di Santi Bologna, Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Caltanissetta e Olimpia Monaco, Magistrato addetto all’Ufficio Studi e Documentazione del Consiglio Superiore della Magistratura, in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la Costituzione

SOMMARIO: 1. La presunzione di innocenza nella Costituzione – 2. Il travagliato processo di attuazione della direttiva (UE) 2016/343 – 3. L’analisi degli artt. 1 e 2 dlgs 188/2021 – 4. L’analisi dell’art. 3 dlgs 188/2021: le comunicazioni delle Procure agli organi di informazione – 5. L’analisi dell’art. 4 dlgs 188/2021: le modifiche al codice di procedura penale – 6. Il nodo irrisolto: il rapporto tra il processo penale mediatico e la presunzione di innocenza

«Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso che egli abbia violato i patti coi quali le fu accordata»[1]

1. La presunzione di innocenza nella Costituzione

La “storia” della presunzione di innocenza nel nostro ordinamento è legata alla discussione che, in proposito, come noto, animò i lavori dell’Assemblea costituente[2].

Conclusasi la parentesi totalitaria, il dibattito[3] si era imperniato essenzialmente sulla scelta dell’espressione da impiegare: per superare il fronte di quanti erano contrari tout court al recepimento del principio, anziché adottare la formula dell’affermazione della presunzione di innocenza si è scelta – la soluzione intermedia – della “considerazione di non colpevolezza” [4], come d’altronde era stato fatto nelle Carte internazionali e sovranazionali e senza con ciò svuotare di significato la portata della garanzia[5] .

Il divieto di assimilare l’imputato al colpevole come regola di trattamento non opera nel solo settore della libertà personale (che rimane comunque la sede privilegiata di operatività), ma coinvolge altresì la sfera di altri diritti individuali costituzionalmente tutelati, parimenti suscettibili di lesione durante – e a causa – del processo.

Sotto tale prospettiva l’art. 27 comma 2 Cost. rappresenta una sorta di clausola generale riepilogativa dei diritti inviolabili dell’individuo nel processo, e svolge la peculiare funzione di riaffermare e consolidare, in tale settore, prerogative contenute in altre previsioni costituzionali[6] (si pensi ai diritti della personalità che trovano il loro riferimento nell’art. 2 Cost. o alla necessità che in ossequio all’art.3 Cost si assicuri la parità di trattamento tra le persone sottoposte a processo penale)[7].

2. Il travagliato processo di attuazione della direttiva (UE) 2016/343

La direttiva (UE) 2016/343[8] sul “rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”, rappresenta una delle tappe fondamentali della c.d. tabella di marcia per il rafforzamento dei diritti procedurali di indagati o imputati nei procedimenti penali approvata dal Consiglio dell’Unione il 30 novembre 2009 ed una delle misure normative adottate dagli Organi legislativi europei per dare concreta attuazione al Programma di Stoccolma (adottato dal Consiglio nel dicembre del 2009 quale terzo documento strategico pluriennale, dopo i Programmi di Tampere e dell’Aia, per gli anni 2010-2014, con l’obiettivo di realizzare un rafforzamento dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia all’interno dell’Unione europea).

La proposta normativa della Commissione è stata discussa durante la presidenza di turno del Consiglio dell’Unione europea spettante all’Italia, nel secondo semestre del 2014, nell’ambito del Gruppo di lavoro Droipen (diritto penale) presieduto da Olimpia Monaco.

Il testo licenziato dal gruppo ed approdato alla fase del c.d. trilogo tra Consiglio, Parlamento e Commissione europea per il completamento dell’iter legislativo, pur con i limiti dovuti all’essere il frutto di una negoziazione all’epoca tra 28 Stati, espressione di tradizioni culturali e giuridiche molto diverse, e al recare conseguentemente disposizioni dall’inevitabile contenuto precettivo minimo da adattare alle diverse realtà ordinamentali, ha il pregio di estendere a tutto il territorio dell’Unione alcune fondamentali garanzie per gli indagati e imputati.

In estrema sintesi la direttiva prevede, infatti, il diritto dell’indagato/imputato ad essere considerato innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia provata in via definitiva (art.3 della direttiva); il divieto per le autorità pubbliche di rendere dichiarazioni pubbliche violative della presunzione d’innocenza ed un analogo  divieto per le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza (art.4, par.1); la divulgabilità di informazioni inerenti i procedimenti penali solo qualora ciò sia necessario per motivi connessi all’indagine o per l’interesse pubblico (art.4, par.3); il divieto di presentare l’indagato/imputato, in tribunale o in pubblico, come colpevole attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica, salvo che ciò sia necessario per ragioni di sicurezza (art. 5); l’onere per l’accusa di provare la colpevolezza degli indagati e imputati, salvo l’eventuale obbligo per il giudice o il tribunale di ricercare prove a carico e a discarico e il diritto della difesa di produrre prove in conformità del diritto nazionale applicabile (art.6, par.1); il principio secondo il quale ogni dubbio sulla colpevolezza è valutato in favore dell’indagato/imputato (art.6, par.2); il diritto dell’indagato/imputato di restare in silenzio e di non autoincriminarsi rispetto al reato che gli viene contestato e il divieto di utilizzare contro l’indagato/imputato l’esercizio de predetti diritti (art.7, par.5); il diritto dell’indagato/imputato a presenziare al proprio processo (art.8, par.1 e 2); l’obbligo per gli Stati di prevedere un rimedio effettivo in caso di violazione dei diritti previsti dalla direttiva (art. 10).

Una prima delega per il recepimento della Direttiva, inserita nella L. n. 163 del 25 ottobre 2017[9], non era stata esercitata dal Governo, perché dalla ricognizione effettuata era sembrato che l’ordinamento interno fosse già conforme ai contenuti dell’atto di matrice europea.

Tuttavia, in seguito alle criticità evidenziate dalla Commissione europea[10] in merito allo stato di attuazione della direttiva in parola (criticità che avrebbero potuto comportare il rischio di una procedura di infrazione a carico dell’Italia), l’attuazione è parsa, quindi, ineludibile ed il Governo è stato di nuovo delegato al recepimento della citata Direttiva dall’art. 1 della legge 22 aprile 2021, n. 53[11]. Data la delicatezza del tema affrontato, si è presto registrata una forte contrapposizione politica sull’individuazione del corretto bilanciamento tra le opposte esigenze che si scontrano sul terreno dell’informazione giudiziaria: da un lato vi è infatti, il diritto di cronaca giudiziaria e dall’altro i non meno meritevoli diritti che fanno capo a chi si trova coinvolto in un procedimento penale (presunzione di innocenza, onore, riservatezza, ecc.) a volte frustrati dagli eccessi di spettacolarizzazione delle inchieste giudiziarie che hanno dato vita in alcuni casi o comunque contribuito ad alimentare giudizi anticipati di colpevolezza dell’imputato[12].

Il testo definitivo del D.Lgs. 8 novembre 2021, n. 188 si compone di sei articoli (l’ultimo dei quali è costituito dalla clausola di invarianza finanziaria) e contiene, all’art. 2, disposizioni relative alle dichiarazioni rese da autorità pubbliche sulla colpevolezza delle persone fisiche sottoposte a procedimento penale; all’art. 3 le modifiche inserite nell’art. 5 del d.lgs. n. 106/2006 sulle informazioni relative ai procedimenti penali rese alla stampa dalle Procure della Repubblica; all’art. 4, le modifiche al codice di procedura penale con particolare riferimento all’introduzione dell’art. 115 bis e ad alcune integrazioni agli artt. 314, 329, 374 c.p.p.; all’art. 5 viene individuato nel Ministero della Giustizia l’autorità incaricata della rilevazione, dell’analisi e della trasmissione alla Commissione europea dei dati di cui all’art. 11 della direttiva (ossia quelli relativi al numero e all’esito di procedimenti disciplinari connessi alla violazione degli artt. 2, 3 e 4 del decreto).

A nostro avviso si tratta di un atto normativo importante che rappresenta un passo in avanti sul piano giuridico e culturale verso una più piena affermazione delle garanzie fondamentali consacrate nella “presunzione di innocenza” dell’imputato (artt. 6, comma 2 CEDU e 27, comma 2 Cost.).

Deve tuttavia rilevarsi che l’articolato è rivolto esclusivamente alle autorità pubbliche, in primis ai magistrati, e non anche agli organi di informazione che pure svolgono, come si avrà modo di osservare in seguito, un ruolo determinante nell’ottica della tutela della presunzione d’innocenza (v. le ulteriori considerazioni sviluppate nel par. 6) ed è quindi possibile già prevedere che continuerà ad esservi ancora spazio in futuro per il c.d. “processo mediatico” ovvero a forme di  celebrazione del processo sui mezzi di informazione, con “l’aggravante” che tale “processo” si svolge frequentemente in una fase in cui a volte nemmeno l’indagato ha una compiuta conoscenza delle contestazioni elevate a suo carico[13].

3. L’analisi degli artt. 1 e 2 dlgs 188/2021

L’ art. 1 del decreto in parola ne definisce l’oggetto, ossia l’introduzione, in conformità alla sopra citata Direttiva, di disposizioni integrative-rafforzative «di alcuni aspetti della presunzione di innocenza» delle sole persone fisiche sottoposte a indagini o imputate in un procedimento penale, in modo da consolidare il «diritto a un equo processo nei procedimenti penali» (Considerando 9 della Direttiva (UE) 2016/343).

Sono escluse dalla sfera di applicabilità le persone giuridiche perché, come spiegato nei considerando n. 13 e 14 della direttiva, i livelli di protezione della presunzione di innocenza in capo alle persone fisiche e alle persone giuridiche sono interpretati in modo diverso dalle Corti nazionali e sovranazionali; pertanto, sarebbe parso prematuro legiferare a livello eurounitario sulla presunzione di innocenza con riferimento alle persone giuridiche.

Epperò questa delimitazione non ha alcuna ragione d’essere con riguardo al nostro ordinamento nel quale il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 prevede in certi casi la sottoposizione a processo penale dell’ente quale responsabile amministrativo per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio, parificato, per taluni aspetti – ma a quanto pare non per le garanzie – all’imputato. E sinceramente non si vede la ragione per la quale debba essere sottratta alla tutela della presunzione di innocenza, come regola di trattamento nel senso qui inteso, la persona giuridica.

Il comma primo dell’art. 2 del decreto, nell’occuparsi delle modalità di comunicazione delle autorità pubbliche verso l’esterno, sancisce il divieto generale per le «autorità pubbliche» di indicare urbi et orbi come colpevole la persona sottoposta a indagini o imputata in un procedimento ancora in corso.

L’ampiezza soggettiva del divieto – certamente inconsueta in un testo normativo, dovendosi intendere per “autorità pubblica” qualsiasi autorità investita di potestà pubblicistiche – ricalca i contenuti del Considerando (17) della Direttiva, ove si fa menzione non soltanto delle autorità giudiziarie, di polizia e di altre autorità preposte all’applicazione della legge, ma anche di altre autorità pubbliche, «quali ministri e altri funzionari pubblici […]», in conformità ad alcune pronunce della giurisprudenza della Corte EDU (cfr. sent. 26 marzo 2002, Butkevičius c. Lituania, 48297/99).

Vale la pena evidenziare come nel Considerando, ma non anche nel testo adottato dall’ordinamento italiano, si lascia impregiudicato «il diritto nazionale in materia di immunità», formula volta ad escludere dall’area del divieto le dichiarazioni del parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni.

Tutti gli altri commi dell’articolo 2 sono dedicati ai rimedi attivabili dall’interessato in caso di violazione del citato divieto

Al netto dei rimedi tradizionali (si fa riferimento all’applicabilità di eventuali sanzioni penali e disciplinari o del risarcimento del danno), viene introdotto per l’interessato il diritto di richiedere la rettifica della dichiarazione resa all’autorità pubblica[14]; quest’ultima, se ritiene fondata la richiesta, ha l’obbligo di provvedere immediatamente e, comunque, non oltre le successive quarantotto ore dalla ricezione della richiesta stessa (art. 2, commi 2 e 3).

A ben vedere il rimedio introdotto richiama alla mente quanto già previsto a proposito della rettifica della notizia giornalistica, ex art. 8 L. 8 febbraio 1948, n. 47.

Tuttavia, il rimedio introdotto presenta almeno due profili di criticità.

In primo luogo, sul piano soggettivo, suscita perplessità la scelta di far coincidere controllore e controllato atteso che la decisione sulla richiesta di rettifica è attribuita, almeno in prima istanza, allo stesso autore della dichiarazione lesiva della presunzione di innocenza che ha l’obbligo di provvedere tempestivamente, entro 48 ore.

A ben riflettere, difficilmente chi ha rilasciato una dichiarazione sulla colpevolezza della persona sottoposta a procedimento può “fare marcia indietro” in un torno di tempo così breve, smentendo in questo modo la serietà della propria presa di posizione. 

In secondo luogo, sul piano oggettivo non può non segnalarsi come un conto è impiegare lo strumento della rettifica in relazione ad un enunciato fattuale suscettibile di una verifica attraverso il binomio verità-falsità; ben altro conto è utilizzare il medesimo rimedio per sottoporre a controllo la correttezza di una espressione a carattere valutativo.

Comunque, in caso di accoglimento – se la richiesta viene ritenuta fondata – la rettifica dovrà essere effettuata con modalità che assicurino pari rilievo e grado di diffusione dell’originaria dichiarazione; invece, in caso di rigetto, il controllo è affidato al tribunale, tramite lo strumento di tutela dell’art. 700c.p.c., attraverso il quale potrà essere ordinato di procedere all’immediata rettifica della dichiarazione.

Nel silenzio della norma è possibile ritenere che la procedura d’urgenza sia attivabile anche in caso di inerzia dell’autorità pubblica nell’assumere la decisione richiesta entro il termine delle 48 ore.

Infine, non si può non rimarcare come, anche nell’ipotesi in cui intervenga la rettifica in parola, gli organi di informazione non sono tenuti a loro volta a procedere alla rettifica disciplinate dalla normativa sulla stampa[15].

Con maggior impegno esplicativo la rettifica in commento non produce un connesso onere di rettifica per i media che, riportando l’originaria dichiarazione colpevolista, si saranno limitati ad esercitare il diritto di cronaca .

4. L’analisi dell’art. 3 dlgs 188/2021: le comunicazioni delle Procure agli organi di informazione

L’art. 3 del d.lgs. n. 188 interviene sull’art. 5 del d.lgs. n. 106/2006 che, nella sua versione originaria si limitava ad attribuire al procuratore il compito di mantenere personalmente o tramite un magistrato dell’ufficio i rapporti con gli organi di stampa (art. 5, comma 1), stabilendo che le informazioni relative alle attività investigative fossero fornite riferendole in modo impersonale all’ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento (art. 5, comma 2). La norma vietava, inoltre, espressamente ai singoli sostituti di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione sull’attività giudiziaria espletata (art. 5, comma 3), spettando al procuratore anche l’obbligo di segnalare al consiglio giudiziario eventuali violazioni delle norme in questione, per l’esercizio del potere di vigilanza e di sollecitazione dell’azione disciplinare (art. 5, comma 4).

Le disposizioni dell’art. 5 erano poi integrate da quelle contenute nel d.lgs. n. 109/2006 che, all’art. 2, lettera u), include fra gli illeciti disciplinari commessi nell’esercizio delle funzioni, “la divulgazione di  atti  del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il  divieto di pubblicazione, nonché’ la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione,  o sugli  affari  definiti, quando è idonea a ledere indebitamente i diritti altrui”, e, alla lettera v), le “pubbliche dichiarazioni o interviste  che riguardino  i  soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati  e non  definiti… omissis … quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui nonché la violazione del divieto di cui all’articolo 5, comma 2, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106”.

La ratio dell’art. 5 ed in generale del d.lgs. n. 106/2006 di riforma dell’organizzazione degli uffici requirenti, era soprattutto accentuare la gerarchizzazione delle Procure, subordinare la figura dei sostituti a quella del dirigente dell’ufficio, contenendo quindi anche le occasioni di visibilità individuale dei sostituti e concentrando sulla figura del Procuratore una vasta gamma di poteri, di cui anche le disposizioni inerenti i rapporti con la stampa sono espressione.

Essendo quello sopra descritto lo spirito del d.lgs. n. 106, si comprende perché l’art. 5 non affronti né il tema delle condizioni per la divulgazione da parte delle Procure di notizie riguardanti i procedimenti penali trattati dall’ufficio, né quello delle modalità con cui la stessa deve avvenire, dando per scontata l’inevitabilità di un tale flusso d’informazioni lecite tra la Procura della Repubblica e gli organi di stampa, affidandone la gestione al procuratore e non ancorando il rilascio delle stesse alla ricorrenza di alcuna specifica condizione.

Rispetto al già menzionato quadro normativo, il d.lgs. n. 188 introduce alcune rilevanti novità idonee a vincolare fortemente l’iniziativa del procuratore o del magistrato delegato alle comunicazioni sia con riguardo al quomodo della comunicazione, che all’an della medesima[16].

Con riferimento al primo aspetto, nel comma 1 dell’art. 5 è, infatti, ora specificato che i rapporti con gli organi di informazione sono mantenuti dal Procuratore “esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa. La determinazione di procedere a conferenza stampa è assunta con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano”.

Quanto all’an della comunicazione, il nuovo comma 2 bis prevede che l’informazione sui procedimenti penali possa essere divulgata “solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico”.

Quale considerazione di carattere preliminare, può innanzitutto osservarsi che le disposizioni in parola non rappresentano una fedele attuazione della direttiva europea, poiché questa si limita a prevedere all’art. 4 par. 1 che “fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non devono presentare la persona come colpevole” e al par. 3 dello stesso articolo (il cui contenuto è chiarito anche dal considerando 18) che le informazioni relative a procedimenti penali determinati possono comunque essere rilasciate dalle autorità pubbliche solo se ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico.

Il focus dell’intervento normativo europeo è infatti la salvaguardia del principio della presunzione d’innocenza dell’indagato/imputato non condannato in via definitiva ed il conseguente divieto per tutte le autorità pubbliche di rendere dichiarazioni pubbliche violative di esso e non anche dettare le regole per il rilascio di informazioni da parte degli uffici requirenti, avendo la direttiva ritenuto sufficiente al riguardo garantire ‘in positivo’ la possibilità che possano essere comunque rese informazioni relative ai procedimenti penali, quando ciò sia però necessario o per ragioni connesse alle indagini in corso, o per la sussistenza di un interesse pubblico alla loro divulgazione.

Può quindi dirsi che il legislatore italiano ha recepito l’impostazione generale della direttiva, introducendo nell’ordinamento, con l’art. 2 del d.lgs. n. 188, le norme sul divieto di rilascio da parte delle autorità pubbliche di dichiarazioni lesive della presunzione d’innocenza, ma che, con le complessive disposizioni dell’art. 3 del decreto, abbia inteso, invece, dettare anche nuove regole per il riordino in senso restrittivo della sensibile materia del rilascio delle informazioni alla stampa da parte degli uffici requirenti.

Tornando al commento delle norme introdotte dal decreto nell’art. 5, deve, infatti, rilevarsi un netto irrigidimento delle modalità comunicative cui gli uffici requirenti potranno ricorrere.

Se, infatti, sino ad ora, in ragione delle scarne disposizioni dell’art. 5 del d.lgs. 106/2006 e delle invece ampie “Linee Guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”, approvate dal Consiglio Superiore con delibera dell’11 luglio 2018[17], il Procuratore era sostanzialmente libero di scegliere se rendere dichiarazioni alla stampa ed in quale forma, assumendo la propria decisione sulla base delle peculiarità del caso concreto[18], per il futuro potrà farlo solo previa verifica della ricorrenza di una delle due ragioni legittimanti la comunicazione (la sussistenza di ragioni di carattere investigativo o di un rilevante interesse pubblico alla diffusione delle informazioni) e solo nella forma ordinaria del “comunicato”.

La disposizione che àncora il rilascio delle informazioni ai due presupposti suddetti è frutto di una visione parziale dell’attività d’informazione al pubblico realizzata dalle Procure e quindi anche di una prospettiva che non considera che in un mondo in cui la comunicazione ha assunto un ruolo di crescente importanza ed il reperimento di informazioni ‘ufficiose’ è di facile accessibilità, il rilascio di informazioni ‘ufficiali’ da parte degli uffici giudiziari che hanno espletato determinate attività, deve esser visto soprattutto quale doveroso servizio reso alla collettività.

Questo è peraltro il punto di vista del Consiglio consultivo dei Procuratori europei (CCPE), organismo del Consiglio d’Europa, che già con il parere n. 9/2014, ha rammentato come informare l’opinione pubblica del contenuto delle indagini in corso rappresenti prima che un diritto del singolo pubblico ministero, un vero e proprio dovere verso la società civile.

Da un punto di vista pratico, la disposizione finisce poi per accentuare ulteriormente i poteri del procuratore che, se dovrà necessariamente interloquire con i sostituti titolari del procedimento quando il rilascio di informazioni sia necessario “per la prosecuzione delle indagini”, potrà invece determinarsi anche in assenza di confronto con i sostituti, e lo farà verosimilmente soprattutto in base alla sua specifica sensibilità culturale, circa la ricorrenza di “altre specifiche ragioni di interesse pubblico” che rendano necessaria la comunicazione.

Quanto alla forma con cui le informazioni potranno essere rese per il futuro, se l’individuazione di una unica ed ordinaria modalità di comunicazione delle notizie all’esterno dell’ufficio, ha il pregio di eliminare le disomogeneità comunicative, vincolando gli uffici requirenti ad una condotta uniforme, non può però sottacersi che il mezzo prescelto del comunicato è caratterizzato da una significativa rigidità che, nei casi di maggiore complessità delle investigazioni espletate e delle contestazioni elevate agli indagati/imputati o della pluralità di indagati/imputati, potrebbe addirittura comportare l’inidoneità di esso ad assolvere alla funzione per la quale è stata rilasciata la comunicazione, ovvero informare tempestivamente e compiutamente l’opinione pubblica dell’oggetto del procedimento penale e del suo stato.

Tenendo conto, poi, sia del fatto che il legislatore ha inteso limitare a monte il rilascio di informazioni relative ai procedimenti penali ai soli casi in cui si riscontra una vera e propria ‘necessità’ della comunicazione stessa (per la ricorrenza di esigenze investigative o di specifiche ragioni di interesse pubblico), sia del fatto che ha ammesso il ricorso alla forma della conferenza stampa quando ricorra la particolare rilevanza pubblica dei fatti, risulta incomprensibile l’ulteriore irrigidimento imposto al procuratore di dover giustificare la determinazione di procedere al rilascio delle informazioni in sede di conferenza stampa, con apposito atto motivato “in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano”. Questa parte della disposizione è stata peraltro inserita nella norma all’esito del parere ‘condizionato’ all’accoglimento dei rilievi espressi dalle commissioni giustizia di Camera e Senato, tra i quali risulta per l’appunto quello che chiedeva l’inclusione nel testo proprio dell’obbligo per il procuratore di motivare la scelta della deroga al regime ordinario di comunicazione tramite il comunicato, e pare essere espressione di una visione sostanzialmente negativa del delicato tema in discussione che permea l’art. 3 del decreto n. 188, di cui già si diceva poc’anzi. 

Apprezzabile risulta, invece, la previsione della seconda parte del comma 2 bis citato laddove specifica che “le informazioni sui procedimenti in corso sono fornite in modo da chiarire la fase in cui il procedimento pende e da assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta alle indagini e dell’imputato a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”.

La disposizione si fa carico, infatti, di un aspetto rilevante nell’ambito delle comunicazioni riguardanti i procedimenti penali, ovvero della necessità che si specifichi, proprio ai fini della concreta attuazione del principio della presunzione d’innocenza, la fase in cui pende il procedimento cui l’informazione divulgata si riferisce.

Si tratta di un punto cruciale perché occorre che gli uffici di procura rappresentino, in maniera chiara e semplice, che quella che viene fuori dalle indagini è un’ipotesi accusatoria che attende la verifica da parte di un giudice.

In tal modo i cittadini possono essere sin da subito consapevoli che quella che emerge dagli atti della Procura o dello stesso Gip, non è una verità consacrata e indiscutibile, di talché l’eventuale smentita che sussegua nelle successive fasi del giudizio non sta ad indicare né l’inadeguatezza del giudice che ha definitivamente deciso sul fatto, né l’inadeguatezza dell’ufficio del pubblico ministero che ha portato avanti quella ipotesi accusatoria.

Venendo ora alle ulteriori disposizioni introdotte dall’art. 3 del d.lgs. 188 nell’art. 5 del d.lgs. 106/2006, il comma 3 bis prevede che qualora ricorrano i presupposti già indicati, della necessità della divulgazione di informazioni inerenti a un procedimento penale per ragioni investigative, ovvero in ragione del loro interesse pubblico, il Procuratore possa autorizzare gli ufficiali di polizia giudiziaria a fornire informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato. Sono, inoltre, confermate anche le modalità con cui la comunicazione può avvenire, ovvero in via esclusiva tramite comunicati ufficiali o conferenze stampa.

Il successivo comma 3-ter prevede che nei comunicati e nelle conferenze stampa, la polizia giudiziaria non potrà assegnare alle indagini svolte nell’ambito di un procedimento penale oggetto della comunicazione, una denominazione lesiva del principio della presunzione di innocenza dell’indagato/imputato. Il legislatore ha quindi inteso evitare che la Polizia giudiziaria possa denominare le operazioni compiute con l’uso di termini che, a causa della loro suggestività e capacità di evocare con immediatezza la gravità del reato, siano idonei ad indurre anche l’idea della colpevolezza dei soggetti cui essi sono associati sulla stampa, così da risultare in concreto violativi del principio della presunzione d’innocenza.

Tenuto conto della centralità assunta dalla comunicazione nella società contemporanea e del rilevante impatto dell’attività giudiziaria sulla vita di un elevato numero di soggetti, può conclusivamente ritenersi con riferimento alle disposizioni dell’art. 3 del d.lgs. n. 188, che sarebbe stato preferibile che il legislatore del decreto anziché irrigidire le modalità di comunicazione da parte degli uffici requirenti in maniera, peraltro, non richiesta dalla direttiva UE 2016/343, avesse invece investito sul settore della comunicazione ‘ufficiale’ proveniente dagli uffici giudiziari, riconoscendone l’importanza quale servizio reso alla collettività e ponendo gli uffici nella condizione di offrire una comunicazione professionale, chiara, esaustiva, non sovrabbondante e tempestiva.

In quest’ottica, il legislatore avrebbe potuto spingersi a prevedere l’istituzione della figura del portavoce giudiziario o di un ufficio espressamente dedicato al rilascio di informazioni giudiziarie con il compito di indirizzarle all’esterno, sotto la guida del procuratore che avrebbe ovviamente mantenuto il governo delle informazioni da divulgare, recependo anche in tal modo i suggerimenti contenuti nella Raccomandazione (2010)12 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sul tema dell’indipendenza, efficacia e responsabilità dei giudici e nel rapporto dell’ENCJ (European Network of Councils for the Judiciary) del 2017-2018, approvato a Lisbona il 1° giugno 2018.

Anche in relazione all’articolo in commento, si ritiene pertanto che il legislatore non abbia affrontato i veri “nodi” problematici sottostanti il tema oggetto dell’intervento normativo spesso dibattuti dall’opinione pubblica: la discriminazione tra giornalisti o testate; la costituzione e il mantenimento di canali informativi privilegiati con esponenti dei media[19]; la personalizzazione delle informazioni; l’espressione di opinioni personali e giudizi di valore su persone o eventi.

Non v’è dubbio, infatti, che il c.d. “mercato nero” degli atti giudiziari non giovi alla correttezza dell’informazione, alla tutela della privacy e alla stessa fiducia riposta dalla collettività nell’operato delle autorità giudiziarie.

Il sistema attuale, non innovato sotto questi profili dal d.lgs. n. 188, infatti, aumenta il rischio che la fonte della notizia possa essere interessata e, perciò, non obiettiva, offrendo una visione parziale della vicenda processuale e dunque un’informazione anch’essa parziale.

Proprio in questa ottica, qualche anno addietro, vi era già stata una proposta per liberalizzare l’accesso agli atti giudiziari non più segreti, fin dal loro deposito, consentendo anche ai giornalisti di chiederne copia[20].

5. L’analisi dell’art. 4 dlgs 188/2021: le modifiche al codice di procedura penale

Le norme contenute nell’art. 4 del decreto n. 188 per la tutela della presunzione di innocenza nelle «decisioni» dell’autorità giudiziaria appaiono destinate a produrre un grande impatto sull’attività giudiziaria.

La norma attraverso il nuovo art. 115 bis c.p.p., estende il divieto di presentare come colpevole un soggetto non condannato in via definitiva, già contemplato dall’art. 2 del decreto n. 188, ai provvedimenti giudiziari, dividendoli in tre categorie, per ciascuna delle quali la tutela della presunzione d’innocenza viene declinata in modo diverso.

Il primo comma dell’art. 115 bis prevede, infatti, che “Salvo quanto previsto dal comma 2, nei provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato, la persona sottoposta a indagini o l’imputato non possono essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili. Tale disposizione non si applica agli atti del pubblico ministero volti a dimostrare la colpevolezza della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato”.

Il secondo comma dell’art. 115 bis c.p.p. dispone, invece, che “Nei provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato, che presuppongono la valutazione di prove, elementi di prova o indizi di colpevolezza, l’autorità giudiziaria limita i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento”.

La prima categoria di atti è dunque rappresentata da quelli cui non si applica il divieto di presentare come colpevole l’indagato/imputato che non sia stato condannato con sentenza definitiva ed è costituita dai provvedimenti a necessaria vocazione ‘colpevolista’, ovvero dalle decisioni aventi ad oggetto l’accertamento della responsabilità penale dell’imputato e dagli “atti del pubblico ministero volti a dimostrare la colpevolezza della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato”.

La seconda categoria è, invece, costituita da provvedimenti “diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato”, per i quali vale la regola generale del divieto di indicare come colpevole l’indagato/imputato che non sia stato condannato in via definitiva.

La terza categoria contempla, infine, i provvedimenti “che presuppongono la valutazione di prove, elementi di prova o indizi di colpevolezza, diversi dalle decisioni indicate al comma 1”, per i quali è comunque richiesto il rispetto della presunzione d’innocenza ma in forma, per così dire, attenuata rispetto alla categoria generale dei provvedimenti giudiziari, avendo il legislatore richiesto che “l’autorità giudiziaria limita i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento”.

In merito deve innanzitutto osservarsi che la norma presenta criticità connesse alla sua tecnica redazionale ed al fatto che il legislatore nazionale sembra avere mutuato dalla direttiva europea delle locuzioni caratterizzate dalla loro scarsa immediata riferibilità alla realtà ordinamentale italiana.

Con riguardo alla prima categoria di provvedimenti, appare del tutto ragionevole l’inapplicabilità del divieto di indicare come colpevole l’indagato o l’imputato agli atti che mirano  proprio ad accertare la loro responsabilità penale e quindi alle sentenze e ai decreti penali di condanna. Più difficile è, invece, identificare con chiarezza quali atti siano riconducibili all’altro gruppo di provvedimenti rientrante nella prima categoria cui non si applica il divieto menzionato nel primo comma dell’art. 115 bis (atti del pubblico ministero volti a dimostrare la colpevolezza della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato). Tenendo conto del riferimento all’imputazione contenuto nel considerando 16 della direttiva 2016/343/Ue, quale esempio degli atti esclusi dall’operatività del divieto di cui si è detto e che nell’ordinamento italiano, l’indagato assume la veste di imputato con l’esercizio dell’azione penale, è ragionevole ritenere che gli “atti del pubblico ministero volti a dimostrare la colpevolezza dell’imputato”, cui non si applica il divieto di indicare come colpevole l’indagato/imputato, siano quelli con i quali il pubblico ministero esercita l’azione penale (richieste di rinvio a giudizio, di giudizio immediato e di giudizio direttissimo, richieste di decreto penale di condanna, citazioni dirette a giudizio). Sfuggono invece ad una chiara identificazione gli “atti del pubblico ministero volti a dimostrare la colpevolezza dell’indagato”, anche per l’assenza di riferimenti esplicativi contenuti nei considerando della direttiva europea e nel decreto legislativo n. 188.

Incertezze interpretative suscita anche il corpo centrale del primo comma dell’art. 115 bis nella parte in cui individua in negativo i provvedimenti cui si applica il divieto  di presentare come colpevole l’indagato/imputato non condannato in via definitiva, fra quelli “diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato”.

La locuzione utilizzata è così generica da consentire solamente di concludere che siano esclusi dall’appartenenza a questa categoria i provvedimenti rientranti nelle altre due e che vi siano, pertanto, riconducibili gli altri atti adottati dal pubblico ministero o dal giudice, nella fase delle indagini preliminari o in dibattimento, di natura sostanziale o procedurale. Problemi possono porsi in particolare quanto alla riconducibilità all’una o all’altra categoria, per i provvedimenti che, pur richiedendo, ai fini della loro adozione, la sussistenza di gravi indizi di reato, presuppongono una motivazione rigorosa circa la sussistenza degli elementi soggettivi ed oggettivi del fatto che finisce inevitabilmente per lambire l’area dei gravi indizi di colpevolezza (si considerino, ad esempio, i provvedimenti di cui all’art. 247, 267, 321 c.p.p.).

Analoghe criticità si riscontrano rispetto al contenuto del secondo comma dell’art. 115 bis laddove è previsto per i provvedimenti “che presuppongono la valutazione di prove, elementi di prova o indizi di colpevolezza, diversi dalle decisioni indicate al comma 1”, “l’autorità giudiziaria limita i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento”. La norma si applica evidentemente alle richieste di applicazione di misure cautelari ed alle ordinanze che pronunciano su di esse, ovvero a provvedimenti rispetto ai quali potrà rilevarsi in concreto difficoltoso per il magistrato osservare il prescritto limite della continenza espressiva, dovendo impegnarsi ad evidenziare gli elementi dai quali, se non deve né può desumersi la colpevolezza dell’indagato/imputato, non essendo l’atto diretto al raggiungimento di questo scopo, deve comunque dimostrarsi la sussistenza di una sua “qualificata probabilità di colpevolezza”, come evidenziato dalla giurisprudenza della Suprema Corte[21].

In questo senso, se il precetto contenuto nella direttiva europea è nella sua inevitabile maggiore genericità più lineare, prevedendo che il divieto di presentare l’indagato/imputato come colpevole in assenza di una sentenza definitiva di condanna “lascia impregiudicati gli atti della pubblica accusa volti a dimostrare la colpevolezza dell’indagato o imputato e le decisioni preliminari di natura procedurale adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità”, l’implementazione che ne ha fatto il legislatore italiano con l’individuazione delle menzionate categorie di provvedimenti è, invece, macchinosa e foriera di certe difficoltà pratiche per i magistrati. E’ infatti prevedibile che il pubblico ministero – e successivamente il giudice – si troverà a dover dapprima descrivere gli indizi di colpevolezza a carico di un soggetto ed esaltarne la gravità ai fini dell’adozione della richiesta misura e poi, per evitare l’accusa di avere esorbitato dai limiti della richiesta continenza, a dover precisare che l’illustrazione di essi è finalizzata solo ad evidenziare la ricorrenza delle condizioni per adottare la misura e non rappresenta in nessun modo l’affermazione di colpevolezza dell’indagato/imputato.

Conclusivamente se può apprezzarsi il principio di fondo che ispira l’art. 115 bis ovvero  quello del rilievo che deve essere attribuito nell’esercizio dell’attività giudiziaria anche alla modalità con cui sono redatti i provvedimenti, rammentando ai magistrati l’importanza di coniugare sempre l’analisi approfondita degli elementi di fatto e di diritto posti a fondamento delle proprie richieste e decisioni, con scelte lessicali idonee a preservare l’atto da censure dovute alla violazione della presunzione d’innocenza, non può non evidenziarsi il rilevante impatto pratico che deriverà dalla concreta applicazione di norme dall’immediato contenuto precettivo caratterizzato dalle ambiguità e criticità prima sinteticamente rilevate.

A ciò si aggiunga che l’adozione di un provvedimento giudiziario in violazione del disposto dei commi 1 e 2 del nuovo art.115 bis c.p.p. attribuisce all’interessato il diritto (entro dieci giorni decorrenti, a pena di decadenza, dalla conoscenza del provvedimento), di chiederne la correzione, quando ciò sia necessario “per salvaguardare la presunzione di innocenza nel processo”.

La competenza per il procedimento di correzione si radica sul giudice procedente rispetto alla fase procedimentale nel cui ambito è stato emesso il provvedimento giudiziario oggetto dell’istanza di correzione; l’istanza di correzione deve essere presentata dall’interessato, a pena di decadenza, nei dieci giorni successivi alla conoscenza del provvedimento ed il giudice, ricorrendone i presupposti, effettua la correzione nelle quarantotto ore successive al deposito dell’istanza, eliminando dall’atto le espressioni lesive della presunzione di innocenza. Il decreto motivato è infine notificato all’interessato, alle altre parti ed al Pubblico ministero, potendo gli stessi soggetti, nei dieci giorni successivi alla notifica, proporre opposizione dinanzi al giudice che lo ha emesso.

Con le disposizioni da ultimo illustrate, il legislatore ha inteso soddisfare la richiesta contenuta nella direttiva in commento di prevedere un rimedio effettivo per il caso in cui siano adottati provvedimenti giudiziari violativi della presunzione d’innocenza. Deve però evidenziarsi sia la brevità del termine previsto (48 ore) per operare la correzione – specie quando rilevino provvedimenti ampi ed articolati, come spesso accade in presenza di richieste di misure cautelari e di ordinanze riferite a procedimenti penali complessi per la gravità dei fatti oggetto d’indagine, la pluralità di contestazioni o la pluralità di indagati – sia la possibilità che l’attività di ‘correzione’, tramite mera eliminazione dal testo dell’atto delle parti ritenute lesive della presunzione d’innocenza (non potendo il giudice intervenire in altro modo sull’atto censurato), restituisca un provvedimento che, privato di dette parti, si presenti però monco e disorganico. Inoltre, vale la pena evidenziare come vi sia il rischio di generare “un contenzioso” dai contenuti ambigui e scivolosi, in grado di appesantire procedure che, per altra parte, si dichiara di voler alleggerire[22].

Una ulteriore modifica interessa la disciplina dettata a proposito dell’istituto della riparazione per l’ingiusta detenzione in relazione ai suoi rapporti con il diritto al silenzio.

Si è già sopra evidenziato come le Commissioni Giustizia di Camera e Senato, nel rendere il parere allo schema di decreto, poi diventato il d.lgs. n. 188/2021, lo abbiano subordinato all’accoglimento di alcune condizioni, tra le quali appare meritevole di particolare considerazione, in ragione della rilevanza delle modifiche apportate, quella riguardante l’asserita attuazione dell’art. 7 della Direttiva (UE) 2016/343.

L’art. 4, comma 1, lett. b) del d.lgs. n. 188 inserisce infatti nell’art. 314 c.p.p., al comma 1, dopo la parte che prevede che “Chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il  fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”, la specificazione che “L’esercizio da parte dell’imputato della facoltà di cui all’articolo 64, comma 3, lettera b), non incide sul diritto alla riparazione di cui al primo periodo”.

Nella versione originaria proposta dal Governo, il decreto non recava invece alcuna disposizione attuativa dell’art. 7 della direttiva poiché, come chiarito dalla tabella di concordanza allegata alla relazione illustrativa, si era ritenuto che l’ordinamento interno fosse già pienamente rispettoso dei principi espressi dalla menzionata norma europea.

Si deve peraltro sottolineare che il citato art. 7, dopo avere previsto l’attribuzione del diritto dell’indagato/imputato a rimanere al silenzio, si premura di specificare il contenuto del diritto in parola[23], chiarendo che il silenzio “dovrebbe fungere da protezione contro l’autoincriminazione” (considerando 24) e che lo stesso non può essere considerato “di per sé” prova della responsabilità penale dell’imputato (considerando 28), così adottando un interpretazione di tale diritto conforme alla giurisprudenza della Corte EDU.

Invero, la Corte europea, a partire dal caso Murray contro Regno Unito[24], ha sì rilevato che il diritto al silenzio costituisce diretto precipitato della presunzione di innocenza di cui all’art. 6, par. 2, CEDU e comporta, pertanto, l’inesigibilità di un apporto conoscitivo e, tantomeno, probatorio da parte dell’accusato il quale, fino all’accertamento definitivo di responsabilità, deve reputarsi estraneo al fatto, ma ha anche specificato che il diritto al silenzio non s’atteggia come un diritto assoluto, sicché, se dal contegno silente dell’accusato non può desumersi la prova della sua colpevolezza, quando ci si trovi di fronte a un contesto probatorio che richiede necessariamente una spiegazione, la scelta dell’interessato di non fornirla può ben essere considerata nella valutazione degli elementi a carico, alla stregua di riscontro negativo o di argomento di prova[25].

Nella stessa direzione si muove la giurisprudenza nazionale di legittimità che, con indirizzo sostanzialmente unanime, ritiene che in virtù del principio “nemo tenetur se detegere“, l’imputato può non rispondere su fatti leggibili contra se e negare la propria responsabilità anche contro l’evidenza; “tuttavia, al giudice non è precluso valutare la condotta processuale del giudicando, coniugandola con ogni altra circostanza sintomatica, con la conseguenza che egli, nella formazione del libero convincimento, può ben considerare, in concorso di altre circostanze, la portata significativa del silenzio mantenuto dall’imputato su circostanze potenzialmente idonee a scagionarlo (Sez. 5, n. 12182 del 14/02/2006, Ferrara, Rv. 233903). Pertanto, pur non potendo il silenzio serbato dall’indagato in sede di interrogatorio di garanzia o nel corso del dibattimento essere utilizzato quale elemento di prova a suo carico, da tale comportamento processuale il giudice può trarre argomenti di prova, utili per la valutazione delle circostanze “aliunde” acquisite (Sez. 2, n. 22651 del 21/04/2010, Di Perna, Rv. 247426; n. 6348 del 28/01/2015, Drago, Rv. 262617; n. 16563 del 01/03/2017, Cazanave e altri, Rv. 269507; Sez. 3, n. 43254 del 19/09/2019, C, Rv. 277259 Sez. 6, n. 28008 del 19/06/2019 Arena, Rv. 276381).

In conformità con il predetto orientamento e con specifico riguardo alla riparazione per ingiusta detenzione, la Suprema Corte ha confermato che il silenzio può assumere rilievo anche nel contesto dell’accertamento della sussistenza della condizione del dolo o della colpa grave ostativa alla riparazione per ingiusta detenzione, poiché è onere dell’interessato allegare eventuali contributi di cui soltanto lui sia in possesso che possono indurre l’Autorità Giudiziaria ad attribuire un diverso significato agli elementi posti a fondamento del provvedimento cautelare adottato. In questi casi, infatti, il silenzio serbato su tali elementi finisce col contribuire concausalmente quantomeno al mantenimento dello stato detentivo del soggetto, impedendo all’autorità giudiziaria di avere la disponibilità di elementi che, se allegati, avrebbero potuto indurla a una diversa valutazione degli indizi di colpevolezza emersi all’esito delle indagini espletate e dunque anche alla decisione di non richiedere e adottare alcun provvedimento cautelare[26].

Alla luce di quanto sino a qui esposto, può quindi innanzitutto rilevarsi come la scelta del legislatore italiano, tradotta nella nuova previsione dell’art 314 c.p.p., non sembri essere stata affatto imposta dalla necessità di implementare la direttiva europea che, come si è visto, ha accolto un’interpretazione del diritto al silenzio che esclude che esso possa fondare di per sé la responsabilità penale dell’imputato, ma non che possa svolgere la funzione di riscontro rispetto ad altri elementi probatori emersi a carico del predetto o che la condotta silente possa essere valutata a fini diversi.

In questo senso il nuovo testo dell’art. 314 c.p.p. sembra pertanto basarsi su una nozione del diritto al silenzio assai più restrittiva e non conforme a quella recepita dalla Corte EDU e dalla Corte di Cassazione, mirando irragionevolmente ad escludere l’attribuzione di qualsiasi rilevanza al silenzio serbato dall’imputato, anche quando lo stesso ricada su elementi nella sua esclusiva disponibilità che, se allegati  avrebbero potuto, se del caso, addirittura escludere l’adozione di una misura cautelare o incidere sul suo mantenimento. La modifica interviene peraltro in un contesto che esorbita dall’area di immediata rilevanza del diritto al silenzio ovvero quella dell’accertamento della responsabilità penale dell’imputato, limitandone l’utilizzo in un settore diverso che concerne il distinto profilo della ricorrenza di eventuali cause ostative alla riparazione per ingiusta detenzione.

Merita ancora di essere segnalato l’interpolamento della disciplina del segreto investigativo

Invero, l’art. 329 c.p.p. prevede, al primo comma, che gli atti di indagine compiuti dal Pubblico Ministero e dalla Polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando “l’imputato non ne possa avere conoscenza” e comunque non oltre la chiusura delle indagini preliminari.

Il comma 2 dello stesso articolo nella sua versione originaria specificava che quando è necessario per la prosecuzione delle indagini, il pubblico ministero può, in deroga a quanto previsto dall’art. 114 c.p.p., consentire  la pubblicazione di singoli atti o parti di essi.

Il d.lgs. n. 188 interviene sul secondo comma dell’art. 329 c.p.p. specificando che la pubblicazione di singoli atti relativi alle indagini preliminari potrà per il futuro essere eccezionalmente consentita dal Pubblico Ministero, solo quando ciò sia “strettamente” necessario per la prosecuzione delle indagini stesse.

L’aggiunta dell’avverbio “strettamente” appare conforme allo spirito complessivo del decreto e all’orientamento restrittivo che lo ispira, richiamando il Pubblico Ministero ad un maggior rigore nell’espletamento della valutazione della necessità della pubblicazione e ad un uso più responsabile dello strumento in questione[27].

Infine, un ultimo intervento ha riguardato l’inserimento di nuove forme di tutela del diritto dell’imputato di presenziare libero in udienza.

L’art. 474 c.p.p. prevede che l’imputato assista all’udienza libero nella persona, anche se detenuto, salvo che in questo caso siano necessarie cautele per prevenire il pericolo di fuga o di violenza.

Il d.lgs. n. 188 aggiunge all’articolo in esame il comma 1-bis nel quale è previsto che “Il giudice, sentite le parti, dispone con  ordinanza l’impiego delle cautele di cui al comma 1. È comunque garantito  il diritto dell’imputato e del difensore di consultarsi  riservatamente, anche  attraverso  l’impiego  di  strumenti   tecnici   idonei,   ove disponibili. L’ordinanza è revocata con le  medesime  forme  quando sono cessati i motivi del provvedimento».

La disposizione costituisce attuazione dell’art. 5 della direttiva europea che, nell’ottica di garantire la più ampia tutela al principio della presunzione d’innocenza, ritiene che un ruolo importante svolga anche l’immagine dell’indagato/imputato offerta all’opinione pubblica. In questo senso è importante che l’indagato/imputato non sia presentato come colpevole in tribunale o in pubblico “attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica”, a meno che tali misure si “rivelino necessarie per ragioni legate al caso di specie, in relazione alla sicurezza o al fine di impedire che gli indagati o imputati fuggano o entrino in contatto con terzi”.

