligazioni extracontrattuali, indipendentemente dai soggetti coinvolti.

[13] Cfr. Corte giustizia UE, sez. I, 03/04/2008, n. 306, in Diritto e Giustizia online 2008.

[14] M. GRADI,Inefficienza della giustizia civile e “fuga dal processo”,cit.

[15] Premesso che tale regola non si applica ai tentativi di conciliazione obbligatori stragiudiziali ed alle procedure conciliative stragiudiziali volontarie (ma solo alle conciliazioni avvenute in sede giudiziale), va ricordato che l’art. 4, co. 5, del d.m. n. 140/2012 (che disciplina i nuovi compensi spettanti agli avvocati) prevede che, quando il procedimento si conclude con una conciliazione, il compenso del difensore è aumentato fino al 25% rispetto a quello normalmente liquidabile. La disposizione era stata in qualche modo anticipata da Cassazione civile, sez. lav., 14/12/2010, n. 25250, in Giust. civ. Mass. 2010, 12, 1601, per la quale il provvedimento di compensazione per giusti motivi delle spese del giudizio di primo grado è adeguatamente motivato ove si fondi sull’ingiustificato rifiuto della proposta transattiva, proveniente dalla controparte, per una somma superiore a quella successivamente riconosciuta dal giudice d’appello, assumendo rilievo tale condotta quale comportamento processuale idoneo a fondare la decisione sulle spese.

[16] Così Cassazione civile, sez. lav., 23/06/1997, n. 5607, in Giust. civ. Mass. 1997, 1041, a tenore della quale i giusti motivi che inducono a compensare le spese processuali corrispondono ad una valutazione discrezionale del giudice di merito della massima ampiezza e non necessitano di specifiche enunciazioni, con la conseguenza della incensurabilità in Cassazione del relativo potere; tuttavia, ove il giudice di merito espliciti i motivi della propria decisione, essi non sfuggono a censura quando la loro enunciazione risulti erronea e illogica.

[17] Ad esempio, Cassazione civile, sez. I, 30/05/2008, n. 14563, in Giust. civ. Mass. 2008, 5, 848, ha escluso che concorressero giusti motivi in un caso in cui la compensazione si era basata sulla “peculiarità della fattispecie”, in quanto una simile formula era del tutto criptica e non consentiva il controllo sulla motivazione e sulla congruità delle ragioni poste dal giudice a fondamento della sua decisione.

[18] Contra, in dottrina, G. CHIOVENDA, La condanna nelle spese giudiziali, 2ª ed., Roma, 1935, pp. 167 e 337 ss., il quale nega che fra i giusti motivi di compensazione possa rientrare l’ipotesi della causa dubbia, intesa come questione incerta e discutibile, vuoi per l’esistenza di un contrasto di giurisprudenza in ordine alla quaestio iuris, vuoi per le difficoltà relative all’accertamento dei fatti rilevanti per la controversia.

[19] Per l’evoluzione della disciplina positiva sul punto, v. P. NAPPI, subart. 92, in Codice di procedura civile commentato, 5ª ed., diretta da C. CONSOLO, Torino, 2013, vol. I, p. 1046 ss.

[20] In ogni altro caso il giudice non potrà più compensare le spese, ma dovrà procedere alla condanna del soccombente alla rifusione delle stesse ai sensi dell’art. 91 c.p.c.

[21] Contra M. GRADI, Inefficienza della giustizia civile e “fuga dal processo”,cit., per il quale, nell’ipotesi di soluzione di un contrasto di giurisprudenza, la parte, pur in buona fede convinta del suo diritto, “litiga con il rischio di dover pagare le spese processuali all’avversario in caso di sconfitta”. Ma, in senso opposto, si pensi all’ipotesi in cui l’incertezza dei fatti si mantenga anche dopo l’esito dell’istruttoria ed il giudice si veda costretto a decidere con il criterio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c.