L’ordinamento italiano era già conforme alla disposizione europea sotto questo profilo, poiché l’art. 474 c.p.p., come si è visto, già prevede che l’imputato compaia libero nella persona in udienza, anche se detenuto, salve le eventuali cautele che debbano essere disposte per ragioni di sicurezza o per evitarne la fuga.  La modifica della norma introdotta dal d.lgs. n. 188 ha quindi la funzione per un verso di rafforzare il principio già espresso dalla prima parte della norma e, per altro verso, di specificare l’iter che il giudice dovrà seguire per adottare una limitazione della libertà personale dell’imputato in udienza. Tale misura, proprio perché eccezione alla regola della comparizione in assenza di vincoli, potrà essere disposta dal giudice con ordinanza solo previa audizione preventiva delle parti che dovranno interloquire in merito.

La norma specifica poi che, quand’anche il giudice ritenesse prioritaria l’adozione di una misura di coercizione fisica questa non potrebbe mai incidere in negativo sull’esercizio del diritto di difesa dell’imputato e menomare il suo diritto “a consultarsi riservatamente” con il difensore.

6. Il nodo irrisolto: il rapporto tra il processo penale mediatico e la presunzione di innocenza

Pur con le criticità di cui si è dato conto nel corso della trattazione è innegabile che il decreto legislativo in commento rappresenti il precipitato di un’iniziativa legislativa tesa a rafforzare la tutela dell’imputato nel processo, mirando ad escludere improprie anticipazioni di un giudizio di colpevolezza eventualmente espresso dall’autorità.

Si è però già anticipato come il d.lgs. n. 188 non affronti affatto la questione dei rimedi da approntare per le violazioni della presunzione di innocenza determinate dal c.d. processo penale mediatico che, come accennato nel par. 2, costituiscono aggressioni esterne al processo penale che vulnerano – forse anche di più[28] rispetto alle dichiarazioni eventualmente rese dalle autorità – la presunzione di innocenza.

Per rendersi conto della gravità del potenziale pregiudizio che il processo mediatico ed una informazione giudiziaria distorta sono in grado di produrre alla sfera dell’indagato/imputato, si pensi al discredito sociale di cui lo stesso sarà vittima, ai riverberi sulla sua sfera privata e familiare, ai pregiudizi reputazionali, ai riflessi negativi in ambito professionale ed infine alle  ripercussioni politiche ed elettorali.

Non possono dunque non cogliersi le serie lacune di un intervento normativo che detta rigide regole di comportamento per l’autorità pubblica ed in particolare per le procure della Repubblica, non contemplando affatto il non infrequente caso in cui siano invece gli organi di stampa ad indicare anticipatamente un individuo come colpevole. Si ritiene pertanto che sialegittimo (e doveroso) pretendere che anche nell’esercizio del diritto di cronaca giudiziaria[29] (riconosciuto tanto a livello nazionale dall’art. 21 Cost., quanto a livello sovranazionale dall’art. 10 C.E.D.U., ma anche dall’art. 11 Carta dir. fond. UE), ci si attenga al rigoroso rispetto della presunzione di innocenza, senza che una tale posizione faccia gridare ai complotti volti a restringere il diritto all’informazione.

La collettività vanta infatti il diritto di conoscere gli sviluppi delle vicende giudiziarie non coperte da segreto (anche per esercitare un controllo democratico sull’operato della magistratura[30]), ed un tale diritto non potrà dirsi di certo presidiato, ma al contrario vulnerato, qualora si offra una rappresentazione dei fatti oggetto di un procedimento o processo penale, non obiettiva e arricchita, se del caso, anche da informazioni inconferenti rispetto all’accusa o che riguardano la sfera privata dell’indagato/imputato.

A distanza di quasi cinquant’anni sembrano, pertanto, quanto mai attuali le parole di chi scriveva che «la forza di pressione della quale il c.d. quarto potere dispone è enorme (…). È di tutta evidenza che in un paese civile l’imputato, con una norma costituzionale che lo presume innocente sino alla condanna definitiva, abbia il diritto di non essere giudicato in anteprima, per usare un termine che abbassa la giustizia a spettacolo cinematografico, dalla stampa. Il diritto di cronaca è un conto, ma il diritto-dovere di giudicare è dei giudici e non dei gazzettieri», concludendo che «finché il legislatore non metterà il dito, anzi il bisturi, su questa purulenta piaga sociale e di costume, il linciaggio morale del cittadino sub iudice sarà impunito, e la presunzione di innocenza vana ed inutile formula»[31].

E’ quindi evidente che un intervento normativo che intenda affrontare con serietà il complesso tema della tutela della presunzione d’innocenza, non può limitarsi a dettare le rigide regole comportamentali per i magistrati, le cui condotte sono peraltro già assistite da severi sanzioni disciplinari connesse al rilascio di informazioni inerenti i procedimenti trattati – di cui si è dato conto brevemente nei precedenti paragrafi – affidandosi, invece, con riferimento al ruolo svolto dai mezzi d’informazione nella diffusione di notizie giudiziarie, alla deontologia[32] del singolo giornalista e al sistema sanzionatorio esistente (norme ordinarie in tema di diffamazione, la contravvenzione ex art. 684 c.p. in caso di violazione dei divieti di pubblicazione prescritti dal codice, nonché il delitto di illecito trattamento di dati, di cui all’art. 167 T.U. Privacy)[33].

Riteniamo tuttavia che non sarebbe stato raggiunto l’obiettivo di una tutela rafforzata della presunzione d’innocenza nemmeno puntando all’introduzione di una ulteriore fattispecie incriminatrice, come voluto da alcuni,   che sanzioni il comportamento del giornalista lesivo della presunzione d’innocenza.

Sarebbe stato invece opportuno prevedere, nel caso di violazione della presunzione d’innocenza da parte dei mezzi d’informazione, più efficaci sanzioni di tipo amministrativo, quali misure interdittive, pecuniarie e concretamente ripristinatorie, che – eventualmente anche sulla scorta di una normazione secondaria affidata alle Autorità amministrative indipendenti (Autorità garante per le comunicazioni[34] e Garante per la protezione dei dati personali[35]) – sembrano rappresentare l’unico strumento idoneo a fungere da concreto deterrente per condotte violative della presunzione di innocenza, poste in essere dagli organi di stampa.


[1] Così BECCARIA, Dei delitti e delle pene (1764), Milano, 2006, 60.

Per una approfondita analisi della presunzione di innocenza v. DOMINIONI, Il secondo comma dell’art. 27, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca, Rapporti civili. Artt. 27-28, Bologna – Roma, 1991, 162 ss

[2] Imprescindibile per l’analisi dei lavori dell’Assemblea costituente, GHIARA, Presunzione di innocenza, presunzione di non colpevolezza e formula dubitativa anche alla luce degli interventi della Corte costituzionale, in

Riv. it. dir. proc. pen., 1974, 72 ss.

[3] Come noto, al pensiero della scuola classica, che vedeva nel principio un imprescindibile baluardo di tutela della posizione dell’imputato (cfr. CARRARA, Il diritto penale e la procedura penale, in Opuscoli di diritto criminale, Prato, 1881, 31), si contrapponeva l’elaborazione della scuola positiva che, al contrario, si fondava sulla convinzione che la presunzione «infiacchisce l’azione punitiva dello Stato» nell’ambito di un processo focalizzato sulla funzione di difesa sociale (sono le parole di GAROFALO, La detenzione preventiva, in Scuola positiva, II, Torino, 1892, 119).

Infine, ad avviso della scuola tecnico-giuridica propria dell’ideologia fascista, il principio doveva essere escluso dal codice del 1930: nella Relazione al progetto preliminare, infatti, si legge che esso era considerato alla stregua di una «stravaganza derivante da quei vieti concetti, germogliati dai principi della rivoluzione francese, per cui si portano ai più esagerati e incoerenti eccessi le garanzie individuali», cfr. Relazione prog. prel. c.p.p. 1930, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, VIII, Roma, 1929, 22.

[4] V. LEONE, Intervento all’Assemblea costituente, sed. pom. 27 marzo 1947, in La Costituzione della Repubblica nei lavori dell’Assemblea costituente, Roma, 1970, 701 «la Commissione, come ho già detto, si è posta giustamente nel mezzo, stabilendo la non presunzione di colpevolezza fino al momento della sentenza di condanna definitiva; e qui «definitiva» è ben detto, perché il principio deve investire tutto il rapporto processuale, fino a quando la sentenza sia diventata irrevocabile, sia passata in giudicato, stabilendosi quindi l’estinzione dell’azione e del rapporto processuale. È necessario che questa presunzione si tenga ferma; presunzione necessaria, sì, perché, mentre il principio di innocenza era di natura romantica, il principio attuale costituisce un’espressione di alcune esigenze concrete; ed in particolare dell’esigenza che sia mantenuta la regola in dubio pro reo, e siano bandite le presunzioni nel campo del processo penale, e di una ulteriore esigenza diretta a delimitare la carcerazione preventiva»..

[5] V. ILLUMINATI, Presunzione di non colpevolezza, in Enc. giur. Treccani, XXIV, Roma, 1991, 1 ss., ha osservato che in effetti la scelta di una soluzione intermedia garantiva un più ampio margine di compatibilità dell’art. 27 comma 2 Cost. con taluni istituti processuali altrimenti in contrasto rispetto alla presunzione di innocenza rigorosamente enunciata; secondo MARZADURI, Considerazioni sul significato dell’art. 27, comma 2, Cost.: regola di trattamento e regola di giudizio, in Processo penale e Costituzione, a cura di Dinacci, Milano, 2010, 311, non si tratta di una garanzia “attenuata”, bensì del segnale inequivocabile del cambiamento dei rapporti tra individuo e autorità.

[6] MASSA, Sulla legittimità costituzionale degli artt. 684 e 164 c.p.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 1964, 308; nonché PAULESU, Presunzione di non colpevolezza, in Dig. disc. pen., IX, 1995, 677 ss.; in senso critico rispetto a questa ricostruzione, v. invece MANTOVANI, I limiti della libertà di manifestazione del pensiero in materia di fatti criminosi, con particolare riguardo alle due sentenze della Corte costituzionale sul divieto di pubblicazione di determinati atti processuali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1966, 657.

[7] La Consulta, ben consapevole della necessità di operare un’estensione extraprocessuale della garanzia nei termini sopra indicati, non ha mancato di intervenire sul punto in analisi.

V. per es. Corte cost., sent. 10 marzo 1966, n. 18, in Giur. cost., 1966, 173, con nota di BAROSIO, Il divieto di pubblicare atti e documenti relativi ad una istruzione penale e la sua compatibilità con gli artt. 3 e 21 Cost., nella quale la Corte ha affermato che «nei confronti dell’imputato la divulgazione a mezzo della stampa di notizie frammentarie, ancora incerte perché non controllate, e per lo più lesive dell’onore, può essere considerata in contrasto col principio, garantito dall’art. 27, secondo comma, della Costituzione, della non colpevolezza fino a quando non sia intervenuta sentenza di condanna».

La decisione è richiamata da TARLI BARBIERI, Libertà di informazione e processo penale nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte Edu: problemi e prospettive, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 3, 2017, spec. 35-35, che, a sostegno dell’interpretazione estensiva della presunzione di innocenza, ne afferma una possibile mutazione «da garanzia destinata ad operare non soltanto sul piano processuale a diritto della personalità, inteso cioè come diritto a non essere presentato come colpevole prima che la sua responsabilità sia stata legalmente accertata».

[8] Dir. 9 marzo 2016 n. 2016/343/UE, in G.U.U.E., 11 marzo 2016 L 65, 1, sulla quale, in termini generali, v. CANESCHI, L’imputato, Milano, 2021, 83 ss.

[9] L. 25 ottobre 2017 n. 163, Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2016-2017, in G.U., 6 novembre 2017, n. 259, 1 ss.

[10] Commissione europea [COM (2021) 144 fin.], Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio sull’attuazione della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, 31 marzo 2021.

[11] L. 22 aprile 2021 n. 53, Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2019-2020, in G.U., 23 aprile 2021, n. 97, 1 ss.

[12] Sul tema v.  Giostra, voce Processo penale mediatico, in Enc. dir., Annali, X, Milano, 2017, 646 ss.; Manes, La “vittima” del “processo mediatico”: misure di carattere rimediale, in Dir. pen. contemporaneo, 2017; Voena, Processo pubblico e “mass media”: il passato e il presente, in Leg. pen., 2020, 9 ss. Sulle distorsioni del processo mediatico v. anche C. Conti (a cura di), Processo mediatico e processo penale. Per un’analisi critica dei casi più discussi da Cogne a Garlasco, Milano, 2016).

[13] La fenomenologia del c.d. “processo penale mediatico” è oggetto di numerosi contributi: v., ex multis, GIOSTRA, voce Processo penale mediatico, in Enc. dir., Annali, X, 2017, 646 ss.

Sul tema v. anche G. Canzio, Un’efficace strategia comunicativa degli uffici giudiziari vs. il processo mediatico, Diritto penale e processo 12/2018, 1537 e ss

[14] Nello stesso senso v. KOSTORIS, Rapporti tra soggetti processuali e mass media, in Processo penale e informazione, cit., 115.

[15] G. Caneschi, Processo penale mediatico e presunzione di innocenza: verso un’estensione della garanzia?, in Arch. pen. web, 29.10.2021, p. 15

[16] Per una prima attuazione dell’articolato normativo in parola v. la direttiva della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Perugia https://www.sistemapenale.it/it/documenti/direttiva-procura-perugia-d-lgs-2021-188-comunicazioni-presunzione-innocenza

[17] Per una analisi di tale disciplina v. S. Bologna – Il processo mediatico e la comunicazione esterna degli uffici giudiziari https://www.unicost.eu/il-processo-mediatico-e-la-comunicazione-esterna-degli-uffici-giudiziari/

[18] Si pensi al fatto che la complessità delle indagini rende quasi sempre necessario far intervenire nel corso della conferenza stampa anche il sostituto procuratore assegnatario del procedimento.

[19] Vale la pena rammentare come si tratti di attività disciplinarmente sanzionate dalla norma che preclude a tutti i magistrati di «sollecitare la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio ovvero il costituire e l’utilizzare canali informativi personali riservati o privilegiati» (così l’art. 2, comma 1, lett. a), d.lgs. 23 febbraio 2009 n. 109, che qualifica tali attività come illeciti disciplinari commessi nell’esercizio delle funzioni).

[20] I sostenitori di tale proposta ritengono che la liberalizzazione dell’accesso agli atti non più segreti elimina in radice il passaggio – o la presunta dipendenza – dalle fonti più o meno interessate, responsabilizzando sia la magistratura nella redazione dei provvedimenti e nella selezione degli atti da allegare, sia i giornalisti, posti tutti sullo stesso piano di fronte alle carte depositate e “obbligati” a misurarsi con l’oggettività “delle carte” e con i doveri deontologici sulla pubblicazione del solo materiale di interesse pubblico. Inoltre, indagati, testimoni, vittime sarebbero più tutelati nella loro dignità di persone da un sistema di regole trasparenti piuttosto che da “brandelli” di notizie.

Sul tema v. anche http://www.questionegiustizia.it/articolo/intercettazioni_e-non-solo_la-sfida-dell-accesso-diretto-dei-giornalisti-agli-atti-depositati-non-piu-segreti_06-07-2017.php

[21] V. da ultimo Cass. pen. Sez. IV Sent., 08/04/2021, n. 16158

[22] Per una proposta alternativa v. ROSSI, Il diritto a non essere “additato” come colpevole prima del giudizio. La direttiva UE e il decreto legislativo in itinere, in Quest. giust., 3 settembre 2021.

L’A. propone ad esempio di prescrivere che tutti i provvedimenti diversi da quelli di merito menzionino la fase in cui il procedimento pende, sottolineando in premessa che il convincimento e le motivazioni del giudice hanno in tale fase un carattere solo relativo e sono suscettibili di smentita e di correzione nel successivo corso del procedimento

[23] L’art. 7, par. 1, della direttiva prevede infatti che “Gli Stati membri assicurano che agli indagati e imputati sia riconosciuto il diritto di restare in silenzio in merito al reato che viene loro contestato”. Il paragrafo 5 specifica il senso del principio contemplato dal paragrafo 1, stabilendo che “L’esercizio da parte degli indagati e imputati del diritto al silenzio o del diritto di non autoincriminarsi non può essere utilizzato contro di loro e non è considerato quale prova che essi abbiano commesso il reato ascritto loro”.

[24] Corte EDU causa John Murray c. Regno Unito (1996).

[25] Cfr. anche Corte EDU, 26.9.2006, Goçmen c. Turchia e Corte EDU, 20.10.1997 Serves c. Francia. V. anche Guida sull’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo della CEDU, paragrafo 198.

[26] Cass. Pen. sez. IV, 02/07/2021, n. 34367; 28/10/2020 n.33425;  27/04/2018 n. 24439; Sez. III, 10/06/2020 n.19063; e Sez. 3, n. 44090 del 09/11/2011.

[27] La modifica è dovuta all’esigenza di attenersi all’articolo 4, paragrafo 3, della Direttiva, come del resto aveva sottolineato in modo specifico la Commissione europea («L’obbligo stabilito al paragrafo 1 di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli non impedisce alle autorità pubbliche di divulgare informazioni sui procedimenti penali, qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico»).

[28]Una ricerca condotta dall’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle Camere Penali Italiane ha dimostrato che, nel processo penale mediatico, il giudizio sia tendenzialmente colpevolista perché la convinzione che il responsabile di un determinato crimine sia stato individuato è in grado di assicurare un’audience più alta: cfr. L’informazione giudiziaria in Italia. Libro bianco sui rapporti tra mezzi di comunicazione e processo penale, Pisa, 2016

[29] Sul tema, v. PALADIN, Problemi e vicende della libertà di informazione nell’ordinamento giuridico italiano, in La libertà di informazione, a cura di Paladin, Torino, 1979, 10 ss.; BARILE, voce Libertà di manifestazione del pensiero, in Enc. dir., XXIV, Milano, 1974, 434.

[30] La pubblicità nell’amministrazione della giustizia è un formidabile strumento di democrazia e nessun dubbio può sussistere sull’effettiva rilevanza e legittimità di un’informazione giudiziaria puntuale, obiettiva e continente, che concorra appunto a realizzare quel canone di pubblicità su cui il nostro processo penale si fonda.

Cfr. GROSSO, Segretezza e informazione nel nuovo processo penale, in Pol. dir., 1990, 77; nonché GIOSTRA, I rapporti tra giustizia penale e informazione nell’ottica delle valutazioni costituzionali, in Giur. cost., 1984, 1294.

[31] BELLAVISTA, Considerazioni sulla presunzione di innocenza (1973), in Studi sul processo penale, IV, Milano, 1976, 72

[32] Anche se il Testo unico dei doveri del giornalista, all’ art. 8, punto 1, ribadisce il rispetto della presunzione di innocenza, (a cui si aggiunge il dovere di dare notizia, «con appropriato rilievo», delle assoluzioni e dei proscioglimenti), giova osservare come, sotto il profilo soggettivo, non tutti quelli che operano nel settore dell’informazione giudiziaria sono giornalisti.

Appare pertanto arduo sostenere un’applicazione in via analogica delle regole deontologiche che informano la professione giornalistica a chiunque svolga, de facto e senza iscrizione all’albo, funzioni equipollenti.

Al più si potrebbe pensare di vietare ai soggetti non professionisti di svolgere attività giornalistica in relazione ai processi penali: in tal senso v. RIVIEZZO, L’ingiusto processo mediatico, MediaLaws – Rivista dir. media, 2018, 3, 73, consultabile all’indirizzo internet www.medialaws.eu.

[33] Sul tema v. TURCHETTI, Cronaca giudiziaria e responsabilità penale del giornalista, Roma, 2014, 203 ss.

[34] Il 21 maggio 2009, in ottemperanza della delibera 13/08/CSP del 31 gennaio 2008 dell’Autorità garante per le comunicazioni, è stato sottoscritto dalle principali emittenti televisive nazionali, il Codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive, contenente una serie di disposizioni finalizzate a garantire la correttezza dell’informazione e il rispetto della presunzione di innocenza, ma il documento è rimasto pressoché inattuato.

Sul contenuto del Codice, v. ZENO-ZENCOVICH, Il codice di autodisciplina sui “processi in TV”, in Il rapporto tra giustizia e mass media. Quali regole per quali soggetti, Atti del Convegno (Bari, 4 luglio 2008), a cura di Resta, Napoli, 2010, 163 ss.

[35] L’attività svolta dal Garante in questo ambito è precipuamente finalizzata alla verifica del rispetto delle regole sul trattamento dei dati personali nel contesto dell’informazione giudiziaria, effettuata non solo tramite i canali “tradizionali”, ma anche da parte degli utenti dei social network

V. da ultimo STANZIONE, Tecnica, protezione dei dati e nuove vulnerabilità. Relazione del Presidente 2020, 2 luglio 2021, spec. 35, consultabile all’indirizzo internet www.garanteprivacy.it.

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di Filomena Capasso, Magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la Costituzione

SOMMARIO: 1. Autore e vittima del reato nella evoluzione del pensiero relativo agli elementi dell’illecito penale, per addivenire al concetto di pena intesa anche come riparazione. – 2. La giustizia riparativa. Una disciplina organica con la delega del 23 settembre 2021 per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari. – 3. Gli strumenti della giustizia riparativa. La mediazione penale. – 4. La mediazione penale: una nuova concezione di politica criminale. – 5. La semilibertà e la detenzione domiciliare: da misure alternative tout court a pene sostitutive. – 6. La portata riparatoria del lavoro di pubblica utilità nei confronti della collettività e del singolo leso dal reato. – 7. Conclusioni. La delega in materia di giustizia riparativa: un’occasione da cogliere.

1. Autore e vittima del reato nella evoluzione del pensiero relativo agli elementi dell’illecito penale, per addivenire al concetto di pena intesa anche come riparazione

  “Se derubi un altro, derubi te stesso” (Kant, La Metafisica dei Costumi).

In questa concezione filosofica classica del reato e della pena, si racchiude l’essenza della emarginazione della figura della vittima del reato, per lungo tempo, nella struttura dell’illecito penale.

In base ad una concezione eminentemente collettivistica del reato e della tutela del relativo bene giuridico, la figura della vittima del reato è stata infatti per lungo tempo posta in secondo piano, nelle costruzioni dottrinarie, legislative e giurisprudenziali, laddove solo il “bene giuridico” è stato il faro delle scelte di politica criminale con una conseguente marcata caratterizzazione in senso statale del concetto di pena (Albin Eser, Bene Giuridico e vittima del reato, 1997, cit., pag. 1065). Peraltro, già nella teoria del patto sociale elaborata da Locke, il reato viene inteso come offesa alla collettività, che supera e ingloba dunque, l’offesa della vittima in concreto.

   Specchio nella pratica della evoluzione del pensiero filosofico tradizionale in tema di struttura del reato e sulle finalità della pena, sono state le scelte di politica criminale attuate fino a questo momento, che hanno visto al centro dell’attenzione quasi esclusivamente il bene giuridico tutelato e l’autore del reato, anche nei predicati di risocializzazione dello stesso, collocando l’offesa arrecata con la commissione di un illecito penalmente rilevante, nell’ambito della lesione di un bene giuridico, piuttosto che un diritto soggettivo.

   Dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso, tuttavia, si è registrato un cambiamento di tendenza verso la riscoperta della vittima del reato nella struttura stessa dell’illecito, anche se insieme a questa rivalutazione si sono sollevati dubbi sul fatto che tale cambio di rotta nel pensiero filosofico tradizionale potesse essere  veramente teso a migliorare le condizioni della persona lesa dal reato, in quanto si è osservato che i meccanismi di riparazione portano vantaggi al reo in termini di mitigazione del trattamento sanzionatorio, di gran lunga superiori a quelli riservati alla vittima.

   Dalla nuova concezione del reato come illecito- che comporta sia l’offesa di un diritto collettivo che di un diritto soggettivo- consegue quella in base alla quale la sanzione ha non solo una finalità pubblicistica, general e special preventiva, rieducativa e retributiva ma può arrivare ad averne anche una di natura riparativa dell’interesse soggettivo leso con la commissione del delitto.

2. La giustizia riparativa. Una disciplina organica con la delega del 23 settembre 2021 per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari.

Fatta questa breve premessa filosofica sulla evoluzione della figura del ruolo della vittima del reato nella struttura dell’illecito penale nel pensiero occidentale, occorre inquadrare lo stato dell’arte con riferimento alla disciplina della giustizia riparativa nel nostro ordinamento, con precipua attenzione alla fase esecutiva del procedimento penale, in coerenza con gli obiettivi di questo studio.

   Nell’ordinamento italiano, dopo pochi interventi legislativi frammentati riguardanti la giustizia riparativa- specie nei settori del processo minorile e nei reati di competenza del giudice di pace, nonché con l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova anche per gli adulti, introdotto con la norma di cui all’art. 168 bis c.p. e nella esecuzione della pena detentiva- con la legge delega del 23 settembre 2021 il Parlamento ha conferito al Governo la delega per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari.

   La legge delega suddetta viene varata dopo l’occasione mancata, anche in materia di giustizia riparativa, rappresentata dal tentativo del precedente Governo Conte di introdurre una riforma del processo penale in tema di giustizia riparativa, compendiata nella bozza delle legge delega elaborata dal precedente ministro della giustizia Bonafede, avente come obiettivo  l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le Corti d’Appello, mai divenuta legge.

   Il lavoro di studio ed elaborazione già svolti non sono andati però completamente persi, in quanto la Commissione incaricata dal Ministro Cartabia di redigere un progetto di riforma del processo penale anche con riguardo alla giustizia riparativa, presieduta dal consigliere Giorgio Lattanzi, si è inserita in un cuneo di ideale continuità con il precedente percorso di elaborazione e studio, avendo preso come base per i propri lavori proprio quella bozza. 

   La previsione peraltro soddisfa quanto da tempo richiesto a livello sovranazionale: con la risoluzione del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite 2002/12, preceduta dal progetto preliminare contenuto nella risoluzione 2000/14, erano stati fissati al paragrafo 20 i Principi base circa l’uso dei programmi di Giustizia riparativa in diritto penale (Basic Principles on the Use of Restorative Justice Programmes in Criminal Matters), con il quale gli Stati erano stati invitati ad elaborare politiche criminali volte allo sviluppo della giustizia riparativa.  

   L’aspirazione di rispondere alle istanze sovranazionali con riferimento alla giustizia riparativa, oltre che di introdurre una disciplina organica della materia nel nostro ordinamento, viene anche messa in evidenza nella stessa formulazione letterale dell’art. 18 della suddetta legge, con il quale viene prescritto che i decreti legislativi delegati dovranno recare “una disciplina organica della giustizia riparativa quanto a nozione, principali programmi, criteri di accesso, garanzie, persone legittimate a partecipare, modalità di svolgimento dei programmi e valutazione dei suoi esiti, nell’interesse della vittima e dell’autore del reato”, nel rispetto della normativa europea (direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25/10/2012), nonché dei principi sanciti al livello internazionale.

    L’intento della riforma è evidentemente quello di superare l’attuale assetto frammentario della disciplina della giustizia riparativa, caratterizzato da elementi di riparazione sparsi all’interno del nostro ordinamento, per arrivare alla elaborazione di un modello organico di giustizia riparativa, complementare a quello attualmente predominante di giustizia punitiva, che vede al centro del sistema la pena carceraria.

   La parte della riforma relativa alla giustizia riparativa, come risulta dalla stessa rubrica della legge, appare dunque con tutta evidenza la parte più innovativa del progetto introdotto con la legge delega n. 123/2021, il fiore all’occhiello della riforma, con l’ambiziosa finalità di determinare un cambio di passo rispetto al populismo penale imperante negli ultimi anni (Eleonora A.A Dei– Cas pag.  3 Archivio penale 2021 n. 3).

   La finalità di dare una sistemazione organica alla materia della giustizia riparativa nel nostro ordinamento, si coniuga con l’intento di scardinare l’idea della ineluttabilità del sistema penale carcerario e di recuperare centralità alla figura della vittima del reato, intento che trapela, tra l’altro, anche dalla definizione delineata in linea di principio nella legge delega  del concetto di vittima stessa- da intendersi non solo come la persona che ha avuto una danno diretto dall’illecito penale- cd. vittima primaria– ma anche i familiari della persona deceduta in conseguenza del reato- cd. vittime secondarie (Mannozzi, La Giustizia senza spada. Uno studio comparato su giustizia riparativa e mediazione penale, p. 271).

3. Gli strumenti della giustizia riparativa. La mediazione penale.

Tra i principi della delega in commento, vi è quello di prevedere la possibilità di accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento penale e durante la esecuzione della pena.

  Il forte rilievo impresso alla giustizia riparativa dal Legislatore è dunque evidenziato dalla previsione della possibilità di accedere a programmi di giustizia riparativa in ogni fase e grado del procedimento penale, ovvero, sin dal momento delle indagini preliminari, per poi poter aderire a tale scelta in ogni fase successiva del procedimento penale, fino al momento della esecuzione della pena.

    Si amplia quindi notevolmente il concetto di giustizia riparativa, ricomprendendo in esso sia strumenti che in realtà rientrano nell’alveo di quelli premiali e con indubbia valenza deflattiva del procedimento penale ( come ad esempio la messa alla prova), sia strumenti effettivamente tesi a ricomporre la doppia frattura sociale verificatasi con la commissione di un reato, anche in fase esecutiva della pena, tra autore dell’illecito con la collettività intera e tra l’autore dell’illecito con la vittima del reato. Quando si parla di giustizia riparativa, infatti, è necessario distinguere la “pratiche ed i metodi della giustizia riparativa” dalle “sanzioni riparatorie” (Palazzo, Crisi del carcere e culture di riforma , Diritto penale Contemporaneo 4/2017, cit., pag. 10).

   Le sanzioni riparatorie possono essere considerate come una risposta dell’ordinamento alla commissione di un reato, alternativa alla pena detentiva classicamente intesa, ovvero come pene autonome sostitutive o alternative alla detenzione, previste a livello edittale dal Legislatore.

   Pur potendosi auspicare che il paradigma della giustizia riparativa conservi una duttilità anche dopo la esplicazione della delega e che non venga ingabbiato in elenchi tassativi, è indubbio che uno degli strumenti principali di tale paradigma, rientrante nella categoria delle pratiche e metodi della giustizia riparativa, espressamente menzionato dalla cd. riforma Cartabia e già molto sperimentato nei paesi anglosassoni, è quello della mediazione.

   I criteri della delega in tema di mediazione, sono informati soggettivamente al principio della incoercibilità, nel senso che l’accesso al programma in questione può avvenire solo “sulla base del consenso libero e informato dell’autore e della vittima del reato e della positiva valutazione da parte dell’autorità giudiziaria dell’utilità del programma in relazione ai criteri di accesso”.

     È da rimarcare che il successo della mediazione dipende dalla volontà delle parti di parteciparvi e che il consenso della vittima, in particolare- il cui presupposto, come per l’autore del reato, è una “completa, tempestiva ed effettiva informazione” – è indispensabile per evitare il verificarsi di fenomeni di vittimizzazione secondaria (Mannozzi, La Giustizia senza spada. Uno studio comparato su giustizia riparativa e mediazione penale, cit., pag. 271; Mannozzi- Lodigiani, La Giustizia riparativa. Formanti, parole e metodi, cit., pag. 362).

    Il mediatore deve essere un terzo privo del potere di ius dicere, ovvero del potere decisionale e la formazione professionale dei soggetti preposti a tale compito appare funzionale a garantire che l’istituto trovi concreta operatività nella pratica.

     Tale elemento poi, unito alla predisposizione di una adeguata organizzazione di servizi sul Territorio, garantirà un livello minimo essenziale omogeneo di operatività degli stessi, laddove disparità dovute a inefficienze organizzative e strutturali frustrerebbero a monte la funzionalità dell’istituto.

    Si deve evidenziare che il dato che la delega sottragga la materia in esame alla (ricorrente) clausola di invarianza finanziaria, ma anzi destini allo scopo la somma di euro 4.438.524 annui, a decorrere dall’anno 2022 (come sottolineato da Palazzo, I profili di diritto sostanziale della riforma penale, cit. 14), lascia intravedere una concreta speranza che i principi e criteri enucleati dalla legge delega non verranno esautorati o addirittura esclusi negli atti delegati.

4. La mediazione penale: una nuova concezione di politica criminale.

Quello della mediazione penale si atteggia a strumento duttilissimo che può essere adoperato in ogni fase del procedimento penale (come anche quello della messa alla prova di cui all’art. 22 lett. a) della legge delega, nonché la causa di estinzione di alcune contravvenzioni di cui al successivo art. 23- da individuare concretamente in sede di attuazione della delega- condizionata al tempestivo adempimento di apposite prescrizioni ed al pagamento di una somma di denaro, da parte dell’imputato, con possibilità di lavoro di pubblica utilità in alternativa al pagamento di una somma di denaro; in tali casi  il procedimento penale rimane sospeso dal momento della iscrizione della notizia di reato ex art. 335 c.p.p., fino al momento in cui il Pubblico Ministero riceve comunicazione dell’adempimento o dell’inadempimento delle prescrizioni e del pagamento della somma di denaro e la fissazione di un termine massimo per la comunicazione stessa).

    Con particolare riferimento alla fase della esecuzione della pena, che, qualora la delega prenda effettiva forma con i decreti delegati, può avviarsi davvero a diventare la extrema ratio della politica criminale, la mediazione penale può costituire un efficace strumento da coniugare con le esigenze di risocializzazione della pena e con il perseguimento di obiettivi di prevenzione generale e speciale (Eusebi, Dibattiti sulle teorie della pena e “mediazione”, cit., pag. 81 e ss).

     Se in base alla concezione tradizionale, nella fase della esecuzione della pena l’attenzione è stata sempre focalizzata sul condannato, con le aspirazioni della pena alla sua risocializzazione ovvero alla rieducazione del reo attraverso il percorso di espiazione, con l’attuazione dei principi della legge delega in parola, specie con la mediazione penale, l’evidenza in sede di esecuzione della pena si sposta anche sulla vittima del reato, la quale diviene protagonista nel percorso di riconciliazione del condannato, a seguito del conflitto generato nel tessuto sociale in seguito alla commissione del reato.

    Con la giustizia riparativa attraverso l’istituto della mediazione penale, si potrebbe anzi addivenire ad una nuova concezione di risocializzazione del condannato, con una politica criminale che sia volta alla ricostituzione dei legami sociali spezzati dalla commissione del reato, laddove la versatilità dello strumento potrebbe garantire una tipizzazione del trattamento penitenziario da modellare non solo sulla storia personale del condannato, ma anche della vittima del reato. 

    Gli innegabili rischi di strumentalizzazione dell’istituto da parte del reo, il quale cioè potrebbe compiere la scelta di ricorrere a strumenti di giustizia riparativa- in generale- e alla mediazione penale in particolare, al fine di evitare trattamenti sanzionatori più severi o modalità della pena più gravose, possono essere ridimensionati ricorrendo a meccanismi di verifica in concreto dell’impatto degli istituti a livello empirico, come sui livelli di recidiva e di deflazione dei procedimenti penali.

5. La semilibertà e la detenzione domiciliare: da misure alternative tout court a pene sostitutive

Ancora con riguardo alla pena, la legge delega prevede un ventaglio di pene sostitutive delle pene detentive brevi di cui alla l. 689/1981, individuate nella semilibertà, la detenzione domiciliare, il lavoro di pubblica utilità, la pena pecuniaria.

   La dirompente novità della cornice legislativa delineata con la legge delega in commento, sta nel fatto che viene sottratta centralità alla pena carceraria, in quanto la semilibertà e la detenzione domiciliare non potranno più essere catalogate tout court alla stregua di misure alternative alla detenzione (dalla cui disciplina la delega prevede di mutuare la disciplina sostanziale e processuale di cui alla legge n. 354/1975, in quanto compatibile), ma diventano pene sostitutive e potranno essere irrogate sempre prima del passaggio in carcere da parte del condannato, evitando così a monte l’innescarsi di processi di emarginazione dell’individuo detenuto che, oltre ad avere un impatto non positivo sulla recidiva, creano non pochi problemi di ordine sociale, familiare e lavorativo al condannato, nel momento del suo rientro nella società cd. libera, dopo aver espiato una pena carceraria.

   Tali pene costituiscono una categoria sanzionatoria autonoma che non implica alcun passaggio in carcere- a meno che non si verifichi un evento patologico determinato dalla violazione delle relative prescrizioni da parte del condannato- dal momento della previsione edittale, alla irrogazione da parte del giudice, fino ad arrivare al momento della loro esecuzione.

   Tali sanzioni penali evitano a monte- e quindi sempre- il passaggio in carcere, a differenza delle misure alternative alla detenzione, che presuppongono invece la centralità del sistema carcerario e che demandano al giudice di sorveglianza il compito di decidere in sede esecutiva se un condannato può uscire dal circuito carcerario o non deve entrarvi.

   La disciplina organica delle misure alternative alla detenzione- affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà- introdotta con la l. n. 354/1975, ha rappresentato forse l’unica riforma organica della materia penitenziaria fino a questo momento, che ha assicurato un adeguamento costituzionale del nostro sistema penale. Fondate in linea di principio sulla esigenza rieducativa della pena, le misure alternative hanno finito in pratica per essere degli strumenti di tenuta dell’attuale sistema penale incentrato sul carcere, demandando in sede esecutiva al magistrato di sorveglianza le decisioni relative allo sfollamento degli istituti penitenziari.

   I risultati statistici e delle diverse ricerche che consentono di affermare che la espiazione della pena detentiva in misura alternativa, oltre ad avere una efficacia deflattiva sulla popolazione carceraria, hanno soprattutto una incidenza a ribasso sul pericolo di recidiva, consentono di formulare una previsione ottimistica anche sull’impatto ulteriore che le pene sostitutive potranno avere sulla recidiva e sul problema del sovraffollamento carcerario ( cfr. Daniela Ronco, In alternativa. Numeri, tipologie e funzioni delle misure alternative, Torna il Carcere XIII rapporto Antigone, maggio 2017).

   La semilibertà e la detenzione domiciliare, dunque, potranno essere applicate non più in via esclusiva dal Tribunale di Sorveglianza in sede di esecuzione della pena, ma anche dallo stesso giudice di merito direttamente, all’esito del giudizio di cognizione, in sostituzione di una pena detentiva breve, quando egli ritenga che esse possano contribuire alla rieducazione del condannato e siano idonee a contenere il pericolo di recidiva, anche attraverso opportune prescrizioni.

   Con la attuazione della delega quindi, il ricorso a pene edittali non carcerarie finirà per articolare il sistema penale su due piani, carcerario e non: quello delle pene detentive e quello delle pene alternative.

   Vale la pena sottolineare che la previsione di prescrizioni da adempiere a carico del condannato, da parte dell’organo giudicante che irroga la sanzione penale nella forma della semilibertà o della detenzione domiciliare, può servire a coniugare nella fase esecutiva della pena, le esigenze di recupero sociale del condannato con quelle di riparazione del danno subito dalla vittima del reato.

   In base alla sensibilità dell’operatore giuridico, la imposizione di opportune prescrizioni, da modulare a seconda dei casi concreti, potrà valorizzare la dimensione riparatoria della pena nella direzione del ristoro del danno subito dalla persona offesa dal reato, con prestazioni restitutorie o che prevedano addirittura un facere del condannato in suo favore.

   Ulteriore conferma dell’intento del Legislatore di scardinare la concezione della pena detentiva come pena- fulcro dell’intero ordinamento penitenziario, inoltre, è data dalla norma di cui all’art. 17 lett. e) della legge in commento, in cui si conferisce al Governo la delega a disciplinare la possibilità che il giudice di merito, nel pronunciare la sentenza di condanna o di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., possa sostituire la pena detentiva fino a quattro anni con la pena della semilibertà o della detenzione; o, ancora, possa sostituirla anche con il lavoro di pubblica utilità, quando ritenga di doverla determinare nel limite di tre anni e/o con la pena pecuniaria, quando ritenga di dover irrogare una pena detentiva nel limite edittale di un anno.

   Lo scopo di garantire una adeguata corrispondenza tra bene giuridico offeso e misura della pena – in termini di omogeneità e di proporzionalità della risposta sanzionatoria alla violazione – viene garantito dal Legislatore, dunque, attraverso la conversione di una pena carceraria individuata fino ad una certa misura (nella specie: fino a tre o fino a quattro anni), in una pena sostitutiva. In base alla tipologia delle pene sostitutive ed i limiti edittali delle pene detentiva che potranno sostituire, si può prevedere quindi che il loro campo di applicazione riguarderà la fascia di reati di gravità medio- bassa.

   Valenza fortemente riparatoria va inoltre riconosciuta alla previsione in base alla quale, in sede di emanazione di decreto penale di condanna, sia la pena detentiva che quella  pecuniaria, possono essere sostituite dal giudice con quella del lavoro di pubblica utilità, sempreché il condannato non si opponga.

   Si deve sottolineare che la previsione esplicita del lavoro di pubblica utilità- che consiste nella prestazione di un’attività non retribuita in favore della collettività per un tempo determinato- come sanzione sostitutiva di pene detentive brevi, contenuta nella legge delega, dà una valenza generale a tale pena che in precedenza aveva trovato una limitata applicazione ai casi di violazione alle norme del codice della strada, con riguardo quindi ai reati di competenza del giudice di pace.   

6. La portata riparatoria del lavoro di pubblica utilità nei confronti della collettività e del singolo leso dal reato.

Nel lavoro di pubblica utilità, la valenza riparatoria di tale pena si esplica non solo nei confronti della vittima del reato, ma nei riguardi della collettività intera, laddove le concrete prescrizioni imposte in sede esecutiva possono valere a modulare efficacemente la condotta del condannato a fini di riparazione del danno, sia in direzione collettivistica che soggettivistica.

   Lo svolgimento di lavoro di pubblica utilità può dunque essere accompagnato dal risarcimento del danno o da forme di ristoro alternative, oltre alla osservanza di una serie di obblighi relativi alla dimora, alla libertà di spostamento, divieto di frequentare soggetti pregiudicati etc., e si svolge nell’ambito di un programma di trattamento sotto la supervisione dell’Ufficio per la Esecuzione Penale Esterna.

    Con l’istituto della messa in prova, l’imputato viene ammesso sostanzialmente a svolgere un programma di trattamento simile a quello da attuare con il lavoro di pubblica utilità, ma prima della pronuncia della sentenza e sempre sotto la vigilanza dell’Ufficio per la Esecuzione Penale Esterna. Vale la pena di evidenziare comunque che tale istituto durante il giudizio non ha alcuna valenza sanzionatoria, potendosi far rientrare lo stesso piuttosto tra le “pratiche riparatorie”, in quanto si inserisce nella fase della indagini preliminari o in quella del giudizio di cognizione, previa sospensione della stessa e si traduce in programmi a vocazione rieducativa/trattamentale, con qualche innegabile collisione con il principio di innocenza (Cerretto-Mazzuccato, Mediazione e giustizia riparativa tra Consiglio d’Europa e O,N.U.  cit., pag. 775; Mannozzi, La Giustizia senza spada. Uno studio comparato su giustizia riparativa e mediazione penale, cit., pag. 389).

   Così come nel giudizio di sorveglianza viene demandata l’indagine socio familiare sul condannato agli uffici per la esecuzione penale esterna, ai fini della valutazione delle istanze di misure alternative alla detenzione, parallelamente la delega prevede il coinvolgimento di tali uffici nell’espletamento della medesima indagine nel giudizio di cognizione ai fini della eventuale irrogazione di una pena sostitutiva. Infatti, affinché il giudice della cognizione possa applicare la semilibertà e la detenzione domiciliare come sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi nel giudizio di merito, è essenziale il patrimonio conoscitivo apportatogli con la indagine sulla storia familiare e il contesto sociale del condannato- oltre che con le informazioni di polizia sulla pericolosità dello stesso. In base al compendio istruttorio raccolto, riguardante la storia socio familiare del condannato nonché le informazioni di polizia relative ai suoi precedenti, il giudice di merito potrà anche formare un giudizio negativo circa la adeguatezza della pena sostitutiva al contenimento del pericolo di recidiva o al reinserimento sociale del condannato, con conseguente irrogazione della pena detentiva.

   Una netta valenza riparatoria nei confronti della vittima del reato è poi da rinvenire nella previsione in base alla quale, in caso di decreto penale di condanna o di sentenza di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p., l’effettivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità accompagnato dal risarcimento del danno o dalla eliminazione delle conseguenze dannose del reato (ove possibili), comporta la revoca della confisca che sia stata eventualmente disposta.

    L’innegabile effetto positivo per il condannato, consistente nella revoca della confisca eventualmente disposta ai suoi danni, è strettamente connesso al ristoro dei danni ed alla eliminazione delle conseguenze dannose del reato da parte dello stesso, con indubbio beneficio anche per la vittima del reato, almeno in tale ipotesi residuale connessa alla confisca.

   Il giudizio sulla valida espiazione delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi viene poi ricollegata dal Legislatore alla regolare esecuzione delle stesse, assumendo rilievo speculare la eventuale inosservanza grave o reiterata delle relative prescrizioni.

    Tale inosservanza comporta la revoca della sanzione sostitutiva e- per la parte residua- la conversione nella pena detentiva sostituita o in un’altra pena sostitutiva.

    Qualora le prescrizioni imposte riguardino forme di riparazione del danno nei confronti della vittima del reato, al mancato ristoro nei confronti di quest’ultimo, dovuto ad un comportamento volontario del condannato, conseguirà quindi la grave sanzione della revoca della sanzione sostitutiva e la conversione della stessa in pena detentiva.

   In questi casi dunque, il comportamento del condannato, volto  a eseguire puntualmente la pena così come irrogata, ovvero con tutte le modalità prescrittive eventualmente (ed opportunamente) imposte dal giudice anche in un’ottica riparatoria, viene agganciato anche alla figura della vittima e al relativo interesse individuale- ovviamente parte di quello generale- la quale acquista una centralità mai avuta precedentemente nella costruzione dell’illecito penale e nel suo successivo dispiegarsi nella fase di esecuzione della pena.

7. Conclusioni. La delega in materia di giustizia riparativa: un’occasione da cogliere.

Dopo il fallimento del progetto di riforma “Bonafede”, la legge delega del 23 settembre 2021 per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, costituisce una imperdibile nuova occasione, per sperimentare una innovativa politica criminale, che si dispieghi non solo in un’ottica retributiva e rieducativa del condannato, ma che miri altresì alla ricostituzione dei legami sociali spezzati con la commissione del reato.

   La giustizia riparativa deve trovare affermazione come modello alternativo ma non sostitutivo della giustizia punitiva, dunque.

   La crisi del modello tradizionale penale fondato sul carcere impone di tentare nuove strade di politica criminale. E’ indubbio infatti che la pena carceraria è afflitta da numerose ragioni di crisi: il sovraffollamento delle prigioni, che pone problemi di ordine umanitario che non appaiono risolvibili semplicisticamente con la costruzione di ulteriori edifici da adibire a istituti penitenziari; il risultato statisticamente modesto della effettiva rieducazione dei condannati durante il percorso di espiazione in carcere; l’abbrutimento dei detenuti conseguente alla negazione della affettività in carcere in molte sue espressioni, compresa quella della sessualità.

   Si pongono inoltre interrogativi sulla efficienza della pena carceraria, ovvero della sua effettiva utilità in termini di rieducazione e di recidiva, in quanto dati empirici dimostrano che il circuito carcerario finisce per alimentare se stesso, producendo altra criminalità, nonché sulla effettività della pena detentiva, dato che “solo una parte delle pene minacciate a gran voce dal Legislatore” sono destinate a trovare una reale esecuzione, per la operatività di meccanismi giuridici quali la prescrizione delle pene e/o le misure alternative (Palazzo, Crisi del carcere e culture di riforma , Diritto penale Contemporaneo 4/2017, cit., pag. 6).

   Pur dovendosi ammettere che il carcere, con tutte le sue implicazioni di segregazione dell’individuo dalla società collettiva, deve continuare ad essere uno strumento necessario per alcune categorie di reati di particolare allarme sociale, è anche necessario cominciare a pensare seriamente ad un sistema sanzionatorio alternativo, ovvero complementare a quello che impernia tutto il sistema penale, invece, su quello detentivo, da modulare in particolare, con riferimento ai reati di medio-bassa gravità.

    La riforma Cartabia rappresenta dunque, se attuata con i decreti delegati, un possibile effettivo cambio di passo nella politica criminale del nostro ordinamento, con la previsione di un sistema penale alternativo a quello tradizionale.

   La crisi della pena carceraria, unitamente alla positiva esperienza ed applicazione degli istituti di giustizia riparativa nella pratica degli altri Paesi, specie quelli di lingua anglosassone, unita ai modesti risultati della politica criminale basata sulla pena detentiva, sperimentata nel nostro ordinamento fino a questo momento- in termini di effettiva risocializzazione del reo e di abbattimento del pericolo della recidiva- deve spingere a tentare questa nuova strada.

    La giustizia riparativa, come si è visto, è un concetto articolato che comprende vari strumenti che possono operare in diverse fasi del procedimento penale e che può tendere- nella fase della esecuzione della pena- ad un recupero del condannato in un’ottica riparatoria e restitutoria verso la società e verso la vittima del reato, ma anche avere una funzione di prevenzione generale e speciale, attraverso un ventaglio articolato di strategie che in concreto possono prevedere interventi di tipo penale ed extrapenale.

   Con la giustizia riparativa, la funzione retributiva della pena che aveva perso la sua centralità nel pensiero filosofico tradizionale già con la introduzione del principio di cui all’art. 27 Cost., viene ulteriormente indebolita per far spazio a forme di politica criminale che non si basano più sulla intimidazione, ma sul consenso.

   La introduzione di una disciplina organica di giustizia riparativa, aprirebbe la strada all’ambizioso obiettivo di realizzare una rivoluzione innanzitutto culturale, che vede nelle istanze vendicative della giustizia retributiva, connesse ad una dilagante moralizzazione sociale, il continuo inasprimento delle pene detentive. Il passaggio sarebbe quindi verso un sistema penale che non vede più come pena principale quella carceraria, e che – come evidenziato – la pratica ha dimostrato essere poco incisiva sulla riduzione del pericolo di recidiva e sulla effettiva risocializzazione del condannato, ma verso un sistema basato anche su sanzioni alternative e su meccanismi riparatori che possano incidere sulla stessa struttura dell’illecito penale, portando alla sua degradazione o estinzione in caso di successo della pratica riparatoria.

   Inutile negare che la strada verso la costruzione di un paradigma alternativo alla giustizia punitiva è impervia. Ne sono testimonianza i vari tentativi falliti in questa direzione.

    Ci si riferisce alla bozza di legge delega Bonafede sopra menzionata, ma anche dal disegno di legge del ministro Paola Severino in tema di detenzione domiciliare come pena edittale autonoma; nonché alla commissione studio istituita dal ministro Anna Maria Cancellieri per la revisione del sistema sanzionatorio complessivo e la legge delega n. 67/2014 contenente- tra le varie innovazioni- anche la delega per la introduzione della detenzione domiciliare come nuova pena edittale, delega che però non fu esercitata, probabilmente per il timore di reazioni socialmente ostili e quindi politicamente pericolose.

   L’obiettivo della legge delega n. 123/2021 è ancora più ambizioso dei tentativi falliti sopra menzionati, in quanto afferente non solo l’aspetto della introduzione di pene alternative alla detenzione per reati di gravità medio-bassa, ma l’intera disciplina della giustizia riparativa nel nostro ordinamento, come paradigma alternativo e complementare a quello tradizionale, da sperimentare in ogni fase del procedimento penale.

    Il dispiegamento della delega testimonierà se il momento storico è maturo affinché le generalizzate istanze retributive cedano il passo a questa forma di giustizia propria di una società più progredita e razionale.

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di Onelio Dodero

Sommario:   – Il captatore informatico. 17. La multifunzionalità del captatore informatico. 18. L’intervento della riforma; le previsioni della legge n.3/2019; l’attuale disciplina e l’estensione agli incaricati di pubblico servizio. 19. La legge n.3/2019 di riforma dei reati contro la p.a. 20. L’estensione della disciplina agli incaricati di pubblico servizio. 21. Presupposti e forme per l’uso del captatore informatico (art 267 c.p.p.). 22. Il decreto d’urgenza (art.267, comma 2 bis c.p.p.). 23. L’esecuzione delle operazioni di intercettazione (art 268 comma 3 bis c.p.p.). 24. Sintesi dei presupposti per ricorrere all’intercettazione con captatore informatico. 25. I limiti di utilizzazione delle intercettazioni attraverso captatore informatico su dispositivi mobili per i reati non compresi nel decreto di autorizzazione (art 270 comma 1 bis c.p.p.). 26. Le disposizioni di cui all’art.89 disp.att.c.p.p. dedicate al captatore informatico. 27. I divieti di utilizzazione dei dati conseguiti nel corso delle operazioni preliminari di inserimento del captatore informatico sul dispositivo elettronico portatile (art 271 comma 1 bis cpp).   – L’utilizzabilità. 28. I limiti di utilizzazione delle intercettazioni (artt.270, 271 c.p.p.). 28.1. L’utilizzabilità in altri procedimenti (art.270 c.p.p.). 28.2. L’utilizzabilità delle intercettazioni (art.271 c.p.p.).

17. La multifunzionalità del captatore informatico.

Con la riforma, il Legislatore ha pure inteso disciplinare il ricorso all’uso del captatore informatico per la registrazione dei colloqui, predisponendo una regolamentazione differente rispetto a quella generale.

Per captatore informatico si intende un programma informatico (software) fondato sull’invio, da remoto, di un virus capace di installarsi autonomamente su qualsiasi apparecchio, smartphone, talbet, computer, smart tv [1].

L’installazione del software (inteso malware) avviene tramite l’inoltro di un sms, una mail o l’aggiornamento di una applicazione sul dispositivo bersaglio. Il software ècostituito da due moduli principali: il primo (server) è un programma di piccole dimensioni che infetta il dispositivo bersaglio; il secondo (client) è l’applicativo che il virus usa per controllare detto dispositivo.

Uno strumento tecnologico di questo tipo consente lo svolgimento di varie attività e precisamente:

1. di captare tutto il traffico dati in arrivo o in partenza dal dispositivo “infettato” (navigazione e posta elettronica, sia web mail, che out look);

2. di attivare il microfono e, dunque, di apprendere per tale via i colloqui che si svolgono nello spazio che circonda il soggetto che ha la disponibilità materiale del dispositivo, ovunque egli si trovi;

3. di mettere in funzione la web camera, permettendo di carpire le immagini;

4. di accedere al contenuto dell’hard disk e di fare copia, totale o parziale, delle unità di memoria del sistema informatica preso di mira;

5. di decifrare tutto ciò che viene digitato sulla tastiera collegata al sistema (keylogger) e visualizzare ciò che appare sullo schermo del dispositivo bersaglio (screenshot);

6. di sfuggire agli antivirus in commercio.

Nell’ambito dell’attività di accesso al contenuto dell’hard disk il captatore consente:

–  di acquisire i contatti della rubrica telefonica,

– di acquisire le comunicazioni e conversazioni intrattenute mediante applicazioni di instant messaging (quali ad esempio whatsapp, telegram, facebook messenger o simili),

– di intercettare il traffico email,

– di estrapolare copia del contenuto delle memorie di massa o rimovibili aggiuntive,

– di geolocalizzare il dispositivo sfruttando il sistema g.p.s.

I dati così raccolti sono trasmessi, per mezzo della rete internet, in tempo reale o ad intervalli prestabiliti, ad altro sistema informatico in uso agli investigatori.

In ragione di queste multiformi prestazioni, il captatore informatico è stato intelligentemente definito un congegno bulimico[2] che permette di gestire, in un centro remoto di comando e controllo, non solo l’intercettazione dei dialoghi, dei suoni e delle immagini prelevandoli dal dispositivo – spegnendo e accedendo, all’occorrenza, microfonoe webcam – ma anche di eseguirne l’ispezione e la perquisizione (eventualmente pure acquisendone i contenuti).

E, proprio per questo, da tempo le tecniche investigative hanno fatto ricorso al captatore, pronte a sfruttarne le multiformi prestazioni.

Parimenti, in mancanza di una disciplina normativa dedicata a tipicizzare le prestazioni del captatore e a regolarne l’uso, gli operatori del diritto hanno non poco faticato a ricondurre ciascuna delle varie funzioni a quelle tipologie di mezzi di ricerca della prova ora tipici, ora atipici (facendo così riferimento agli istituti delle ispezioni, delle perquisizioni, delle intercettazioni e delle cd. “prove atipiche” di cui all’art. 189 c.p.p.), mentre, da più parti, si sollecitava l’intervento del Legislatore per disciplinare i casi, i modi e i limiti del ricorso a questo strumento tecnologico, nel tentativo di trovare un punto di equilibrio tra esigenze investigative e tutela dei diritti fondamentali, valutando l’indiscutibile capacità invasiva del captatore capace di costituire un “attentato” all’onnicomprensivo diritto alla riservatezza[3].

Non per nulla si è sostenuto che ascoltare e leggere uno smartphone rasenta il controllo psichico[4].

Di conseguenza si sono susseguite più proposte normative per regolare la materia, seppur non organicamente[5].

Nel frattempo anche la giurisprudenza ha dovuto confrontarsi con questo strumento investigativo e di uso multiforme, con alterne pronunce in merito all’ammissibilità, soprattutto, della funzione di intercettazione di dialoghi tra presenti, da ultimo stimolando l’intervento delle SSUU (sent. 28.4.2016, Scurato).

Come noto, questa sentenza delle SSUU ha avuto vasta eco.

Occorre, però, chiarire che lo scrutinio di legittimità ha riguardato soltanto una delle tante potenzialità del captatore informatico, ossia quella di essere in grado di registrare i dialoghi tra presenti attivando la funzione microfono del dispositivo in cui è stato inoculato.

Come noto, utilizzando il captatore inoculato su un telefono cellulare, un tablet o un PC portatile, è possibile anche cogliere i dialoghi tra presenti ed in tal caso le intercettazioni diventano “ambientali“.

In quanto questi apparati (ossia il telefono cellulare, il tablet ed anche un notebook) sono oggetti che accompagnano ogni nostro movimento e ci seguono in ogni luogo, trasformandosi col captatore in mezzi di intercettazione, quest’ultima può avvenire ovunque, anche, pertanto, nel domicilio.

Da qui, il quesito se l’intercettazione fosse ammissibile ovunque, anche nel domicilio, ovvero fosse da ritenersi presupposto indispensabile per la legittimità di tale mezzo investigativo e, conseguentemente, per la utilizzabilità dell’esito delle intercettazioni, l’individuazione – e la relativa indicazione nel provvedimento che autorizza l’attività di captazione – del “luogo” nel cui ambito deve essere svolta la intercettazione di comunicazioni tra presenti oggetto della previsione dell’art. 266, secondo comma c.p.p.

All’interrogativo la sentenza Musumeci (Cass. Sez. 6, n. 27100 del 26/05/2015) diede risposta affermativa, muovendo dal presupposto che dalla formulazione dell’art. 266, comma 2 c.p.p., laddove è prevista l’intercettazione di comunicazioni tra presenti, deriverebbe l’obbligo della precisazione, nel decreto di autorizzazione, del luogo nel quale sono consentite le captazioni[6].

Dunque, le SSUU erano chiamate a rispondere al seguente il quesito:

“Se – anche nei luoghi di privata dimora ex art. 614 cod. pen., pure non singolarmente individuati e anche se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa, sia consentita l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni tra presenti, mediante l’installazione di un captatore informatico’ in dispositivi elettronici portatili “.

E’ noto che le SSUU hanno stabilito che l’intercettazione di comunicazioni tra presenti mediante l’installazione di un captatore informatico, il quale segue i movimenti nello spazio dell’utilizzatore di un dispositivo elettronico (smartphone, tablet, PC portatile), è consentita esclusivamente nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata, per i quali trova applicazione la disciplina di cui all’art. 13 D.L. n. 151/991, senza necessità di preventiva individuazione ed indicazione di tali luoghi e prescindendo dalla dimostrazione che siano sede di attività criminosa in atto (SS. UU., sent.n. 26889, 28/4/2016, Scurato).

Dunque, la sentenza si riferisce, in via esclusiva, alle “intercettazioni tra presenti”.

Con la conseguenza che le SSUU non solo non hanno escluso la legittimità dell’uso di tale strumento captativo per le intercettazioni tra presenti nei luoghi di privata dimora dove si stia svolgendo l’attività criminosa, ma soprattutto, non l’hanno esclusa per le ulteriori forme di intercettazione, tra cui quelle telematiche ex art. 266 bis, c.p.p.

18. L’intervento della riforma; le previsioni della legge n.3/2019; l’attuale disciplina e l’estensione agli incaricati di pubblico servizio.

Così premesso, con il Decreto Legislativo n.216/2017 si è inteso regolare espressamente il caso del ricorso all’uso del captatore informatico per registrare i dialoghi tra presenti.

Il nuovo testo dell’art. 266, comma 2, prima parte c.p.p. stabilisce che

Negli stessi casi è consentita l’intercettazione di comunicazioni tra presenti, che può essere eseguita anche mediante l’inserimento di un captatore informatico su un dispositivo elettronico portatile”.

La legge disciplina esclusivamente le intercettazioni tramite captatore informatico di conversazioni tra presenti su dispositivi mobili, le quali, tuttavia, per quanto rilevato, sono solo uno dei possibili utilizzi di tale strumento[7].

Il Decreto Legislativo, pertanto, non disciplina la altre potenzialità del captatore, quali l’acquisizione di dati preesistenti sugli apparecchi portatili.

Soprattutto la riforma non dedica alcuna norma specifica alle attività di intercettazione che possono essere riguardare apparecchi non portatili, quali, ad esempio il computer fisso o la smart tv e che possono essere eseguite anche mediante l’uso del captatore.

In questi casi troveranno applicazione le disposizioni che disciplinano le intercettazioni in generale, posto che l’attivazione del microfono di un dispositivo fisso eseguita mediante il captatore non influisce sulla sicura determinabilità del luogo in cui avvengono le registrazioni.

Riassumendo e tenuto conto che le intercettazioni mediante captatore informatico devono considerarsi intercettazioni tra presenti, troverà applicazione la relativa disciplina, ossia:

  • sono sempre consentite nei luoghi diversi da quelli di privata dimora, di cui all’art. 614 c.p.
  • se si svolgano nei luoghi di privata dimora, di cui all’art. 614 c.p., possono essere autorizzate dal Giudice soltanto se sussista il fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa, tranne che

    > per i delitti di c.d. criminalità organizzata di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater c.p.p., poiché il nuovo art. 266, comma 2 bis c.p.p. prevede che per questi delitti l’intercettazione per mezzo del captatore informatico è sempre consentita, anche se abbia luogo nel domicilio e senza la necessità che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa.

Un breve capitolo a parte meritano i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.

La riforma sulle intercettazioni prevede che per questi delitti sia applicabile la clausola derogatoria dell’art.13 D.L. 13 maggio 1991, n. 152.

Infatti, si stabilisce che 

“Nei procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni … si applicano le disposizioni di cui all’articolo 13 del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n.203” (art.6, comma 1 D.Lvo n.216/2017).

Significa che l’intercettazione avrà durata pari a 40 giorni e sarà prorogabile per periodi di 20 giorni e che per dare avvio alle intercettazioni non si esige l’esistenza dei “gravi indizi di reato” (art.267, comma 1 c.p.p), bastando i “sufficienti indizi” (art.13 D.L. n.152/1991).

Dall’altro lato, però, con l’ormai abrogato art.6, comma 2 D.lgsvo n.216/2017, si precisava che

L’intercettazione di comunicazioni tra presenti nei luoghi indicati dall’articolo 614 del codice penale non può essere eseguita mediante l’inserimento di un captatore informatico su dispositivo elettronico portatile quando non vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa” (art.6, comma 2 D.lgvo n.216/2017).

Dunque, per i delitti dei pp.uu. contro la p.a., purché puniti con pena edittale non inferiore ad anni 5 di reclusione, la riforma in tema di intercettazioni prevedeva che si procedesse anche soltanto in presenza di indizi sufficienti e che il termine di durata delle operazioni di registrazione fosse quello stabilito per i delitti di “criminalità organizzata”.

Tuttavia, l’originario testo di legge non permetteva che l’intercettazione delle comunicazioni tra presenti nel domicilio si eseguissero ricorrendo al captatore informatico se non vi fosse motivo di ritenere che lì sia in corso l’attività criminosa.

Di rilievo notare che per quanto riguarda i delitti dei pp.uu. contro la p.a. si è ricorsi a una formula diversa, prevedendo che esista soltanto il “motivo” e non il “fondato motivo” come richiesto per gli altri reati dall’art.266, comma 2 c.p.p.

Ne era risultato, in sostanza, un tertium genus di disciplina, intermedio rispetto alle intercettazioni ambientali nei luoghi di privata dimora effettuate con captatore informatico ex art. 13 D.L. n. 152/1991, in forza del quale, nei procedimenti per i delitti dei pp.uu. contro la p.a.. si manteneva il requisito generale della sussistenza di attività criminosa in fieri, non richiesto per i reati di criminalità organizzata.

Ma questa disciplina ha avuto una breve durata.

19. La legge n.3/2019 di riforma dei reati contro la p.a.

Il quadro normativo è stato ancora riformato con la legge n. 3/2019, di contrasto al fenomeno della corruzione, in particolare intervenendo sulla disciplina dell’utilizzo del captatore informatico.

Da un lato, dal 31 gennaio 2019 si è resa operativa la disciplina del captatore informatico sui dispositivi mobili (già prevista nel D. Lvo n. 216/2017 ma con efficacia sospesa) per i reati di cui agli articoli 51, commi 3 bis e 3 quater c.p.p.; dall’altro lato, si è estesa tale disciplina proprio ai reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, derogando alla precedente previsione che consentiva, per tali ultimi reati, l’utilizzo del captatore informatico nei luoghi privati solo quando si avesse motivo di ritenere che ivi si stesse svolgendo l’attività criminosa.

Abrogando l’art.6, comma 2 D.Lvo n. 216/2017, intervenendo sugli artt. 266, comma 2 bis e 267, comma 1, terzo periodo, c.p.p., è stata estesa anche ai reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, la disciplina derogatoria dei reati di cui all’articolo 51, commi 3 bis e 3 quater, c.p.p.

Dunque, per tali reati è “sempre” consentito l’inserimento del captatore informatico su dispositivo portatile [articolo 266, comma 2 bis, c.p.p.] anche senza la previa predeterminazione da parte del giudice, in sede di autorizzazione, dei luoghi e del tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono [articolo 267, comma 1, terzo periodo, c.p.p.].

In altri termini, qualora si proceda per uno dei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni:

1) le intercettazioni saranno disposte anche soltanto in presenza di sufficienti indizi di reato;

2) avranno durata di 40 gg. (con proroghe di 20);

3) l’intercettazione tra presenti nei luoghi di cui all’art.614 c.p. sarà ammessa anche senza la necessità del fondato motivo di ritenere che ivi sia in essere l’attività criminosa;

4) si potrà ricorrere all’uso del captatore informatico da inserire nei dispositivi mobili senza necessità che il decreto autorizzativo indichi ‘i luoghi ed il tempo” in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono.

20. L’estensione della disciplina agli incaricati di pubblico servizio.

Il D.L.n.161/2019 completa il percorso di sostanziale parificazione ai delitti di criminalità organizzata, estendendo agli incaricati di pubblico servizio le previsioni già adottate nei confronti dei pubblici ufficiali dalla legge n. 3/2019 di riforma dei reati contro la p.a.[8]

L’art. 4 del D.L. modifica l’art. 6 del D.Lvo n.216/2017 e l’attuale testo risulta il seguente: «Nei procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nei massimo a cinque anni, determinata a norma dell’articolo 4 dei codice di procedura penale, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 13 del decreto-legge n. 152/1991convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991. n. 203».

Analoga interpolazione è intervenuta nel testo dell’art. 266, comma 2 bis c.p.p.: «L’intercettazione di comunicazioni tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile è sempre consentita nei procedimenti per i delitti di cui all’articolo 51, commi 5-bis e 3-quater, e per i delitti dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nei massimo a cinque anni, determinata ai sensi dell’articolo 4».

Parimenti, si integra in questi termini l’art. 267 c.p.p.: «Il decreto che autorizza l’intercettazione tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile indica le ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini; nonché, se si procede per delitti diversi da quelli di cui all’articolo 51… e dai delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nei massimo a cinque anni, determinata a norma dell’articolo 4 i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali é consentita l’attivazione dei microfono».

Poiché nell’art. 267 c.p.p. il comma 2 bis richiama il comma 2, appare fondato ritenere che, nei casi di urgenza, il pubblico ministero possa disporre l’intercettazione tra presenti mediante trojan non soltanto nei procedimenti per i delitti di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater c.p.p., ma anche per nei casi dei delitti dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio.

In sede di conversione in legge del D.L. n.161/2019 si è, ancora una volta, modificata la disciplina dell’intercettazione ambientale su dispositivo portatile in presenza di delitti contro la p.a. commessi dai pp.uu. o dagli incaricati di pubblico servizio.

Si è, infatti, rivisitato l’art.266, comma 2 bis c.p.p. in questi termini:

2-bis.   L’intercettazione   di   comunicazioni   tra presenti mediante inserimento di captatore  informatico  su dispositivo elettronico portatile è sempre consentita  nei procedimenti per i delitti di cui all’art. 51, commi  3-bis e 3-quater, e, previa  indicazione  delle  ragioni  che  ne          giustificano l’utilizzo anche nei luoghi indicati dall’art.614 del codice penale, per i delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la  pubblica amministrazione per i  quali  è  prevista  la  pena  della reclusione  non  inferiore  nel  massimo  a  cinque   anni, determinata a norma dell’art. 4.» .

21. Presupposti e forme per l’uso del captatore informatico (art 267 c.p.p.).

La riforma e pure il D.L n.161/2019 hanno modificato l’art. 267 c.p.p. quanto ai decreti di autorizzazione delle intercettazioni mediante uso del captatore informatico su dispositivi portatili, disponendo una serie di condizioni ulteriori rispetto a quelle normalmente richieste per le normali intercettazioni tra presenti.

Infatti, l’attuale art. 267 c.p.p. richiede che, nel caso di ricorso al captatore per le intercettazioni su dispositivi portatili (e, dunque, non negli altri casi), il decreto autorizzativo indichi:

 1. “…le ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini…”;

 2. “…nonché, se si procede per delitti diversi da quelli di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quatere dai delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata a norma dell’articolo 4,i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono”.

Per tutti i reati (anche quelli di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater c.p.p. e quelli dei pp.uu.  e degli incaricati di pubblico servizio contro la p.a. puniti con pena non inferiore a cinque anni di reclusione) è richiesto un ulteriore sforzo motivazionale, dovendo il decreto autorizzativo indicare le specifiche ragioni che rendano necessaria il ricorso al captatore informatico per la riuscita dell’operazione di intercettazione.

Per i soli reati diversi da quelli di cui all’articolo 51, commi 3 bis e 3 quater c.p.p. e da quelli dei pp.uu. e degli incaricati di pp.ss. contro la p.a. puniti con pena non inferiore a cinque anni di reclusione, il decreto autorizzativo deve indicare anche i luoghi ed il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono.

Dunque, eccetto per i delitti ex art. 51 commi 3 bis e 3 quater c.p.p. quelli dei pp.uu. e incaricati di pp.ss. contro la p.a. puniti con pena non inferiore a cinque anni di reclusione, per i quali l’intercettazione mediante captatore è sempre ammessa su dispositivi mobili in qualunque luogo ed in qualunque tempo senza limitazioni e non è necessaria la specificazione nel decreto dei luoghi e del tempo in cui è ammessa l’attivazione del microfono,  per i restanti reati l’intercettazione tramite captatore, a pena di inutilizzabilità ai sensi dell’art. 271, comma 1 c.p.p., presuppone che nel decreto autorizzativo si indichino i luoghi ed il tempo in cui è possibile “accendere” ed utilizzare il captatore informatico.

Si tratta di norma di non sempre agevole applicazione sia per la mancanza di parametri oggettivi sia per le difficoltà di poter indicare preventivamente dove e quando si eseguirà, seppure il testo della riforma, consapevole di tali difficoltà, abbia preveduto che l’indicazione “dei luoghi e del tempo” possa avvenire “anche indirettamente”.

La previsione introduce un sistema in molti casi profondamente diverso dalle intercettazioni, telefoniche o tra presenti di tipo tradizionale, nelle quali gli ascolti si susseguono senza soluzione di continuità (salvo casi particolari) per tutto l’arco temporale consentito, poiché nelle intercettazioni mediante agente “intrusore”, fissata la durata complessiva delle operazioni, gli ascolti avverranno in ragione di specifiche occasioni preventivamente determinate[9].

Un commento a parte, anche in questo caso, meritano i delitti dei pp.uu. e degli incaricati di pp.ss. contro la p.a. puniti con pena non inferiore nel massimo a 5 anni di reclusione.

La legge n.3/2019 di riforma dei delitti contro la p.a. è intervenuta non solo sul disposto dell’art.266, comma 2 bis c.p.p., ma anche su quello dell’art.267, comma 1, terzo periodo c.p.p., estendendo anche ai reati contro la p.a., puniti con pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, la clausola derogatoria prevista per reati di cui all’articolo 51, commi 5 bis e 3 quater c.p.p.

Con l’attuale disciplina, pertanto, per i reati contro la p.a. in questione è consentito l’inserimento del captatore informatico su dispositivo portatile anchesenza la previa determinazione da parte del giudice, in sede di autorizzazione, dei luoghi e del tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono [artt. 266, comma 2 bis e 267, comma 1, terzo periodo, c.p.p.][10].

22. Il decreto d’urgenza (art.267, comma 2 bis c.p.p.).

Il testo di riforma limitava l’adozione del decreto di urgenza, in caso di intercettazione tra presenti mediante captatore informatico su dispositivo portatile, ai delitti di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater, c.p.p.

Il D.L.n161/2019 interviene sul comma 2 bis dell’art.267 c.p.p. estendendo la possibilità del decreto d’urgenza anche ai delitti dei pp.uu. e degli incaricati di pp.ss. puniti con pena della reclusione non inferiore nel massimo a anni 5.

Comunque sia, la limitazione a queste fattispecie appare quantomeno irragionevole, posto che sui presupposti dell’intercettazione d’urgenza opera pur sempre il controllo successivo del g.i.p. in sede di convalida.

Inoltre, nei casi in cui sia ammissibile la procedura d’urgenza, il p.m. dovrà indicare, oltre a quanto previsto dall’art.267, comma 1 secondo periodo c.p.p., anche “le ragioni di urgenza che rendono impossibile attendere il provvedimento del Giudice”.

Requisito in termini lessicali in parte diversi e apparentemente più gravosi rispetto alla condizione per procedere con decreto d’urgenza negli altri casi d’intercettazione (e di cui all’art.267, comma 2 c.p.p.). Infatti, nel caso d’intercettazioni diverse da quelle con captatore informatico su dispositivo portatile, il decreto d’urgenza richiede che vi sia il “fondato motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare grave pregiudizio alle indagini” mentre, nel caso di intercettazione con captatore per il p.m. dovranno sussistere ragioni d’urgenza tali da rendere “impossibile attendere il provvedimento del giudice”.

Nella pratica, però, è auspicabile che i tratti di diversità sfumino.

23. L’esecuzione delle operazioni di intercettazione (art 268 comma 3 bis c.p.p.).

Come noto, le comunicazioni intercettate sono registrate e delle operazioni è redatto verbale in cui è trascritto, anche sommariamente, il contenuto delle conversazioni (art.268, comma 1 c.p.p.).

Come già esaminato, D.L. n.161/2019 ha abrogato l’originario testo della riforma e il nuovo art.268, comma 2 c.p.p. prevede esclusivamente che il p.m.“dà indicazioni e vigila affinché nei verbali non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge, salvo che si tratti di intercettazioni rilevanti ai fini delle indagini.”.

Egualmente, il D.L. n.161/2019 ha abrogato il comma 2 ter e ha riformulato i commi 4,5,6,7, e 8 dell’art.268 c.p.p. nei termini già visti, nonché ha pure abrogato gli artt. 268 bis, 268 ter e 268 quater.

Sul versante dell’uso del captatore informatico per intercettazioni tra presenti su dispositivo portatile, la riforma ha modificato l’art. 268, comma 3 bis c.p.p. prescrivendo che per le operazioni di avvio e di cessazione delle registrazioni “…l’ufficiale di polizia giudiziaria può avvalersi di persone idonee di cui all’articolo 348, comma 4.”. Si tratta della possibilità di avvalersi dei tecnici delle società private che gestiscono il servizio d’intercettazione fornendo le apparecchiature necessarie e il programma del captatore e che collaboreranno con la Polizia Giudiziaria nella complessa fase di inoculazione (e successivamente anche di disattivazione) del virus all’interno del bersaglio elettronico portatile (art.268, comma 3 bis, prima parte c.p.p.).

24. Sintesi dei presupposti per ricorrere all’intercettazione con captatore informatico.

Si possono come di seguito schematizzare i presupposti e i limiti per lo svolgimento di attività di intercettazione tra presenti mediante captatore informatico sia su dispositivi mobili che fissi.

Luogo NON di privata dimora e captatore informatico su dispositivi fissi o portatili.

L’intercettazione tra presenti nei luoghi NON di privata dimora per tutti i delitti (per i quali siano possibili le intercettazioni tra presenti) senza alcuna distinzione:

  •    si potrà effettuare a mezzo di captatore informatico installato su dispositivi, siano essi “fissi” che “portatili” (art. 266 c. 2 c.p.p.)

Luogo di privata dimora e captatore informatico su dispositivi fissi.

  1. L’intercettazione tra presenti nei luoghi di privata dimora per i delitti cd. comuni (ovvero tutti i delitti per cui sono possibili le intercettazioni ma NON rientranti in quelli dei pp.uu.  e incaricati di pp.ss. contro la p.a., se puniti con pena non inferiore nel massimo a 5 anni di reclusione, né in quelli di criminalità organizzata cd. comune, né in quelli di cui all’art.51 , commi 3 bis e 3 quater, c.p.p.):
  2.    può essere eseguita, utilizzando le tradizionali forme captative mediante sonde o microspie o anche il captatore informatico da collocare fisicamente nei luoghi da monitorare e questo anche se tali mezzi di captazione siano collocati su apparecchi audio-video (es. smart-tv) e/o su apparecchi informatici (computer Desktop, cd. computer fissi) “…solo se vi è fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa (art. 266 c. 2 ultima parte c.p.p.).
  • Invece, l’intercettazione tra presenti nei luoghi di privata dimora per

• i delitti dei pp.uu.  e degli incaricati di pp.ss. contro la p.a. puniti con pena non inferiore nel massimo a 5 anni;

• i delitti di criminalità organizzata cd. comune (non rientranti nei casi di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater, c.p.p.);

• i delitti di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater, c.p.p.

può essere liberamente eseguita, utilizzando le tradizionali forme captative mediante sonde e microspie o anche il captatore informatico da collocare fisicamente nei luoghi da monitorare e questo pure se tali mezzi di captazione siano collocati su apparecchi audio-video o su apparecchi informatici anche “…se non vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa” (art. 266 c. 2 c.p.p. e art. 13 d.l. 13 maggio 1991, n. 152).

Luogo privata dimora e captatore informatico su dispositivi portatili.

  1. L’intercettazione tra presenti nei luoghi di privata dimora per i delitti cd. comuni (ovvero tutti i delitti per cui sono possibili le intercettazioni ma NON rientranti in quelli dei pp.uu.  e degli incaricati di p.p.ss. contro la p.a., puniti con pena non inferiore nel massimo a 5 anni, né in quelli di criminalità organizzata cd. comune, né in quelli di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater, c.p.p.):
  2.   può essere eseguita mediante l’attivazione del microfono a mezzo di captatore informatico installato su un dispositivo elettronico portatile “…solo se vi è fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa (art. 266 c. 2 ultima parte c.p.p.).
  • l’intercettazione tra presenti, nei luoghi di privata dimora, per i delitti di criminalità organizzata cd. comune (non rientranti nei casi di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater, c.p.p.):
  •    può essere eseguita mediante l’attivazione del microfono a mezzo di captatore informatico installato su un dispositivo elettronico portatile, limitatamente alla sussistenza di “fondati motivi” di ritenere che in quei luoghi si stia svolgendo l’attività criminosa (art. 266, comma 2 c.p.p., art. 13 d.l. n.152/1991).

c) l’intercettazione tra presenti, nei luoghi di privata dimora per i delitti di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater, c.p.p. e per i delitti dei pp.uu.  e degli incaricati di pp.ss. contro la p.a. se puniti con pena nel massimo non inferiore a 5 anni di reclusione:

  •    può essere eseguita mediante l’attivazione del microfono a mezzo di captatore informatico installato su un dispositivo elettronico portatile nei luoghi di privata dimora,  anche se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa;
  •   inoltre per i delitti dei pp.uu.  e degli incaricati di pp.ss. contro la p.a. se puniti con pena nel massimo non inferiore a 5 anni di reclusione, occorre anche indicare le ragioni per cui si procede nei luoghi di cui all’art.614 c.p.

25. I limiti di utilizzazione delle intercettazioni attraverso captatore informatico su dispositivi mobili per i reati non compresi nel decreto di autorizzazione (art 270 comma 1 bis c.p.p.).

Come noto l’art.270 c.p.p. ha stabilito il principio della possibilità di esportare i risultati delle intercettazioni dal procedimento d’origine ad un altro, purché quest’ultimo tratti di reati per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza e le intercettazioni risultino indispensabili per provarli (v.infra).

Il testo originario della riforma interveniva prevedendo un ulteriore limite all’uso delle intercettazioni tra presenti effettuate tramite captatore informatico installato su dispositivo elettronico portatile.

Ed infatti era inserito l’art.270, comma 1 bis c.p.p. col quale si disponeva che i risultati di tali intercettazioni: “non possono essere utilizzati per la prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza”.

Si trattava, pertanto, di un limite che non solo riguardava altri, diversi procedimenti, ma che operava anche all’interno dello stesso procedimento nel quale erano state autorizzate le intercettazioni mediante captatore su dispositivi mobili: se in quel procedimento, a seguito delle intercettazioni, emergevano altri reati, diversi da quelli per accertare i quali le registrazioni erano state autorizzate, i risultati non avrebbero potuto essere utili per tali diversi reati, tranne che si trattasse di reati per cui è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza e che i risultati delle intercettazioni fossero indispensabili per provarli.

Il D.L. n.161/2019 rivede anche questo aspetto della riforma.

Il nuovo comma 1 bis dell’art.270 c.p.p. stabilisce che

“…i risultati delle intercettazioni tra presenti operate con captatore informatico su dispositivo elettronico portatile possono essere utilizzati anche per la prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, se compresi tra quelli indicati dall’articolo 266, comma 2-bis.”.

Dunque, le registrazioni in questione potranno essere usate anche per la prova di reati diversi da quelli per cui l’intercettazione era stata ammessa, purché

  • rientrino tra i delitti di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater e i delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata a norma dell’articolo 4 (artt.270, comma 1 bis e 266, comma 2 bis c.p.p.);
  • sia indispensabile usare le intercettazioni per la prova dei reati.

Ovviamente questo nuovo divieto va ad aggiungersi, affiancandolo, a quello già previsto e relativo all’uso delle intercettazioni in procedimenti diversi (di cui infra).

26. Le disposizioni di cui all’art.89 disp.att.c.p.p. dedicate al captatore informatico.

Il D.L.n.161/2019 ha riscritto (in neretto le modifiche della legge di conversione 28.2.2020 n.7), in buona parte però riproponendolo, il testo dell’art.89 disp.att.c.p.p. in questi termini:

“1. Il verbale delle operazioni previsto dall’articolo 268 comma 1 del codice contiene l’indicazione degli estremi del decreto che ha disposto l’intercettazione, la descrizione delle modalità di registrazione, l’annotazione del giorno e dell’ora di inizio e di cessazione della intercettazione nonché i nominativi delle persone che hanno preso parte alle operazioni. Quando si procede ad intercettazione delle comunicazioni e conversazioni tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, il verbale indica il tipo di programma impiegato e, ove possibile, i luoghi in cui si svolgono le comunicazioni o conversazioni.

2. Ai fini dell’installazione e dell’intercettazione attraverso captatore informatico in dispositivi elettronici portatili devono essere impiegati programmi conformi ai requisiti tecnici stabiliti con decreto del Ministro della giustizia.

3. Nei casi previsti dal comma 2 le comunicazioni intercettate sono conferite, dopo l’acquisizione delle necessarie informazioni in merito alle condizioni tecniche di sicurezza e di affidabilità della rete di trasmissione, esclusivamente negli impianti della Procura della Repubblica. Durante il trasferimento dei dati sono operati controlli costanti di integrità che assicurino l’integrale corrispondenza tra quanto intercettato, registrato e trasmesso.

4. Quando è impossibile il contestuale trasferimento dei dati intercettati, il verbale di cui all’articolo 268 del codice dà atto delle ragioni impeditive e della successione cronologica degli accadimenti captati e delle conversazioni intercettate.

5. Al termine delle operazioni si provvede, anche mediante persone idonee di cui all’articolo 348 del codice, alla disattivazione del captatore con modalità tali da renderlo inidoneo a successivi impieghi. Dell’operazione si dà atto nel verbale.”.

Secondo la costante giurisprudenza, in applicazione del principio di tassatività, l’inosservanza delle disposizioni previste dall’art. 89 disp. att. c.p.p., non espressamente richiamate dall’art. 271 c.p.p., non determina l’inutilizzabilità degli esiti dell’attività captativa legittimamente disposta ed eseguita.

Tuttavia, non è mancato chi ha osservato, a seguito della riforma, che “ Ora si dovranno meglio rivedere sia il ruolo delle disposizioni di attuazione che gli effetti della eventuale violazione delle regole concernenti il ricorso al captatore informatico per il quale sono previste specifiche prescrizioni, che vanno dalla indicazione nel verbale del tipo di programma impiegato…al ricorso a programmi conformi a requisiti tecnici indicati dal Ministero…al trasferimento delle comunicazioni esclusivamente verso gli impianti della Procura…alla disattivazione del captatore con modalità tali da renderlo inidoneo a successivi impieghi… Cambia in sostanza la strutturale dimensione intercettativa, non rapportata tuttavia a regole confortate da sanzioni, non essendo stato aggiornato l’art. 271 comma 1 c.p.p. nel rinvio a nuove previsioni quali ad esempio quelle dell’art. 268 commi 3 bis e 4 c.p.p., né appunto alle nuove disposizioni di attuazione [11].

Queste osservazioni sono tutt’ora valide, posto che il testo dell’art.89 disp.att.c.p.p. come innovato dal DL n.161/2019 (come anche modificato dalla legge di conversione n.7/2020), quando si ricorra all’intercettazione tra presenti mediante inserimento del captatore in dispositivi mobili, stabilisce che:

  • il verbale indichi il tipo di programma impiegato (c.1)
  • per installare e attivare la registrazione si possono impiegare solo programmi conformi ai requisiti tecnici stabiliti con decreto ministeriale (c.2)
  • il conferimento delle intercettazioni, accertata l’affidabilità della rete di trasmissione, esclusivamente negli impianti della Procura, con controlli tali da assicurare la corrispondenza tra quanto intercettato e quanto trasferito (c.3)
  • in caso sia impossibile il trasferimento contestuale, il verbale di cui all’art.268, comma 1 c.p.p. (ossia quello delle registrazioni e operazioni) darà atto delle ragioni impeditive e della successione cronologica degli accadimenti captati e delle conversazioni intercettate (c.4)
  • finite le operazioni, il captatore deve essere disattivato in modo tale da non poter essere più utilizzabile (c. 5).

Intanto, in esecuzione del nuovo disposto dell’art.89 disp.att.c.p.p., l’art.2, commi 3 e 4 del D.L. n.161/2019, come già l’art. 7 D.Lvo 216/2017, prevede che il Ministro della Giustizia con decreto stabilisca i requisiti tecnici dei programmi informatici funzionali all’esecuzione delle intercettazioni mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile e che tali requisiti tecnici siano stabiliti secondo misure idonee di affidabilità, sicurezza ed efficacia al fine di garantire che i programmi informatici utilizzabili si limitino all’esecuzione delle operazioni autorizzate.

La previsione contiene insidie, in quanto condiziona l’operatività dello strumento alle scelte ministeriali merito ai requisiti tecnici che i programmi debbano possedere, nonché rende necessario che il Ministero sia in grado di adeguarsi costantemente all’evoluzione tecnologica.

Quanto alle annotazioni da redigere, l’art. 89, comma 1 disp.att. c.p.p., come riformato prevede che (oltre alle note relative agli estremi del decreto che ha disposto l’intercettazione, alla descrizione delle modalità di registrazione, all’annotazione del giorno e dell’ora di inizio e di cessazione della intercettazione nonché ai nominativi delle persone che hanno preso parte alle operazioni), quando si ricorra ad intercettazioni tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, nel verbale si indichi “il tipo di programma impiegato e, ove possibile, i luoghi in cui si svolgono le comunicazioni o conversazioni”.

La norma non distingue i reati di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater c.p.p. e quelli dei pp.uu. e degli incaricati di pp.ss. contro la p.a. dagli altri reati comuni. Pertanto, malgrado per i primi reati non sia necessario che il Giudice indichi e specifichi i luoghi, anche indirettamente determinati ex ante, dove potranno avvenire le intercettazioni, tuttavia nel verbale delle operazioni si dovrà sempre cercare di identificare da parte della polizia giudiziaria (in questo caso ex post), sulla base delle conversazioni e dei dati desumibili dall’uso del captatore, il luogo dove siano avvenute e riportarlo nel verbale di cui all’art. 89 disp. att. c.p.p.

Probabile il ricorso alla clausola di salvezza, inserita col DL n.161/2019, “ove possibile” quanto all’indicazione dei luoghi in cui si svolgono le intercettazioni.

L’art.89, commi 2 e 3 prevede che

« 2. Ai fini dell’installazione e dell’intercettazione attraverso captatore informatico in dispositivi elettronici portatili, devono essere impiegati programmi conformi ai requisiti tecnici  stabiliti con decreto del Ministro della giustizia.

3. Nei casi previsti dal comma 2 le comunicazioni intercettate sono conferite, dopo l’acquisizione  delle necessarie informazioni in merito alle condizioni tecniche  di  sicurezza  e  di affidabilità della  rete  di  trasmissione,  esclusivamente  negli impianti della procura della Repubblica. Durante il trasferimento dei dati sono operati controlli costanti di integrità che assicurino l’integrale corrispondenza tra quanto intercettato, registrato e trasmesso.».

Il comma 3 è stato, come rilevato, modificato rispetto all’originaria stesura che stabiliva che “le comunicazioni intercettate sono trasferite… esclusivamente nell’archivio digitale di cui all’articolo 269, comma 1..”; mentre con l’attuale modifica “le comunicazioni intercettate sono conferite… esclusivamente negli impianti della Procura della Repubblica..”, nel senso che i dati registrati dal captatore informatico saranno inviati ai server della Procura e questi ultimi poi provvederanno a inserirli nell’archivio digitale, come ideale luogo di custodia e deposito delle captazioni, prima invece dandosi una rappresentazione dell’archivio quale strumento dinamico, diversamente dalla sua natura.

La disposizione si collega a quella dell’art. 268, comma 3 c.p.p., la cui violazione è sanzionata dall’inutilizzabilità ex art. 271 c.p.p. e che impone l’obbligo di avvalersi per le operazioni di intercettazione degli impianti di captazione della Procura, salvo motivate ragioni di eccezionale urgenza e l’indisponibilità o insufficienza degli stessi.

La riforma, pertanto, consente modalità tecniche di intercettazione attraverso procedure di ascolto mediante cosiddetta “remotizzazione”[12].

Sempre il comma 3 prevede che “Durante il trasferimento dei dati sono operati controlli costanti di integrità che assicurino l’integrale corrispondenza tra quanto intercettato, registrato e trasmesso”. Un’interpretazione ragionevole della disposizione suggerisce che la verifica della sicurezza della rete non debba essere effettuata di volta in volta ad ogni “trasferimento dati”, ma debba essere verificata all’atto della scelta della società di cui avvalersi per le intercettazioni.

Sarà ovviamente necessario che la polizia giudiziaria delegata alle operazioni d’intercettazione segnali ogni sopravvenuta anomalia in corso d’intercettazione.

Inoltre, quanto alla necessità di verificare la corrispondenza tra quanto intercettato e quanto trasferito appare condivisibile quanto annotava il Procuratore di Sondrio commentando il testo originario della norma, su questo punto non riformata: ”…non si comprende se , come sembra palesare il tenore letterale della disposizione…la trasmissione dei dati debba avvenire, di volta in volta per le singole trasmissioni, previa “…acquisizione delle necessarie informazioni in merito alle condizioni tecniche di sicurezza e di affidabilità della rete di trasmissione”. Orbene la rete di trasmissione, che viene fornita dalla società che noleggia gli apparati e dalla società telefonica che fornisce la connessione dati sarà, normalmente, sempre la medesima e dunque o la stessa è affidabile e tecnicamente sicura dall’origine oppure non lo è; non si comprende, pertanto, quale controllo possa fare l’operatore e soprattutto l’utilità ad ogni trasmissione dati (quindi anche più volte in un giorno) nell’acquisire “necessarie informazioni in merito alle condizioni tecniche di sicurezza e di affidabilità della rete di trasmissione”, informazioni che, verosimilmente, ha già acquisito pochi minuti prima. Analogamente la norma… che prevede che “durante il trasferimento dei dati sono operati controlli costanti di integrità in modo da assicurare l’integrale corrispondenza tra quanto intercettato e quanto trasmesso e registrato” appare scarsamente comprensibile sul piano tecnico e operativo se riferita a controlli dell’operatore fisico , atteso che trattandosi di trasferimento di dati informatici non è possibile per un operatore “umano” effettuare un controllo durante il trasferimento; un simile controllo, infatti, può essere effettuato solo da un programma informatico che confronti il pacchetto dati conservato nel dispositivo “target” (che contiene la conversazione captata) con il pacchetto dati che viene ricevuto e conservato sul server della Procura e ne attesti l’assoluta identità.”[13].

La violazione di queste prescrizioni potrebbe incidere sulla affidabilità delle conversazioni registrate, ma non certo determinarne l’inutilizzabilità.

Il comma 4 dell’art. 89 disp.att. c.p.p. prevede che quando sia “impossibile il contestuale trasferimento dei dati intercettati, il verbale di cui all’articolo 268 del codice dà atto delle ragioni tecniche impeditive e della successione cronologica degli accadimenti captati e delle conversazioni intercettate”. Si tratta di cautele per evitare un indiscriminato ed incontrollato utilizzo del microfono del dispositivo elettronico portatile che, tuttavia, aggraveranno le incombenze della polizia giudiziaria delegata allo svolgimento delle operazioni e dei tecnici specializzati delle società di intercettazione, obbligandoli ad un costante aggiornamento del verbale con dati precisi sullo svolgimento delle operazioni.