[22] Per l’accuratezza della disamina con la quale sono state distinte la questione nuova e quella complessa, si segnala Tribunale Bari, sez. III, 28/03/2011, n. 1104, in Giurisprudenzabarese.it 2011 (sia pure con riferimento ad una fattispecie soggetta ratione temporis alla precedente disciplina), della cui motivazione si riporta uno stralcio: <<È arduo sostenere, già in termini generali, che possa giustificare la totale compensazione delle spese di lite l’affermazione che la complessità delle questioni trattate costituisca giustificato motivo per la loro integrale compensazione in entrambe le fasi del giudizio. Tanto è sostenibile al limite in relazione a questioni di notevole complessità in punto di fatto e/o di diritto, anche in relazione alla loro novità, o ad un quadro giurisprudenziale ondivago ed incerto, oppure ancora comunque altrimenti controvertibili, in ordine alle quali possa risultare arduo per il giudice stabilire la ragione di una parte ed il torto dell’altra. Diversamente, laddove, il provvedimento non spieghi assolutamente in che cosa consistesse l’assunta complessità delle questioni trattate, non trapelando minimamente né dal testo del provvedimento né, comunque, “ex actis”, comporta che in tali considerazioni di per sé considerate, non v’è nulla di complesso, da ciò deducendosi che la motivazione offerta per tentare di giustificare la completa compensazione delle spese è all’evidenza assolutamente illogica e praticamente in contraddizione con quanto emerge dal testo dello stesso provvedimento, e finisce inoltre con l’essere in contrasto, non solo con il principio della causalità-soccombenza in tema di spese processuali ex art. 91 c.p.c., ma anche con la previsione dell’art. 92 c.p.c. circa la compensazione delle spese, anche secondo il testo vigente ante riforma del 2009, in quanto, è noto che in seguito quest’ultima disciplina è stata progressivamente sempre più inasprita dal legislatore in ordine ai motivi che possono fondare la compensazione, oltre che all’esposizione degli stessi motivi. Di conseguenza, proprio la circostanza dell’integrale conferma del provvedimento gravato quanto al rigetto disposto doveva indurre il giudicante innanzitutto a ribadire la condanna alle spese già decisa in favore del resistente vittorioso in prime cure, e, quindi, a condannare ulteriormente il soccombente anche al pagamento delle ulteriori spese per la fase di gravame.>>. E’ evidente il salto di qualità rispetto a Cassazione civile, sez. lav., 01/12/2003, n. 18352, in Giust. civ. Mass. 2003, 12, a mente della quale <<La decisione del giudice di merito di compensare, in tutto o in parte, le spese di lite è incensurabile in sede di legittimità qualora sia motivata espressamente con riferimento a giusti motivi ravvisati della peculiarità e della complessità delle questioni trattate.>>.

[23] Si segnala di recente, sul tema, Cass. ord. 9.1.2015, n. 174.

[24] Si pensi a Cassazione civile, sez. un., 09/09/2010, n. 19246, la quale, dopo il noto reviremented anticipando l’intervento normativo chiarificatore, aveva statuito che nell’opposizione a decreto ingiuntivo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto fossero automaticamente ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale.

[25] Ad esempio, l’orientamento giurisprudenziale, consolidatosi dopo la sentenza delle Sezioni Unite della S.C. n. 8203 del 2005, secondo cui, nei giudizi instaurati dopo il 30 aprile 1995, con riguardo alla produzione di nuovi documenti in grado di appello, il comma 3 dell’art. 345 c.p.c. va interpretato nel senso che esso fissa il principio dell’inammissibilità di mezzi di prova nuovi (cioè non richiesti in precedenza) e, quindi, anche delle produzioni documentali (indicando, nello stesso tempo, i limiti di detto principio ed i requisiti che tali documenti devono presentare per poter trovare ingresso in sede di gravame) non ha dato luogo ad una fattispecie di overruling, in quanto preceduto da decisioni dello stesso segno, con conseguente inapplicabilità della regola per la quale mantiene validità l’atto processuale compiuto secondo le forme e i termini previsti dal diritto vivente al momento del suo compimento, in caso di successivo mutamento giurisprudenziale relativo a quelle forme ed a quei termini (Cassazione civile, sez. II, 21/01/2013, n. 1370).

[26] Contra Scarselli, Il nuovo art. 92, 2° comma, c.p.c., in Foro it., 2015, 43, secondo cui il mutamento di giurisprudenza deve avvenire, evidentemente, in corso di causa, poiché i mutamenti di giurisprudenza anteriori all’instaurazione della lite non varranno ai fini dell’applicazione del 2° comma dell’art. 92 c.p.c.

[27] In questi termini si è espresso Scarselli, Il nuovo art. 92, 2° comma, c.p.c.,cit., 42.

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