Il comma 5 dell’art.89 disp.att. c.p.p. stabilisce che al termine delle operazioni si provveda, anche mediante persone idonee, alla disattivazione del captatore con modalità tali da renderlo inidoneo a successivi impieghi, dandone atto nel verbale.

La disposizione deve essere interpretata con “ragionevolezza”.

Non sarebbe, infatti, ragionevole procedere immediatamente a disinstallare il captatore quando la singola operazione autorizzata si sia già conclusa ma l’indagine risulti ancora in corso, potendo tornare utile riutilizzare il captatore a seguito di un’ulteriore richiesta di intercettazione.

Già si è rilevato che, secondo il principio di tassatività, le violazioni delle disposizioni dell’art.89 disp.att. c.p.p. non possono comportare l’inutilizzabilità delle intercettazioni legittimamente disposte ed eseguite in quanto non espressamente richiamate dall’art. 271 c.p.p.

Discende, pertanto, che l’inutilizzabilità delle intercettazioni per la violazione delle disposizioni dell’art.268 comma 1 c.p.p. relative alla redazione del verbale delle operazioni si riferisce soltanto alla mancata redazione e che, quindi, non consegua l’inutilizzabilità in caso di inosservanza delle nuove prescrizioni dell’art. 89 disp.att. c.p.p in tema di verbali di operazione, di modalità di registrazione, di controllo e trasmissione di dati per le intercettazioni tra presenti, mediante captatore informatico installato su dispositivo portatile[14].

27. I divieti di utilizzazione dei dati conseguiti nel corso delle operazioni preliminari di inserimento del captatore informatico sul dispositivo elettronico portatile (art 271 comma 1 bis c.p.p.).

La riforma prevede all’art. 271, comma 1 bis c.p.p. l’inutilizzabilità delle intercettazioni eseguite tramite il captatore informatico installato su dispostivi mobili, disponendo che: “…non sono in ogni caso utilizzabili i dati acquisiti nel corso delle operazioni preliminari all’inserimento del captatore informatico sul dispositivo elettronico portatile e i dati acquisiti al di fuori dei limiti di tempo e di luogo indicati nel decreto autorizzativo”.

Dunque, due ulteriori e specifiche ipotesi di inutilizzabilità.

Per l’inutilizzabilità dei dati acquisiti al di fuori dei limiti di tempo e luogo indicati nel decreto sarà sufficiente fare riferimento a quanto disposto dal giudice con l’autorizzazione, posto che il provvedimento determinerà tempi e luoghi e in cui è ammessa l’attivazione del microfono, anche indirettamente qualora si proceda per i delitti non ricompresi nelle previsioni di cui all’art 51 comma 3 bis e 3 quater c.p.p. e per i reati dei pp.uu. contro la p.a. puniti con pena non inferiore a 5 anni di reclusione.

L’art.271, comma 1 bis c.p.p., inoltre, prevede l’inutilizzabilità dei dati “acquisiti nel corso delle operazioni preliminari all’inserimento del captatore informatico sul dispositivo elettronico portatile”.

Non è chiarito quali siano le “operazioni preliminari”.

Si potrebbero intendere i dati acquisiti col captatore informatico nel corso delle operazioni preliminari all’inserimento, quando ancora non siano terminate le operazioni di installazione.

Resta, però, la difficoltà di intendere il significato del termine “dati”; probabile s’intendano quelle acquisizioni incolpevoli che possano avvenire mentre si installa il captatore (ad esempio, acquisendo fotografie o filmati presenti nel dispositivo mobile).

28. I limiti di utilizzazione delle intercettazioni (artt.270, 271 c.p.p.).

Il tema dell’inutilizzabilità delle intercettazioni riguarda due profili

Uno generale: i risultati delle intercettazioni non possano essere utilizzati “fuori dei casi consentiti dalla legge” o se non siano state “osservate le disposizioni previste dagli art. 267 e 268 commi 1 e 3”, ossia le prescrizioni autorizzative ed operative, nonché in caso di trasgressione alle disposizioni relative all’uso del captatore informatico (art. 271 commi 1 e 1 bis c.p.p.).

Uno particolare: la possibilità di usare le intercettazioni originarie in altri procedimenti (art.270 c.p.p.).

28.1. L’utilizzabilità in altri procedimenti (art.270 c.p.p.).

Era previsto che «I risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino rilevanti e indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza» (art.270, c.1 c.p.p.).

Nota l’annosa questione sul significato da dare a «procedimento diverso»

La differenza tra reato diverso e procedimento diverso trova fondamento, stando alla giurisprudenza, non sulla mera diversità numerica della registrazione dei procedimenti, ma sulla diversità sostanziale dei fatti storici individuati.

Condivisibile ritenere che nell’ambito dello stesso procedimento si deve applicare la regola del «diverso procedimento» quando con l’intercettazione si accertano reati non connessi (criteri ex art.12 e 16 c.p.p.).

Da qui anche le problematiche che emergono quando, dopo l’autorizzazione a intercettare (per un reato rientrante tra quelli di cui all’art.266 c.p.p.), sia necessaria la modifica del reato o si profilino fatti di reato nuovi o diversi rispetto alla contestazione utilizzata per la richiesta e la autorizzazione alla intercettazione.

Se la previsione di inutilizzabilità dei risultati dell’atto compiuto “fuori dei casi consentiti dalla legge” (art. 271 comma 1 c.p.p.) implica la verifica della corrispondenza non solo iniziale ma anche successiva tra il reato rientrante nell’elenco dei casi ammessi ex art. 266 comma 1 c.p.p. e il provvedimento autorizzativo, tuttavia la giurisprudenza si è sempre espressa per consentire l’uso dei risultati delle intercettazioni malgrado la modifica del reato e anche in relazione a nuovi reati che non le avrebbero consentite, ritenendo che sia la sola assenza del presupposto originario a determinare l’inutilizzabilità, ad esempio:

Cass. Sez. F. 26.8.2016 n. 35536. rv 267598: “i risultati delle intercettazioni telefoniche disposte per un reato rientrante tra quelli indicati nell’art. 266 c.p.p. sono utilizzabili anche relativamente ad altri reati per i quali si procede nel medesimo procedimento, pur se per essi le intercettazioni non sarebbero state consentite“;

Cass. Sez. VI, 4.7.2017 n.31984, rv 270431: “qualora il mezzo di ricerca della prova sia legittimamente autorizzato all’interno di un determinato procedimento per uno dei reati di cui all’art. 266 c.p.p. i suoi esiti sono utilizzabili senza alcun limite per tutti gli altri reati relativi al medesimo procedimento.”; pure, Cass. Sez. VI, 1.7.2015 n. 27820, rv 264087; Cass. Sez. VI 25.11.2015 n. 50261, rv 265757.

Per questa giurisprudenza, in caso, pertanto, di indagini unitarie o connesse o collegate, anche se non effettivamente riunite o viceversa suscettibili di separazione, per il nuovo reato scoperto durante l’intercettazione i risultati della stessa sono utilizzabili, in quanto «procedimento diverso» non equivale a «reato diverso».

Il divieto di utilizzazione non opererebbe, allora, quando si tratti del medesimo filone di indagine, o comunque di indagini anche solo collegate e vale anche per i reati emersi successivamente e per provare i quali non sarebbe ammessa l’intercettazione (art.266 c.p.p.): ciò però equivale praticamente a disapplicare l’art. 270 c.p.p.

Questo costante indirizzo però è radicalmente, da ultimo, mutato.

Le Sezioni Unite, con sentenza n. 51/2020, hanno affermato due principi di diritto

«il divieto di cui all’art. 270 cod. proc. pen. di utilizzazione dei risultati di intercettazioni di conversazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali siano state autorizzate le intercettazioni – salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza – non opera con riferimento ai risultati relativi a reati che risultino connessi ex art. 12 cod. proc. pen. a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata ab origine disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge»

In sintesi: l’inutilizzabilità non opera solo quando si tratti di reati connessi ex art. 12 c.p.p., e solo se per tali reati l’intercettazione risulti ammissibile (ai sensi degli artt. 266 e 267 c.p.p.).

Per le SSUU, la soluzione va individuata facendo riferimento alla ratio del divieto di utilizzazione.

Lo statuto costituzionale delle intercettazioni richiede la predeterminazione tassativa dei presupposti di legge e un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria

Circoscrivere l’utilizzabilità dei risultati è una garanzia destinata ad evitare che gli effetti dell’interferenza si moltiplichino al di là di quanto strettamente necessario.

Il divieto di cui all’art. 270 comma 1 c.p.p. ha dunque lo scopo di mantenere costante il collegamento con le circostanze che giustificano la violazione del segreto delle comunicazioni e con i motivi addotti nell’autorizzazione del giudice, che includono, oltre all’accertamento degli indizi di un reato fra quelli previsti dalla legge, anche la valutazione dell’assoluta indispensabilità ai fini della prosecuzione delle indagini.

Ogni divieto di utilizzazione viene meno quando si scoprono delitti diversi per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza. È un caso tipicamente eccezionale e non occorre la connessione tra i reati.

La scelta non ha altra logica che quella dettata dalle esigenze di politica criminale che sarebbero eccessivamente sacrificate qualora dall’intercettazione si ricavasse la prova di un reato particolarmente grave senza che si potesse farne uso se non come notitia criminis.

Dunque, le Sezioni unite hanno optato per una soluzione intermedia. Affrontando il problema concernente l’identità o la diversità dei procedimenti, hanno concluso che all’autorizzazione iniziale devono ritenersi riconducibili anche quei fatti di reato che si trovino in un rapporto di connessione sostanziale con quello per il quale l’intercettazione era stata disposta. Il legame, cioè, sarebbe in tal caso originario e indipendente dallo specifico procedimento, in quanto di carattere oggettivo e predeterminato. La connessione ai sensi dell’art. 12 c.p.p. giustificherebbe pertanto l’utilizzazione dei risultati dell’intercettazione anche per i reati non espressamente contemplati nell’autorizzazione.

Si conclude, pertanto,che una relazione occasionale, quale quella derivante dal collegamento delle indagini ai sensi dell’art. 371 c.p.p., o dall’appartenenza ad un medesimo contesto investigativo, dimostra che siè in presenza di procedimenti diversi. In questi casi, dunque, opera il divieto di cui all’art. 270 comma 1 c.p.p. (salva sempre l’eccezione concernente i delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza).

L’altro principio di diritto enunciato: l’utilizzazione dei risultati è vietata quando il reato diverso da quello in relazione al quale era stata disposta l’autorizzazione, anche se con questo connesso, non rientra fra quelli per cui l’intercettazione è ammissibile.

Si tratta di una rigorosa applicazione della legge, posto che l’art. 266 c.p.p. vieta l’impiego di questo mezzo di indagine per i reati che non superino una soglia minima di gravità.

I risultati sono dunque inutilizzabili ai sensi dell’art. 271 c.p.p., poiché derivano da intercettazioni eseguite fuori dai casi consentiti dalla legge.

Intanto, anche la normativa è cambiata.

Convertendo il DL 161/2019, la legge n.7/2020 riforma l’art.270, c.1 c.p.p.:

«I risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati  in  procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che  risultino rilevanti e indispensabili per l’accertamento di delitti per i  quali e’  obbligatorio  l’arresto  in  flagranza  e  dei   reati   di   cui all’articolo 266, comma 1».

Si estende l’ambito della possibilità di usare le intercettazioni originarie anche ai procedimenti che riguardino i reati per cui l’intercettazione è ammissibile (art.266 c.p.p.)

Si aggiunge un pleonastico «rilevante» a ciò che era già «indispensabile». 

L’interpretazione della nuova disposizione dovrà coordinarsi con la sentenza delle SSUU.

Mentre la nuova norma amplia la possibilità di usare le originarie intercettazioni anche ai procedimenti diversi che abbiano per oggetto un reato per cui è consentita l’intercettazione, le SSUU spiegano che «diverso procedimento» è quello relativo a reato non connesso a quello del procedimento originario ai sensi dell’art.12 c.p.p.

In sintesi:

  • il legislatore ha ampliato i presupposti di applicabilità dell’art.270 c.p.p.
  • le SSUU, hanno ridefinito il concetto di «diverso procedimento» in termini restrittivi rispetto all’indirizzo precedente.

Inoltre, la riforma predispone una «disciplina dedicata» riguardo ai risultati delle intercettazioni ambientali eseguite mediante captatore informatico su dispositivi mobili (non quelli fissi):

«Fermo restando quanto previsto dal comma 1, i risultati delle intercettazioni tra presenti operate con captatore informatico su dispositivo elettronico portatile possono essere utilizzati anche per la prova di reati diversi da quelli per i quali è stato  emesso  il decreto  di  autorizzazione  qualora  risultino  indispensabili   per l’accertamento  dei  delitti  indicati   dall’articolo   266,   comma 2-bis.» (art.270, c. 1 bis nuova formulazione).

Se, pertanto, il captatore sia inserito in un dispositivo mobile in quanto si procede per un reato che lo ammette, le intercettazioni potranno essere usate anche per altri reati emersi dai dialoghi registrati purché:

  • si tratti di reati per cui è consentita questa forma di intercettazione ( quelli di cui all’art.266, c. 2 bis: delitti di cui all’art. 51, commi  3-bis  e 3-quater c.p.p. e  per i delitti dei pp.uu. e degli incaricati di pp.ss. puniti con  la  pena  della  reclusione  non  inferiore  nel  massimo  a  cinque  anni)
  • sia indispensabile usare le intercettazioni per la prova dei reati.
28.2. L’utilizzabilità delle intercettazioni (art.271 c.p.p.).

L’inutilizzabilità delle intercettazioni è disciplinata dall’art.271 c.p.p. che sanziona le violazioni sia dei presupposti di ammissibilità che delle regole di esecuzione.

Da premettere che la legge di riforma non ha modificato il testo vigente.

Si prevede che i risultati delle intercettazioni non possano essere utilizzati “fuori dei casi consentiti dalla legge” o se non siano state “osservate le disposizioni previste dagli art. 267 e 268 commi 1 e 3”, ossia le prescrizioni autorizzative ed operative (art. 271 comma 1 c.p.p.), nonché in caso di trasgressione alle disposizioni relative all’uso del captatore informatico (art. 271 comma 1 bis c.p.p.).

E’ prevista la distruzione della documentazione inerente le intercettazioni irritualmente ammesse o eseguite, salvo che costituiscano corpo del reato (art. 271 comma 3 c.p.p.).

Resta a rilevarsi che l’art. 271 c.p.p. non esaurisce le ipotesi a presidio dell’ammissibilità e utilizzabilità delle intercettazioni, qui ricordando quelle a tutela di situazioni soggettive, quali la posizione del difensore (art. 103 comma 7 c.p.p.) o a disciplina di ipotesi oggettive particolari, quali l’intercettazione preventiva (art. 226 norme coord. c.p.p.) o l’intercettazione per agevolare la ricerca del latitante (art. 295 commi 3 e 3 bis c.p.p.).

Quanto ai requisiti di ammissibilità delle intercettazioni, l’art.266 c.p.p. ha individuato le categorie dei reati per cui è consentito ricorrere a questo mezzo di prova, per titolo o secondo il livello di pena prevista

Non sussistono, pertanto, particolari difficoltà per verificare quando l’intercettazione sia ammissibile, se non nel momento in cui sia necessaria la modifica del reato o si profilino fatti di reato nuovi o diversi rispetto alla contestazione utilizzata per la richiesta e la autorizzazione alla intercettazione (nei termini appena esaminati nel paragrafo 28.1.).

L’art.271 c.p.p. prevede che i risultati delle intercettazioni non possano essere utilizzati “fuori dei casi consentiti dalla legge” o se non siano state “osservate le disposizioni previste dagli art. 267 e 268 commi 1 e 3”, ossia le prescrizioni autorizzative ed operative (art. 271 comma 1 c.p.p.)

Non appare necessario soffermarsi più di tanto sui casi di inutilizzabilità conseguenti alla violazione delle disposizioni autorizzative (assenza dei gravi indizi ovvero dei sufficienti indizi di reato, mancanza della motivazione del decreto autorizzativo, divieti di cui all’art.203 c.p.p. e così via), trattandosi di “casistica” assai nota all’operatore giudiziario.

Quanto alle ipotesi principali di inutilizzabilità ex art. 271 comma 1 c.p.p. dei risultati delle intercettazioni nel caso concreto di intercettazioni mediante captatore informatico appare evidente che l’esecuzione “fuori dei casi consentiti dalla legge” rimanda agli artt. 266 c.p.p. e 266 bis c.p.p., nonché all’art. 13 D.L. 13 maggio 1991, n. 152 riferendosi, quindi, all’attività di captazione posta in essere per reati diversi da quelli per i quali le intercettazioni sono ammissibili.

Parimenti, nessun problema interpretativo sorge dal richiamo, contenuto nell’art. 271 c.p.p., all’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni: “per inosservanza delle disposizioni di cui all’art. 267 c.p.p.”, atteso che tale norma è richiamata integralmente e, dunque, la violazione delle nuove disposizioni relative al cd. captatore informatico, inserite dal D.Lvo 216/2017 nell’art. 267 c.p.p., determinerà l’irrogazione della più grave sanzione dell’inutilizzabilità.

Pertanto, saranno colpite da inutilizzabilità le intercettazioni tra presenti, mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, nel caso in cui nel decreto autorizzativo manchi l’indicazione delle ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini (e questo anche per i reati di cui all’art.51, commi 3 bis e 3 quater c.p.p. e dei reati dei pp.uu. e incaricati di pp.ss. contro la p.a. puniti con pena non inferiore a 5 anni di reclusione).

Per i reati, invece, diversi da quelli di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater c.p.p. e dei reati dei pp.uu. e degli incaricati di pp.ss. contro la p.a. puniti con pena non inferiore a 5 anni di reclusione, saranno sanzionati con l’inutilizzabilità i risultati di quelle intercettazioni tra presenti, mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, quando nei decreti autorizzativi manchi l’indicazione dei luoghi e del tempo, anche indirettamente determinati in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono.

Piuttosto, qui interessano i casi di inutilizzabilità qualora non siano state “osservate le disposizioni previste dagli art. 267 e 268 commi 1 e 3” (art.271, comma 1 c.p.p.).

Intanto, poiché la riforma non ha modificato l’art. 271, comma 1 c.p.p., si può sostenere che le nuove disposizioni sul deposito dei verbali e registrazioni, sulla acquisizione delle intercettazioni e sui termini e modalità della decisione del giudice (art. 268, commi 4, 5, 6, c.p.p.), non siano presidiate dalla scure della inutilizzabilità, ma siano ravvisabili profili di nullità in caso di violazione dei diritti difensivi[15].

Resteranno, pertanto, sempre proponibili le “solite” questioni relative alla registrazione delle comunicazioni intercettate e alla redazione del relativo verbale, qui ricordando che l’art. 268 comma 1 c.p.p. prevede che le comunicazioni intercettate siano “registrate e delle operazioni è redatto verbale”.

La giurisprudenza, come noto, limita la sanzione agli stretti casi di rinvio dell’art. 271 comma 1 c.p.p. all’art. 268 commi 1 e 4 c.p.p., sostenendo che il mancato rispetto del termine di cinque giorni dalla conclusione delle operazioni per il deposito dei verbali e delle registrazioni non è causa di nullità, non essendo espressamente prevista, né di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, “atteso il mancato richiamo, nell’art. 271 c.p.p., al quarto e al sesto comma dell’art. 268 c.p.p.[16].

Sempre seguendo il costante indirizzo della giurisprudenza, sono utilizzabili gli esiti delle intercettazioni, ai sensi dell’art. 271 comma 1 c.p.p., in caso di “ irregolare indicazione di inizio e fine delle operazioni nei verbali cui fa riferimento l’art. 267 comma 5 c.p.p. e che attengono alla durata complessiva dell’attività di intercettazione autorizzata per le singole utenze o i singoli ambienti privati, posto che l’indicata sanzione processuale opera solo con riferimento alle ipotesi previste dall’art. 268, commi 1 e 3” (Cass. Sez. VI. 28.7.2015 n. 33231.)

Inoltre, la mancata indicazione, nei verbali di inizio e fine delle operazioni, dei nominativi degli ufficiali di polizia giudiziaria che vi hanno preso parte non comporta inutilizzabilità (Cass. Sez. III, 18.5.2015 n. 20418).

Piuttosto, merita ricordare che secondo un recente indirizzo interpretativo, l’omessa indicazione, nel verbale di esecuzione delle intercettazioni, delle generalità dell’interprete di lingua straniera che abbia proceduto all’ascolto, traduzione e trascrizione delle conversazioni, rende inutilizzabili tali operazioni per l’impossibilità di desumere la capacità dell’ausiliario di svolgere ed eseguire adeguatamente l’incarico affidatogli (Cass. Sez. III, 21.7.2016 n. 31454, rv 267738).

Sempre sul tema, ricordiamo che è stato introdotto il divieto di trascrizione anche sommaria delle captazioni del difensore, a supporto di quello, già esistente, di utilizzazione (art. 103 comma 7 c.p.p.).

Infine, il nuovo art.268, comma 2 bis c.p.p. prevede che il p.m. dia indicazioni affinché nei verbali non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano dati personali sensibili, salvo che si tratti di intercettazioni rilevanti ai fini dell’indagine.

In questo caso, dal tenore della disposizione sembrerebbe ricavarsi un divieto allegazione ai fini della tutela di posizioni non inerenti al tema probatorio.

L’eventuale violazione del divieto non sarebbe, però, sanzionabile con l’inutilizzabilità, posto che ilconcettodellairrilevanza rientra nel fenomeno della inutilizzabilità[17].

L’art. 268 comma 3 c.p.p. stabilisce che le operazioni d’intercettazione possono essere compiute esclusivamente per mezzo di impianti installati nella Procura della Repubblica e che il ricorso a quelli di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria è consentito se il p.m., con decreto, specifichi le ragioni che rendano i primi insufficienti o inidonei e contestualmente giustifichi l’esistenza d’eccezionali ragioni di urgenza.

Con la riforma, il ricorso esclusivo o alternativo a impianti della Procura (art. 268 comma 3 c.p.p.), dovrà ovviamente confrontarsi con le nuove metodologie captative.


[1] Il termine “captatore informatico” fu utilizzato dalla giurisprudenza (Sez. 5, n. 16556 del 14/10/2009, dep. 2010, Virruso, Rv. 246954) la quale, lo definisce pure “agente intrusore” (Sez. 6, n. 27100 del 26/05/2015, Musumeci, Rv. 265654).

[2] L’espressione è di L. Filippi, L’ispe-perqui-intercettazione “itinerante”: le Sezioni unite azzeccano la diagnosi ma sbagliano la terapia, in Il penalista. it, 6 settembre 2016.

[3] Palmieri “La nuova disciplina del captatore informatico tra esigenze investigative e salvaguardia dei diritti fondamentali

Dalla sentenza “Scurato” alla riforma sulle intercettazioni” in Diritto Penale Contemporaneo n.1/2018, pagg.60 ss.

[4] A. Gaito-S. Furfaro, Intercettazioni: esigenze di accertamento e garanzie della riservatezza, in A.A. V.V., I principi europei del processo penale, a cura di A. Gaito, Roma, 2016, p. 364, il quale rileva che “nulla sfugge al controllo, e dal telefono all’intimità quotidiana, dalla corrispondenza alla rete fino alla messaggistica di WhatsApp e Blackberry tutto è ormai tecnicamente intercettabile: parole, suoni, gesti e, conseguentemente, opinioni e pensieri prima di azioni e condotte concrete”.

[5] Nel corso dei lavori parlamentari per la conversione del decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7, “Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale”, convertito con modificazioni dalla legge 17 aprile 2015, n. 43, era stata proposta una modifica dell’art. 266-bi5 cod. proc. pen., inserendo le parole «anche attraverso l’impiego di strumenti o di programmi informatici per l’acquisizione da remoto delle comunicazioni e dei dati presenti in un sistema informatico». Successivamente, era stato presentato un emendamento che mirava a circoscrivere l’area operativa del nuovo strumento alle indagini per i delitti di cui agli artt. 270-bis, 270 – ter, 270 -quater e 270-quinquies del codice penale commessi con le finalità di terrorismo di cui all’articolo 270-sexies. Successivamente, in data 2 dicembre 2015, è stata depositata la proposta di legge C. 3470, intitolata “Modifica all’articolo 266-bis del codice di procedura penale, in materia di intercettazione e di comunicazioni informatiche o telematiche”. In data 20 aprile 2016 è stata depositata la proposta di legge C. 3762, intitolata «Modifiche al codice di procedura penale e alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, in materia di investigazioni e sequestri relativi a dati e comunicazioni contenuti in sistemi informatici o telematici». La relazione di accompagnamento, dopo aver definito “captatore legale” il programma informatico da utilizzare nelle indagini, illustra, sul piano metodologico, le varie attività che il programma informatico consente, le quali sono distinte e ricondotte all’istituto tipico al quale sono più assimilabili. In particolare, l’art. 1 prevede la possibilità di procedere, tramite captatori legali, a perquisizioni a distanza, nei soli casi in cui si procede per i reati di cui all’art. 51, comma 3-bis, 3 -quater e 3 -quinquies, cod. proc. pen., all’art. 407, comma 2, cod. proc. pen. e ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. L’art. 2 disciplina il sequestro da remoto dei dati «diversi da quelli relativi al traffico telefonico o telematico», limitatamente ai reati dapprima indicati. L’art. 3 modifica l’art. 266-bis cod. proc. pen., disciplinando l’uso dei captatori legali per compiere l’intercettazione di flussi di dati e per la localizzazione geografica del dispositivo. L’ad, 4 prevede il carattere residuale e sussidiario dei nuovi mezzi investigativi. L’art. 5 modifica l’art. 268 cod. proc. pen., statuendo che i dati informatici acquisiti siano conservati con modalità tali da assicurare l’integrità e l’immodificabilità dei dati raccolti e la loro conformità all’originale. L’art. 6 aggiunge il nuovo art. 89-bis al d.lgs. n. 271 del 1989 indicando i contenuti del decreto ministeriale sulle caratteristiche tecniche dei captatori. L’art. 7 modifica l’art. 226 d.lgs. n. 271 del 1989 adeguando la disciplina delle intercettazioni preventive al nuovo strumento di captazione.

[6] Detta interpretazione della norma codicistica, secondo la sentenza Musumeci, sarebbe l’unica compatibile con il dettato dell’art. 15 Cost.; imponendosi, ai fini della piena tutela della libertà di comunicare, una lettura rigorosa delle disposizioni che legittimano la compressione di tale diritto della persona: l’intercettazione ambientale, pertanto, dovrebbe avvenire in luoghi ben circoscritti e individuati ab origine nel provvedimento di autorizzazione, non potendo essere permessa in qualunque posto si trovi il soggetto. La specificazione dei luoghi non costituirebbe, cioè, «una semplice modalità attuativa del mezzo di ricerca della prova», ma una tecnica di captazione, con specifiche peculiarità, in grado di attribuire maggiore potenzialità all’intercettazione, dal momento che consente la possibilità di «captare conversazioni tra presenti non solo in una pluralità di luoghi, a seconda degli spostamenti del soggetto, ma […] senza limitazione di luogo».

[7]La scelta è stata in parte imposta dalla circostanza che proprio in riferimento a tale utilizzo del cd. agente intrusore (che consente intercettazioni ubiquitarie ovvero che si spostano di luogo in luogo seguendo il possessore del dispositivo target oggetto di intercettazione) si sono posti, nella prassi, i maggiori interrogativi di compatibilità dello strumento tecnico investigativo con la disciplina relativa alle intercettazioni tra presenti, alla luce della necessità , più volte riaffermata anche dalla giurisprudenza di legittimità, di preventiva individuazione, in seno al decreto autorizzativo, dei luoghi in cui possano avvenire le operazioni”. Da “Linee guida..” adottate dalla Procura di Sondrio il 10.4.2018.

[8] Gli incaricati di pubblico servizio sono definiti dall’art. 358 c.p., Secondo l’evoluzione interpretativa la nozione di incaricato di servizio pubblico è dinamica, non tanto esigendosi che l’incaricato del servizio sia organico nella p.a., quanto valutandone la funzione: «Agi effetti della legge penale, sono incaricati di un pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio. Per pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di questa ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale». Una categoria residuale rispetto a quella generale di cui all’art. 357 c.p., comprensiva di soggetti che, pure non svolgendo attività esclusivamente materiali, sono privi di poteri deliberativi, autoritativi o certificativi.

[9] “In molti casi la determinazione del tempo di attivazione del microfono nel decreto autorizzativo costituirà elemento strettamente ed inevitabilmente connesso anche ai luoghi di attivazione determinati dal decreto in dipendenza ai contatti ed agli incontri degli indagati in relazione alla commissione dei reati. Si pensi alla seduta riservata di una gara pubblica che si terrà indifferibilmente dalle ore 14 alle ore 17: in tal caso il Giudice potrà, ed anzi dovrà, autorizzare la captazione limitatamente a tale intervallo temporale, ferma restando la possibilità di indicare i termini anche indirettamente, per esempio…con riferimento al momento ( e al luogo) in cui almeno due degli indagati si siano incontrati ed abbiamo iniziato a discutere dell’attività illecita…”, da “Linee guida…” adottate dalla Procura di Sondrio il 10.4.2018.

[10] Come annota il Procuratore della Repubblica di Bologna “Per l’effetto di quanto detto: i reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione di che trattasi finiscono con l’avere — rispetto all’utilizzo del trojan – un regime di applicabilità dello strumento delle intercettazioni finanche più ampio rispetto a quello ordinariamente previsto per i reati di criminalità organizzata di cui all’articolo 13 del decreto legge 1991 n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991 n. 203 che non siano ricompresi tra quelli di cui all’articolo 51, commi 3 bis e 3 quater del Cp [cui pure sono assimilati ex articolo 6, comma |, del decreto legislativo n. 216 del 2017, quanto al compendio indiziario legittimante il ricorso allo strumento intercettativo e quanto ai presupposti per poter disporre le intercettazioni ambientali: come si è visto, gli indizi di reato richiesti per poter disporre le intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni non devono essere più “gravi”, come ordinariamente previsto dall’articolo 267, comma 1, del Cpp, ma bastano indizi “sufficienti”; mentre, nel caso di intercettazioni ambientali da svolgere nei luoghi indicati dall’articolo 614 del Cp, queste possono essere eseguite, diversamente da quanto ordinariamente disposto dal comma 2 dell’articolo 266 del Cpp, anche se non vi è il fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa]. Infatti, l’intercettazione mediante l’inserimento di un captatore informatico su un dispositivo elettronico portatile, è sempre consentita [solo] quando si procede per i delitti di cui all’articolo 51, commi 3 bis e 3 quater, del Cpp e, ora, quando si procede per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni [articolo 266, comma 2 bis. del Cpp]. Per gli altri reati di criminalità organizzata non ricompresi nell’articolo 51, commi 3 bis e 3 quater, del Cpp [ad esempio, secondo le puntualizzazioni offerte dalla sentenza delle Sezioni unite 28 aprile 2016, Scurato “quelli comunque facenti capo ad un’associazione per delinquere ex articolo 416 del Cp, correlata alle attività più diverse. con esclusione del mero concorso di persone”] le intercettazioni tramite captatore informatico possono essere eseguite, ma, qualora avvengano nei luoghi di cui all’articolo 614 del Cp. è necessario che il decreto di autorizzazione indichi “i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono” [articolo 267, comma 1, ultimo periodo, del Cpp].”. Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bologna: ” Legge 9 gennaio 2019 n. 3. Profili di interesse per Ufficio del PM” 17.1.2019.

[11] Novella Galantini, “Profili di inutilizzabilità delle intercettazioni anche alla luce della nuova disciplina” in Diritto Penale Contemporaneo.

[12] Nel diverso caso in cui, invece, la trasmissione dei dati derivanti da captazione informatica sia indirizzata ad un computer installato presso la polizia giudiziaria per consentirne l’ascolto e successivamente partendo da questo server venga trasmesso agli impianti presso Procura, si tratterebbe non  di una semplice “remotizzazione” per l’ascolto, ma dell’utilizzo di impianti esterni in dotazione della P.G quali destinatari del trasferimento dei dati. Troverà, allora, applicazione il disposto di cui all’ art. 268, comma. 3 c.p.p. che consente per motivate ragioni di eccezionale urgenza e per l’indisponibilità o insufficienza di impianti presso la Procura il compimento delle operazioni mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria

[13]Linee guida…” Procura di Sondrio.

[14] Dunque, non deriverebbe l’inutilizzabilità nel caso di mancata indicazione nel verbale del tipo di programma impiegato (art. 89 disp. att. comma 1), ovvero nel caso di ricorso a programmi non conformi ai requisiti tecnici indicati dal Ministero (art. 89 disp. att. comma 2), nonché alla disattivazione del captatore con modalità tali da renderlo inidoneo a successivi impieghi (art. 89 disp. att. comma 5).

[15] Sulla insussistenza di nullità o inutilizzabilità ex art. 268 c.p.p. per omesso avviso della facoltà di esaminare gli atti, Cass. Sez. 8.4.2015 n. 33587, rv 264522 e Cass. 8.1.2016 n. 6408.

[16] Cass. Sez. VI, 23/03/2017 n. 14248.

[17] Novella Galantini “Profili di inutilizzabilità delle intercettazioni anche alla luce della nuova disciplina” in Diritto Penale Contemporaneo.

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di Onelio Dodero in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la Costituzione

Sommario: 15. Il deposito degli atti, la procedura di acquisizione e di stralcio. 15.1. L’originario testo della riforma. 15.2. Le modifiche alla disciplina introdotte con il D.L.n.161/2019. 15.2.1. La procedura ordinaria di acquisizione e di stralcio. 15.2.2. L’acquisizione e lo stralcio; l’intervento del g.i.p.; la riproponibilità della procedura. 15.2.3. La possibilità dell’acquisizione delle intercettazioni senza ricorrere al g.i.p.: le ipotesi di cui agli artt.415 bis, comma 2 bis e 454, comma 2 bis c.p.p.; la perizia di trascrizione delle registrazioni e di stampa dei flussi di comunicazioni. 15.3. Conclusioni sulla procedura di acquisizione, stralcio e di esecuzione della perizia. 16. La procedura in caso di richiesta di misura cautelare personale. 16.1. La disciplina del testo originario della riforma. 16.2. La scelta del D.L.n.161/2019. 16.3. I diritti della difesa.

15. Il deposito degli atti, la procedura di acquisizione e di stralcio.

Il momento della conservazione nell’archivio è prodromico alla successiva procedura selettiva del materiale da effettuarsi, sotto il controllo del giudice (ancora nella fase delle indagini preliminari o all’esito dell’udienza preliminare ove prevista, v.infra).

Si tratta della cosiddetta procedura di acquisizione e di stralcio, che consiste nel deposito degli atti, nella possibilità per la difesa di prenderne conoscenza (ma non di averne copia), nella successiva fase di cernita di quelle intercettazioni che andranno a costituire il materiale probatorio e di quelle che resteranno conservate nell’archivio in quanto non rilevanti sulla prova dei fatti e delle responsabilità o contenenti espressioni lesive della reputazione delle persone o dati personali sensibili e sempreché non necessarie alle indagini.

Il D.L.n.161/2019 ha profondamente inciso su questo aspetto della riforma, sostanzialmente eliminandone le novità e quasi replicando la “vecchia” (e ancora per poco vigente) disciplina, con qualche variante.

15.1. L’originario testo della riforma.

Il testo della riforma prevedeva due procedure: quella in cui il materiale intercettato non fosse stato usato per l’adozione di una misura cautelare e quella in caso contrario, ossia di intercettazioni utilizzate per l’emissione di una misura cautelare.

Quanto alla procedura di acquisizione delle intercettazioni non usate per l’adozione di una misura cautelare si stabiliva che il p.m., concluse le operazioni d’intercettazione, provvedesse a:

a) depositare gli atti (annotazioni di p.g., verbali delle operazioni, registrazioni, unitamente ai decreti di autorizzazione, convalida, proroga) presso l’archivio riservato entro cinque giorni dal termine delle operazioni ovvero alla chiusura delle indagini se autorizzato dal gip;

b) redigere l’elenco delle comunicazioni e conversazioni (e dei flussi di comunicazione informatiche o telematiche) rilevanti ai fini di prova, prodromico alla richiesta al g.i.p. di acquisizione e allegazione al fascicolo del p.m.;

c) notificare ai difensori delle parti l’avviso della facoltà di esaminare gli atti di intercettazione depositati, di prendere visione dell’elenco delle intercettazioni rilevanti ai fini di prova, di ascoltare le registrazioni e di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche; tali facoltà dei difensori delle parti (da esercitarsi presso l’archivio riservato, ai sensi del combinato disposto degli artt. 269 c.p.p. e 89 bis disp.att. c.p.p.) non comprendevano la possibilità in questa fase di estrarre copia degli atti e delle registrazioni;

d) presentare al giudice, entro i successivi cinque giorni dal deposito degli atti, la richiesta di acquisizione delle comunicazioni, conversazioni e dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche contenuti nell’elenco e ad avvisarne i difensori.

A loro volta i difensori, ricevuto l’avviso del deposito, entro i successivi 10 giorni (prorogabili di altri 10 con provvedimento del giudice) avevano la facoltà di “richiedere l’acquisizione di conversazioni…non comprese nell’elenco del pubblico ministero, ovvero l’eliminazione di quelle, ivi indicate, inutilizzabili o di cui è vietata la trascrizione, anche sommaria, nel verbale…” (art.268 ter, comma 3 c.p.p.).

Sino alla decisione del giudice, era concessa la possibilità al p.m. e ai difensori di integrare le richieste e presentare memorie (art.268 ter, comma 5 c.p.p.).

Nel frattempo, le registrazioni e gli atti restavano custoditi nell’archivio riservato a disposizione del giudice e dei difensori.

In questa prima fase, ossia fino alla cernita ed individuazione da parte del g.i.p. delle conversazioni rilevanti da inserire nel fascicolo delle indagini preliminari, ai difensori era riconosciuto solo il diritto di esaminare e prendere visione degli atti, di ascoltare le registrazioni e di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche intercettate, ma non quello di estrarre copia degli atti, né di ottenere la trasposizione su supporto delle comunicazioni captate (artt. 268 bis, comma 2, 268 quater, commi 3 e 4, 269 commi 1 e 1 bis c.p.p. e 89 bis, comma 4 disp. att. c.p.p.).

Nel testo di riforma, il deposito dei verbali delle registrazioni non era più funzionale all’udienza di trascrizione in forma peritale delle conversazioni destinate a confluire nel fascicolo del dibattimento, ma solo 

  • a stabilire quali fossero le conversazioni rilevanti ai fini di prova da acquisire al fascicolo del p.m.
  • a scartare le altre
  • a regolare il vincolo della segretezza che sarebbe venuto meno per le prime e mantenuto.

A sua volta, la procedura di trascrizione veniva differita al dibattimento, ex art.493 bis c.p.p.

Infatti, decorsi cinque giorni dalla presentazione delle richieste (termine non perentorio, ma ordinatorio) si stabiliva che il giudice, con ordinanza emessa in camera di consiglio senza l’intervento del pubblico ministero e dei difensori, acquisisse le conversazioni e comunicazioni indicate dalle parti, salvo quelle manifestamente irrilevanti e ordinasse, anche di ufficio, lo stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l’utilizzazione; a tal fine potendo procedere all’ascolto delle conversazioni comunicazioni recandosi nell’archivio riservato (art.268 quater, comma 1, ultima parte, c.p.p.).

Era anche prevista un’eventuale udienza “quando necessario” (art.268 quater, comma 2 c.p.p.).

Dunque, il procedimento era scandito dalla regola del contraddittorio solo cartolare, salvo necessità.

Con l’Ordinanza, veniva meno “…il segreto sugli atti e i verbali delle conversazioni e comunicazioni oggetto di acquisizione” (art.268 quater, comma 3 c.p.p.).

Pertanto, le intercettazioni acquisite dovevano essere inserite nel fascicolo di cui all’art. 373, comma 5 c.p.p. (ossia quello del p.m.), con facoltà per i difensori di ottenere la copia degli atti e la trasposizione su apposito supporto informatico delle registrazioni (art.269, commi 3 e 4 c.p.p.); quelle non acquisite restavano nell’archivio riservato (art.269, comma 5 c.p.p.)[1].

La trascrizione delle registrazioni acquisite dal g.i.p. e trasmesse nel fascicolo del p.m. era affidata, in via ordinaria, alle attività di richiesta di prova da compiersi in fase dibattimentale[2].

La riforma, dunque, abbandonava l’attuale procedura di acquisizione delle intercettazioni come prevista dal vigente art.268, commi 6 e 7 c.p.p., trattandosi di un meccanismo da sempre poco frequentato nelle aule giudiziarie.

Tale ormai “vecchio schema” prevede che il giudice, in contradditorio, proceda ad acquisire le intercettazioni indicate dalle parti e non manifestamente irrilevanti, mediante la perizia di trascrizione integrale delle registrazioni, la quale sarà poi inserita nel fascicolo per il dibattimento.

A causa della possibilità di rinviare la procedura al dibattimento, l’istituto ha finito per essere applicato solo residualmente, con la conseguenza di aver resa vana la finalità di evitare che tutte le intercettazioni fossero allegate al fascicolo del p.m., così diventando di dominio pubblico al momento del venir meno del segreto, come puntualmente, di fatto, accade.

A rimedio, la riforma prevedeva si desse corso alla procedura di acquisizione delle intercettazioni “non manifestamente irrilevanti” entro la fase delle indagini preliminari.

Conclusione ricavabile non tanto dalla previsione secondo cui il deposito degli atti dovesse avvenire entro la conclusione delle indagini (come, del resto, già attualmente previsto), quanto dall’aver individuato nel g.i.p. il giudice che doveva procedere alle operazioni di acquisizione delle intercettazioni da inserire nel fascicolo delle indagini del p.m (art.268 quater, comma 6 c.p.p.: “alle operazioni di acquisizione provvede il giudice per le indagini preliminari che ha autorizzato, convalidato o prorogato le intercettazioni”).

La riforma, dunque, tratteggiava una procedura di acquisizione delle intercettazioni non oltre la chiusura delle indagini preliminari, stabilendo che all’esito delle richieste il giudice disponesse l’unione al fascicolo del p.m. di quelle non manifestamente irrilevanti; le altre e quelle non utilizzabili dovevano essere restituite al p.m. e conservate nell’archivio riservato.

Ma la partita non si chiudeva qui.

Infatti, la valutazione del g.i.p. di non acquisire le intercettazioni manifestamente irrilevanti pur richieste dalle parti non era definitiva, essendo ammessa la possibilità che nelle fasi successive, propriamente processuali, si potesse tornare in argomento, rivalutando la decisione.

Inutile soffermarsi, poiché il D.L.n.161/2019 ha espressamente abrogato queste ipotesi[3].

15.2. Le modifiche alla disciplina introdotte con il D.L.n.161/2019.

Questa procedura ordinaria di acquisizione delle intercettazioni è stata del tutto sostituita dalla nuova disciplina tratteggiata dal D.Ln.161/2019.

Il testo di legge, infatti, ricalca la “vecchia” (invero al momento ancora vigente) procedura di acquisizione e stralcio delle intercettazioni, inserendovi i correttivi necessari allo scopo di

  • mantenere la segretezza delle intercettazioni irrilevanti o di quelle non necessarie a fini della prova dei fatti di causa, di quelle di cui è vietato l’uso e di quelle contenenti dati personali sensibili o espressioni lesive della reputazione delle persone, salvo che siano rilevanti per il procedimento (artt.268, comma 2 bis, comma 6 c.p.p., 89 bis, comma 2 disp.att.c.p.p.)
  • stimolare la procedura di acquisizione delle intercettazioni e dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche rilevanti entro la chiusura delle indagini preliminari (artt.268, commi 6 e 7, 415 bis, comma 2 bis c.p.p.)
  • tendenzialmente prevedere la trascrizione mediante perizia delle registrazioni rilevanti solo quando necessario, ossia prima del dibattimento.
15.2.1. La procedura ordinaria di acquisizione e di stralcio.

Come già rilevato, gli atti inerenti alle intercettazioni e il materiale fonico, concluse le operazioni, sono trasmessi dalla p.g. immediatamente al p.m. e direttamente custoditi nell’archivio, in attesa del venir meno della segretezza (i 5 giorni di cui all’art.268, comma 4 c.p.p., ovvero al momento della chiusura delle indagini a seguito di decreto autorizzativo del gip, ai sensi del successivo comma 5 del medesimo articolo).

Il momento della conservazione nell’archivio è prodromico alla successiva procedura selettiva del materiale da effettuarsi, sotto il controllo del giudice (v.infra).

Si tratta della cosiddetta procedura di acquisizione e di stralcio, che consiste nel deposito degli atti, nella possibilità per la difesa di prenderne conoscenza (ma non di averne copia), nella successiva fase di cernita di quelle intercettazioni che andranno a costituire il materiale probatorio e di quelle che resteranno conservate nell’archivio perché non funzionali alla prova o vietate.

Intanto, secondo la procedura ordinaria, il p.m. entro i canonici 5 giorni dalla trasmissione, depositerà ai difensori atti e materiale, dando contestuale avviso che, entro un termine che sarà libero di stabilire, ma prorogabile dal g.i.p. dietro richiesta, avranno facoltà di accedere all’archivio e di prendere cognizione “per via telematica” di quanto lì custodito; pertanto, la modalità di consultazione è informatica (art.268, comma 6 c.p.p.).

Si tratta di termini assai ristretti per le parti, ma la cui violazione non prevede decadenze.

Contestualmente al deposito degli atti, appare opportuno che il p.m. provveda a indicare, preferibilmente mediante la redazione e il deposito di un elenco, le intercettazioni e i flussi delle comunicazioni informatiche e telematiche che intende fare acquisire dal giudice, in quanto ritenuti rilevanti per la prova dei fatti e delle responsabilità.

Se vero è che l’art.268, comma 6 c.p.p. non prevede espressamente che il p.m. debba, con l’avviso di deposito, anche mettere a disposizione del difensore l’elenco in questione, altrettanto è vero che così è stabilito nell’art.415 bis, comma 2 bis (“…l’avviso contiene inoltre l’avvertimento che l’indagato e il suo difensore hanno facoltà…di estrarre copia delle registrazioni…indicati come rilevanti dal pubblico ministero..”).

Per evitare, pertanto, frizioni interpretative, si ritiene che il p.m. debba redigere l’elenco sia nel caso dell’avviso di cui all’art.415 bis c.p.p. che nel caso di applicazione della procedura di cui all’art.268, comma 6 c.p.p.

Così si argomenta, anche considerando che l’art.268, comma 6 c.p.p. stabilisce che il giudice, scaduto il termine del deposito, dispone l’acquisizione delle intercettazioni o dei flussi delle comunicazioni informatiche e telematiche indicati dalle parti, che non appaiano irrilevanti, procedendo, anche d’ufficio, allo stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l’utilizzazione e di quelli che riguardano categorie particolari di dati personali, sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza (art.268, comma 6 c.p.p.).

Significa, pertanto, che sia il p.m. (si ritiene col deposito) sia il difensore (prendendo visione degli atti e dell’elenco del p.m. e nei termini, stabiliti o prorogati, di cui all’art.268, comma 4), saranno tenuti a indicare le intercettazioni che intendano acquisire, motivandone la rilevanza e potendo, quindi, intervenire un contraddittorio cartolare sul merito delle reciproche scelte, nel corso del quale ciascuno evidenzierà la rilevanza/irrilevanza, il divieto di uso, il contenuto di dati personali sensibili, con possibilità di integrare le richieste.

Secondo la novella, in questa prima fase i difensori hanno solo diritto di esaminare e prendere visione degli atti, di ascoltare le registrazioni e di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche intercettate, ma non quello di estrarre copia degli atti, né di ottenere la trasposizione su supporto delle comunicazioni captate (artt. 268, comma 6 c.p.p. e 89 bis, comma 4 disp. att. c.p.p.).

Resta da valutare la tenuta costituzionale di questo sistema caratterizzato dal divieto per le difese di estrarre copia degli atti e delle registrazioni fino a dopo che il giudice abbia deciso quali intercettazioni acquisire e, in questo caso, avendo diritto di copia soltanto delle registrazioni e degli atti acquisiti.

Altrettanto da valutare se il difensore possa esaustivamente adempiere il proprio ufficio senza la possibilità di estrarre copia degli atti, dovendo poi partecipare attivamente al procedimento di acquisizione delle intercettazioni rilevanti, per cui è previsto un contradditorio cartolare.

Intanto, l’instaurazione della procedura per l’acquisizione delle intercettazioni, che prende le mosse dal deposito degli atti nell’archivio e la contestuale redazione dell’elenco delle comunicazioni ritenute rilevanti dal p.m., dimostra che sono cessate le esigenze di segretezza.

Se così è, non trova ragione precludere alla difesa la possibilità di estrarre copia degli atti e anche di ottenere copia delle registrazioni.

Questa limitazione a prendere conoscenza senza poter estrarre copia era già prevista nell’originario testo della riforma e forse non a torto uno dei primi commentatori ha richiamato i moniti espressi dalla Corte Costituzionale, la quale, con la sentenza n. 192/97, ebbe ad osservare –  con  affermazione  di  principio di carattere universale in quanto applicabile a tutte le situazioni  che  presentino  identici  presupposti  ed  analoghe finalità – che “se si riflette sulla ratio dell’istituto, il deposito degli atti in cancelleria a disposizione delle parti deve, di regola, comportare necessariamente, insieme al diritto di prenderne visione, la facoltà di estrarne copia. Al contenuto minimo del diritto di difesa, ravvisabile nella conoscenza degli atti depositati mediante la loro visione, deve cioè accompagnarsi automaticamente, salvo che la legge disponga diversamente, la facoltà di estrarne copia, al fine di agevolare le ovvie esigenze del difensore di disporre direttamente e materialmente degli atti per preparare la difesa e utilizzarli nella redazione di richieste, memorie, motivi di impugnazione[4].

Il correttivo al divieto di estrarre copia degli atti e delle registrazioni dovrebbe essere rappresentato dalla possibilità per il difensore di ottenere una proroga dal g.i.p. del termine fissato dal p.m. per la consultazione del materiale (art.268, comma 4 c.p.p.).

Mentre l’abrogato art.268 ter c.p.p. stabiliva un temine originario stabilito dal p.m. in 10 giorni e la possibilità che il g.i.p. lo prorogasse di altri 10, la nuova disposizione non impone un termine alla proroga.

Ma è poca cosa, sempre lasciata a valutazioni discrezionali e non impugnabili.

A ciò si aggiunga che la difesa dovrà esaminare gli atti accedendo nell’archivio riservato e potrà ascoltare le intercettazioni solo “con apparecchio a disposizione dell’archivio” (art. 89 bis, comma 4 disp.att. c.p.p.).

Difficoltà si assomma, dunque, a difficoltà: sarà necessario (e problematico) contemperare il diritto di accesso del difensore con la limitatezza delle risorse e di personale di cui gli uffici giudiziari sono cronicamente affetti.

15.2.2. L’acquisizione e lo stralcio; l’intervento del g.i.p.; la riproponibilità della procedura.

Scaduti i termini di cui all’art.268, comma 4 c.p.p. il g.i.p. deciderà senza formalità, acquisendo agli atti soltanto le intercettazioni e i flussi comunicativi informatici/telematici “non irrilevanti”, anche dopo aver esercitato il diritto di accedere all’archivio per prendere visione degli atti e sentire le registrazioni (cfr. art.89 bis, comma 3 disp.att.c.p.p.).

In questo caso, non è stabilito un termine entro il quale il g.i.p. debba assumere la decisione (a differenza dei 5 giorni previsti dall’abrogato art.268 quater c.p.p.).

La mancata previsione del termine entro cui il g.i.p. debba decidere potrebbe interferire con le determinazioni del p.m. in ordine all’esercizio dell’azione penale.

Per evitare che l’attesa della decisione del g.i.p. possa cagionare rallentamenti all’attività del p.m, gravidi di conseguenze negative (ad esempio: necessità di promuovere l’azione penale per evitare la scadenza dei termini cautelari), si deve convenire che tali eventuali ritardi non possano precludere l’esercizio dell’azione penale, sempre possibile, pertanto, sebbene la procedura di acquisizione/stralcio non si sia conclusa.

In casi simili, malgrado l’esercizio dell’azione penale, il g.i.p. resterà funzionalmente competente a concludere la procedura di acquisizione/stralcio, nonché anche a conferire la perizia di trascrizione delle registrazioni (e quella di stampa dei flussi comunicativi) anche se il procedimento sia passato ad altra, successiva fase.

Adottata la decisione, con l’ordinanza del g.i.p. le intercettazioni e i flussi acquisiti entreranno a far parte del fascicolo del p.m. e, pertanto, ne verrà meno il segreto.

Trattandosi delle intercettazioni rilevanti ai fini della prova, l’art.89 bis disp.att.c.p.p. dispone che ai difensori è consentito di fare eseguire la trasposizione delle registrazioni acquisite su supporto informatico o altro strumento e di ottenere copia dei verbali delle comunicazioni acquisite.

Nel frattempo, anche d’ufficio ma previo avviso alle parti che hanno diritto di partecipare, il g.i.p. provvederà allo stralcio delle altre intercettazioni (di uso vietato o che contengano lesioni alla reputazione delle persone o dati sensibili e non rilevanti per il procedimento) che saranno restituite all’archivio, unitamente ai verbali.

E’ previsto che queste ultime “registrazioni” siano conservate nell’archivio fino alla sentenza “non più soggetta a impugnazione” (art.269, comma 2 c.p.p.).

Come noto, l’originario testo della riforma ammetteva che “…gli interessati, a tutela della riservatezza, possono chiedere la distruzione delle registrazioni non acquisite al giudice che ha autorizzato o convalidato l’intercettazione. Il giudice decide in camera di consiglio, a norma dell’art.127.” (art.269, comma 2, ultima parte c.p.p.).

La novità era rilevante e gli effetti potevano anche essere dirompenti, risolvendosi nella definitiva perdita delle intercettazioni qualora ne fosse stata accolta la richiesta di distruzione e, quindi, fosse emersa la necessità di “recuperare” quelle registrazioni in quanto diventate, per circostanze sopravvenute, importanti ai fini di prova dei fatti e delle responsabilità.

A seguito di ripensamento, si è sostituita quella previsione con la seguente: “…gli interessati quando la documentazione non è necessaria per il procedimento, possono chiederne la distruzione, a tutela della riservatezza, al giudice che ha autorizzato, o convalidato l’intercettazione. Il giudice decide in camera di consiglio a norma dell’articolo 127” (nuovo art.269, comma 2 c.p.p.).

Al di là, pertanto, di quelle non utilizzabili poiché eseguite fuori dei casi consentiti (ad esempio, quelle di cui al divieto posto dall’art.103 c.p.p.), tutte le intercettazioni che non siano state acquisite dal g.i.p. in quanto irrilevanti (art.268, comma 6 c.p.p.), resteranno custodite nel segreto nell’archivio almeno certamente fino alla sentenza irrevocabile e, dietro motivata richiesta a tutela della riservatezza, potranno essere distrutte, purchè non siano più necessarie per il procedimento.

Significa che anche il materiale riposto nell’archivio potrebbe un domani tornare utile al procedimento.

Questa disposizione, inoltre, consente di ritenere che la partita sulle intercettazioni acquisibili non si chiuda definitivamente nei ristretti tempi scanditi dall’art.268 c.p.p., ossia nel corso dell’indagine preliminare e fino alla definizione dell’udienza preliminare, ove prevista.

Certamente la nuova disciplina pone la regola generale per cui lo scrutinio delle intercettazioni avvenga nel corso delle indagini preliminari ed in modo che davanti al giudice del dibattimento non si debba procedere all’acquisizione e alla conseguente perizia trascrittiva, tuttavia consente ragionevoli eccezioni, come dimostra il nuovo testo dell’art.268, comma 2 c.p.p.

Del resto, limitare la selezione e l’acquisizione del materiale registrato (e dei flussi comunicativi) utile al procedimento esclusivamente alla fase delle indagini preliminari avrebbe contrastato con i principi generali, oltreché con il buon senso.

Il testo originario della riforma prevedeva che la cernita delle intercettazioni non avesse luogo soltanto nelle indagini preliminari.

Ed infatti, mentre, da una parte, la fase delle indagini preliminari era indicata quale quella ideale per la procedura di acquisizione e stralcio delle intercettazioni, dall’altra parte, tuttavia, si consentiva la possibilità di recuperare quelle intercettazioni in un primo tempo trasmesse all’archivio, ma divenute, per circostanze sopravvenute, rilevanti ai fini di prova, sia avanti al g.u.p. che al giudice del dibattimento.

Dunque, la valutazione del g.i.p. di non acquisire le intercettazioni manifestamente irrilevanti pur richieste dalle parti non era definitiva, poiché si ammetteva la possibilità che nelle fasi successive, propriamente processuali, si potesse tornare in argomento, rivalutando la decisione.

Così si prevedeva per l’udienza preliminare, aggiungendo nell’art.422 c.p.p. il comma 4 bis e attribuendo alle parti la possibilità di chiedere al g.u.p. di rivalutare la decisione del g.i.p. e di acquisire quelle intercettazioni in un primo tempo ritenute irrilevanti:

«4-bis. Se la richiesta di cui al comma 1 ha ad oggetto conversazioni o comunicazioni intercettate e non acquisite si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 268 ter e 268 quater.”.

Da rilevare, però, che la richiesta di acquisizione poteva essere valutata (e accolta) soltanto se l’intercettazione rappresentasse una prova decisiva ai fini della sentenza di non luogo a procedere.

Egualmente si provvedeva per la fase del dibattimento (comprendendo anche il giudizio di appello, stando al tenore dell’art.598 c.p.p. per il quale in questa fase si osservano le norme relative al giudizio di primo grado, laddove applicabili).

La disposizione in tema di acquisizione dibattimentale delle intercettazioni, sebbene con collocazione sistematica quanto meno inadeguata, essendo stata inserita nell’art. 472 c.p.p., dedicato ai “casi in cui si procede a porte chiuse”, anziché nelle norme che disciplinano la fase dedicata all’ammissione delle prove, stabiliva che il giudice procedeva alle operazioni di cui all’art. 268 ter c.p.p. “quando le parti rinnovano richieste non accolte o richiedono acquisizioni, anche ulteriori, e quando le ragioni della rilevanza a fini di prova emergono nel corso dell’istruzione dibattimentale”.

Significava che l’acquisizione delle intercettazioni in dibattimento era possibile in due casi:

 a) qualora si rinnovasse una richiesta di acquisizione precedentemente non accolta;

 b) qualora, a seguito di quanto emerso nel corso del dibattimento, fosse rilevante ai fini del decidere di acquisire nuove intercettazioni, ossia intercettazioni mai prima oggetto di richiesta; un caso, dunque, di prova nuova.

Il D.L. n.161/2019 ha abrogato espressamente tutte queste disposizioni, sia l’art.422, comma 4 bis quanto all’udienza preliminare sia l’art.472, comma 1 ultima parte, quanto al dibattimento ed ha pure eliminato l’art.493 bis c.p.p. che stabiliva che il giudice del dibattimento procedesse alla perizia di trascrizione (o alla stampa dei flussi informativi informatici).

Tuttavia, al di là del dato normativo, non è forse condivisibile concludere che le intervenute abrogazioni non consentano, in nessun caso, di rivalutare e recuperare le intercettazioni trasmesse dal g.i.p. nell’archivio perché a suo tempo ritenute irrilevanti.

Soprattutto tenendo conto dell’art.269, comma 2 c.p.p. che prevede di non distruggere le intercettazioni riposte nell’archivio fino alla sentenza irrevocabile e di non distruggerle, malgrado l’espressa richiesta di parte, se necessarie per il procedimento; termine questo che, come noto, si riferisce sia alla fase delle indagini che ai diversi gradi del processo.

D’altronde, non permettere di riproporre l’istanza di acquisizione a seguito della rinnovata valutazione del materiale appare confliggere con i principi generali in tema di diritto alla prova.

Si aggiunga che i termini di cui all’art.268 c.p.p. non sono previsti a pena di decadenza, né è prevista alcuna sanzione procedurale qualora il p.m. resti inattivo.

Ma al di là di questo, un’interpretazione che permetta anche in sede processuale di tornare a valutare le intercettazioni e i flussi comunicativi trasmessi in archivio onde acquisirli nel materiale probatorio, qualora se ne avveda la necessità, appare conforme alla ratio legis e allo spirito del sistema processuale.

Dovrebbe, pertanto ammettersi di rinnovare una richiesta di acquisizione respinta dal g.i.p., nonché, soprattutto, consentire l’acquisizione di intercettazioni qualora, a seguito di quanto emerso nel corso del dibattimento, sia rilevante ai fini del decidere acquisire nuove intercettazioni, ossia intercettazioni mai prima oggetto di richiesta; un caso, dunque, di prova nuova (ammessa ex art.493, comma 2 c.p.p.).

15.2.3. La possibilità dell’acquisizione delle intercettazioni senza ricorrere al g.i.p.: le ipotesi di cui agli artt.415 bis, comma 2 bis e 454, comma 2 bis c.p.p.; la perizia di trascrizione delle registrazioni e di stampa dei flussi di comunicazioni.

La riforma ha abbandonato l’attuale procedura di acquisizione delle intercettazioni come prevista dal vigente art.268, commi 6 e 7 c.p.p., trattandosi di un meccanismo da sempre poco frequentato nelle aule giudiziarie.

Tale ormai “vecchio schema” prevede che il giudice, in contradditorio, proceda ad acquisire le intercettazioni indicate dalle parti e non manifestamente irrilevanti, mediante la perizia di trascrizione integrale delle registrazioni, la quale sarà poi inserita nel fascicolo per il dibattimento.

A causa della possibilità di rinviare la procedura al dibattimento, l’istituto ha finito per essere applicato solo residualmente, con la conseguenza di aver resa vana la finalità di evitare che tutte le intercettazioni fossero allegate al fascicolo del p.m., così diventando di dominio pubblico al momento del venir meno del segreto, come puntualmente, di fatto, accade.

A rimedio, la riforma prevede si dia corso alla procedura di acquisizione delle intercettazioni ”non manifestamente irrilevanti” entro la fase delle indagini preliminari.

Conclusione ricavabile non tanto dalla previsione secondo cui il deposito degli atti debba avvenire entro la conclusione delle indagini (come, del resto, già attualmente previsto), quanto dall’aver individuato nel g.i.p. il giudice che dovrà procedere alle operazioni di acquisizione delle intercettazioni da inserire nel fascicolo delle indagini del p.m (art.268, comma 6).

Forse proprio per evitare un “ritorno al passato”, pur non prevedendo sanzioni procedurali o processuali, l’art.268 c.p.p., almeno secondo i termini testuali, impone l’obbligo della procedura di acquisizione e stralcio, nonché della conseguente perizia di trascrizione:

“..il giudice dispone l’acquisizione…procedendo anche d’ufficio allo stralcio…” (art.268, comma 6 c.p.p.)

“..il giudice…dispone la trascrizione integrale delle registrazioni ovvero la stampa…delle informazioni contenute nei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche da acquisire…” (art.268, comma 7 c.p.p.).

Intanto, gli adempimenti sono due: dapprima valutare le intercettazioni (e i flussi comunicativi) da acquisire e da stralciare con restituzione all’archivio, quindi, disporre la perizia di trascrizione su quanto acquisito.

L’ordinaria procedura di acquisizione e di stralcio ne fa protagonista il g.i.p.

Sono, però, previste delle eccezioni, ossia quelle di cui ai nuovi artt.415 bis, comma 2 bis e 454, comma 2 bis c.p.p.

15.2.3.1. L’eccezione di cui all’art.415 bis, comma 2 bis c.p.p.

Come noto, l’art.268, comma 5 c.p.p. consente che il p.m., con l’autorizzazione del g.i.p. e valutato il grave pregiudizio delle indagini, possa ritardare alla chiusura delle indagini il deposito ai difensori degli atti dei verbali e delle registrazioni inerenti a operazioni ormai concluse.

L’art.415 bis, comma 2 bis c.p.p. dispone che il p.m., con l’avviso di conclusione delle indagini, informi la difesa dell’avvenuto deposito delle intercettazioni e delle facoltà relative (ossia: accedere all’archivio digitale, esaminare gli atti per via telematica, ascoltare le registrazioni e prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche e telematiche) anche mettendo a disposizione l’elenco delle intercettazioni e dei flussi comunicativi informatici/telematici di cui intende chiedere l’acquisizione.

La difesa, nel termine di venti giorni, potrà non solo consultare gli atti, ma in questo caso anche estrarre copia delle registrazioni e dei flussi indicati nell’elenco (ma non delle altre intercettazioni non comprese).

Nel medesimo termine il difensore, a sua volta e se intenderà, potrà presentare al p.m. la richiesta di acquisire le intercettazioni che ritenga rilevanti, non comprese nell’elenco del p.m. e di cui potrà chiedere copia (art.415 bis, comma 2 bis c.p.p.).

La norma prevede che se il p.m. sia in disaccordo con la difesa, ne rigetterà la richiesta (o l’accoglierà in parte) con decreto motivato.

Soltanto in questo caso, il difensore potrà (ma non necessariamente dovrà) avanzare al g.i.p. l’istanza di procedere ai sensi dell’art.268, comma 6 c.p.p., ossia di instaurare la procedura di acquisizione e stralcio davanti al g.i.p.

Ma se le parti si accordano, ossia se il p.m. accoglie le richieste del difensore, allora la procedura di acquisizione e stralcio ha luogo senza necessità di ricorrere al g.i.p.

Sebbene la norma non lo preveda espressamente, potrebbe accadere che il difensore, anche senza produrre un proprio elenco, tuttavia si limiti a contestare quello del p.m., ad esempio eccependo che alcune intercettazioni di cui si vorrebbe l’acquisizione siano del tutto irrilevanti, o di uso vietato.

Anche in questo caso, la via elettiva sarebbe quella di instaurare la procedura davanti al g.i.p., a garanzia di entrambe le parti in causa.

In sintesi, solo quando p.m. e difesa si mostrino d’accordo sulle intercettazioni e flussi comunicativi da acquisire, si potrà evitare la procedura ordinaria di acquisizione/stralcio e l’accordo stesso comporterà, automaticamente, l’acquisizione delle intercettazioni al materiale probatorio dell’indagine, con contestuale trasmissione all’archivio delle intercettazioni non comprese negli elenchi condivisi.

In caso di disaccordo, totale o parziale, dovrà aver luogo l’ordinaria procedura di acquisizione/stralcio davanti al g.i.p.

15.2.3.2. L’eccezione di cui all’art.454, comma 2 bis c.p.p.

L’art.454, comma 2 bis c.p.p. detta una disciplina analoga a quella appena esaminata.

Quanto alla perizia di trascrizione delle intercettazioni acquisite, assume rilievo che l’art.415 bis, comma 2 bis c.p.p. non richiami espressamente l’art.268, comma 7 c.p.p.

Nell’ipotesi particolare per cui il p.m. chieda il giudizio immediato senza prima provvedere alla procedura di cui all’articolo 268, commi 4, 5 e 6 c.p.p., con la richiesta dovrà depositare l’elenco delle intercettazioni e dei flussi comunicativi ritenute rilevanti a fini di prova.

Entro 15 giorni dalla notifica del decreto che dispone il rito immediato, il difensore potrà, a sua volta, depositare l’elenco di quelle ritenute rilevanti, chiedendone copia.

Sull’istanza provvede il p.m. e soltanto se l’abbia a rigettare il difensore potrà attivare (ma non ne avrà obbligo) la procedura di cui all’art.268, comma 6 c.p.p.

Anche in questo caso, l’acquisizione delle intercettazioni potrà avvenire sull’accordo delle parti senza necessità di ricorrere al g.i.p.; in caso di disaccordo nei termini già espressi esaminando la disciplina di cui all’art.415 bis, comma 2 bis c.p.p. valgono le stesse considerazioni, con la necessaria instaurazione della procedura di acquisizione/stralcio avanti al g.i.p.

15.2.3.3. La perizia di trascrizione delle registrazioni e di stampa dei flussi comunicativi informatici.

Quanto alla perizia di trascrizione delle registrazioni (e di stampa dei flussi comunicativi) nella procedura ordinaria di cui all’art.268 c.p.p. si tratta di adempimento obbligatorio del g.i.p.

Tuttavia, qualora sia prevista l’udienza preliminare, non sarà necessario procedervi immediatamente dopo la fase dell’acquisizione, potendo essere differita all’esito dell’udienza preliminare stessa, ossia al momento della formazione del fascicolo per il dibattimento (art.268, commi 6 e 7 c.p.p.).

Qualora non sia prevista l’udienza preliminare (tenendo conto che alcuni reati a citazione diretta consentono le intercettazioni) resta da stabilire se la trascrizione debba essere necessariamente esperita dal g.i.p. che ha disposto l’acquisizione/stralcio o meno.

Se si medita sulle ragioni che hanno ispirato la riforma e, soprattutto, su quelle che hanno, da ultimo, reintrodotto la procedura dell’acquisizione/stralcio davanti al gip, rendendola obbligatoria, viene da concludere che gli intenti perseguano gli scopi sia di evitare la diffusione e la pubblicità di tutte le intercettazioni (anche di quelle irrilevanti o contenenti espressioni lesive della reputazione o dati personali sensibili e ininfluenti ai fini delle indagini) sia di non gravare e appesantire inutilmente la fase processuale con questi adempimenti che, inoltre, ne ritardano la definizione.

L’avere il legislatore previsto che la perizia delle intercettazioni acquisite venga conferita entro il momento della formazione del fascicolo per il dibattimento, qualora sia prevista l’udienza preliminare, significa che si è gravato di quest’obbligo il gip/gup ma che, al pari, gli è stato concesso di adempierlo fino al momento in cui sarà ormai certo che si celebrerà il giudizio ordinario, essendo quest’ultimo il naturale destinatario della perizia di trascrizione delle intercettazioni.

Ciò equivale a dire che si dovrà procedere obbligatoriamente alla perizia di trascrizione quando diventerà necessaria.

Ed infatti, se all’udienza preliminare l’imputato sceglierà riti alternativi, la perizia di trascrizione perderà di significato, come attualmente avviene, con evidente risparmio di tempo e risorse.

Qualora il reato per cui si procede non preveda l’udienza preliminare, rientrando tra quelli a “citazione diretta”, soccorre l’art.415 bis, comma 2 bis c.p.p.

Assume, infatti, rilievo che l’art.415 bis, comma 2 bis c.p.p. nel descrivere la procedura da seguire per l’acquisizione delle intercettazioni e dei flussi comunicativi informatici richiama espressamente l’art.268, commi 4, 5, e 6, mentre non indica il comma 7 c.p.p.

Anzi, la norma in esame riconosce al difensore la possibilità di “avanzare al giudice istanza affinché si proceda nelle forme di cui all’art.268, comma 6”; anche in tal caso non si richiama il comma 7.

Potrebbe significare che la procedura descritta nell’articolo in questione non dovrebbe necessariamente prevedere anche l’espletamento della perizia di trascrizione delle intercettazioni e di stampa dei flussi comunicativi una volta acquisiti.

Si aggiunga che, egualmente, nell’ipotesi particolare di cui all’art.454, comma 2 bis c.p.p., altrettanto non si richiama espressamente l’art.268, comma 7 (“Qualora non abbia proceduto ai sensi dell’art.268, commi 4, 5 e 6…”)

E parimenti si prevede che se il p.m. abbia a rigettare la richiesta del difensore, quest’ultimo potrà attivare (ma non ne avrà obbligo) la procedura di cui all’art.268, comma 6.

E anche in questo caso non si stabilisce che il difensore debba anche chiedere di procedere alla perizia di trascrizione delle registrazioni o di stampa dei flussi comunicativi.

Come già rilevato, un’unica disciplina accomuna le ipotesi di cui agli artt.415 bis, comma 2 bis e 454, comma 2 bis c.p.p. ed è interessante rilevare che entrambe le norme si riferiscono esclusivamente all’acquisizione/stralcio delle intercettazioni (e dei flussi comunicativi informatici/telematici), richiamando espressamente la procedura di cui all’art.268, commi 4, 5 e 6, ma senza comprendere la disposizione del comma 7, che prevede che il giudice conferisca la perizia di trascrizione.

Probabile una dimenticanza; altrettanto probabile che, invece, si sia inteso non provvedere, contestualmente all’acquisizione/stralcio delle intercettazioni come concordata dalle parti anche la perizia di trascrizione, demandandola a quando sia ormai certo che l’imputato non accederà a riti alternativi e si dovrà celebrare il giudizio ordinario.

In questi casi, conclusa la fase di cui all’art.415 bis c.p.p. e richiesto il rinvio a giudizio, la perizia di trascrizione potrà essere conferita al momento della formazione del fascicolo per il dibattimento, essendo ormai certo che l’imputato non ha scelto riti alternativi.

Qualora, dopo la fase dell’art.415 bis c.p.p., il reato per cui si procede non preveda l’udienza preliminare, resta da stabilire se il p.m. dovrà chiedere la trascrizione delle intercettazioni al g.i.p. o al giudice del dibattimento.

Appare preferibile questa seconda ipotesi, in quanto fino al momento degli atti preliminari al dibattimento, l’imputato potrà ancora scegliere se adire a riti alternativi, i quali renderebbero inutile e solo dispendiosa la perizia di trascrizione.

In caso di decreto di giudizio immediato e avvio della procedura di cui all’art.452, comma 2 bis c.p.p. si potrebbe attendere lo spirare del termine concesso all’imputato per richiedere riti alternativi; se quest’ultimo preferisse il rito ordinario, la perizia trascrittiva dovrà essere disposta dal g.i.p., al momento della formazione del fascicolo per il dibattimento (art.457 c.p.p.).

Quanto si è rilevato ovviamente in via di prima approssimazione, in attesa di ulteriori approfondimenti e riferimenti giurisprudenziali e di dottrina, appare consono allo scopo perseguito dal Legislatore nella Relazione illustrativa del testo di riforma, ossia di evitare il compimento di un’attività così antieconomica quale quella della trascrizione “…quando il procedimento si arresti ad una fase antecedente all’instaurazione del giudizio, motivo questo che, già con la disciplina vigente, ha ulteriormente determinato l’ineffettività della previsione del comma 7 dell’art. 268 c.p.p. La scelta perseguita con lo schema di decreto è quindi quella di procedere alle onerose attività di trascrizione solo quando ciò sia necessario per esigenze proprie di natura probatoria”, ossia ““successivamente” alla procedura di selezione del materiale utile, senza necessariamente imporre che ciò avvenga nel corso della medesima udienza e comunque nella fase delle indagini preliminari. Fase questa che è estranea, sul piano sistematico, alle attività di formazione della prova” e senza che peraltro ciò precluda, ovviamente, alla parte interessata di “…richiedere lo svolgimento di questa attività sostanzialmente peritale anche in altra sede, ad esempio nel giudizio abbreviato condizionato proprio ad una tale domanda di prova…Insomma, la trascrizione nelle forme della perizia è oggetto, in via ordinaria, di una richiesta di prova, e come tale trova collocazione successivamente alle procedure di selezione e di acquisizione, ogni volta che la progressione processuale consente l’esercizio del diritto alla prova[5].

Dunque, la perizia sarà disposta solo quando sarà necessaria ai fini della prova.

Merita rilievo che, in sede di conversione del DL n.161/2019, al termine del comma 7 dell’art.268 c.p.p. si sia aggiunto che

«Il giudice, con il consenso delle parti, può disporre l’utilizzazione delle trascrizioni delle   registrazioni ovvero delle informazioni contenute nei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche effettuate dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini.  In caso di contestazioni si applicano le disposizioni di cui al primo periodo.».

15.3. Conclusioni sulla procedura di acquisizione, stralcio e di esecuzione della perizia.

Concludendo e pur sempre in via di prima approssimazione:

  • la p.g., concluse le operazioni di intercettazione, trasmette immediatamente i verbali e le registrazioni al p.m., il quale li invia, contestualmente, nell’archivio
  • entro 5 giorni dalla trasmissione effettuata dalla p.g., il p.m. deposita gli atti e il materiale, dando avviso ai difensori ovvero, se autorizzato dal g.i.p. provvedendo ai sensi dell’art.415 bis, comma 2 bis c.p.p.
  • col deposito ordinario, il p.m. indicherà, con un preferibile elenco, le intercettazioni e i flussi informativi ritenuti non irrilevanti e da acquisire
  • il difensore avrà diritto di accedere all’archivio nel termine stabilito dal pm o entro quello prorogato dal gip, di prendere cognizione degli atti e di sentire le intercettazioni con gli strumenti informatici messi a disposizione del procuratore, magari con l’assistenza di un interprete
  • non avrà il diritto di estrarre copia degli atti e registrazioni e potrà, a sua volta, presentare l’elenco delle intercettazioni e flussi comunicativi ritenuti di rilievo, nonché chiedere l’eventuale esclusione di quelli contenuti nell’elenco del p.m.
  • potrà svolgersi un contraddittorio cartolare tra le parti sulle rispettive intercettazioni da acquisire e da “stralciare”
  • scaduti i termini, il gip deciderà senza formalità di udienza, indicando le intercettazioni da acquisire “che non appaiano irrilevanti” e quelle da non allegare al procedimento in quanto d’uso vietato o irrilevanti o attinenti a dati personali sensibili e non necessarie a fini di prova, disponendo che restino custodite nell’archivio
  • la perizia di trascrizione delle registrazioni potrà essere disposta immediatamente o al momento della formazione del fascicolo per il dibattimento, all’esito dell’udienza preliminare se prevista
  • qualora l’udienza non sia prevista in quanto si procede con citazione diretta, la perizia potrà essere disposta in fase dibattimentale qualora l’imputato, ai sensi dell’art.555, comma 2 c.p.p., non abbia formulato richiesta di riti alternativi, essendo da privilegiare questa opzione rispetto al ricorso al g.i.p. per il conferimento della perizia di trascrizione, in quanto potrebbe risolversi in un’attività solo dispendiosa, qualora l’imputato chieda, ex art.555, comma 2 c.p.p., di avvalersi di riti alternativi
  • se il p.m. sarà autorizzato a depositare gli atti al termine delle indagini preliminari, l’avviso di cui all’art.415 bis c.p.p. conterrà l’elenco delle intercettazioni e dei flussi comunicativi di cui il pm intende chiedere l’acquisizione con avviso al difensore della facoltà, nel termine di 20 giorni, di prendere cognizione degli atti e materiali e poter aver copia delle registrazioni (e dei flussi comunicativi informatici/telematici) di cui all’elenco del p.m.
  • il difensore potrà, a sua volta, depositare l’elenco delle intercettazioni di cui chiede l’acquisizione, chiedendone copia
  • qualora il p.m. accolga l’istanza, si realizza un concordato sulla prova, nel senso che le intercettazioni indicate concordemente dalle parti saranno quelle rilevanti per il decidere e così acquisite senza necessità di instaurare la procedura avanti al g.i.p., le restanti saranno, conseguentemente, stralciate e resteranno custodite nell’archivio
  • qualora il p.m. rigetti l’istanza, il difensore potrà attivare la procedura di cui all’art.268, comma 6 c.p.p., ossia quella relativa all’acquisizione delle intercettazioni (ma non obbligatoriamente); quindi il g.i.p. deciderà quali materiali acquisire e quali mantenere nell’archivio; se il reato prevede l’udienza preliminare, la perizia di trascrizione potrà essere disposta durante la formazione del fascicolo per il dibattimento, quando ormai è certo che l’imputato non scelto il giudizio ordinario; se il reato preveda la citazione diretta, potrà essere disposta subito dopo gli atti preliminari al dibattimento, qualora l’imputato non abbia aderito a riti alternativi, per quanto sopra esposto
  • laddove il p.m. chieda il rito immediato senza prima attivare la procedura di cui all’art.268, commi 4, 5 e 6 c.p.p., con la richiesta dovrà depositare l’elenco delle intercettazioni e dei flussi comunicativi informatici/telematici ritenuti rilevanti; la difesa, ricevuta la notifica del decreto che dispone il rito immediato, potrà, entro 15 giorni, presentare l’elenco delle intercettazioni e dei flussi di cui ha interesse all’acquisizione e chiederne copia; anche in questo caso, se il p.m. accolga la richiesta si realizzerà un concordato sulla prova, qualora il p.m. rigetti l’istanza il difensore potrà attivare la procedura di cui all’art.268, comma 6 c.p.p., con le conseguenze già esaminate; la perizia di trascrizione delle registrazioni potrà essere disposta dal g.i.p. quando, trascorsi i termini di cui all’art.458, comma 1 senza che l’imputato abbia fatto richieste di riti alternativi, dovrà formare il fascicolo per il dibattimento (art.457, comma 1 c.p.p.
  • In tutti i casi non si procederà a perizia se il consenso delle parti consentirà di utilizzare le trascrizioni delle registrazioni ovvero delle informazioni contenute nei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche effettuate dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini.(art.268, comma 7 c.p.p.).

***

16. La procedura in caso di richiesta di misura cautelare personale.

16.1. La disciplina del testo originario della riforma.

In caso di richiesta di misura cautelare personale, il testo della riforma prevedeva che non trovasseapplicazione la procedura ordinaria ma che l’acquisizione delle intercettazioni fosse direttamente disposta dal p.m., mediante l’inserimento dei verbali e degli atti relativi nel fascicolo di cui all’articolo 373, comma 5 c.p.p., anziché dal g.i.p. (art.268 ter, comma 1 c.p.p.).

Ossia, a seguito dell’adozione della misura, il p.m. acquisiva al fascicolo di cui all’art.373, c.5 c.p.p., mediante l’inserimento dei verbali e degli atti relativi, soltanto quelle intercettazioni utilizzate dal g.i.p. per emettere il provvedimento cautelare.

Nel redigere la richiesta cautelare, tuttavia, al solito scopo della tutela della riservatezza, il Legislatore non consentiva al p.m. di attingere a piene mani tra il materiale custodito nell’archivio riservato, prevedendo dei criteri di selezione.

Infatti, il p.m. presentava al giudice gli elementi su cui la richiesta si fondava, compresi i verbali di cui all’art.268, comma 2 c.p.p. (ossia i verbali delle operazioni di intercettazione), ma “limitatamente alle comunicazioni e conversazioni rilevanti” (art.291, comma 1 c.p.p.).

Del resto, come già rilevato, sussistendo il divieto di trascrivere il contenuto delle registrazioni irrilevanti e di quelle non rilevanti e inerenti a dati personali sensibili, se ne poteva annotare solo la data, l’ora e il dispositivo su cui erano intercorse,

Inoltre, secondo l’art.291, comma 1 ter c.p.p., nella richiesta il p.m. poteva riprodurre “soltanto i brani essenziali delle comunicazioni e conversazioni intercettate” e rilevanti.

A sua volta, l’art. 292 comma 2 quater c.p.p. disponeva che anche nell’ordinanza applicativa, “quando necessario” fossero “riprodotti soltanto i brani essenziali” delle predette intercettazioni.

La riforma, pertanto, secondo il criterio della sobrietà nella scelta e nella riproduzione del materiale intercettato, seguiva quell’orbita di tutela della riservatezza già tracciata dalla nota circolare adottata dal CSM in materia, che stimolava l’attenzione sull’opportunità di un’accurata selezione delle conversazioni da inserire nei provvedimenti cautelari – tanto nelle  richieste  del  p.m. quanto nelle ordinanze del g.i.p. – e  sulla  necessità  che  fossero contrassegnati da una “sobrietà contenutistica”, a fronte della “naturale idoneità di tali provvedimenti ad essere oggetto di attenzione mediatica in quanto collegati alla privazione della libertà personale e perché provvedimenti cronologicamente più vicini al fatto, di quanto non lo sia il momento del deposito degli atti al termine delle indagini preliminari”, essendo “massimo…in tale fase, anche in termini quantitativi, il pericolo di diffusione di informazioni sensibili derivanti dalle intercettazioni e dunque di lesione del bene della riservatezza, per cui ancor più attenta deve essere l’opera di verifica della rilevanza compiuta dai magistrati in questo segmento processuale[6].

16.2. La scelta del D.L.n.161/2019.

Come noto, Il D.L. n.161/2019 il D.L. n.161/2019 ha

  • cancellato il divieto di trascrivere nei verbali della polizia giudiziaria (i cosiddetti brogliacci) le conversazioni irrilevanti ai fini di indagine
  • rivisitato quello sulle conversazioni non rilevanti e contenenti dati personali sensibili,
  • riformulato l’art.268, comma 2 bis c.p.p., stabilendo che il p.m. vigili onde nei verbali non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge, salvo che si tratti di intercettazioni rilevanti ai fini delle indagini
  • espressamente abrogato l’art.268 ter c.p.p., nonché le parole “compresi i verbali di cui all’articolo 268, comma 2, limitatamente alle comunicazioni e conversazioni rilevanti” di cui all’art.291, comma 1 c.p.p.

Una volta previsto che il p.m. torni al governo delle intercettazioni, spettando soltanto a quest’ultimo di fornire alla p.g. le indicazioni utili a evitare che le trascrizioni riportino “espressioni lesive della reputazione delle persone” ovvero riguardino “dati personali definiti sensibili dalla legge” e purché non “si tratti di intercettazioni rilevanti ai fini delle indagini”, l’uso delle intercettazioni in caso di richiesta di misura cautelare non è più limitabile, se non in questi ambiti.

Significa che la p.g. interloquirà sul contenuto delle intercettazioni col p.m. con annotazioni che potranno anche riportare le trascrizioni integrali delle registrazioni.

Si pone un limite demandandone al p.m. la salvaguardia: nei verbali non potranno essere trascritte o anche sommariamente riportate quelle conversazioni che ledano la reputazione delle persone cui i dialoghi si possano riferire o riguardino dati personali sensibili a norma di legge.

Il divieto di trascrizione, però, presuppone, come appena rilevato, la non rilevanza ai fini probatori di tali conversazioni; se, quindi, il dato sensibile o l’espressione lesiva della reputazione assumano importanza per l’oggetto e i fini dell’indagine potranno essere legittimamente trascritti.

Pertanto, in caso di richiesta cautelare, il p.m. potrà allegare le registrazioni che riterrà rilevanti, comprese quelle che ledano la reputazione delle persone cui i dialoghi si possano riferire o riguardino dati personali sensibili a norma di legge, qualora assumano significativa pregnanza per l’oggetto e i fini di indagine.

Si è già commentata la necessità di adottare direttive generali alla p.g. per l’assolvimento dei divieti di trascrizione in questione, da integrare con le particolari disposizioni che ogni indagine può manifestare; sicuramente sarà necessaria una costante interlocuzione tra la p.g. e il p.m. e forse solo dall’applicazione quotidiana della disciplina si potranno elaborare criteri e indicazioni utili.

Occorre, comunque sia, rilevare che anche il nuovo testo riformato dal D.L. n.161/2019 si ispira al criterio della sobrietà nel ricorso e all’uso delle intercettazioni da allegare alla richiesta cautelare.

Infatti, il p.m. potrà riportare nella richiesta “soltanto i brani essenziali delle comunicazioni e conversazioni intercettate” (art.291, comma 1 ter c.p.p.) e il g.i.p., a sua volta, annoterà nell’ordinanza applicativa, “quando necessario”, “soltanto i brani essenziali” delle predette intercettazioni (art. 292 comma 2 quater c.p.p.).

Brani essenziali: ossia accurata scelta dei dialoghi più probanti, tralasciando il resto.

Torna, ribadito, il criterio della sobrietà nella scelta e nella riproduzione del materiale intercettato tanto nelle richieste del p.m. quanto nelle ordinanze del g.i.p.

Resta da stabilire come il p.m. possa trasmettere al g.i.p. soltanto i “brani essenziali” delle conversazioni che, ovviamente, riterrà significativamente probanti.

La legge, al proposito, tace.

Un’indicazione potrebbe cogliersi sempre dalla circolare del CSM che, in simili casi, auspica si ricorra a modalità espositive adeguate che “non accentuino la lesione della riservatezza dei terzi estranei alle indagini, anche ricorrendo, se ritenuto opportuno e comunque funzionalmente adeguato, ad omissare riferimenti a cose o persone, se non strettamente necessari[7].

Resta, comunque sia, pur sempre da considerare che l’estrapolazione di singole frasi da una intera conversazione può comportare l’opposto rischio di un’alterazione del senso della stessa frase [8].

Comunque sia, la procedura di scelta delle intercettazioni da allegare alla richiesta cautelare e dell’indicazione soltanto dei “brani essenziali” equivale ad una maggior responsabilizzazione del ruolo dell’inquirente per sottoporre al vaglio del giudicante un materiale intelligentemente selezionato.

Sarà probabilmente necessario cambiare qualche patologica prassi operativa, senza più trasferire integralmente nella richiesta di misura cautelare il materiale raccolto nella informativa conclusiva della p.g.

Tra altro, potrebbe diventare buona norma per il p.m. formare e trasmettere al giudice anche l’elenco delle intercettazioni rilevanti ai fini di prova, onde consentirgli di provvedere all’esclusione officiosa di quelle non rilevanti o non utilizzabili.

Sarà anche utile che questa sobrietà contenutistica diventi pure patrimonio della polizia giudiziaria, alla quale si dovrà chiedere di facilitare il compito del p.m., trascrivendo, ove ovviamente possibile, soltanto i brani essenziali, magari evidenziandone la rilevanza.

Anzi, si potrebbe disporre che la p.g. rediga un’annotazione dedicata all’elenco delle conversazioni e comunicazioni rilevanti da inserire nella richiesta cautelare, riportando i brani essenziali.

Da segnalare che, mentre il p.m. dovrà selezionare le intercettazioni rilevanti per ottenere la misura cautelare, al contrario dovrà trasmettere al giudice qualsiasi registrazione che possa dimostrarsi astrattamente favorevole all’indagato, secondo il disposto di cui all’art. 291, comma 1, ultima parte c.p.p.

Secondo una prospettiva realistica, l’elaborazione di una richiesta cautelare avrà sempre logico presupposto nell’istanza di ritardare il deposito ai difensori dei verbali e delle registrazioni (art.268, comma 5 c.p.p.).

Altrettanto realisticamente, mentre è in corso la redazione della richiesta cautelare alcune intercettazioni saranno probabilmente già concluse, altre ancora in essere.

Poiché la disciplina prevede che il materiale delle intercettazioni e gli atti relativi siano conservato nell’archivio dedicato una volta concluse le operazioni, il p.m. “recupererà” dall’archivio gli atti e i verbali delle operazioni ormai concluse che intenderà allegare alla richiesta cautelare; diversamente per quelle ancora in corso e che intenderà utilizzare.

A sua volta il g.i.p. è chiamato a valutare la selezione del materiale inerente alle intercettazioni trasmesso dal p.m.

E’, infatti, previsto che il giudice debba stabilire quali conversazioni e comunicazioni utilizzare, ritenendole rilevanti, per l’adozione della misura cautelare, poi inserendo nel provvedimento soltanto i “brani essenziali”, e posto che l’art.92, comma 1 bis disp.att. c.p.p. prevede che siano “…restituiti al pubblico ministero, per la conservazione nell’archivio…, gli atti contenenti le comunicazioni e conversazioni intercettate ritenute dal giudice non rilevanti o inutilizzabili”.

È evidente, quindi, che, pur senza prevederlo espressamente, si attribuisce al giudice anche il dovere di vagliare le intercettazioni, escludendo quelle irrilevanti o non utilizzabili[9].

Plausibile ritenere che il g.i.p., esprimendosi sulla rilevanza delle intercettazioni, le acquisisca al procedimento “inaudita altera parte” (in questo caso il difensore; su questo v.infra)

Pertanto, adottata la misura cautelare, sia le registrazioni (e i flussi comunicativi informatici) i cui brani siano stati effettivamente utilizzati in quanto riprodotti nel testo dell’ordinanza cautelare sia anche quelle oggetto di trasmissione ai sensi dell’art. 291, comma 1, c.p.p. e che il giudice non abbia espressamente estromesso, ordinandone la restituzione ai sensi dell’art. 92, comma 1 bis, disp. att. c.p.p., possono ritenersi fin da quel momento acquisite agli atti.

Occorre, però, essere chiari: l’acquisizione in sede cautelare lascia sempre aperta la strada all’applicazione della procedura prevista ordinariamente per l’acquisizione e lo stralcio delle intercettazioni.

Infatti, salvo che per le intercettazioni propriamente inutilizzabili, sia lo stesso p.m. potrà, in seguito, promuovere la procedura ordinaria per l’acquisizione delle captazioni ritenute non rilevanti dal giudice della misura e di cui lo sviluppo successivo dell’indagine dimostri il contrario sia il difensore avrà diritto di attivare la procedura, non avendo, del resto, potuto interloquire sul tema prima dell’adozione del provvedimento cautelare.

16.3. I diritti della difesa.

Il difensore viene a conoscenza del titolo cautelare ricevendo l’avviso di cui all’art.293 c.p.p.

Il testo originario della riforma riconosceva al difensore, a seguito dell’avviso di deposito dei provvedimenti cautelari e degli atti a supporto, il diritto di esaminare ed estrarre copia dei verbali delle comunicazioni e conversazioni intercettate e di trasporre su supporto idoneo le relative registrazioni, (art. 293, comma 3, c.p.p.).

Il D.L. n.161/2019 aveva abrogato questa disposizione ponendosi in rotta contraria a quella da tempo seguita dalla giurisprudenza anche costituzionale.

La legge di conversione 28.2.2020 n.7 ha posto rimedio, disponendo all’art.293, comma3 c.p.p. che il difensore ha diritto di estrarre copia dei verbali delle comunicazioni e conversazioni intercettate di cui all’articolo 291, comma 1 e che ha in ogni caso diritto alla trasposizione, su supporto idoneo   alla riproduzione dei dati, delle relative registrazioni.

Inoltre, già quando erano previste queste facoltà alla difesa prima dell’improvvida abrogazione ad opera del D.L. n.161/2019, qualche autore aveva sostenuto che sebbene il diritto di estrazione di copia e di trasposizione su supporto delle registrazioni  riguardava esclusivamente gli atti e le fonie usate dal g.i.p. per l’adozione della misura cautelare, nondimeno ai difensori doveva essere riconosciuto il diritto di accesso a tutti gli atti e a tutte le registrazioni intanto custodite nell’archivio, per prenderne conoscenza[10].

Osservazione interessante, in quanto dall’ascolto integrale delle intercettazioni (sia di quelle che il p.m. ha allegato alla richiesta cautelare e che il g.i.p. non ha ritenuto rilevanti sia di quelle non prese in considerazione redigendo la richiesta) la difesa potrebbe ricavare elementi utili ai propri fini, magari per la proposizione di un’istanza di riesame o per altre richieste da inoltrare direttamente al giudice della cautela.

Resta da verificare come il difensore possa avvalersi di questi “argomenti”.

Intanto, occorre valutare la competenza del Tribunale del Riesame che potrebbe essere chiamato dal difensore a esprimersi sulla rilevanza/irrilevanza/inutilizzabilità delle intercettazioni allegate all’ordinanza cautelare.

Si aggiunga che il difensore avrà sempre il diritto di azionare il meccanismo ordinario di acquisizione delle intercettazioni, ossia quello di cui all’art.268, comma 6 c.p.p., nel senso che l’ordinanza cautelare non preclude la procedura di cui all’art.268 c.p.p. (salva l’applicazione, nei termini già esaminati, di quella di cui agli artt.415 bis, comma 2 bis e 454, comma 2 bis c.p.p.).

La difesa, pertanto, potrebbe chiedere al g.i.p. l’acquisizione dei verbali e delle intercettazioni ritenute rilevanti per contrastare anche i presupposti cautelari.

Significa anche che, pur a fronte dell’emissione di un titolo cautelare, sarà sempre consentito ricorrere al giudice per ottenere l’esclusione dei progressivi divenuti, in epoca successiva, irrilevanti. Discende che non esiste alcun valido argomento per non permettere anche alla difesa di promuovere la procedura per richiedere l’espunzione di intercettazioni irrilevanti o inutilizzabili oppure per chiedere l’inclusione di ulteriori brani non oggetto di utilizzazione in fase cautelare.


[1] La restituzione di queste intercettazioni all’archivio riservato, comunque sia, non preclude al p.m. di operare, successivamente, una (nuova) valutazione di rilevanza delle intercettazioni in prima battuta non acquisite, per richiederne l’acquisizione in ragione dell’evoluzione dell’indagine.

[2] In questa sede, infatti, era previsto che le intercettazioni selezionate dal g.i.p. transitassero nel fascicolo per il dibattimento su richiesta di parte e secondo le cadenze impresse dal nuovo art. 493 bis c.p.p., previa trascrizione, secondo le forme, i modi e le garanzie previste per l’espletamento delle perizie.

[3] Così si prevedeva per l’udienza preliminare, aggiungendo nell’art.422 c.p.p. il comma 4 bis e attribuendo alle parti la possibilità di chiedere al g.u.p. di rivalutare la decisione del g.i.p. e di acquisire quelle intercettazioni in un primo tempo ritenute irrilevanti: «4-bis. Se la richiesta di cui al comma 1 ha ad oggetto conversazioni o comunicazioni intercettate e non acquisite si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 268 ter e 268 quater.”. Da rilevare, però, che la richiesta di acquisizione poteva essere valutata (e accolta) soltanto se l’intercettazione rappresentasse una prova decisiva ai fini della sentenza di non luogo a procedere. Egualmente si provvedeva per la fase del dibattimento (comprendendo anche il giudizio di appello, stando al tenore dell’art.598 c.p.p. per il quale in questa fase si osservano le norme relative al giudizio di primo grado, laddove applicabili). La nuova disposizione in tema di acquisizione dibattimentale delle intercettazioni, sebbene con collocazione sistematica quanto meno inadeguata, essendo stata inserita nell’art. 472 c.p.p., dedicato ai “casi in cui si procede a porte chiuse”, anziché nelle norme che disciplinano la fase dedicata all’ammissione delle prove) stabiliva che il giudice procedesse alle operazioni di cui all’art. 268 ter c.p.p. “quando le parti rinnovano richieste non accolte o richiedono acquisizioni, anche ulteriori, e quando le ragioni della rilevanza a fini di prova emergono nel corso dell’istruzione dibattimentale”. Significa che l’acquisizione delle intercettazioni in dibattimento era possibile in due casi: a) qualora si rinnovasse una richiesta di acquisizione precedentemente non accolta; b) qualora, a seguito di quanto emerso nel corso del dibattimento, diventasse rilevante ai fini del decidere acquisire nuove intercettazioni, ossia intercettazioni mai prima oggetto di richiesta; un caso, dunque, di prova nuova.

[4] Pestelli “Brevi note sul nuovo Decreto legislativo in materia di intercettazioni: (poche) luci e (molte) ombre di una riforma frettolosa” in Diritto Penale Contemporaneo, n.1/2018, pag.176

[5] Relazione Illustrativa, pagg.8 ss.

[6] Circolare CSM, pag.20.

[7] Circolare CSM, pag.15.

[8] A. CAMON, Intercettazioni e fughe di notizie: dalle circolari alla riforma Orlando, in Arch. pen., 2017, 2, 7.

[9] Al proposito, si è annotato che il giudice dovrebbe adottare un apposito “provvedimento esclusivo dei progressivi irrilevanti o inutilizzabili, che assumerà la forma del decreto, necessariamente motivato, intervenendo la decisione, a differenza del procedimento in via ordinaria, in assenza di preventivo contraddittorio tra le parti.” Pretti “Prime riflessioni a margine della nuova disciplina sulle intercettazioni”, ibidem, pag.205.

[10] Pretti “Prime riflessioni a margine della nuova disciplina sulle intercettazioni”, in Diritto Penale Contemporaneo, n.1/2018, pag.207.

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di Onelio Dodero in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la Costituzione

Sommario: 1. Chi troppo vuole… 2. Critiche. 3. L’entrata (chissà quando) in vigore della riforma. 4. L’applicazione della riforma ai procedimenti iscritti dal 1° settembre 2020. 5. La modifica dell’art.114 c.p.p. 6. Dieta dimagrante. 7. Il divieto di trascrizione. 8. La riforma della riforma: il D.L. n.161/2019 e il nuovo art.268, comma 2 bis c.p.p. 9. Un bilanciamento di interessi. 10. Le conversazioni irrilevanti. 11. Conversazioni inerenti al mandato difensivo. 12. La nuova disciplina sulla trasmissione dei verbali e delle registrazioni per la conservazione nell’archivio (le modifiche agli artt.268, 269, l’abrogazione dell’art. 268 bis c.p.p.). 13. L’archivio delle intercettazioni. 14. Aspetti problematici dell’archivio delle intercettazioni.

1. Chi troppo vuole…

Le intercettazioni sono uno strumento di ricerca della prova tanto irrinunciabile quanto invasivo.

Un male necessario a beneficio delle indagini, dunque, seppure la sempre più marcata diffusione mediatica di colloqui registrati che hanno nulla a che spartire con l’oggetto delle indagini, ma che suscitano i più diversi appetiti a causa della qualità dei loquenti o della scabrosità dei temi trattati, rischia di fare perdere di vista quel beneficio, evidenziando solo il danno, talora irreparabile.

Per questo, il tema delle intercettazioni si risolve in un interminabile e acceso dibattito nel tentativo di trovare un punto d’equilibrio tra le esigenze investigative e la tutela dei diritti alla riservatezza di tutte le persone coinvolte, terzi e finanche indagati stessi.

Tra i tanti tentativi irrisolti di cogliere questo punto di equilibrio, nel tentativo di arginare ogni possibile nociva diffusione di colloqui non pertinenti con le indagini, la delega parlamentare di cui alla legge 23 giugno 2017 n.103, poi trasfusasi nel Decreto Legislativo n.216/2017, aveva scopo di aumentare il livello di tutela della riservatezza dei soggetti sottoposti ad intercettazioni, specialmente di coloro che risultassero occasionalmente coinvolti ed estranei all’attività investigativa.

A questo fine, la legge delega chiedeva che la riforma prevedesse

  • una serie di misure per bloccare la conoscibilità all’esterno di tali comunicazioni o conversazioni, anche ricorrendo alla sanzione penale (tutela a valle);
  • di limitare la possibilità per la p.g. di verbalizzare le conversazioni “irrilevanti” (tutela a monte);
  • un uso parsimonioso di quelle “rilevanti” da parte del P.M. prima e del Giudice poi in caso di eventuale richiesta e applicazione di una misura cautelare, prescrivendo la riproduzione soltanto dei brani essenziali a fini di prova.

Da qui, prendeva le mosse il testo elaborato nel Decreto Legislativo n.216/2017, nel difficile tentativo di conciliare i poteri investigativi con la tutela dei diritti alla riservatezza di terzi (e pure degli stessi indagati), secondo cinquemomenti qualificanti:

  • introduzione del divieto di trascrizione, anche sommaria, di

a)  intercettazioni irrilevanti;

b)  intercettazioni non rilevanti e contenenti dati sensibili;

c) intercettazioni intercorse tra indagato e difensore o comunque attinenti al mandato difensivo;

  • nuova disciplina sul deposito dei verbali e delle registrazioni;
  • introduzione di una nuova procedura di acquisizione al fascicolo delle indagini (quello del p.m., per intendersi) delle intercettazioni rilevanti;
  • istituzione dell’archivio riservato delle intercettazioni;
  • limiti alla riproduzione delle intercettazioni negli atti cautelari.

Come si legge nella Relazione illustrativa al provvedimento, le disposizioni adottate perseguivano “lo scopo di escludere, in tempi ragionevolmente certi e prossimi alla conclusione delle indagini, ogni riferimento a persone solo occasionalmente coinvolte dall’attività di ascolto e di espungere il materiale documentale, ivi compreso quello registrato, non rilevante a fini di giustizia, nella prospettiva di impedire l’indebita divulgazione di fatti e riferimenti a persone estranee alla vicenda oggetto dell’attività investigativa che ha giustificato il ricorso a tale incisivo mezzo di ricerca della prova[1].

2. Critiche.

Andando a comprimere uno dei nervi scoperti nei sempre difficili rapporti tra l’esigenza punitiva insita nel doveroso accertamento della responsabilità penale e la tutela della libertà e riservatezza delle conversazioni, il testo della riforma aveva immediatamente suscitato più che perplesse reazioni da più parti, anche contrapposte.

Ed infatti, unanimemente si criticava la scelta di voler sacrificare sull’altare della tutela della riservatezza sia uno dei più efficaci strumenti dell’indagine penale sia il diritto all’informazione sia quello alla difesa.

Si tratta di critiche che, risoltesi in pressioni politiche, poco a poco hanno, se non spento, certamente attenuato i lustrini di una riforma che forse aveva osato troppo, spingendosi oltre il consentito.

Chi troppo vuole, nulla stringe.

Prova ne sia che l’adagio popolare ha trovato puntuale e plastica espressione in quel tortuoso cammino seguito per l’entrata in vigore della riforma.

Si è trattato di un cammino fin da subito in salita, sempre più faticoso e, via via, trasformatosi da un percorso a ostacoli ad uno di guerra.

3. L’entrata (chissà quando) in vigore della riforma.

Come noto, le nuove disposizioni sarebbero dovute entrare in vigore dal 26 luglio 2018.

Tuttavia, il Decreto Legge 25 luglio 2018 n. 91, convertito con modificazioni nella legge n.108/2018, prorogò il termine al 31.3.2019.

A sua volta, la legge di Bilancio 2019 (legge 30 dicembre 2018. n. 145), ne dispose altra proroga al 31.7.2019.

Quindi, con il Decreto Legge 4.6.2019 n.53 (“Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica” o cosiddetto decreto sicurezza bis), l’efficacia delle nuove disposizioni slittò a “dopo il 31 dicembre 2019”, ossia al 1° gennaio 2020.

Tuttavia, con il Decreto Legge 30 dicembre 2019 n.161, l’entrata in vigore fu ancora prorogata a dopo il 29 febbraio 2020.

Nondimeno, la legge 28 febbraio 2020 n.7, di conversione del D.L., ha ancora una volta prorogato l’entrata in vigore a dopo il 30 aprile 2020, ossia al 1° maggio 2020.

Il varo era, pertanto, previsto il prossimo 1° maggio 2020.

L’ultimo colpo di coda è del 30 aprile scorso.

Il D.L. 30.4.2020 n.27, in vigore dal 1° maggio successivo, è l’ennesima occasione di un rinvio, nuovamente modificando l’art.9 D.Lvo n.216/2017:

«Art.  9  (Disposizione   transitoria).   

1. Le disposizioni di cui  agli  articoli  2,  3  4,  5  e  7  si  applicano ai procedimenti penali iscritti dopo il 31 agosto 2020.

 2. La  disposizione  di  cui  all’art.  2,  comma  1, lettera b), acquista efficacia a decorrere  dal  1°  settembre  2020.”.

La riforma dovrebbe, dunque, entrare in vigore dal 1° settembre 2020, seppur sembri ormai un poco temerario darlo per scontato.

4. L’applicazione della riforma ai procedimenti iscritti dal 1° settembre 2020.

Intanto, per evitare la coesistenza di differenti regimi nell’ambito del medesimo procedimento, il D.L. n.161/2019 aveva modificato l’originaria disposizione dell’art.9, comma 1 Decreto Legislativo n.216/2017 che prevedeva che “Le disposizioni di cui agli articoli 2, 3, 4, 5 e 7 si applicano alle operazioni di intercettazione relative a provvedimenti autorizzativi emessi dopo il 31 dicembre 2019”.

La disposizione portava con sé il rischio che nell’ambito di un medesimo procedimento penale potessero trovare applicazione, contemporaneamente, due distinti regimi in tema di intercettazioni: quello ante riforma per le intercettazioni disposte prima dell’entrata in vigore e la nuova disciplina per quelle autorizzate dopo l’entrata in vigore.

Per evitarlo, l’art.1 n.1 D.L. n.161/2019 era intervenuto sull’art.9, comma 1 D.Lvo n.216/2017 prevedendo che “Le disposizioni di cui agli articoli 2, 3, 4, 5 e 7 si applicano ai procedimenti penali iscritti dopo il 29 febbraio 2020.” (non più facendo dipendere l’applicazione delle nuove norme dai provvedimenti autorizzativi emessi dopo l’entrata in vigore, indipendentemente da quando si era instaurato il procedimento, ma prevedendo che la nuova disciplina avrà applicazione soltanto per i procedimenti iscritti dopo la sua entrata in vigore).

La legge di conversione 27.2.2020 n.28 ha modifica la data, portandola a dopo il 30 aprile 2020

Infine, il testé emesso D.L. 30 aprile 2020 n.27 adegua questa data a quella di entrata in vigore della riforma, ossia a dopo il 31 agosto 2020.

Dunque, la riforma si applicherà solo ai procedimenti iscritti dal 1° settembre 2020.

5. La modifica dell’art.114 c.p.p.

L’art. 2, comma 1 lett. a) D.L.n.161/2019 è intervenuto sull’art.2, comma 1, lett. b) Decreto Legislativo n. 216/2017.

L’art.2, comma 1, lett. b) aveva modificato l’art.114, comma 2 c.p.p. inserendo, dopo le parole “dell’udienza preliminare”, quelle “fatta eccezione per l’ordinanza indicata dall’articolo 292“.

In questo modo per le ordinanze che dispongono misure cautelari veniva meno il divieto di pubblicazione, anche parziale, «degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino ai termine dell’udienza preliminare».

Il D.L.n.161/2019 interviene (anche) su questo aspetto, inserendo nell’art.114 c.p.p. il comma 2 bis: “È sempre vietata la pubblicazione, anche parziale, dei contenuto delle intercettazioni non acquisite ai sensi degli articoli 268 e 415 bis c.p.p.

Ossia, anche in relazione al contenuto delle ordinanze che applicano le misure cautelari permane il divieto di pubblicazione delle intercettazioni non acquisite agli atti secondo la procedura di cui agli artt. 268 e 415 bis c.p.p. (v. infra).

6. Dieta dimagrante.

Come rilevato, cercando un equilibrio tra le esigenze delle indagini e la tutela della riservatezza dei terzi (e pure degli stessi indagati), la riforma si articolava sui conseguenti punti:

  • le modalità di redazione del c.d. brogliaccio, ossia dei verbali delle operazioni di ascolto delle conversazioni e delle comunicazioni;
  • il deposito di tali verbali e il relativo avviso ai difensori;
  • l’archivio per la conservazione del materiale intercettato, in attesa della cernita tra quello che doveva confluire nel fascicolo delle indagini di cui all’art.373, comma 5 c.p.p. ( ossia il fascicolo del p.m.) e quello che doveva restare nell’archivio riservato;
  • le richieste al giudice di acquisizione al fascicolo delle indagini delle conversazioni che avrebbero costituito il materiale probatorio;
  • il relativo provvedimento del giudice e l’eventuale udienza stralcio;
  • le modalità di trasposizione delle conversazioni nella richiesta di misura cautelare e nella successiva ordinanza cautelare del giudice;
  • l’uso dei captatori informatici.

Si può convenire che il Decreto Legge n.161/2019 ha drasticamente “riformato la riforma”, sottoponendola a una severa cura dimagrante prima dell’entrata in vigore, ridisegnandola.

7. Il divieto di trascrizione.

L’obiettivo della riforma era di comprimere il più possibile lo spazio della potenziale diffusione mediatica del contenuto dei dialoghi registrati ed era perseguito riducendo il portato di quel che poteva essere trascritto.

La scelta, pertanto, era stata di vietare la trascrizione nei verbali della polizia giudiziaria (i cosiddetti brogliacci) delle conversazioni:

  • irrilevanti ai fini di indagine (art.268, comma 2 bis c.p.p.)
  • non rilevanti e contenenti dati personali sensibili (art.268, comma 2 bis c.p.p.)
  • inutilizzabili in quanto attinenti al rapporto difensivo (art.103, comma 7 c.p.p.).

In questi casi, il verbale della p.g. avrebbe riportato esclusivamente la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione era intervenuta [2].

Al di là del già previsto divieto di trascrivere i dialoghi inerenti all’esercizio del mandato difensivo, la trascrizione delle altre conversazioni era ammessa se avesse superato il vaglio della irrilevanza.

Si tratta di un criterio che già presiedeva, o avrebbe sempre dovuto presiedere, all’operato della p.g., come, del resto, si aveva e si ha ancora modo di notare quando le annotazioni riportate sul brogliaccio ricorrono a formule del tipo “conversazione non utile”; “dialogo di natura privata”; “discussione familiare” e simili per indicare l’inutilità probatoria delle conversazioni che, pertanto, non vengono trascritte.

Il testo della riforma, però, andava oltre, con l’espresso divieto di riportare queste conversazioni fino a impedire anche il ricorso a sintetiche formule per fare intendere che il contenuto non atteneva alle indagini, dovendosi la p.g. limitare ad annotare nel verbale la data, l’ora e l’utenza intercettata.

L’intento, pertanto, era di permettere la trascrizione soltanto delle conversazioni rilevanti ai fini dell’indagine, con il conseguente problema d’individuare l’ambito della rilevanza della conversazione.

La norma, però, non indicava quali fossero le intercettazioni da trascrivere in quanto rilevanti, limitandosi a prevedere che non erano da trascrivere:

1) le comunicazioni o conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini, sia per l’oggetto che per i soggetti coinvolti

2) le comunicazioni o conversazioni parimenti non rilevanti che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge

lasciando all’operatore il compito di riempire di contenuto i termini “irrilevanti” e “non rilevanti”.

Solo ancora un accenno, per ricordare che la valutazione di irrilevanza doveva riferirsi tanto all’oggetto del dialogo quanto ai soggetti interlocutori che, pertanto, non dovevano aver alcuna attinenza con l’indagine in corso.

Nulla, però, si prevedeva espressamente in caso di irrilevanza parziale della conversazione, ossia quando la registrazione contenga, come spesso accade, in parte contenuti irrilevanti o attinenti a dati sensibili e in parte elementi rilevanti ai fini di indagine.

Ponendo il divieto della trascrizione nel brogliaccio, la disciplina adombrava di attribuire direttamente alla polizia giudiziaria il compito di valutare, fin dai primi momenti dell’attività tecnica, quali conversazioni si dovessero, si potessero o fosse vietato trascrivere, anche sommariamente, nel verbale delle operazioni.

Tuttavia, per evitare che una scelta così rilevante quanto agli effetti fosse lasciata esclusivamente alla p.g., nonché per permettere il dovuto coordinamento investigativo tra tutti gli attori inquirenti, si prevedeva che anche il p.m. intervenisse in questa fase destinata al non agevole compito di selezionare le conversazioni captate che sarebbero state oggetto di trascrizione nei c.d. brogliacci. Nel testo riformato l’art.267, comma 4 c.p.p. stabiliva, infatti, che l’ufficiale di p.g., prima di provvedere ai sensi dell’art.268, comma 2 bis c.p.p., ossia prima di non procedere alla trascrizione ritenendo sussistente il divieto di trascrivere le conversazioni, informasse “preventivamente” il p.m. “con annotazione sui contenuti delle comunicazioni e conversazioni” intercettate, al fine di consentire un’interlocuzione preliminare destinata proprio alla successiva cernita delle conversazioni da inserire nei verbali di intercettazione.

All’esito dell’interlocuzione e della valutazione dell’annotazione redatta dalla p.g. sulle conversazioni da non trascrivere, l’art.268, comma 2 ter c.p.p. prevedeva che il p.m., se di diverso avviso, con decreto motivato potesse disporre che le comunicazioni e conversazioni di cui al comma 2 bis – ossia quelle ritenute irrilevanti dalla p.g. – fossero trascritte nel verbale di ascolto quando “ne ritiene la rilevanza per i fatti oggetto di prova” e che, parimenti, fossero trascritte anche le comunicazioni e conversazioni relative a dati sensibili “se necessarie a fini di prova”.

La predisposizione di questa formale procedura scritta di interlocuzione era destinata a una maggiore responsabilizzazione sia della polizia giudiziaria che del p.m. sulla cernita e selezione del materiale registrato fin dall’inizio delle operazioni.

Questa procedura peccava di eccessivo formalismo e non teneva conto del rapporto che quasi quotidianamente intercorre tra p.g. e p.m. in caso di intercettazioni.

Ovvio, infatti, che questa interlocuzione scritta sarebbe pur sempre stata preceduta da contatti e comunicazioni tra gli organi inquirenti, soprattutto nei casi di dubbia valutazione, rappresentando un aspetto naturale del rapporto investigativo che si instaura tra il p.m. e la p.g. ed essendo, pertanto, naturale che quest’ultima, soprattutto nei primi momenti delle intercettazioni, sottoponga al titolare dell’indagine il giudizio sulla “irrilevanza” o “non rilevanza” di alcune registrazioni, posto anche che una decisione affrettata sarebbe foriera di oggettivi nocumenti all’indagine.

Del resto, è un dato del tutto notorio per l’operatore che le conversazioni non sono sempre immediatamente intellegibili e tali da permettere un’unitaria, logica, lettura dei diversi avvenimenti cui si riferiscono in quanto spesso frazionate nel tempo, ricche di sfumature, di termini criptici, di argomenti diversi[3].

A risolvere queste oggettive difficoltà soccorreva anche la previsione contenuta nel nuovo quarto comma dell’articolo 268 c.p.p. che consentiva alla p.g. di richiedere “il differimento della trasmissione verbali delle registrazioni quando la prosecuzione delle operazioni rende necessario, in ragione della complessità delle indagini, che l’ufficiale di polizia giudiziaria delegata all’ascolto consulti le risultanze acquisite” e si prevedeva che il p.m. potesse disporre con decreto tale differimento.

8. La riforma della riforma: il D.L. n.161/2019 e il nuovo art.268, comma 2 bis c.p.p.

Con scelta draconiana, il Decreto Legge n.161/2019 (come anche modificato dalla legge di conversione):

  • cancella il divieto di trascrivere nei verbali della polizia giudiziaria (i cosiddetti brogliacci) le conversazioni irrilevanti ai fini di indagine
  • rivisita quello sulle conversazioni non rilevanti e contenenti dati personali sensibili,

riformulando in questi termini l’art.268, comma 2 bis c.p.p.:

Il pubblico ministero dà indicazioni e vigila affinché nei verbali non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge, salvo che risultino rilevanti ai fini delle indagini.” (in questi termini la legge di conversione ha modificato l’originario testo del D.L. «salvo che si tratti di intercettazioni rilevanti…»).

Conseguentemente viene abrogato l’art.268, comma 2 ter c.p.p. (“Il pubblico ministero, con decreto motivato, può disporre che le comunicazioni e conversazioni di cui al comma 2-bis siano trascritte nel verbale quando ne ritiene la rilevanza per i fatti oggetto di prova. Può altresì disporre la trascrizione nel verbale, se necessarie a fini di prova, delle comunicazioni e conversazioni relative a dati personali definiti sensibili dalia legge”).

Si cambia, dunque, tutto, tornando quasi al passato prossimo (quello della disciplina a oggi ancora vigente).

Il p.m. torna saldamente sulla tolda di comando delle intercettazioni, spettando soltanto a quest’ultimo di fornire alla p.g. le indicazioni utili a evitare che le trascrizioni riportino “espressioni lesive della reputazione delle persone” ovvero riguardino “dati personali definiti sensibili dalla legge” e “salvo che risultino rilevanti ai fini delle indagini.

Significa che la p.g., come secondo l’attuale normativa, interloquirà sul contenuto delle intercettazioni col p.m. mediante annotazioni che potranno riportare le trascrizioni integrali delle registrazioni, siano rilevanti o meno.

Si pone, però, un limite, demandandone al p.m. la salvaguardia: nei verbali non potranno essere trascritte, o anche sommariamente riportate, quelle conversazioni che ledano la reputazione delle persone cui i dialoghi si possano riferire o che riguardino dati personali sensibili a norma di legge.

Il divieto di trascrizione presuppone, come appena rilevato, la non rilevanza ai fini probatori di tali conversazioni.

Se, quindi, il dato sensibile o l’espressione lesiva della reputazione assumano rilevanza per l’oggetto e i fini di indagine, potranno/dovranno essere legittimamente trascritti[4].

I dati sensibili sono ricavabili dall’articolo 4, lettera B) Decreto Legislativo 30 giugno 2003 n. 196, intendendosi i dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.

Conseguentemente, si è soppressa la seconda parte dell’art. 267 comma 4, in modo che oggi la norma si limita a stabilire che “Il pubblico ministero procede alle operazioni personalmente ovvero avvalendosi di un ufficiale di polizia giudiziaria.

E’, pertanto, venuta meno la previsione per l’ufficiale di polizia giudiziaria di provvedere “a norma dell’articolo 268, comma 2-bis, informando preventivamente il pubblico ministero con annotazione sui contenuti delle comunicazioni e conversazioni.”

9. Un bilanciamento di interessi.

Si è annotato che, secondo il nuovo testo dell’art.268, comma 2 bis c.p.p. “Il pubblico ministero dà indicazioni e vigila affinché nei verbali non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge, salvo che risultino rilevanti ai fini delle indagini.”.

La nuova disposizione, così come formulata, lascia adito a problematiche interpretative, soprattutto in merito alla valutazione delle espressioni lesive della reputazione.

Dunque, il p.m. prima deve dare indicazioni alla p.g. e poi vigilare che vengano rispettate.

In via di prima approssimazione, è plausibile sostenere che l’Ufficio inquirente possa elaborare le indicazioni in oggetto in un provvedimento di carattere generale e astrattamente applicabile in ogni caso in cui si debba ricorrere alle intercettazioni, magari poi integrandolo con quelle indicazioni specifiche da adottare qualora la tipologia dell’inchiesta o la natura dei reati oggetto del procedimento lo richiedano.

Sempre in via di prima approssimazione, premesso che per “reputazione” si intende la stima e la considerazione di cui ogni persona gode nel sociale, ossia la considerazione in cui si è tenuti dagli altri (cfr. dizionario Treccani, dizionario Garzanti) l’inciso “espressioni lesive della reputazione delle persone” dovrebbe riguardare il contenuto di dialoghi che siano infamanti per una individuata persona, nel senso che danneggino la stima di cui quella persona gode verso i terzi, alludendo a fatti, comportamenti, atteggiamenti di per sé già lesivi o esprimendo giudizi di pari disvalore.

E possono essere “espressioni” che i dialoganti riferiscono a una terza persona, ovvero che uno dei loquenti rivolga all’altro e, se il caso, viceversa.

Al di là delle parole usate nel testo normativo, appare chiaro che l’intento legislativo sia quello di evitare la trascrizione di dialoghi non solo irrilevanti ai fini dell’indagine, ma il cui contenuto, con richiamo a fatti e circostanze, sia tale da mettere alla berlina la reputazione delle persone e che, se divulgati potrebbero cagionare immaginabili cadute di stima nell’opinione pubblica.

Proprio sul presupposto che si tratti di dialoghi senza alcun rilievo, oggettivo e soggettivo, per l’indagine, se ne vieta la trascrizione, per evitarne la successiva pubblicità.

Vige, pertanto, la regola del bilanciamento degli interessi: prevale la tutela della riservatezza se il danno alla stima non trovi la contropartita nel rilevante giovamento alle indagini; viceversa, nel caso contrario.

Difficile, se non impossibile e certamente defatigante, compilare un catalogo esaustivo di casistiche in quanto, trattandosi di materia assai variegata, spetterà alla sensibilità dell’inquirente stabilire se le espressioni registrate ledano la reputazione e se sia, o meno, necessario trascriverle in quanto assumano una portata probatoria rilevante per l’indagine.

Per consentire, comunque sia, che anche il difensore, quando gli sarà permesso di accedere al materiale delle intercettazioni, possa valutare se la conversazione non trascritta in quanto lesiva della reputazione non abbia anche una portata probatoria utile all’indagato, appare preferibile che il p.m. preveda che nel brogliaccio la trascrizione sia sostituita dall’inciso “dialogo rientrante nell’art.268, comma 2 bis c.p.p.” e simili.

Parimenti sarà necessario adottare disposizioni generali alla polizia giudiziaria per evitare che i verbali riportino dati personali sensibili, seppur in questo caso la normativa di settore sia di oggettivo aiuto, prevedendo che al posto della trascrizione nel “brogliaccio” si annoti “dialogo rientrante nell’art.268, comma 2 bis c.p.p.” o “conversazione privata relativa a dati sensibili “, come suggeriva la circolare del 2016 del CSM in materia e in tema di buone prassi.

Discende, pertanto, che debba pur sempre intervenire una preventiva interlocuzione con la polizia giudiziaria deputata all’ascolto delle conversazioni ogni qual volta siano registrate conversazioni astrattamente rientrabili nella previsione dell’art.268, comma 2 bis c.p.p., quanto meno al fine di valutare quelle che, pur lesive della reputazione o inerenti a dati personali sensibili, siano da riportare in quanto “rilevanti ai fini delle indagini”, contrastando con la ratio normativa un controllo ex post, ossia dopo il deposito dei verbali, in quanto renderebbe vano il chiaro intento legislativo di non dare pubblicità alle intercettazioni lesive della privacy (intesa sia come tutela della reputazione sia come protezione dei dati personali sensibili) se non significative, in senso probatorio, per l’indagine.

Quanto alla clausola di salvezza – “salvo che risultino rilevanti ai fini delle indagini.” – che consente di riportare le espressioni in esame, alla stregua dello spirito della riforma se ne suggerisce un’interpretazione che consenta di trascrivere quelle che, se non riportate nel verbale, si risolverebbero in un danno per la prova dei fatti oggetto dell’indagine e delle responsabilità o, comunque sia, ne sminuirebbero la portata.

Ancora un rilievo.

Nulla si prevede espressamente in caso di rilevanza parziale della conversazione, ossia quando la registrazione contenga, come spesso accade, in parte contenuti rilevanti per l’indagine e in parte attinenti a dati sensibili o a espressioni lesive della reputazione.

Le contrapposte esigenze di tutela del diritto alla riservatezza e della conservazione del materiale di indagine non consentono soluzioni “unitarie”, ora trascrivendo integralmente la registrazione, ora vietandola, l’un caso risolvendosi nella violazione del diritto, l’altro caso in una ingiustificata perdita del materiale probatorio.

In questi casi appare ovviamente proponibile, in quanto conforme alle finalità della legge, la trascrizione dei passaggi della conversazione contenenti gli elementi rilevanti ai fini di indagine.

Tuttavia, laddove non sia possibile separare gli elementi rilevanti ai fini dell’indagine dalle esigenze di riservatezza, la registrazione sarebbe necessariamente rilevante e, pertanto, integralmente trascrivibile, in quanto la riforma ha previsto che la tutela della riservatezza debba comunque cedere il passo alle esigenze dell’indagine.

Ed è ancora da considerare che valutare la rilevanza delle intercettazioni nei primi momenti dell’indagine rischia di risolversi in una erronea anticipazione di quei giudizi che solitamente si formulano alla fine dell’inchiesta, perché solo all’esito dell’istruttoria un dialogo che contenga anche dati personali sensibili si potrebbe rivelare prezioso, mentre tale non lo si reputava in un primo tempo[5].

A questo inconveniente potrebbe porre rimedio la procedura prevista dall’art.268, comma 6 c.p.p. nuova formulazione, la quale stabilisce che, il p.m. provveda a presentare al giudice l’elenco delle conversazioni (e dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche) che intenda far acquisire nel materiale probatorio in quanto rilevanti (si veda pure il nuovo art.415 bis, comma 2 bis c.p.p.).

La redazione dell’elenco in questione, avvenendo all’esito delle operazioni (o alla chiusura delle indagini, se sia intervenuta l’autorizzazione del gip) potrebbe costituire l’occasione per una rivisitazione critica del materiale e di quelle prime indicazioni alla p.g. di non trascrivere registrazioni contenenti espressioni lesive alla reputazione o dati personali sensibili, poi divenute però rilevanti per le indagini a seguito di una valutazione complessiva di quanto acquisito.

10. Le conversazioni irrilevanti.

Oltre all’espresso divieto di riportare le espressioni lesive dell’altrui reputazione e quelle inerenti a dati personali sensibili e di cui all’art.268, comma 2 bis c.p.p., si ritiene plausibile che, secondo una prassi virtuosa ormai consolidata e per evidenti economie, non sarà necessario che i verbali riportino dialoghi o comunicazioni del tutto irrilevanti per le indagini tanto per l’oggetto della conversazione quanto per i soggetti interlocutori, quali quelli attinenti ad argomenti di vita familiare o sociale e il cui contenuto, non avendo alcuna attinenza con l’indagine in corso, potrà essere sostituito con gli usuali incisi “dialogo irrilevante per le indagini”, “conversazione familiare” e simili.

Una soluzione pratica è quella usualmente adottata dagli inquirenti e poi espressa dal CSM nella circolare del 2016, con la quale si suggeriva, come buona prassi, di chiedere alla p.g. di riportare nel brogliaccio di ascolto annotazioni del tipo “intercettazione manifestamente irrilevante ai fini delle indagini” accompagnata dalla “mera indicazione, se conosciuti, degli interlocutori nonché, sinteticamente, della tipologia di oggetto (es. conversazione su argomenti familiari ovvero conversazione su temi strettamente personali)”.

11. Conversazioni inerenti al mandato difensivo.

L’art.103, comma 5 c.p.p. già prevede il divieto di registrare le conversazioni dei difensori (nonché investigatori privati autorizzati, consulenti tecnici e ausiliari) e tra costoro ed i propri assistiti; se, al contrario, registrate, ne dispone l’inutilizzabilità.

La riforma, sul punto non “riformata” dal D.L.n.161/2019, ha aggiunto un ulteriore periodo al comma 7 dell’art.103 in questione, stabilendo che «Fermo il divieto di utilizzazione di cui al primo periodo, quando le comunicazioni e conversazioni sono comunque intercettate, il loro contenuto non può essere trascritto, neanche sommariamente, e nel verbale delle operazioni sono indicate soltanto la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta.

La norma, dunque, prevede un espresso divieto di trascrizione delle conversazioni, laddove siano state registrate.

A fronte del divieto, nel verbale delle operazioni si indicheranno “soltanto” la data, l’ora e l’utenza intercettata e il ricorso all’avverbio soltanto sembrerebbe escludere si possa aggiungere l’inciso “dialogo con il difensore” o simili.

Rileva, inoltre, che non potrà aver corso alcuna interlocuzione tra p.g. e p.m. sulla valutazione in ordine alla trascrivibilità di queste intercettazioni, stante l’assoluta e preliminare inutilizzabilità delle conversazioni intercorse con il difensore, a prescindere da ogni valutazione in ordine alla rilevanza delle stesse ai fini di indagine, quando, ovviamente siano inerenti all’esercizio del mandato (difensivo o di investigazione privata o di consulenza tecnica).

Peraltro, qualora la p.g., per la peculiarità del caso concreto, abbia dei dubbi sull’inerenza della specifica conversazione intercettata all’esercizio delle funzioni difensive dovrà necessariamente raccordarsi ed interloquire con il Pubblico Ministero per le conseguenti valutazioni.

Infatti, quanto all’ambito delle conversazioni del difensore tutelate dalla previsione dell’articolo 103 comma 5 e comma 7 c.p.p. la giurisprudenza ha costantemente ribadito che ”il divieto di intercettazioni relative a conversazioni o comunicazioni dei difensori non riguarda indiscriminatamente tutte le conversazioni di chi riveste tale qualifica, e per il solo fatto di possederla, ma solo le conversazioni che attengono alla funzione esercitata, in quanto la “ratio” della regola posta dall’art. 103 cod. proc. pen., va rinvenuta nella tutela del diritto di difesa “ (ex pluris, Cass. Sez. II, sent. n. 12111/2015).

12. La nuova disciplina sulla trasmissione dei verbali e delle registrazioni per la conservazione nell’archivio (le modifiche agli artt.268, 269, l’abrogazione dell’art. 268 bis c.p.p.).

La nuova disciplina introdotta con il D. L. n.161/2019 ha snellito la procedura da seguire una volta ultimata l’intercettazione, anche provvedendo a eliminare i paventati pericoli di sovrapposizione tra quanto previsto dall’art.268, comma 4 c.p.p., come nell’originario testo della legge di riforma, e quanto stabilito dall’art.268 bis successivo.

In sintesi, la riforma Orlando prevedeva che

 “I verbali e le registrazioni sono trasmessi al pubblico ministero, per la conservazione nell’archivio di cui all’articolo 269, comma l, immediatamente dopo la scadenza del termine indicato per lo svolgimento delle operazioni nei provvedimenti di autorizzazione o di proroga.” (art. 268, comma 4 c.p.p.).

Si disponeva, però che, al momento della scadenza dei termini delle operazioni di intercettazione, il p.m. con decreto potesse differire la trasmissione degli atti all’archivio, qualora la complessità delle indagini e le esigenze degli investigatori di valutare unitariamente il materiale raccolto lo rendesse necessario (art.268, comma 4 c.p.p.)[6].

La norma trovava ragione nel fatto che il termine poteva essere sfruttato per consentire di rivalutare ex post, una volta completato il quadro dell’indagine, il giudizio sull’irrilevanza di alcune conversazioni captate (intanto non trascritte in adesione all’allora divieto normativo) e sottoporle ex novo all’attenzione del p.m., per consentirgli, così, di disporne la trascrizione.

Facendo venir meno il divieto della trascrizione delle conversazioni irrilevanti e la conseguente procedura di valutazione interlocutoria tra p.g. e p.m. il D.L. n.161/2019 ha abrogato la disposizione in parola.

Come rilevato, il D.L. n.161/2019 interviene sostituendo il comma 4 dell’art.268 c.p.p., aggiungendovi il comma 5 e abrogando il successivo art.268 bis.

Stabilito quali intercettazioni possano essere annotate nel brogliaccio (non i dialoghi col difensore; non quelle di cui all’art.268, comma 2 bis c.p.p. se non rilevanti ai fini delle indagini) e come (ossia con trascrizione se rilevanti, ovvero con mera indicazione di sintesi dell’oggetto se del tutto irrilevanti), gli atti saranno trasmessi al p.m. per la conservazione nell’archivio e per il successivo deposito alla difesa.

La nuova formula dell’art.268, comma 4 c.p.p. prevede una scansione temporale per la trasmissione dei verbali e delle registrazioni, onerando la polizia giudiziaria di provvedere a inviarli al p.m. immediatamente.

E’ però significativo che la nuova formulazione della norma non preveda più che la trasmissione dei verbali e delle registrazioni debba avvenire immediatamente dopo la conclusione delle operazioni, ossia immediatamente dopo la scadenza del relativo termine come previsto dalle autorizzazioni e proroghe (“immediatamente dopo la scadenza del termine indicato per lo svolgimento delle operazioni nei provvedimenti di autorizzazione o di proroga.”).

Il nuovo testo si limita a stabilire che “I verbali e le registrazioni sono immediatamente trasmessi al pubblico ministero, per la conservazione nell’ archivio di cui all’articolo 269, comma 1.” (nuovo art.268, comma 4 c.p.p.).

La lettera della norma, pertanto, dispone che verbali e registrazioni siano immediatamente trasmessi al p.m. senza dover attendere la conclusione delle operazioni di intercettazione.

Nel corso del procedimento, pertanto, potranno susseguirsi più trasmissioni relative alla medesima intercettazione.

Quindi:

Entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni, essi (ndr: verbali e registrazioni) sono depositati presso l’archivio di cui all’articolo 269, comma 1, insieme ai decreti che hanno disposto, autorizzato, convalidato o prorogato l’intercettazione, rimanendovi per il tempo fissato dal pubblico ministero, salvo che il giudice non riconosca una proroga.

Se dal deposito può derivare un grave pregiudizio per le indagini, il giudice autorizza il pubblico ministero a ritardarlo non oltre la chiusura delle indagini preliminari” (art.268, commi 4 e 5 c.p.p.).

Pertanto, verbali e registrazioni sono immediatamente inoltrati dalla polizia giudiziaria al p. m., il quale ha l’obbligo di custodirli nell’archivio.

Oltre a questo obbligo di pronta custodia nell’archivio, entro 5 giorni dalla conclusione delle operazioni il p.m. dovrà depositare i verbali, le registrazioni, nonché i decreti che hanno disposto, autorizzato, convalidato, prorogato le intercettazioni custoditi nell’archivio, ossia dovrà metterli a disposizione dei difensori per un tempo che prefisserà (discovery).

La norma non prevede che il p.m. mantenga il deposito degli atti per un periodo stabilito, utile a consentire ai difensori di prenderne cognizione. Tuttavia, laddove il termine posto dal p.m. sia troppo limitato per l’esercizio dei diritti della difesa, quest’ultima potrà chiedere una proroga al giudice per le indagini preliminari (art.268, comma, ultima parte, c.p.p.).

Resta, comunque sia, salva la possibilità, ancorata al grave pregiudizio per le investigazioni, di ritardare il deposito ai difensori al termine delle indagini, dietro autorizzazione del giudice (ritardo della discovery: art.268, comma 5 c.p.p.) e vien da pensare che, essendo norma di buon senso, si tratterà della soluzione più praticata e che, nella prassi, questa eccezione si tradurrà nella regola ordinaria.

Ed infatti, nei procedimenti connotati da una pluralità di intercettazioni su più utenze e bersagli, emerge l’esigenza di poter disporre di un tempo adeguato a completare la trascrizione dei verbali di operazioni delle intercettazioni rilevanti e analizzarne, raccordandole, le risultanze. Inoltre, l’occasione potrebbe consentire di rivalutare ex post, una volta completato il quadro dell’indagine, un’iniziale irrilevanza delle conversazioni captate e sottoporle ex novo all’attenzione del p.m., per consentirgli, così, di disporne la trascrizione.

Dal combinato disposto tra gli artt.268, 269 c.p.p. e l’art.89 bis disp. att. c.p.p. (a sua volta modificato dal DL n.161/2019 rispetto al testo della riforma: v. infra) discende, pertanto, che:

  • i verbali della p.g. e le registrazioni, sono custoditi dal p.m. in un apposito archivio immediatamente dopo che la polizia giudiziaria li abbia trasmessi;
  • parimenti, nell’archivio deve essere custodito “ogni altro atto” relativo alle intercettazioni (art.269 comma 1 come riformulato dal D.L.n.161/2019);
  • salva l’autorizzazione del giudice a ritardare al termine delle indagini preliminari l’adempimento (eseguendolo unitamente all’invio dell’avviso di cui all’art.415 bis c.p.p.), il p.m., deve depositare ai difensori i verbali, le registrazioni e i decreti che hanno disposto, autorizzato, convalidato, prorogato le intercettazioni, entro 5 giorni dal termine delle operazioni di intercettazione, mettendoli a loro disposizione nell’archivio. 
13. L’archivio delle intercettazioni.

La novella prevede una scansione temporale per la trasmissione dei verbali e del materiale fonico inerente alle intercettazioni e il successivo deposito ai difensori, stabilendo che l’inoltro al p.m. avvenga immediatamente e che l’inquirente provveda a depositare gli atti ai difensori entro 5 giorni dalla conclusione delle intercettazioni, ovvero, in via d’eccezione, nel termine differito stabilito dal giudice per le indagini preliminari e coincidente con la chiusura delle indagini preliminari (art.268, commi 4 e 5 c.p.p.)

La trasmissione dei verbali e delle registrazioni (e dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche) comporta un preciso obbligo di custodia e di segreto, posto che il p.m. dovrà custodirli nell’archivio delle intercettazioni, qui restando coperti dal segreto d’indagine fino al momento del deposito ai difensori (entro i 5 gg. dalla conclusione delle relative operazioni o non oltre la chiusura delle indagini preliminari: art.268, commi 4 e 5 c.p.p.).

Il D.L. n.161/2019 prevede, dunque, al pari del testo originario della riforma, l’istituzione di un archivio dedicato alle intercettazioni.

Scompare, però, la definizione di “archivio riservato”, sostituita con quella “archivio delle intercettazioni”, ma resta lo stesso intento di custodire il materiale e gli atti relativi alle intercettazioni in un luogo dedicato, al fine di garantirne la segretezza.

L’archivio delle intercettazioni è destinato a custodire, infatti, non solo i verbali e le registrazioni, ma tutti gli atti relativi, ossia i decreti del giudice, le richieste del p.m. (e, si ritiene, le annotazioni della p.g., per quanto si annoterà infra).

Così dispone la nuova formulazione dell’art.269 c.p.p.:

“1. I verbali e le registrazioni, e ogni altro atto ad esse relativo, sono conservati integralmente in apposito archivio gestito e tenuto sotto la direzione e la sorveglianza del Procuratore della Repubblica dell’ufficio che ha richiesto ed eseguito le intercettazioni. Al giudice per le indagini preliminari e ai difensori dell’imputato per l’esercizio dei loro diritti e facoltà è in ogni caso consentito l’accesso all’archivio e l’ascolto delle conversazioni o comunicazioni registrate.” (in neretto le modifiche rispetto al testo come predisposto dalla riforma di cui al D.Lgs.n.216/2017)[7].

Sorge, però, spontaneo chiedersi quale disciplina possa applicarsi se, disposte le intercettazioni, gli atti siano poi trasmessi ad altra autorità giudiziaria per competenza a fronte dell’inciso “I verbali e le registrazioni, e ogni altro atto ad esse relativo, sono conservati integralmente in apposito archivio gestito e tenuto sotto la direzione e la sorveglianza del Procuratore… dell’ufficio che ha richiesto ed eseguito le intercettazioni..”.

A sua volta l’art. 89 bis disp.att.c.p.p., come modificato dal DL n.161/2019, disciplina anche le modalità operative dell’archivio (in neretto le principali innovazioni apportate dal D.L. e dalla legge di conversione)[8]:

“1. Nell’archivio digitale istituito dall’art.269 del codice, tenuto sotto la direzione e la vigilanza del Procuratore della Repubblica, sono custoditi i verbali, gli atti e le registrazioni delle intercettazioni a cui afferiscono.

2. L’archivio è gestito con modalità tali da assicurare la segretezza della documentazione relativa alle intercettazioni non necessarie per il procedimento, ed a quelle irrilevanti o di cui è vietata l’utilizzazione ovvero riguardanti categorie particolari di dati personali come definiti dalla legge o dal regolamento in materia. Il Procuratore della Repubblica impartisce, con particolare riguardo alle modalità di accesso, le prescrizioni necessarie a garantire la tutela del segreto su quanto ivi custodito.

3. All’archivio possono accedere, secondo quanto stabilito dal codice, il giudice che procede e i suoi ausiliari, il pubblico ministero e i suoi ausiliari, ivi compresi gli ufficiali di polizia giudiziaria delegati all’ascolto, i difensori delle parti, assistiti, se necessario, da un interprete. Ogni accesso è annotato in apposito registro, gestito con modalità informatiche; in esso sono indicate data, ora iniziale e finale, e gli atti specificamente consultati.

4. I difensori delle parti possono ascoltare le registrazioni con apparecchio a disposizione dell’archivio e possono ottenere copia delle registrazioni e degli atti quando acquisiti a norma degli articoli 268, 415 bis e 454 del codice. Ogni rilascio di copia è annotato in apposito registro, gestito con modalità informatiche; in esso sono indicate data e ora di rilascio e gli atti consegnati in copia.”

Provando a tirare le fila, appare sostenibile che

  • con il termine archivio si faccia riferimento sia a un luogo sia a uno strumento informatico sito in quel luogo ed entrambi dedicati alla gestione delle intercettazioni;
  • al Procuratore della Repubblica è demandato di vigilare sulle modalità di accesso al luogo e all’archivio digitale, affinché solo le persone autorizzate abbiano accesso al luogo e agli atti depositati e consultabili;
  • quanto al luogo, il Procuratore dovrà organizzarlo nel rispetto delle misure di sicurezza e di segretezza, prevedendo, con ordine di servizio, che il locale archivio sia presidiato da strumenti di video sorveglianza e di monitoraggio degli ingressi, nonché sia dotato di personale incaricato di accompagnarvi le persone legittimate ad accedervi (giudici, difensori, se del caso interpreti, personale di p.g.), di un registro informatico sul quale annotare i nominativi delle persone autorizzate, per legge o per disposizione del Procuratore, all’accesso, il giorno e l’ora di ciascun ingresso, il numero del procedimento per il quale l’accesso è stato consentito e dovrà anche dotarlo delle necessarie apparecchiature per l’ascolto delle registrazioni;
  • tra l’altro, queste disposizioni dovranno garantire che l’archivio sia gestito con modalità tali da assicurare “la segretezza della documentazione relativa alle intercettazioni non necessarie per il procedimento, ed a quelle irrilevanti o di cui è vietata l’utilizzazione ovvero riguardanti categorie particolari di dati personali come definiti dalla legge o dal regolamento in materia, ossia mantenere il segreto su quelle intercettazioni che non entreranno a far parte di quelle che saranno acquisite al procedimento e che dovranno restare custodite nell’archivio. Per tutte queste finalità, è previsto che, con Decreto ministeriale, da adottare dopo aver sentito il Garante per la protezione dei dati personali, siano fissati “i criteri per regolare le modalità di accesso all’archivio…nonché di consultazione e richiesta di copie, a tutela della riservatezza degli atti ivi custoditi” (art.2, comma 5 D.L. n.161/2019);
  • in questo luogo sarà installato l’archivio digitale delle intercettazioni;
  • nell’archivio digitale dovranno essere custoditi, in forma digitale, relativamente ad ogni singolo procedimento, i verbali (un tempo: brogliacci), le registrazioni e ogni altro atto inerente all’intercettazione (i decreti che hanno disposto, autorizzato, convalidato, prorogato le operazioni).

E’, inoltre, previsto che, con Decreto ministeriale “sono stabilite le modalità e i termini a decorrere dai quali il deposito degli atti e dei provvedimenti relativi alle intercettazioni è eseguito esclusivamente in forma telematica nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici” (art.2, comma 5 D.L. n.161/2019).

L’art.89 bis disp.att.c.p.p. come introdotto dalla riforma stabiliva espressamente che anche le annotazioni della polizia giudiziaria dovevano ricomprendersi tra il materiale da conservare nell’archivio: “presso l’ufficio del pubblico ministero è costituito l’archivio…nel quale sono custoditi le annotazioni, i verbali, gli atti e le registrazioni delle intercettazioni a cui afferiscono”.

Il nuovo testo dell’articolo, come sostituito dal D.L.n.161/2019, si limita a disporre che nell’archivio “sono custoditi i verbali, gli atti e le registrazioni delle intercettazioni a cui afferiscono”.

Il fatto che sia stato eliminato l’espresso riferimento alle annotazioni della polizia giudiziaria fa sorgere il dubbio che debbano ancora comprendersi tra gli atti da custodire nell’archivio.

Se, però, la previsione dell’archivio persegue l’intento di evitare ogni pericolo di pubblicità del contenuto delle intercettazioni prima della procedura di scrutinio destinata a stabilire quali debbano fare formalmente ingresso nel compendio probatorio (v.infra), appare ragionevole ritenere che anche le annotazioni di p.g. che si riferiscano alle intercettazioni debbano essere custodite nell’archivio e non nel fascicolo del pubblico ministero, soprattutto tenendo conto che le annotazioni potrebbero contenere le trascrizioni integrali delle conservazioni registrate, non essendo più fatto divieto.

Del resto, l’art.269, comma 1 c.p.p. prevede che, oltre ai verbali e alle registrazioni, sia custodito nell’archivio anche ogni “altro atto” inerente alle intercettazioni o “ad esse relativo”.

Poiché l’art.268, comma 4 c.p.p., nell’indicare gli atti da conservare nell’archivio, si riferisce espressamente ai verbali, alle registrazioni e ai decreti che hanno disposto, autorizzato, convalidato o prorogato l’intercettazione, per logico coordinamento con l’art.269, comma 1 appena richiamato, è fondato ritenere che siano da destinarvi  anche le informative interlocutorie con le quali la p.g. abbia illustrato i risultati delle intercettazioni al fine di formulare richieste di proroga delle stesse, trattandosi di atti che normalmente contengono riferimenti espliciti al contenuto delle conversazioni intercettate.

14. Aspetti problematici dell’archivio delle intercettazioni.

La disciplina dedicata all’archivio delle intercettazioni non tiene adeguatamente in conto che seppur si riferisca ad un archivio digitale, tuttavia il formato cartaceo degli atti rappresenta ancora una tipologia prevista per legge nel procedimento penale.

Per questo si è annotato che col termine “archivio” si dovrà far riferimento anche ad un luogo.

E si tratta di un luogo dove dovranno essere custoditi tutti gli atti in formato cartaceo attinenti alle intercettazioni (e dovrà essere certamente un luogo capiente, valutando la mole di atti (fascicoli delle intercettazioni, annotazioni di p.g. con relative trascrizioni, decreti e quant’altro).

Si profilano difficoltà logistiche.

In questo luogo, come rilevato, troverà anche sede l’archivio digitale, ossia l’applicativo sul quale saranno “caricati” digitalmente gli atti inerenti alle intercettazioni e le fonie delle registrazioni (come noto è stato predisposto nel sistema informatico TIAP un sottoapplicativo dedicato “TIAP Intercettazioni”, nel quale saranno inseriti gli atti cartacei una volta resi in formato digitale).

Questa coabitazione forzosa trova eco nel disposto di cui all’art.267, comma 5 c.p.p., il quale prevede il registro delle intercettazioni:

“In apposito registro riservato gestito, anche con modalita’ informatiche, e tenuto sotto la direzione e la sorveglianza del Procuratore della Repubblica, sono annotati, secondo un ordine cronologico, i decreti che dispongono, autorizzano, convalidano o prorogano le intercettazioni e, per ciascuna intercettazione, l’inizio e il termine delle operazioni.”.

Significa che si prevede ancora un registro cartaceo deputato all’annotazione cronologica delle intercettazioni.

La finalità dell’archivio è di mantenere lo stretto riserbo (o meglio il segreto) sulle intercettazioni in corso e su quelle eseguite fino a quando non sarà necessario procedere al deposito degli atti alle difese.

Fino al deposito degli atti, sarà responsabilità dell’inquirente mantenere il segreto, immediatamente destinando all’archivio ogni “carta” relativa alle intercettazioni pervenutagli dalla p.g., non potendola trattenere nel fascicolo.

Si dovrà, inoltre e all’avvio della procedura di intercettazione, creare (anche) un formato digitale degli atti che troveranno sede nel sistema informatico dedicato (“TIAP Intercettazioni), destinato a custodire sia quelli del p.m. (le richieste di autorizzazione, i decreti d’urgenza, le richieste di proroga) sia quelli di competenza del gip (autorizzazioni, proroghe).

In sostanza, al formato cartaceo corrisponderà un formato digitale degli stessi atti.

In costanza di intercettazioni e/o fino al momento del deposito degli atti, l’inquirente potrà sempre accedere all’archivio, preferibilmente in modo telematico, ossia ricorrendo all’applicativo “TIAP intercettazioni”, per consultare i risultati delle intercettazioni e utilizzare il materiale necessario per eventuali richieste di proroga, per nuove richieste di estensione delle captazioni, per l’elaborazione di una richiesta cautelare.

E’ un prezzo che si deve pagare per evitare ogni ragionevole rischio di diffusività delle registrazioni fino al momento del deposito e per maggiormente responsabilizzare il p.m. e la p.g., posto che se tale rischio si verificasse non si potrebbe chiederne ragione anche alle difese.


[1] Cfr. Relazione illustrativa allo «Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di intercettazione di conversazioni o comunicazioni» (472-bis), consultabile sui siti internet di Camera e Senato.

[2] E’ vietata la trascrizione, anche sommaria, delle comunicazioni o conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini, sia per l’oggetto che per i soggetti coinvolti, nonche’ di quelle, parimenti non rilevanti, che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge. Nel verbale delle operazioni sono indicate, in tali casi, soltanto la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta.”

(art.268, comma 2 bis c.p.p.).

“Non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori…e le persone da loro assistite…Fermo il divieto di utilizzazione di cui al primo periodo, quando le comunicazioni e conversazioni sono comunque intercettate, il loro contenuto non può essere trascritto, neanche sommariamente, e nel verbale delle operazioni sono indicate soltanto la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta.”

(art.103, comma 5 e comma 7 c.p.p.).

[3] “..comunicazioni e conversazioni, queste, di difficile decifrazione in prima battuta e che solo in un secondo momento, quasi sempre coincidente con le fasi finali dell’indagine, consentono di avere il quadro complessivo del thema probandum e quindi di apprezzarne il valore ed esprimere fondatamente quel giudizio di pertinenza e rilevanza per i fatti oggetto di prova che, diversamente, il carattere ancora fluido dei momenti iniziali dell’indagine difficilmente consente. Solo allora la p.g. e il P.M. hanno tutti gli strumenti ermeneutici per poter decidere, con competenza e completezza, se una determinata conversazione sia o meno rilevante e debba perciò fare ingresso nei verbali di ascolto”, Pestelli “Brevi note sul nuovo Decreto legislativo in materia di intercettazioni: (poche) luci e (molte) ombre di una riforma frettolosa” in Diritto Penale Contemporaneo, n.1/2018, pag.173 ss.

[4] Quale il riferimento, in una registrazione, allo stato di tossicodipendenza di un terzo soggetto acquirente nell’ambito di un procedimento avente ad oggetto il reato di cui all’art. 73 DPR n.309/90, aggravato ex art. 80 comma 1 lett.f) stesso Decreto, come suggeriscono le “Linee guida per l’applicazione del decreto legislativo 29.12.2017 n.216 disposizioni in materia di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni” emesse dalla Procura di Sondrio il 10.4.2018. Ovvero l’appellativo infamante, la cosiddetta “ingiuria”, ad un individuo, in quanto dimostrativo dell’appartenenza ad un contesto criminale.

[5] C. Conti,  “La riservatezza delle intercettazioni nella “delega Orlando”, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 3/2017, 82 ss.

[6] Art.268, comma 4 c.p.p.: “Il pubblico ministero dispone con decreto il differimento della trasmissione dei verbali e delle registrazioni quando la prosecuzione delle operazioni rende necessario, in ragione della complessità delle indagini, che l’ufficiale di polizia giudiziaria delegato all’ascolto consulti le risultanze acquisite. Con lo stesso decreto fissa le prescrizioni per assicurare la tutela del segreto sul materiale non trasmesso”.

[7] Il testo originario della riforma prevedeva: “1. I verbali e le registrazioni, e ogni altro atto ad esse relativo, sono conservati integralmente in apposito archivio riservato presso l’ufficio del pubblico ministero che ha richiesto ed eseguito le intercettazioni, e sono coperti da segreto. Al giudice per le indagini preliminari è in ogni caso consentito l’accesso all’archivio e l’ascolto delle conversazioni o comunicazioni registrate.”

[8] Il testo dell’art.89 bis disp.att.c.p.p. originario così stabiliva:

Archivio riservato delle intercettazioni.

1. Presso l’ufficio del pubblico ministero è istituito l’archivio riservato previsto dall’articolo 269, comma 1, del codice, nel quale sono custoditi le annotazioni, i verbali, gli atti e le registrazioni delle intercettazioni a cui afferiscono.

2. L’archivio è gestito, anche con modalità informatiche, e tenuto sotto la direzione e la sorveglianza del procuratore della Repubblica, con modalità tali da assicurare la segretezza della documentazione custodita. Il procuratore della Repubblica impartisce, con particolare riguardo alle modalità di accesso, le prescrizioni necessarie a garantire la tutela del segreto su quanto i vi custodito.

3. All’archivio possono accedere, secondo quanto stabilito dal codice, il giudice che procede e i suoi ausiliari, il pubblico ministero e i suoi ausiliari, ivi compresi gli ufficiali di polizia giudiziaria delegati all’ascolto, i difensori delle parti, assistiti, se necessario, da un interprete. Ogni accesso è annotato in apposito registro, gestito con modalità informatiche; in esso sono indicate data, ora iniziale e finale, e gli atti specificamente consultati.

4. I difensori delle parti possono ascoltare le registrazioni con apparecchio a disposizione dell’archivio, ma non possono ottenere copia delle registrazioni e degli atti i vi custoditi.

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Articolo di Antonello Gustapane – PM Bologna

I RAPPORTI TRA IL PROCURATORE DIRIGENTE ED I MAGISTRATI ADDETTI ALL’UFFICIO DI PROCURA

Sommario: 1) L’assegnazione degli affari da parte del Procuratore della Repubblica; 2) Gli orientamenti del Csm sui rapporti tra il Procuratore della Repubblica ed il magistrato assegnatario del procedimento; 3) I limiti della ricostruzione fatta dal Csm dei rapporti tra Procuratore della Repubblica e magistrato assegnatario; 4) Il controllo del Procuratore della Repubblica sulle richieste di misure cautelari personali e reali; 5) I controlli sulla revoca dell’assegnazione; 6) La rinuncia all’assegnazione da parte del magistrato assegnatario

1) L’assegnazione degli affari da parte del Procuratore della Repubblica

Il tema dei rapporti che intercorrono negli uffici requirenti di primo grado tra il Procuratore della Repubblica e gli altri magistrati addetti alla Procura della Repubblica nella ripartizione e nella conduzione degli affari è centrale per la corretta ricostruzione della disciplina apprestata dal legislatore ordinario per l’organizzazione ed il funzionamento del pubblico ministero, che non può che essere operata in senso conforme ai principi enunciati dalla vigente Costituzione italiana.

Con l’art. 1 della l. n. 269 del 2006, l’art. 2 del d.lgs. n. 106 del 2006, sulla “titolarità dell’azione penale”,è stato modificato nel senso che, ferme restando le disposizioni previste dall’art. 70 bis ord. giud. in tema di Direzione Distrettuale Antimafia,: “il Procuratore della Repubblica, quale titolare esclusivo dell’azione penale, la esercita personalmente  ovvero mediante assegnazione ad uno o più magistrati dell’ufficio”.

L’assegnazione può riguardare la trattazione di uno o più procedimenti ovvero il compimento di singoli atti di essi, riservandosi al Procuratore il potere di fissare, con l’atto di assegnazione, i criteri ai quali il magistrato è obbligato ad attenersi nell’esercizio della relativa attività; e prevedendosi che, “se il magistrato non si attiene ai principi ed ai criteri definiti in via generale o con l’assegnazione, ovvero insorge tra il magistrato ed il Procuratore della Repubblica un contrasto circa le modalità di esercizio, il Procuratore … può, con provvedimento motivato, revocare l’assegnazione; entro dieci giorni dalla comunicazione della revoca, il magistrato può presentare osservazioni scritte al Procuratore della Repubblica”.

La modifica introdotta venne voluta dalle forze politiche dell’Unione risultate vincitrici delle elezioni politiche del 2006 per cercare di attenuare la verticalizzazione degli uffici requirenti di primo grado introdotta dalla riforma Castelli, soprattutto nella parte in cui, all’art. 2 d.l.vo n. 106 del 2006, stabiliva che il Procuratore della Repubblica, sempre fatte salve le disposizioni previste dall’art. 70 bis ord. giud. per la Direzione Distrettuale Antimafia, era “il titolare esclusivo dell’azione penale che esercita, sotto la sua responsabilità, nei casi, nei modi e nei termini stabiliti dalla legge” e si specificava che l’esercizio dell’azione penale poteva essere svolto dal Procuratore della Repubblica o personalmente o investendo uno o più magistrati addetti all’ufficio, mediante atto di delega, che avrebbe potuto riguardare la trattazione di uno o più procedimenti ovvero il compimento di singoli atti di essi, e con il quale il Procuratore della Repubblica avrebbe potuto stabilire i criteri ai quali il delegato avrebbe dovuto attenersi nell’esercizio della stessa[1], “con un palese condizionamento della libertà e dell’autonomia di valutazione dei singoli magistrati” secondo “vecchi schemi gerarchici”[2].

Era, difatti, evidente che, sulla base dei canoni del diritto amministrativo, la delega comportava che il Procuratore delegante non si privava dei propri poteri in relazione all’attività delegata, bensì si limitava a conferire al magistrato delegato unicamente “l’esercizio di detti poteri, conservando non solo la possibilità di revocare la delega, ma anche una concreta ingerenza – potere di direttiva e di sorveglianza – in tale attività”[3].

Il rapporto di subordinazione gerarchica del magistrato delegato rispetto al Procuratore delegante era, inoltre, rafforzato dalla previsione che, nel caso in cui il delegato non si fosse attenuto ai principi ed ai criteri definiti in via generale o con la delega, ovvero fosse insorto tra il delegato ed il Procuratore della Repubblica un contrasto circa le modalità di esercizio della delega, il Procuratore della Repubblica, non solo, avrebbe potuto revocare la delega con provvedimento motivato, con facoltà da parte del magistrato delegato di presentare entro dieci giorni delle osservazioni scritte; ma, scaduto tale termine, avrebbe dovuto trasmettere il provvedimento di revoca e le osservazioni eventualmente presentate dal delegato revocato al Procuratore generale presso la Corte di cassazione e gli stessi atti avrebbero dovuto essere inseriti nei rispettivi fascicoli personali, in modo da poter essere presi in considerazione successivamente per le valutazioni da compiere da parte del Csm (e del Consiglio giudiziario) ai fini della progressione in carriera o del rinnovo dell’incarico direttivo[4].

Era, però, inequivocabile la volontà legislativa di inquadrare il dissidio venutosi a creare tra Procuratore della Repubblica delegante e magistrato delegato anche in una prospettiva disciplinare[5], elevando il Procuratore generale presso la Corte di cassazione a superiore gerarchico competente a valutare la correttezza deontologica delle posizioni contrastanti[6].

Come osservato dal Csm nella delibera 12 luglio 2007, con l’art. 1 l. n. 269 del 2006 sono state effettuate delle modifiche significative al decreto delegato n. 106, che hanno delimitato e circoscritto le funzioni del Procuratore della Repubblica e “meglio” definito “il rapporto che deve intercorrere tra quest’ultimo ed i Sostituti”, basato non più sull’istituto della delega ma su quello dell’assegnazione, che permette di riconoscere al magistrato esercente le funzioni di Sostituto “una posizione che rientra pienamente nella previsione dell’art. 105 Cost.”.

Ad avviso dell’organo di governo della magistratura, la legge n. 269 ha ridimensionato la personalizzazione esclusiva della responsabilità nell’esercizio dell’azione penale originariamente prevista negli artt. 1 e 2 del decreto delegato in capo al Procuratore della Repubblica, riconoscendo al magistrato assegnatario sia “una titolarità mediata (a seguito dell’assegnazione)”; sia “una sfera di autonomia professionale, con relativa responsabilità nell’evolversi del procedimento”.

Nonostante l’interessante e per molti versi condivisibile interpretazione fornita dal Csm dei cambiamenti apportati dal co. 2 dell’art. 1 l. n. 269 del 2006 all’art. 2 d.l.vo n. 106 del 2006, si deve rimarcare che l’intento politico inizialmente perseguito dalle forze uscite vittoriose dalle elezioni politiche del 2006 si è tradotto in modifiche più di forma che di sostanza, in quanto, pur adottandosi, nel disciplinare il conferimento della trattazione di un affare da parte del Procuratore della Repubblica ad altro magistrato del “suo” ufficio, il concetto di assegnazione invece di quello di delega, che indubbiamente assicura il riconoscimento di una maggiore autonomia ed indipendenza al magistrato nella trattazione dell’affare assegnatogli, si delimita l’effettiva portata della modifica introdotta con il mantenere ferma in capo al Procuratore della Repubblica:

  1. la titolarità esclusiva dell’azione penale;
  2. il potere di stabilire i criteri ai quali il magistrato deve attenersi nell’esercizio della relativa attività;
  3. la potestà di revocare l’assegnazione in caso di contrasti con il magistrato assegnatario nello svolgimento delle attività inquirenti e requirenti senza prevedere espressamente una forma di controllo da parte dell’organo di governo della magistratura.

Appare, infatti, evidente che, restando immutati i poteri del Procuratore della Repubblica sia di fissare i criteri per la trattazione del procedimento ai quali il magistrato investito della trattazione è vincolato; sia di sindacare le scelte compiute  dall’assegnatario per l’esercizio dell’azione penale, l’assegnazione di cui parla la l. n. 269 si sostanzia in un potere di esercizio delle attribuzioni proprie del pubblico ministero vincolato dalle direttive del Procuratore della Repubblica, con conseguente limitazione dell’autonomia e dell’indipendenza funzionale del magistrato assegnatario.

Tutto ciò comporterebbe che l’atto di investitura al compimento dei poteri requirenti adottato dal Procuratore capo nei confronti di uno o di più dei componenti dell’ufficio abiliterebbe il magistrato destinatario all’esercizio dei poteri stabiliti dalla legge nei limiti imposti dallo stesso Procuratore, con l’effetto di rendere il magistrato assegnatario non sottoposto esclusivamente alla legge, come invece vorrebbe la Costituzione sulla base del combinato disposto degli artt. 112 e 25 Cost., ma anche alle indicazioni espresse in modo vincolante dal titolare esclusivo dell’azione penale al di fuori di una chiara delimitazione legislativa del loro contenuto[7].

Interpretando letteralmente il testo della riforma, nella parte in cui definisce i poteri di direzione e di controllo del Procuratore della Repubblica, si finirebbe, perciò, con il comprimere la sfera funzionale di ciascuno degli altri magistrati addetti all’ufficio, che potrebbero esercitarla solo per effetto e dentro i limiti dell’investitura effettuata dal Procuratore della Repubblica, arrivando a svilire gli altri magistrati addetti all’ufficio al ruolo di funzionari sottoposti alla direzione ed alla vigilanza del Procuratore suddetto, dal quale deriverebbero i poteri requirenti da svolgere in relazione allo specifico caso da trattare.

2) Gli orientamenti del Csm sui rapporti tra il Procuratore della Repubblica ed il magistrato assegnatario del procedimento

La tendenza del legislatore della riforma/controriforma del 2006 a cercare di subordinare gerarchicamente il ruolo del magistrato addetto all’Ufficio di Procura rispetto al Procuratore dirigente, è stata contrastata dal Csm, che nella risoluzione 12 luglio 2007 ha osservato che il Procuratore della Repubblica, per meglio garantire la posizione dei magistrati addetti alle funzioni requirenti di primo grado, ha l’obbligo di redigere il progetto organizzativo nel rispetto dei principi “di imparzialità, trasparenza e buon andamento dell’amministrazione previsti dall’art. 97 Cost.” e di quelli “di autonomia e indipendenza che l’art. 101 comma 2 Cost. assicura a tutti gli appartenenti all’ordine giudiziario”, prevedendo che il potere di assegnazione o di autoassegnazione di un procedimento comporti da parte dello stesso Procuratore (o del suo delegato coordinatore) l’adozione, nei confronti di uno o più magistrati (in caso di coassegnazione), di un provvedimento congruamente motivato al momento in cui ha origine il procedimento, e che successivamente non può più essere ridiscusso se non nei casi di revoca dell’assegnazione.

Ad avviso del Csm, con il progetto organizzativo il Procuratore, limitando la sua discrezionalità, ha l’onere di delineare “in termini generali i presupposti dell’assegnazione al compimento di singoli atti”, attenendosi al principio che l’assegnazione di singoli atti procedimentali, per rispettare la sfera di autonomia professionale ed operativa riconosciuta al magistrato e la dignità delle funzioni dallo stesso esercitate, deve essere correlata o ai procedimenti “trattati personalmente dal Procuratore”; oppure ai casi, “evidentemente eccezionali, di assoluto impedimento del magistrato titolare del procedimento ad adottare atti indifferibili ed urgenti”.  

Al di fuori di tali presupposti, per il Csm l’assegnazione di singoli atti di un procedimento assegnato ad altro magistrato “si tradurrebbe, in buona sostanza, in una “revoca parziale” dell’assegnazione, come tale lesiva della dignità delle funzioni svolte dai magistrati (sia dal titolare del procedimento, sia dall’assegnatario) e, comunque, non prevista dalla legge”.

Nella stessa delibera, l’organo di vertice organizzativo dell’ordine giudiziario ha, pure, auspicato che nel progetto organizzativo siano impartite da parte del Procuratore della Repubblica “direttive e criteri generali, cioè linee di azione di carattere generale” (i c.d. protocolli investigativi), che meglio definiscano le modalità di esercizio dell’azione penale, con l’effetto “che i principi e i criteri stabiliti dal Procuratore all’atto dell’assegnazione, ai quali il magistrato deve attenersi nell’esercizio della relativa attività”, non possono che essere l’attuazione e l’integrazione di quelli definiti in via generale, in modo da preservare la sfera di autonomia professionale e la dignità delle funzioni esercitate dal magistrato assegnatario.

Nella successiva delibera 21 settembre 2011, il Csm ha cercato di ricostruire il ruolo ordinamentale del Procuratore della Repubblica in una prospettiva costituzionale, richiamando la garanzia di autonomia e indipendenza “che l’art. 101 comma 2 della Costituzione assicura a tutti gli appartenenti all’ordine giudiziario”; i “canoni di imparzialità, trasparenza e buon andamento dell’amministrazione previsti dall’art. 97 della Costituzione”; la regola enunciata dall’art. 112 Cost. che il pubblico ministero, come detto dalla Corte costituzionale nella sent. n. 420 del 1995, “è il titolare diretto ed esclusivo delle attività d’indagine finalizzate all’esercizio obbligatorio dell’azione penale”, dotato, ex art. 107 Cost., di un’indipendenza istituzionale rispetto ad ogni altro potere, che l’attuale codice di rito ha rafforzato, avendo eliminato ogni commistione di funzioni tra giudice e pubblico ministero, concentrando su quest’ultimo la potestà investigativa, “radicalmente sottratta al primo”.

Secondo il Csm, anche alla luce di tali principi costituzionali, è possibile affermare che dalla titolarità esclusiva dell’azione penale deriva il conferimento al Procuratore della Repubblica di ogni decisione “sia sull’an sia sul quomodo dell’esercizio dell’azione penale”, così che, anche nel caso in cui abbia assegnato dei procedimenti “ai suoi sostituti” (e si noti l’appiattimento terminologico del Csm su una concezione arcaica dei rapporti interni ad un ufficio pubblico), conserva “comunque la competenza a intervenire nelle determinazioni sull’esercizio dell’azione penale, anche quando non abbia limitato l’assegnazione solo ad alcuni atti di singoli procedimenti”, con l’ulteriore corollario che “l’imposizione di un “visto” preventivo sugli atti di esercizio dell’azione può risultare certamente funzionale a un più efficiente esercizio dei suoi poteri”.

Il Csm ha, al contempo, precisato che l’assegnazione dei procedimenti ai Sostituti comporta il trasferimento anche del potere di azione, dimodocchè questi “esercitano in piena autonomia le scelte investigative e hanno diretta competenza ad adottare qualsiasi atto del procedimento, quando tali determinazioni non risultino in contrasto con specifiche direttive impartite dal Procuratore della Repubblica”, e salvo che il Procuratore della Repubblica, “preventivamente informato, non revochi l’assegnazione, quando ritenga che l’azione penale non vada esercitata o vada esercitata con altre modalità”.

L’intera materia dell’assegnazione degli affari o di singoli atti da parte del Procuratore della Repubblica ai magistrati componenti dell’Ufficio è stata risistemata dal Csm con la circolare 16 novembre 2017, stabilendo negli artt. 10 e 11 che il Procuratore ha l’obbligo di esercitare il potere di assegnazione e di coassegnazione degli affari nel rispetto dei correlativi criteri prefissati nel progetto organizzativo per la ripartizione degli affari ai singoli magistrati o ai gruppi di lavoro (in modo che sia assicurata l’equa distribuzione dei carichi di lavoro, anche prevedendosi meccanismi di assegnazione di natura automatica per specifiche tipologie di reati, ex artt. 7, co. 3 e 4, lett. b), avendo, comunque, la facoltà di procedere all’auto-assegnazione dell’affare con adeguata motivazione.

L’assegnazione e la co-assegnazione possono riguardare:

  1. la trattazione di uno o più procedimenti, dispiegando “i suoi effetti per tutto il periodo delle indagini preliminari e fino alla definizione del procedimento”;
  2. il compimento di singoli atti, nel qual caso è disposta, “nel rispetto della sfera di autonomia funzionale e operativa del magistrato, in modo da non compromettere la dignità delle funzioni dallo stesso esercitate”: – di regola, nei procedimenti trattati personalmente dal Procuratore della Repubblica o assegnati ai Procuratori aggiunti, secondo i criteri stabiliti nel progetto organizzativo; – in via di eccezione, nei procedimenti assegnati ad un altro magistrato, unicamente “in caso di impedimento del magistrato assegnatario o col suo consenso”.

Nel rispetto delle regole predeterminate nel progetto organizzativo, la co-assegnazione è di regola effettuata all’atto della prima assegnazione del procedimento, potendo essere disposta in una fase successiva del procedimento solo con adeguata motivazione.

Nella direzione di far risaltare l’autonomia del magistrato assegnatario (o co-assegnatario) si muove il co. 5 dell’art. 10, con il prevedere che l’assegnazione e la co-assegnazione determinano il conferimento al magistrato assegnatario della conduzione delle indagini e della determinazione degli esiti finali del procedimento, “fatte salve le prerogative del Procuratore della Repubblica previste dalla legge e dalla presente circolare”.

In questo modo il Csm ha fornito una coraggiosa lettura del co. 1 lett. b) dell’art. 7 d.l.vo n. 106 del 2006, che, al chiaro scopo di rafforzare i poteri di direzione del Procuratore dirigente, ha abrogato l’art. 3 d.l.vo n. 271 del 1989, contenente norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del c.p.p., che, disponendo che “i titolari degli uffici del pubblico ministero curano che, ove possibile, alla trattazione del procedimento provvedano, per tutte le fasi del relativo grado, il magistrato o i magistrati originariamente designati”, consentiva di affermare, come osservato dal Csm nella delibera 12 luglio 2007, “la parziale autonomia del Sstituto nella fase delle indagini e rispondeva alla esigenza organizzativa e investigativa di concentrazione e di responsabilizzazione in capo ad un unico soggetto responsabile”.

Si può, difatti, credere che tale abrogazione determini il riconoscimento al Procuratore del potere di organizzare le attività dell’ufficio con tale libertà da poter disporre che alla gestione di un affare possano provvedere magistrati diversi in momenti diversi a suo piacimento.

Interpretata in questo modo, però, la norma sarebbe palesemente in contrasto con il I co. dell’art. 97 Cost., che afferma che i pubblici uffici, categoria all’interno della quale rientrano, ovviamente, per tanti versi anche gli uffici del pubblico ministero, “sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”. E’, infatti, evidente che l’organizzare lo svolgimento delle attività requirenti con una rotazione di più magistrati nella trattazione del medesimo procedimento nella stessa fase processuale, certamente, determinerebbe un grave dispendio di energie da parte dei magistrati chiamati ad interessarsi di una frazione di quell’affare, con l’effetto di non assicurare il corretto, puntuale ed uniforme esercizio della funzione requirente, che verrebbe inopinatamente ripartita nel corso del tempo tra più soggetti.

Volendo, invece, dare un’interpretazione costituzionalmente conforme all’art. 97, I co., Cost. dell’art 7, co. 1 lett. b), d.l.vo n. 106, si può dire, come fatto dal Csm con la circolare del 2017, che l’art. 3 d.a.c.p.p. è stato abrogato, non per comprimere l’autonomia del magistrato assegnatario, ma perché non più compatibile con le modalità di esercizio della titolarità dell’azione penale contenuti nell’art. 2 dello stesso decreto legislativo, come successivamente modificato, nel senso che l’assegnazione della trattazione di un procedimento deve essere mantenuta in capo allo stesso magistrato per tutte le fasi del relativo grado in modo da garantire la migliore efficienza dell’azione requirente, salvo che specifiche ragioni sopravvenute non comportino che, per assicurare il buon andamento dell’ufficio, un momento procedurale di quel procedimento sia assegnato ad un magistrato diverso dall’originario assegnatario, come nel caso di concomitanza di impegni o di assenza da parte del magistrato assegnatario, con l’effetto che l’assegnazione originaria può essere revocata dal Procuratore della Repubblica solo nei casi ivi tassativamente stabiliti, come verrà detto più approfonditamente nel prosieguo.

Operando in tal senso, il Csm ha previsto che il Procuratore della Repubblica ha l’onere di definire nel progetto organizzativo i criteri generali per la individuazione del magistrato designato a svolgere le funzioni requirenti nell’udienza penale, “curando, ove possibile, che sia garantito il rispetto del principio della continuità di trattazione tra la fase delle indagini preliminari e le fasi successive”, in modo da assicurare il più efficiente esercizio dell’azione penale ed il miglior rispetto della professionalità del magistrato assegnatario, entro gli oggettivi limiti delle forze disponibili, dovendosi logicamente interpretare in senso restrittivo l’inciso “ove possibile” per non consentire elusioni dell’importante regola organizzativa, che si è voluto affermare. E a tal fine il Procuratore ricerca gli opportuni raccordi preventivi con il Presidente del Tribunale per l’adeguata predisposizione dei ruoli di udienza per consentire la presenza del magistrato assegnatario del processo sottoposto al vaglio del giudice.

Il co. 6 dell’art. 10 della circolare del 2017 detta una regola di estrema importanza nella definizione dei rapporti tra il Procuratore della Repubblica ed i magistrati addetti all’Ufficio, stabilendo che con l’atto di assegnazione o di co-assegnazione per la trattazione del procedimento (da effettuarsi nel rispetto delle competenze proprie della Direzione Distrettuale Antimafia ex art. 102 d.l.vo n. 159 del 2011), il Procuratore della Repubblica “può stabilire i criteri ai quali il magistrato deve attenersi nell’esercizio della relativa attività, che dovranno tendenzialmente ricollegarsi a quelli definiti in via generale, assumendo rispetto ad essi carattere attuativo o integrativo”, facendo all’evidenza riferimento (pur non essendo detto esplicitamente, nonostante la puntigliosità con cui è stata redatta la circolare) ai criteri predeterminati per l’esercizio delle attività dell’Ufficio nel progetto organizzativo, che, ai sensi dell’art. 7 sopra esposto, è lo strumento programmatorio con cui il Procuratore della Repubblica autolimita la discrezionalità dei suoi poteri direttivi.

3) I limiti della ricostruzione fatta dal Csm dei rapporti tra Procuratore della Repubblica e magistrato assegnatario

Pur apprezzando lo sforzo compiuto dal Csm per valorizzare il ruolo del magistrato assegnatario con il renderlo espressamente titolare della direzione delle indagini preliminari e della determinazione delle scelte definitorie del procedimento assegnato,  si ritiene che anche la circolare del 2017, come pure le due precedenti, appare non pienamente attuativa dei principi costituzionali in materia di pubblico ministero, perché, nell’interpretare la disciplina contenuta nella riforma/controriforma effettuata nel 2006 sui poteri del Procuratore della Repubblica in tema di assegnazione degli affari, non indica in modo chiaro ed inequivocabile:

– né quali siano le prerogative del Procuratore della Repubblica “previste dalla legge e dalla presente circolare” che delimitano l’autonomia del magistrato assegnatario nella conduzione delle indagini e nell’adozione del provvedimento definitorio delle stesse;

– né in cosa possano consistere i criteri  formulati dal medesimo Procuratore per l’esercizio delle attività requirenti assegnate (o co-assegnate), alle quali il magistrato assegnatario “deve attenersi”.

Per una lettura costituzionalmente orientata dei poteri in questione, si ricorda che il pubblico ministero è il potere dello Stato al quale viene assegnata la titolarità della pretesa punitiva derivante dal reato, che egli ha il compito di esercitare obbligatoriamente nei casi stabiliti dalla legge sostanziale e secondo le modalità previste dalla legge processuale (artt. 25, II e III comma, 111 e 112 Cost.), così da essere “al pari del giudice, soggetto soltanto alla legge …[8].

Nonostante sia ontologicamente una parte processuale, anche se soltanto a fini di giustizia[9], il pubblico ministero va correttamente inquadrato tra gli organi della giurisdizione ordinaria in senso lato, perché l’art. 102 Cost. ricomprende nel concetto di giurisdizione sia la potestà decisoria svolta dal giudice; sia quella di esercizio dell’azione penale esercitata dal pubblico ministero, che “con la prima si coordina in un rapporto di compenetrazione organica a fine di giustizia[10].

Mirando ad assicurare l’esercizio dell’azione penale in modo obbligatorio ed imparziale a garanzia della democraticità dell’ordinamento, la Costituzione italiana caratterizza il pubblico ministero come organo ricoperto da magistrati ordinari, che sono posti nelle condizioni per esercitare imparzialmente le funzioni pubbliche conferite, in quanto appartengono ad un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere, governato dal Csm (ex artt. 102, I co., e 104, I co., Cost.), e all’interno del quale i magistrati “si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni” (art. 107, III co., Cost.).

Tutto ciò comporta che neppure nell’organizzazione giudiziaria del pubblico ministero è consentita una forma di gerarchia di tipo amministrativo, che è di per sé assolutamente incompatibile con la regola dell’esclusiva sottoposizione alla legge costituzionalmente conforme, che vale non solo per il magistrato della giudicante (art. 101, II co. Cost.), ma anche per il magistrato che esercita le funzioni giudiziarie del pubblico ministero (artt. 112 e 25 Cost.)[11].

Appare, infatti, evidente che la formulazione di ordini o di indicazioni vincolanti da parte del magistrato preposto all’ufficio, con poteri di superiorità gerarchica di stampo amministrativo nei confronti degli altri magistrati addetti a tale ufficio come dipendenti subordinati finirebbe con il creare una inframmettenza tra il magistrato in sottordine e la legge, di cui invece il pubblico ministero ha l’obbligo di chiedere in modo imparziale l’applicazione al giudice, con la conseguenza ineludibile che tale inframmettenza si rivelerebbe totalmente incompatibile con la posizione di autonomia e di indipendenza che la Costituzione riconosce ad ogni magistrato appartenente all’ordine giudiziario ordinario, compreso quello addetto alle funzioni requirenti.

Come per gli organi giudicanti, anche all’interno dell’ufficio del pubblico ministero possono unicamente configurarsi forme di direzione organizzativa, disciplinate dalle norme di ordinamento giudiziario e sottoposte al controllo dal Csm, che risultino necessarie a garantire, sia il buon andamento e l’imparzialità dell’azione giudiziaria svolta dall’ufficio (art. 97 e 107, III co., Cost.); e sia l’effettivo rispetto del principio dell’esclusiva sottoposizione alla legge da parte di ciascuno dei componenti dell’organo nell’esercizio delle funzioni affidategli secondo le regole sul giusto processo (artt. 111 e 112 Cost.).

Le caratteristiche salienti dell’ordine giudiziario, al quale appartiene pure il pubblico ministero, ossia autonomia e indipendenza da ogni altro potere e strutturazione fondata sulla base della diversità delle funzioni svolte dai suoi componenti, si riverberano, logicamente, in ogni magistrato ordinario assegnato ad un ufficio del pubblico ministero (secondo le procedure previste dalle norme di ordinamento giudiziario), in modo da permettere che l’esercizio delle funzioni requirenti sia imparziale, cioè sottoposto esclusivamente alla legge, così da non poter consentire l’esistenza di intromissioni di alcun tipo sul rapporto intercorrente tra il magistrato e la legge da applicare, neppure se interne allo stesso ordine giudiziario.

Pertanto, anche il magistrato addetto ad un ufficio del pubblico ministero, essendo appartenente all’ordine giudiziario ordinario, autonomo ed indipendente da ogni altro potere, e strutturato solo per diversità funzionali, deve trovarsi in una posizione che sia autonoma ed indipendente da ogni altro potere ed esente da vincoli gerarchici di tipo amministrativo, per poter essere effettivamente imparziale nello svolgimento delle funzioni giudiziarie assegnategli. Diversamente opinando, l’autonomia, l’indipendenza e l’assenza di gerarchia amministrativa dell’ordine si svuoterebbero di ogni significato normativo rispetto agli uffici del pubblico ministero.

Alla luce di queste osservazioni, la previsione del IV comma dell’art. 107 Cost., che riconosce al pubblico ministero le garanzie previste “dalle norme sull’ordinamento giudiziario”, va correttamente letta in modo coerente con gli altri principi costituzionali in tema di autonomia, indipendenza e struttura non gerarchica-amministrativa dell’ordine giudiziario; e sia di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale nell’ambito del giusto processo.

Il legislatore ordinario, pertanto, nel disciplinare l’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, deve adottare soluzioni che ne assicurino il buon andamento e l’imparzialità delle funzioni svolte (art. 97 Cost.) e la sua appartenenza all’ordine giudiziario ordinario, autonomo ed indipendente da ogni altro potere (art. 102 e 104, I co., Cost.), facendolo ricoprire da magistrati sottoposti esclusivamente alla legge e non strutturati secondo i canoni della gerarchia amministrativa (art. 107, III co., Cost.), rispetto ai quali il magistrato preposto all’ufficio può essere titolare unicamente di quei poteri di direzione, di assegnazione, di indirizzo, di coordinamento e di controllo, che sono necessari per permettere il corretto esercizio dell’azione penale obbligatoria e delle altre funzioni assegnate all’Ufficio da parte di tutti i magistrati ad esso assegnati, nel rispetto delle previsioni della legge sostanziale e di quella processuale[12].

Al Procuratore dirigente spetta, infatti, esercitare le funzioni di competenza della Procurao personalmente; oppure affidando la gestione di uno degli affari del “suo” ufficio ad uno dei magistrati in esso incardinati con l’atto di assegnazione (o di co-assegnazione), che determina l’attivazione in relazione a quell’affare dei poteri requirenti previsti dalla legge, di cui il magistrato assegnatario è portatore in forza della nomina a quell’ufficio effettuata dal Csm, nei casi e con le forme previste dalle leggi di ordinamento giudiziario.

A sua volta, il magistrato assegnatario esercita le funzioni requirenti in relazione al procedimento assegnato nel rispetto dei limiti derivanti dalla funzione di direzione e di coordinamento svolta dal Procuratore della Repubblica per garantire l’unitarietà e l’efficienza dell’Ufficio e per assicurare il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale e delle altre funzioni requirenti ed il rispetto delle norme sul giusto processo da parte di ciascun membro dell’ufficio, ex art. 1, co. 2, d.l.vo 106.

Il rafforzamento del ruolo del Procuratore della Repubblica nei confronti degli altri magistrati addetti all’ufficio, voluto tenacemente dal legislatore della riforma/controriforma del 2006 per cercare di smorzare fuorvianti personalismi di certi Procuratori aggiunti e di taluni Sostituti, e indubbiamente derivante dall’uso dell’aggettivo “esclusivo” riferito alla titolarità dell’azione penale, e dal conseguente riconoscimento dei poteri di fissazione di criteri d’azione vincolanti e di revoca dell’assegnazione in caso di disaccordo, può, allora, essere ricostruito nel rispetto dei principi costituzionali sulla funzione requirente, che deve essere svolta obbligatoriamente, nei tassativi casi previsti dalla legge sostanziale (ai sensi del combinato disposto degli artt. 112 e 25 Cost.), da un ufficio composto da magistrati appartenenti all’ordine giudiziario, in quanto tali sottoposti esclusivamente alla legge, e cioè autonomi ed indipendenti nell’esercizio delle funzioni svolte (102, 104, 107 Cost.), che operano secondo le modalità fissate dalla legge processuale (artt. 13 e ss., 111 Cost.), affinchè sia garantita la democraticità dell’ordinamento giuridico ed il rispetto dei diritti di libertà delle persone investite dall’azione del pubblico ministero.

I principi della obbligatorietà dell’azione penale e della stretta legalità delle attività requirenti comportano, pertanto, che sia l’enunciazione di criteri direttivi, e sia l’esercizio dei conseguenti controlli da parte del Procuratore della Repubblica, non possono in alcun modo sostanziarsi per i magistrati addetti all’ufficio nell’enunciazione di un soggettivistico ordine di fare o di non fare o di interpretare in un dato modo le norme penali e/o processual-penali fissate dal legislatore e da applicare nella trattazione del singolo procedimento, perché altrimenti verrebbe lesa la sfera di autonomia e di professionalità di cui il magistrato assegnatario è portatore di per sé in quanto membro della magistratura ordinaria.

Per rispettare, quindi, da un lato la posizione che la Costituzione riconosce ad ogni magistrato in quanto componente dell’ordine giudiziario; e, dall’altro lato, il canone dell’obbligatorietà dell’azione penale secondo le regole del giusto processo, le funzioni di direzione, di assegnazione, di coordinamento e di controllo del Procuratore della Repubblica si sostanziano in interventi di tipo programmatorio, sollecitatorio e sindacatorio, che vanno formulati in modo tale da non rompere, in relazione al caso concreto, il legame diretto che deve sempre intercorrere tra la legge da applicare ed il magistrato investito del compito di promuovere l’applicazione della legge da parte del giudice in modo imparziale; e che devono essere diretti unicamente a garantire la migliore efficienza e l’assoluta imparzialità dell’ufficio, attraverso l’esercizio dell’azione penale, da parte dei magistrati assegnatari, nei casi, nei modi e nei termini stabiliti dalla legge ed in ossequio delle norme sul giusto processo.

Si ritiene, perciò, che il Procuratore della Repubblica, nel rispetto delle finalità istituzionali che gli competono ai sensi dell’art. 1 co. 2 d.lgs. n. 106, svolge le potestà di direzione, di fissazione di criteri direttivi, di controllo dell’esercizio delle potestà investigative da parte degli altri magistrati ai quali ha assegnato (o fatto assegnare dal coordinatore delegato) gli affari dell’ufficio, e di revoca dell’assegnazione in caso di accertato contrasto, esclusivamente al fine di assicurare da parte dell’ufficio in generale, e quindi da parte di ciascun magistrato assegnatario, che l’azione penale sia esercitata, secondo le norme del giusto processo, in modo:

– “corretto”, ossia nel rispetto, da un lato, delle fattispecie di reato tassativamente previste dal legislatore penale; e, dall’altro lato, delle modalità procedurali stabilite dal legislatore processuale;

– “puntuale”, ossia in ossequio dei termini di prescrizione dei reati e dei termini di durata delle indagini preliminari;

– “uniforme”, ossia assicurando la regola di parità di trattamento degli affari penali, nel senso che gli illeciti dello stesso tipo devono essere gestiti in modo uguale dai magistrati componenti l’ufficio.

Da ciò consegue che ogni magistrato addetto all’ufficio è sottoposto al Procuratore della Repubblica in funzione del rispetto del corretto, puntuale ed uniforme esercizio obbligatorio dell’azione penale e delle norme sul giusto processo, potendo la sfera della sua autonomia ed indipendenza essere limitata dai poteri direttivi, di coordinamento e di controllo del Procuratore della Repubblica al fine di assicurare che l’azione penale sia esercitata nei casi e nelle forme stabiliti dalla legge, in modo tempestivo, secondo uguaglianza e applicando le regole sul giusto processo[13].

E’ lo stesso legislatore delegato a individuare l’oggetto dei principi e dei criteri generali che il Procuratore della Repubblica può adottare, stabilendo nell’art. 4 del d.l.vo n. 106 che questi, per assicurare l’efficienza dell’attività dell’ufficio, può determinare i criteri generali ai quali i magistrati addetti all’ufficio devono attenersi:

– per l’impostazione delle indagini in relazione a settori omogenei di procedimenti con l’indicazione di metodologie investigative minime da effettuare per categorie di reati[14];

– per l’impiego della polizia giudiziaria, in modo da permettere la più razionale ed efficiente utilizzazione sia del personale delle sezioni di polizia giudiziaria posto alle dirette dipendenze del suo ufficio e sia dei servizi di polizia giudiziaria, prevedendo, ad es., l’assegnazione di personale delle sezioni tra tutti i magistrati addetti all’ufficio, la creazione di pool composti da personale di polizia giudiziaria per settori omogenei di procedimenti, la delega a specifici reparti di polizia giudiziaria di uno degli affari del “suo” ufficio per l’espletamento delle indagini in settori affini di procedimenti;

– per l’uso delle risorse tecnologiche assegnate e per l’utilizzazione delle risorse finanziarie delle quali l’ufficio può disporre nel rispetto delle disposizioni contenute nel decreto legislativo emanato in attuazione della delega di cui agli artt. 1, co. 1, lett. a) e 2, co. 1, lett. s) l. n. 150 del 2005, come ad es. la disciplina degli apparati per le intercettazioni telefoniche, la fissazione di soglie minime per l’effettuazione di consulenze tecniche[15].

Tali criteri, enunciati in via generale nel progetto organizzativo secondo la corretta impostazione programmatoria introdotta dal Csm, possono essere ulteriormente specificati dal Procuratore della Repubblica in relazione al caso specifico con l’atto di assegnazione (o di co-assegnazione) per la trattazione del procedimento, con il quale egli può anche motivatamente indicare delle modalità investigative specifiche o una precedenza nella trattazione rispetto agli altri procedimenti già assegnati, ma al solo fine di garantire il puntuale, corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale[16], nel rispetto sempre dei criteri di priorità e dei protocolli investigativi predeterminati nel medesimo progetto organizzativo.

Le considerazioni sin qui svolte portano a concludere che i commi 5 e 6 dell’art. 10 della circolare del 2017, per rispettare appieno l’obiettivo perseguito di attuare i principi costituzionali riferibili alla materia dell’organizzazione degli uffici requirenti, vanno letti in combinato disposto con l’art. 2, che definisce in generale la titolarità e l’organizzazione dell’ufficio requirente da parte del Procuratore dirigente e di conseguenza la posizione degli altri magistrati addetti all’Ufficio.

Si può, così, affermare che il Procuratore esercita le sue prerogative in tema di conduzione delle indagini e di determinazione degli esiti finali del procedimento assegnato (o co-assegnato) ad altro magistrato dell’Ufficio; e stabilisce con l’atto di assegnazione (o di co-assegnazione) i criteri ai quali ciascun magistrato “deve attenersi nell’esercizio della relativa attività”, non per perseguire sue soggettive e unilaterali valutazioni di politica giudiziaria, ma al solo scopo di assicurare il conseguimento da parte sua e di tutti gli altri magistrati assegnati all’Ufficio da lui diretto, all’interno della programmazione generale fissata con il progetto organizzativo, degli “obiettivi della ragionevole durata del processo, anche nella fase investigativa, e del corretto, puntuale e uniforme esercizio dell’azione penale nel rispetto delle norme sul giusto processo”, ispirando il suo intervento “a principi di partecipazione e leale collaborazione” con gli altri magistrati addetti all’Ufficio, così da garantirne l’indipendenza.

A sua volta, ciascun magistrato assegnato all’Ufficio, ricevuta l’assegnazione, assume nei confronti del Procuratore della Repubblica, titolare esclusivo dell’azione penale, l’obbligo di svolgere le funzioni requirenti, disciplinate dalla legge, in relazione al procedimento o all’atto oggetto dell’assegnazione, rispettando i criteri stabiliti dal Procuratore, tanto in via generale nel progetto organizzativo, quanto in via specifica nell’atto di assegnazione; e operando secondo criteri di partecipazione e leale collaborazione con lo stesso Procuratore, in modo:

  • da assicurare il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale nel rispetto delle norme sul giusto processo (anche osservando le disposizioni sulle iscrizioni delle notizie di reato); e
  • e da  essere assolutamente indipendente, cioè sottoposto unicamente alla legge costituzionalmente conforme, senza subire alcuna forma di condizionamento diverso dal pieno rispetto di quella legge che ha il dovere di applicare e far rispettare.

Si noti che il Csm nella circolare del 2017, proprio per delimitare in senso costituzionalmente conforme i rapporti tra il Procuratore dirigente ed i magistrati designati allo svolgimento delle funzioni requirenti, esaltandone la professionalità, ha effettuato nell’art. 12, co. 3, una precisazione che non compariva nelle due precedenti circolari successive alla riforma/controriforma del 2006, prevedendo, come stabilito nell’art. 53 c.p.p., che nel corso delle udienze penali il magistrato designato “svolge le funzioni del pubblico ministero con piena autonomia”, potendo essere sostituito soltanto o con il suo consenso o nei casi di grave impedimento, di rilevanti esigenze di servizio e in quelli previstì dall’art. 36, co. 1 lett. a), b), d), e), c.p.p. (ossia quando il magistrato “ha interesse nel procedimento o … alcuna delle parti private o un difensore è debitore o creditore di lui, del coniuge o dei figli; … è tutore, curatore, procuratore o datore di lavoro di una delle parti private ovvero … il difensore, procuratore o curatore di una di dette parti è prossimo congiunto di lui o del coniuge; … vi è inimicizia grave fra lui o un suo prossimo congiunto e una delle parti private; … alcuni dei prossimi congiunti di lui o del coniuge è offeso o danneggiato del reato o parte privata”)[17].

L’importante regola enunciata nell’art. 12, co. 3, va, logicamente, inquadrata nell’ambito dell’organizzazione dell’Ufficio requirente imperniata, ai sensi dell’art. 1 d.l.vo n. 106 del 2006 e dell’art. 2 della medesima circolare, sulla titolarità esclusiva dell’azione penale da parte del Procuratore della Repubblica, come ricostruita nel rispetto dei canoni costituzionali sul pubblico Ministero che si sono appena esposti.

Intervenendo all’udienza penale in rappresentanza dell’Ufficio al quale appartiene, il magistrato designato svolge le attività requirenti in “piena autonomia”, analizzando il materiale probatorio e avanzando le conseguenti richieste, non secondo valutazioni puramente personalistiche, ma secondo apprezzamenti diretti a conseguire la ragionevole durata del processo e, nel rispetto delle norme sul giusto processo, la corretta, puntuale ed uniforme gestione dell’azione penale, di cui, però, è “titolare esclusivo” il Procuratore della Repubblica, nei confronti del quale il designato ha l’onere di assumere comportamenti conformi ai principi di partecipazione e di leale collaborazione, così da doversi confrontare con lui qualora intenda assumere determinazioni rilevanti per l’unitarietà dell’Ufficio e diverse da quelle operate al momento dell’esito finale del procedimento.

In questo modo, la “piena autonomia”, ribadita dall’art. 12 della circolare per l’esercizio delle funzioni del pubblico ministero nel corso dell’udienza penale, si armonizza con i principi dell’efficienza, della regolarità e dell’imparzialità dell’azione giudiziaria svolta da ciascun rappresentante dell’Ufficio di Procura, ai sensi degli artt. 97, 107, 111 e 112 Cost., evitando perniciose frammentazioni personalistiche nello sviluppo delle attività requirenti.

4) Il controllo del Procuratore della Repubblica sulle richieste di misure cautelari personali e reali

Volendo assicurare la direzione unitaria del Procuratore dirigente nella delicata gestione delle misure cautelari incidenti sullo stato di libertà delle persone accusate di aver commesso reati e/o sui diritti reali delle stesse persone o delle persone offese o di terzi, l’art. 3 d.l.vo n. 106 del 2006 disciplina “le prerogative del Procuratore della Repubblica”, stabilendo che il fermo di indiziato di delitto disposto dal pubblico ministero, la richiesta di misure cautelari personali e la richiesta di misure cautelari reali avanzate da uno dei magistrati addetti all’ufficio devono essere previamente assentite per iscritto dal Procuratore della Repubblica o dal Procuratore aggiunto o dal Sostituto appositamente delegati alla cura di specifici settori di affari ai sensi del co. 4 dell’art. 1.

Il Procuratore della Repubblica, tuttavia, ai sensi del terzo comma dell’articolo in commento, ha la facoltà di disporre, con direttiva di carattere generale, i casi nei quali l’assenso scritto non sia necessario per le richieste di misure cautelari reali, avuto riguardo  al valore del bene oggetto della richiesta o alla rilevanza del fatto per il quale si procede.

Collegando l’art. 3 in esame con le finalità proprie della posizione direzionale ricoperta dal Procuratore della Repubblica, si può sostenere che l’atto di assenso consiste nell’approvazione del contenuto dell’atto, come attentamente osservato dal Csm nella Relazione introduttiva alla circolare del 2017, e comporta una forma di controllo preventivo sulla legittimità della richiesta cautelare personale e/o reale o del fermo di indiziato di delitto avanzati da uno dei magistrati dell’ufficio, che serve ad assicurare il corretto, puntuale ed uniforme espletamento dei poteri investigativi inerenti all’esercizio dell’azione penale ed il rispetto delle norme sul giusto processo, nei limiti della loro applicabilità alla fase cautelare[18].

La Cassazione, a sezioni unite, nella già citata sentenza n. 8388 del 2009, ha precisato che l’articolo in esame, normativizzando “la prassi già invalsa del “visto” del capo dell’ufficio, ha introdotto “il “necessario e indeclinabile “assenso scritto” del Procuratore della Repubblica per tutti gli atti che incidono sulla libertà personale”, per limitare “l’autonomia decisionale del Sostituto assegnatario del procedimento”, in modo da garantire il “corretto perseguimento di linee uniformi di indirizzo e di condotta dell’ufficio di Procura, rispetto a quella che ben può dirsi intrinsecamente la più rilevante delle attività affidate all’organo dell’investigazione e dell’accusa.

Per la Suprema Corte “l’assenso, che deve assumere la forma scritta, si colloca chiaramente in una fase che è immediatamente successiva alla formulazione della richiesta della misura cautelare da parte del magistrato assegnatario del procedimento, e però antecedente l’inoltro della medesima richiesta al giudice per le indagini preliminari.

Di talché, sembra evidente che, una volta esaurito inutilmente il pur doveroso metodo del confronto onde evitare il radicarsi di una situazione di conflitto e addivenire alla “concertazione” preventiva in merito alla richiesta, l’eventuale persistenza del “dissenso” del Capo dell’ufficio sul provvedimento da adottare in materia di libertà personale segnali un’ipotesi di “contrasto” circa le concrete modalità di esercizio delle attività relative alla trattazione del procedimento assegnato al Sostituto”, che sfocia nella procedura di revoca contemplata dall’art. 2 d.lgs. n. 106 come successivamente modificato, salvo che il magistrato assegnatario non preferisca chiedere di essere esonerato dalla trattazione ulteriore del procedimento “a tutela della sua autonomia professionale”.

Per il giudice di legittimità resta, comunque, “incontrovertibile” che, dovendo“prevalere in materia la riserva di prerogativa del Procuratore della Repubblica, non è in alcun modo “consentito procedere all’inoltro della richiesta di una misura cautelare personale in difetto di assenso del capo dell’ufficio, presupponendo necessariamente l’atto di inoltro che il tenore della richiesta venga previamente concertato fra il magistrato assegnatario del procedimento che l’ha formulata e il Procuratore della Repubblica che l’ha assentita”. Si deve, pertanto, reputare “decisamente” precluso “sia al Sostituto l’inoltro di una richiesta formulata in difetto di assenso o con l’espresso dissenso del Procuratore della Repubblica, sia a quest’ultimo l’inoltro della medesima richiesta, seppure corredata dall’atto del suo parziale o totale dissenso[19].

Con puntualità la Corte ha, però, precisato che “la norma dell’art. 3 d.lgs. n. 106/06” ha ad oggetto“esclusivamente l’organizzazione “interna” dell’ufficio di Procura”, così da avere una “valenza meramente ordinamentale e disciplinare, senza che le eventuali condotte elusive della prerogativa riservata al Procuratore della Repubblica da parte del Sostituto, da un lato, o le eventuali determinazioni strumentali del primo, lesive dei pur legittimi spazi di autonomia spettanti al secondo, dall’altro, possano rivestire alcun rilievo “esterno” sul terreno del regime propriamente processuale della misura cautelare”.

Le Sezioni Unite hanno, così, osservato, che, “a prescindere dal mero riflesso indiretto che l’osservanza della regola ordinamentale è potenzialmente idonea a determinare nella sfera giuridica del soggetto che sia privato della libertà personale”,  insormontabili ragioni di ordine logico-sistematico”si oppongono“ad un’asimmetrica proiezione delle conseguenze derivanti dal difetto di assenso del Procuratore della Repubblica sul terreno processuale.

Dalla citata fonte normativa di tipo ordinamentale non s’evince affatto che l’assenso del Procuratore della Repubblica concorra al perfezionamento strutturale dell’atto di esercizio dell’azione cautelare e alla compiuta integrazione del procedimento applicativo della misura cautelare personale ex artt. 291 e 292 c.p.p., in termini di inammissibilità della richiesta se priva dell’assenso …, ovvero di nullità dell’ordinanza del giudice se adottata nonostante la mancanza dell’assenso medesimo.

Sicché, a fronte del silenzio legislativo sul punto e del concreto esercizio dell’azione cautelare, che sia comunque riconducibile all’impersonale struttura dell’ufficio del pubblico ministero tramite la figura del magistrato assegnatario dell’affare che abbia inoltrato la richiesta (pur priva di assenso o corredata da un espresso dissenso del Procuratore della Repubblica), il principio di tipicità e di tassatività delle ipotesi di inammissibilità o di nullità degli atti processuali di cui all’art. 177 c.p.p. preclude al giudice la rilevabilità, d’ufficio o su istanza di parte, di quella che, estranea al piano processuale, si rivela come una irregolarità di sicuro e pregnante rilievo, ma sul distinto terreno ordinamentale e disciplinare.

D’altra parte, tenuto conto che la prescrizione della “piena autonomia” del magistrato del pubblico ministero in udienza è destinata… a riflettere i suoi effetti anche sul potere di iniziativa cautelare dallo stesso eventualmente esercitato nelle fasi stricto sensu processuali, sarebbe davvero illogico ricostruire la fattispecie di invalidità dell’ordinanza cautelare in termini e funzioni differenziate, a seconda delle diverse fasi del procedimento o del processo in cui l’azione cautelare venga concretamente esercitata dal pubblico ministero”.

A sostegno di questa tesi, la Corte di Cassazione ha operato un’articolata ricostruzione sistematica “delle norme che dettano le regole dirette a disciplinare i momenti di interferenza tra le leggi di ordinamento giudiziario e la legge processuale, da cui si desume che il rinvio alle norme di ordinamento giudiziario è operato dal codice di rito con esclusivo riguardo alla figura del giudice ed alla funzione giurisdizionale[20], mentre “in nessun’altra disposizione di ordinamento giudiziario o del codice di rito si fa menzione di un eventuale rilievo processuale delle eventuali violazioni di norme dirette a disciplinare l’organizzazione interna dell’ufficio del pubblico ministero, neppure in tema di previsione di nullità degli atti del procedimento per quel che attiene, ai sensi dell’art. 178 lett. b c.p.p., all’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale e alla sua partecipazione al procedimento”.

La Corte ha, inoltre, sottolineato “che, riflettendo sul tema delle interferenze tra legge ordinamentale e legge processuale, con particolare riguardo alle regole di organizzazione degli uffici del pubblico ministero, la giurisprudenza di legittimità, sia pure in casi e per fini diversi da quelli in esame, ha in più occasioni affermato il principio di impermeabilità processuale rispetto alle eventuali violazioni di tali regole[21].

E sulla base del complesso ed estremamente preciso ragionamento svolto, le Sezioni Unite hanno affermato il principio di diritto che “l’assenso scritto del Procuratore della Repubblica, previsto dall’art. 3 comma 2 del d.lgs. 20 febbraio 2006 n. 106, non si configura come condizione di ammissibilità della richiesta di misure cautelari personali presentata dal magistrato dell’ufficio del pubblico ministero assegnatario del procedimento, né di validità della conseguente ordinanza cautelare del giudice”[22].

Dall’importante principio enunciato dalle Sezioni Unite si desume, come logico corollario, che il magistrato assegnatario dell’affare, in forza della “impersonale struttura dell’ufficio” della Procura della Repubblica, anche nell’attuale organizzazione verticistica, è titolare dei poteri inerenti al “concreto esercizio dell’azione penale”previsti dalla legge processuale (tra i quali la presentazione al Giudice delle indagini preliminari della richiesta di misure cautelari), rilevando eventuali contrasti con il Procuratore della Repubblica come irregolarità “di sicuro e pregnante rilievo” ma solo “sul distinto terreno ordinamentale e disciplinare”.

In proposito si ricorda che il co. 4 dello stesso art. 3 pone un’eccezione alla regola del sindacato preliminare svolto dal Procuratore della Repubblica o dal suo delegato, stabilendo che il previo assenso scritto non occorre per le richieste di misure cautelari personali o reali formulate da uno dei magistrati addetti all’ufficio in occasione della richiesta di convalida o dell’arresto in flagranza o del fermo di polizia giudiziaria o del sequestro preventivo operato in via d’urgenza dalla polizia giudiziaria, che sono atti talmente urgenti da non poter consentire in alcun modo ritardi nella loro adozione dovuti ad una forma di controllo preventivo prevista esclusivamente a tutela dell’unitarietà dell’ufficio.

Si rimarca che anche la possibilità riconosciuta al magistrato addetto all’ufficio in posizione non apicale di adottare in via di urgenza misure cautelari personali o reali senza il previo assenso del Procuratore dimostra, inequivocabilmente, che i magistrati addetti alla Procura di primo grado ricevono i poteri processuali, che esercitano, direttamente dalla legge al momento della loro assegnazione disposta dal Csm e non con il provvedimento di investitura disposta dal Procuratore della Repubblica, che più correttamente è l’atto con cui quest’ultimo permette l’attivazione di tali poteri in relazione all’affare specificamente assegnato nel rispetto dei principi e dei criteri direttivi enunciati, in via generale o in modo specifico, a tutela del corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale e delle indagini preliminari a tal fine dirette e del rispetto delle norme sul giusto processo (comprese le disposizioni sulla corretta iscrizione delle notizie di reato).

La disciplina delle prerogative in materia di misure cautelari contenuta nell’art. 3 del decreto delegato n. 106 è stata integrata dal Csm con l’art. 13 della circolare 16 novembre 2017, stabilendo che il Procuratore della Repubblica, “anche al fine di salvaguardare l’esigenza di speditezza del procedimento”, ha il dovere di definire espressamente nel progetto organizzativo:

– le modalità di manifestazione dell’assenso obbligatorio, anche delineando, nei casi di eventuale competenza delegata al Procuratore aggiunto o ad altro magistrato, il procedimento di formulazione dell’assenso e le regole per la risoluzione dell’eventuale contrasto, da elaborare con la previsione che il contrasto è risolto con decreto motivato del Procuratore dirigente, assunto dopo aver sentito il solo magistrato titolare del procedimento, così da valorizzarne il ruolo a discapito, però, del Procuratore aggiunto o del magistrato delegato all’assenso, che, invece, non deve essere obbligatoriamente sentito dal Procuratore;

– di individuare le ipotesi di richiesta di misura cautelare reale per le quali non è necessario il previo assenso scritto, “avuto riguardo al valore del bene oggetto della richiesta ovvero alla rilevanza del fatto per il quale si procede”, ai sensi del co. 3 dell’art. 3 d.l.vo n. 106.

Recependo evidentemente le indicazioni fornite dalle Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza sopra riportata sul carattere interno dell’assenso, il co. 4 dell’art. 13 della circolare precisa che “gli eventuali atti relativi all’interlocuzione sull’assenso non fanno parte del fascicolo di indagine”, venendo inseriti in un fascicolo riservato, conservato presso la segreteria del Procuratore.

L’articolo si chiude preservando i diversi effetti delle specifiche ulteriori previsioni, eventualmente stabilite sempre in materia di misure cautelari, relative al provvedimento di visto o all’adempimento dell’obbligo di informazione al Procuratore della Repubblica o al suo delegato, imposti per permetterne la condivisione nell’evoluzione della vicenda cautelare.

Innovativa è la circolare del 2017 nella parte in cui introduce una disciplina generale dell’istituto del visto preventivo su determinati atti dei magistrati assegnatari da parte del Procuratore, che si è largamente diffuso nei sistemi organizzativi delle diverse Procure.

All’art. 14, che espressamente non si applica alle deleghe in materie amministrative, si stabilisce che il Procuratore della Repubblica, allo scopo di garantire il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale, può contemplare nel progetto organizzativo che determinati atti o categorie di atti posti in essere dai Sostituti siano a lui preventivamente trasmessi per l’apposizione del visto (diversi, però, da quelli cautelari sottoposti all’assenso ex artt. 3 d.l.vo n. 106 e 13 della stessa circolare).

Il visto svolge una funzione conoscitiva sia in ordine all’attuazione, da parte dei Sostituti, delle direttive vincolanti emanate dal Procuratore della Repubblica al momento dell’assegnazione per la trattazione di un procedimento, ai sensi dell’art. 2, co. 2, dl.vo n. 106 come succ. mod.; sia al fine “di favorire l’interlocuzione” trail Sostituto, il Procuratore aggiunto eventualmente competente come coordinatore ed il Procuratore della Repubblica.

Nei casi previsti nel progetto organizzativo, il magistrato assegnatario ha l’obbligo di trasmettere il provvedimento prima della sua esecuzione al Procuratore della Repubblica e al Procuratore Aggiunto competente.

Qualora sorga un contrasto sul contenuto del provvedimento, si impone a tutti i soggetti coinvolti, ossia Procuratore della Repubblica, Procuratore Aggiunto competente e magistrato assegnatario, di attivarsi per “esperire ogni idonea azione volta ad individuare soluzioni condivise”, effettuando specifiche interlocuzioni e considerando “sia le esigenze di coordinamento sia le ragioni di speditezza legate alla specifica natura dell’atto”.

Nel rispetto dell’autonomia del magistrato assegnatario e delle esigenze di funzionalità unitaria dell’Ufficio, al co. 4 dell’articolo in esame si prevede che, se, all’esito dei tentativi di composizione, il contrasto perduri, il Procuratore della Repubblica, qualora non intenda esercitare il potere di revoca dell’assegnazione ai sensi degli artt. 3 d.l.vo n. 106 e 15 della medesima circolare, si limita a dare atto dell’avvenuto adempimento dell’onere di comunicazione e dell’esperimento dell’interlocuzione e dei tentativi svolti per la ricerca di soluzioni condivise, per il resto confermando le scelte provvedimentali compiute dal magistrato che resta assegnatario del procedimento per l’ulteriore corso.

Come per le questioni inerenti l’assenso sulle misure cautelari, anche in questo caso si stabilisce che gli eventuali atti riguardanti l’interlocuzione sul visto, avendo una portata solo interna all’Ufficio, non fanno parte del fascicolo di indagine, essendo inseriti in un fascicolo riservato custodito presso la segreteria del Procuratore della Repubblica.

5) I controlli sulla revoca dell’assegnazione e della designazione

Come si è già detto sopra, il co. 2 dell’art. 2 del d.l.vo n. 106 del 206, modificato dall’art. 1, co. 2 lett. b) l. n. 269 del 2006, nel disciplinare la titolarità dell’azione penale, dispone che, se il magistrato assegnatario non rispetta i principi ed i criteri definiti in via generale o con l’assegnazione; oppure insorge tra lo stesso magistrato ed il Procuratore della Repubblica “un contrasto circa le modalità di esercizio” dell’attività assegnata, il Procuratore dirigente ha il potere di revocare l’assegnazione con provvedimento motivato, da comunicare al magistrato interessato, che, entro dieci giorni dalla comunicazione, “può presentare osservazioni scritte” al medesimo Procuratore.

La norma suscita forti perplessità nella parte in cui, per rafforzare il ruolo del Procuratore della Repubblica rispetto agli altri magistrati addetti all’Ufficio, da un lato, non delimita compiutamente quale tipo di contrasto legittimi l’esercizio del potere di revoca, esponendo l’autonomia del magistrato assegnatario ad interventi pretestuosi del Procuratore dirigente; e, dall’altro lato, non prevede espressamente una forma di controllo sull’operato del Procuratore da parte del Csm, quale organo di governo della magistratura, posto a garanzia sia del buon andamento e dell’imparzialità dell’azione giudiziaria; sia dell’autonomia e dell’indipendenza di ogni magistrato componente dell’ordine giudiziario, e quindi pure del magistrato assegnato ad un ufficio del pubblico ministero[23].

A tal proposito si deve evidenziare che il Csm, proprio per ovviare alla palese violazione dei suoi compiti costituzionalmente previsti commessa sia dal d.l.vo n. 106 che dalla l. n. 269, nella circolare 12 luglio 2007, ha sostenuto che, interpretando le modifiche introdotte dalla l. n. 296 del 2006 alla disciplina originariamente prevista dal d.l.vo n. 106 nel senso di meglio salvaguardare “l’autonomia e l’indipendenza (interna) del sostituto-magistrato”, la revoca dell’assegnazione deve essere disposta con provvedimento motivato, fondato sul rilievo o “che la linea investigativa seguita dal sostituto è diversa dai criteri generali stabiliti dal Procuratore, ed eventualmente trasfusi nelle ulteriori indicazioni dettate all’atto dell’assegnazione del procedimento”; oppure che è insorto un contrasto tra il Procuratore ed il Sostituto “sulle modalità di esercizio dell’attività” svolta.

Secondo il Csm, la motivazione della decisione di revoca “… che non può essere meramente apparente…, assume un particolare valore come strumento esplicativo dei fatti posti a base del contrasto insorto”.

Il Sostituto, infatti, qualora non decida di risolvere il contrasto verificatosi con la scelta, per il Csm pienamente legittima, di chiedere al Procuratore di essere esonerato dall’ulteriore trattazione del procedimento, può presentare, “a tutela della sua sfera di autonomia professionale ed operativa”, delle osservazioni scritte al Procuratore della Repubblica, che ha l’obbligo di trasmetterle senza ritardo, unitamente all’atto di revoca e ad eventuali controdeduzioni, al Csm “per la verifica della congruità della motivazione ai fini propri delle competenze consiliari”, salvo che il Procuratore ritenga che la trasmissione senza ritardo degli atti pregiudichi le esigenze di segretezza delle indagini, nel qual caso l’inoltro deve avvenire non appena siano venute meno tali ragioni.

A sostegno di tale tesi, il Csm, si è correttamente, richiamato, come in precedenza aveva fatto nella delibera 5 marzo 1986, alla sentenza n. 143 del 1973 la Corte Costituzionale, nella parte in cui la Corte, nell’analizzare il potere di revoca dell’assegnazione da parte dell’allora pretore dirigente, aveva stabilito che, per assicurare l’indipendenza del magistrato destinatario del provvedimento di revoca, era necessario riconoscergli il diritto di chiedere al dirigente di motivare per iscritto il provvedimento di revoca,“in guisa che il richiedente” fosse poi posto in grado “di tutelare il rispetto dovuto alla posizione assicuratagli dalla Costituzione, ed eventualmente chiedere l’intervento del Csm, dell’organo, cioè, al quale è demandato il compito di assicurare che gli appartenenti all’ordine giudiziario non siano colpiti da atti che, sia pure mediatamente, portino attentato alla loro indipendenza”.

Nella risoluzione 21 luglio 2009, il Csm ha sviluppato questa linea interpretativa, sostenendo di avere i poteri, se richiesto dal sostituto revocato, “all’esito di una procedura consiliare destinata a concludersi nelle forme e con la pubblicità proprie della seduta plenaria”, sia di controllare “l’esistenza, la ragionevolezza e la congruità della motivazione” del provvedimento di revoca; e sia di adottare, qualora ritenga ingiustificata la revoca, i provvedimenti reputati opportuni nei confronti del Procuratore, e consistenti o nella segnalazione ai titolari dell’azione disciplinare; o nell’inserimento del giudizio negativo nel fascicolo personale ai fini della valutazione di professionalità; o nelle iniziative per l’avvio del procedimento per incompatibilità ambientale ex art. 2 legge guarentigie.

Nella successiva delibera 21 settembre 2011 il Csm ha sostenuto che il suo controllo sulla correttezza della revoca di un’assegnazione deve esercitarsi “sulla base della motivazione esibita dal Procuratore della Repubblica”, sul quale grava il dovere di giustificare la disposta revoca facendo unicamente “riferimento ai criteri indicati nell’art. 1 comma 2 e alle tassative ipotesi previste dall’art. 2 co. 2 del d.lgs. n. 106/2006”.

Ad avviso del Csm, infatti, l’art. 2, co. 2, d.l.vo n. 106, come successivamente modificato, prevede espressamente la revoca dell’assegnazione solo per i casi di contrasto sulle modalità di esercizio dell’azione penale o di violazione delle eventuali direttive disposte dal Procuratore della Repubblica, così da dover essere interpretato nel senso che, se è consentita la revoca dell’assegnazione “per un contrasto sulle determinazioni interlocutorie, a maggior ragione deve essere possibile per un contrasto sulle determinazioni conclusive circa la necessità dell’esercizio stesso dell’azione penale”, che può anche essere limitato solo ad alcuni fatti o ad alcuni degli indagati, “quando non ne risulti un pregiudizio per l’intero procedimento”.

Di conseguenza, se la revoca dell’assegnazione è in tal senso parziale, il magistrato assegnatario non può rifiutarsi “di compiere atti o svolgere indagini relative a posizioni” sulle quali non si è manifestato alcun contrasto.

Il Csm ha, altresì, osservato che la revoca dell’assegnazione comporta l’espletamento da parte del nuovo magistrato assegnatario degli atti procedimentali in rapporto ai quali è sorto il contrasto, ossia: a) il compimento di quelle ulteriori indagini, “ritenute non necessarie dal sostituto dissenziente”; b) “l’esercizio dell’azione penale con modalità diverse… da quelle proposte dal Sostituto dissenziente”; c) “la richiesta di archiviazione in luogo dell’esercizio dell’azione penale o viceversa”. Ed è importante sottolineare che per il Csm il contrasto originante la revoca e quindi il compimento delle conseguenti scelte procedimentali può anche riguardare la qualificazione giuridica dei fatti controversi, in quanto al Procuratore della Repubblica competono pure “le determinazioni circa la qualificazione dei fatti per i quali esercitare l’azione penale”.

L’intera materia della revoca dell’assegnazione e della designazione è stata risistemata dal Csm all’art. 15 della circolare del 2017, che, ricalcando pedissequamente il co. 2 dell’art. 2 del d.l.vo n. 106, come succ. mod., ha previsto che il Procuratore della Repubblica può revocare l’assegnazione con provvedimento motivato, dopo aver sentito il magistrato interessato: – o se il magistrato non si attiene ai principi e ai criteri definiti dal Procuratore in via generale o con l’assegnazione; – oppure se insorge tra il magistrato assegnatario e il Procuratore un contrasto circa le relative modalità di esercizio dell’attività requirente.

Nel rispetto dei principi di partecipazione e leale collaborazione e di valorizzazione della professionalità dei magistrati dell’Ufficio, richiamati nell’art. 2 della stessa circolare, il Procuratore della Repubblica, prima di procedere alla revoca, ha l’onere di sentire il Procuratore aggiunto eventualmente competente, di curare “la massima interlocuzione possibile con il magistrato assegnatario” e di esperire “ogni idonea azione volta ad individuare soluzioni condivise”, evitando scelte autocratiche lesive dell’autonomia del magistrato originariamente assegnatario.

Esperita la procedura di confronto, il Procuratore adotta il motivato provvedimento di revoca, che comporta la riassegnazione del procedimento secondo le disposizioni sulle assegnazioni contenute nel progetto organizzativo.

Tale provvedimento  può essere disposto fino a quando il procedimento non risulti definito.

Con norma di non chiara lettura, si prevede, però, che, dopo la definizione del procedimento, il Procuratore può, con atto motivato, designare per l’ulteriore trattazione del procedimento altro sostituto “in deroga ai criteri generali fissati nel progetto organizzativo”; “tuttavia, in caso di regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari, la titolarità dello stesso è mantenuta dall’originario assegnatario”, del quale, all’evidenza, si rafforza l’autonomia.

Adottato il provvedimento di revoca, il Procuratore ne dispone la comunicazione al magistrato revocato, che entro dieci giorni può presentare osservazioni scritte al Procuratore.

Nei cinque giorni successivi alla ricezione delle osservazioni presentate dal magistrato revocato, il Procuratore ha il dovere di trasmetterle, unitamente all’atto di revoca ed alle eventuali proprie controdeduzioni, al Csm, salvo che ritenga “che la trasmissione degli atti pregiudichi le esigenze di segretezza delle indagini”, nel qual caso procede all’inoltro “non appena le stesse siano venute meno”.

La circolare delimita il controllo spettante al Csm nella verifica della “sussistenza dei presupposti richiesti”, del rispetto “delle regole procedimentali” e della “ragionevolezza e congruità della motivazione”, riconoscendo all’organo di governo della magistratura, “nei casi di ritenuta insussistenza dei presupposti, di violazione delle regole procedimentali o di incongruità della motivazione”, il potere di adottare una delibera di presa d’atto del provvedimento di revoca con osservazioni e specifici rilievi, da trasmettere al Procuratore interessato; da comunicare per le iniziative di rispettiva iniziativa al Procuratore generale presso la Corte di cassazione ed al Procuratore generale presso la Corte d’Appello, e da inserire nel fascicolo personale del dirigente “anche ai fini delle valutazioni di professionalità e della conferma”.

Anche la soluzione adottata dal Csm con la circolare del 2017 per disciplinare il potere di revoca del Procuratore dirigente, alla pari di quella proposta nelle precedenti deliberazioni successive alla riforma/controriforma del 2006, pur essendo ricca di brillanti e condivisibili spunti interpretativi, si presta a delle osservazioni critiche.

Innanzitutto, essa non delimita espressamente l’istituto della revoca dell’assegnazione in senso conforme ai principi costituzionali che presiedono all’esercizio della direzione dell’Ufficio di Procura nel rispetto dell’autonomia professionale dei magistrati ad esso addetti, che si sono più volte esaminati nelle pagine precedenti.

In forza di tali principi, l’art. 15 va letto in combinato disposto con gli artt. 1 e 2 della medesima circolare così da ritenersi esperibile la revoca dell’assegnazione esclusivamente quando il Procuratore, con adeguata motivazione, dimostri che la scelta compiuta dal magistrato assegnatario: – o non permetta di conseguire gli obiettivi della ragionevole durata del processo, anche nella fase investigativa; – oppure non garantisca il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale nel rispetto delle norme sul giusto processo; – oppure sia espressione di non indipendenza del magistrato da poteri esterni.

In secondo luogo, la circolare in esame omette di specificare che il sindacato esperibile dal Csm sul provvedimento di revoca disposto dal Procuratore e sulle controdeduzioni del magistrato revocato ha ad oggetto, sempre in conformità alle regole costituzionali sulla direzione e l’organizzazione dell’ufficio requirente, il rispetto da parte dell’atto di revoca: -sia del corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale secondo le norme sul giusto processo; – sia dell’indipendenza del magistrato addetto all’Ufficio. In altri termini, anche in questo caso, l’art. 15 è interpretabile correttamente combinandolo con i postulati enunciati in generale negli artt. 1 e 2 della stessa circolare.

In terzo luogo, la circolare del 2017, come pure quelle del 2007 e del 2009, si ispira ad una visione marcatamente restrittiva della funzione di governo della magistratura assegnata dalla Costituzione allo stesso Csm negli artt. 104 e ss., riducendo il suo sindacato ad una mera presa d’atto con osservazioni e specifici rilievi, potenzialmente rilevanti di avere riflessi negativi, disciplinari, o para-disciplinari, o professionali, oltretutto solo per il magistrato dirigente, e non anche per il magistrato assegnatario che, all’esito del controllo, si riconosca correttamente revocato per violazione degli obblighi su di lui gravanti.

Come si desume dalla consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale, rappresentata non solo dalla sentenza n. 143 del 1973, richiamata dal Csm nella circolare del 2007, ma anche dalle sentenze n. 173 del 1970 e n. 245 del 1974, obliterate dal Csm nelle circolari 2007, 2009 e 2017, il sindacato esperibile dal Csm sui provvedimenti di gestione degli affari dei capi degli uffici giudiziari comporta l’esercizio di un controllo sulla legittimità del loro operato, come affermato pure dalla Cassazione a sezioni unite[24], che non può essere limitato alla sola valutazione a fini disciplinari o para-disciplinari (per incompatibilità ambientale) o di professionalità o di conferma nell’incarico, ma è esteso pure all’annullamento delle decisioni adottate in violazione della legge, essendo l’annullamento dell’atto ontologicamente connaturato al vaglio di legittimità, secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico italiano.

Il potere di annullamento del provvedimento del magistrato dirigente dell’ufficio giudiziario riconosciuto illegittimo è, difatti, uno strumento indispensabile di autotutela, per permettere all’organo di governo della magistratura di garantire efficacemente il rispetto da parte dei magistrati dirigenti degli uffici delle leggi di ordinamento giudiziario e dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario nel suo complesso e di ciascuno dei suoi componenti.

Appare evidente che la più efficace tutela sia dell’indipendenza del singolo Sostituto revocato e sia della buona amministrazione dell’ufficio di procura, che rappresentano le finalità del sindacato di legittimità svolto dal Csm, come si desume dalla sentenza n. 143 del 1973 della Corte Costituzionale, richiede un intervento tempestivo diretto a rimuovere la lesione arrecata a quei valori dal provvedimento di revoca giudicato illegittimo, che deve essere, innanzitutto, caducato per poterne eliminare gli effetti negativi per la professionalità del magistrato revocato e per il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale nel rispetto delle norme sul giusto processo; e, poi, successivamente preso in considerazione ai fini della valutazione del comportamento illegittimo del Procuratore dirigente in sede disciplinare o paradisciplinare  o di professionalità o di conferma nell’incarico.

E si consideri che l’eventuale annullamento del provvedimento di revoca della designazione, con la conseguente riassegnazione del procedimento al Sostituto originariamente designato, a differenza di quanto paventato dal CSM nella deliberazione del 30 marzo 1993 relativa ai rapporti tra Procuratore della Repubblica e Sostituto, non può, comunque, andare ad incidere sugli “atti del procedimento eventualmente compiuti medio tempore dal diverso assegnatario del procedimento”, in quanto l’ufficio requirente è strutturato secondo i connotati dell’unità, dell’indivisibilità e dell’impersonalità delle funzioni esercitate, che comportano che ciascun magistrato addetto all’ufficio, nei limiti del potere direzionale del Procuratore dirigente, ha la medesima competenza funzionale a gestire l’affare, penale o civile, dell’ufficio, cosicchè l’eventuale sostituzione del magistrato neo-assegnatario nella trattazione dell’affare per illegittimità del provvedimento di designazione non determina in alcun modo l’inefficacia degli atti procedimentali da questo precedentemente compiuti, in quanto l’azione individuale di ciascun rappresentante del pubblico ministero esprime sempre l’azione impersonale dell’ufficio.

6) La rinuncia all’assegnazione da parte del magistrato assegnatario

Richiamando quanto detto nella circolare del 2007 e statuito dalle sezioni unite della Cassazione nel 2009[25], l’art. 16 della circolare del 2017 prevede una forma unilaterale di risoluzione del possibile disaccordo sorto all’interno dell’Ufficio nella conduzione dell’attività requirente, riconoscendo al magistrato assegnatario la possibilità di rinunciare all’assegnazione del procedimento o del singolo atto e di rimetterlo al Procuratore per l’eventuale nuova designazione da adottare secondo i criteri previsti per le assegnazioni nel progetto organizzativo, in due casi:

– quando riscontri un contrasto non sanabile con il Procuratore della Repubblica o con il Procuratore Aggiunto in sede: o di determinazione dei principi e criteri direttivi all’atto di assegnazione di un procedimento (art. 10. co. 6) o di singoli atti (art. 11, co. 2); o di assenso sulle misure cautelari (art. 13); o di formulazione del visto (art. 14); o di interlocuzione preliminare alla revoca (art. 15);

– quando rilevi un dissenso o un contrasto non sanabile nella gestione del procedimento o dell’atto assegnato con altro magistrato in co-assegnazione.

Nella Relazione introduttiva alla circolare del 2017 si mette opportunamente in rilievo che la previsione mira a tutelare la dignità delle funzioni del Sostituto, “che, in un contesto caratterizzato dal ruolo preminente del Procuratore, non può essere costretto a continuare una attività investigativa in cui non crede o ad adottare provvedimenti imposti dal dirigente e per i quali manifesta un insanabile dissenso”.

Gravando sul magistrato assegnatario il dovere di compiere in modo imparziale le funzioni di pubblico ministero in relazione al procedimento o all’atto oggetto dell’assegnazione secondo lo statuto costituzionale del pubblico ministero, che si è sopra ricostruito, si è portati a ritenere che la facoltà riconosciuta dall’art. 16 sia esercitabile dal magistrato assegnatario per il raggiungimento delle finalità proprie dell’azione requirente indicate negli artt. 1 e 2 della stessa circolare, e quindi non liberamente, ma quando, secondo la sua coscienza professionale, sia fermamente convinto, ispirandosi a principi di partecipazione e di leale collaborazione, che la difforme manifestazione di volontà espressa, a seconda dei casi, dal Procuratore o dall’Aggiunto o dal Sostituto co-assegnatario, non consenta il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale secondo le norme sul giusto processo; oppure incida negativamente sulla sua autonomia professionale.

Di conseguenza, il Procuratore della Repubblica, quale garante della legalità, del buon andamento e dell’imparzialità delle attività requirenti svolte dall’ufficio di cui è titolare, può accogliere la rinuncia e procedere ad una nuova assegnazione, secondo le previsioni del progetto organizzativo, del procedimento o dell’atto oggetto della rinuncia, solo qualora ne riconosca la legittimità secondo i parametri appena indicati, nel senso cioè di valutare la scelta operativa del magistrato rinunciante, rispetto alla quale si è creata la situazione di contrasto insanabile con le diverse determinazioni assunte o dal Procuratore o dall’Aggiunto o dal collega co-assegnatario, come una delle possibili opzioni esperibili, secondo l’autonomia professionale del magistrato, per perseguire il tempestivo, corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale secondo le norme sul giusto processo, dovendo altrimenti non accettare la rinuncia presentata.

Trattandosi di questione interna all’ufficio requirente, la documentazione relativa alla rinuncia non entra nel fascicolo di indagine ed è custodita in fascicolo riservato presso la segreteria del Procuratore della Repubblica.

La norma si chiude con il riconoscimento al Procuratore della Repubblica e al magistrato interessato della facoltà di trasmettere gli atti relativi alla rinuncia al Csm “per la presa d’atto” al fine di permettere all’organo di governo della magistratura di avere in ogni caso cognizione del contrasto insanabile sorto all’interno della Procura e risolto unilateralmente con la spontanea desistenza del magistrato assegnatario, accolta dal Procuratore.

Sulla base di quanto si è sin qui detto, si può concludere osservando che il doveroso rispetto dei principi espressi dalla Costituzione italiana sul pubblico ministero impone ai diversi soggetti coinvolti nell’organizzazione e nel funzionamento degli Uffici della Procura della Repubblica, dal Csm al Procuratore dirigente e ai singoli magistrati addetti all’Ufficio, un’interpretazione della disciplina ordinaria costantemente conforme ai valori di buon andamento ed imparzialità dell’azione giudiziaria, di obbligatorietà dell’azione penale nel giusto processo, di assenza di vincoli gerarchici amministrativi, che il legislatore costituzionale ha previsto a tutela della effettiva uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale e a garanzia della democraticità dell’ordinamento giuridico italiano.

Antonello Gustapane
(magistrato presso la Procura della Repubblica di Bologna
professore a contratto di diritto penale-amministrativo presso SPISA Università di Bologna)


[1] Gustapane, Il ruolo del pubblico ministero nella Costituzione italiana, Bologna, Bup, 2012, 383 ss.; Id. Il pubblico ministero tra obbligatorietà ed efficienza, Bologna, Bup, 2018, 195 ss.

[2] Siracusano-Galati-Tranchina-Zappalà, Diritto processuale penale, Milano, 2013., 151. Così poure, Coletta, Il pubblico ministero nella riforma, in AA.VV., Guida alla riforma dell’ordinamento giudiziario, Milano, 2007, 7.2.3.,

[3] Amato, In Procura ritorno alla gerarchia?, in Guida dir., 2005, n. 32, 97 ss., che ha giustificato il potere del Procuratore della Repubblica di imporre dei criteri direttivi per lo svolgimento delle indagini e per l’adozione del provvedimento conclusivo, in modo da assicurare l’unitarietà dell’ufficio.

[4] Come puntualizzato da Amato, Assegnazione dei fascicoli con “delega”, in Guida dir., 2006 n. 16, 34.

[5] Si deve, però, notare che il d.l.vo n. 109 del 2006 non prevedeva specifiche ipotesi di responsabilità disciplinare a carico del magistrato addetto all’ufficio requirente di primo grado nel caso di mancato rispetto dei criteri e dei principi fissati dal Procuratore della Repubblica o di contrasto nella conduzione del procedimento.

[6] Come rilevato pure da Amato, In Procura ritorno alla gerarchia?, cit., 98; e da Melillo, L’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, in AA.VV. (a cura di Carcano), Il nuovo ordinamento giudiziario, Milano, 2006, 277, che avevano concordemente rimarcato il mancato coinvolgimento del Csm nella procedura di revoca della delega.

[7] Così pure Coletta, Il pubblico ministero nella riforma, in AA.VV., Guida alla riforma dell’ordinamento giudiziario, cit., 7.2.3.1., che ha messo in evidenza che per il legislatore della riforma i termini delega e assegnazione sono utilizzati in termini sostanzialmente equivalenti, come si desume dalla circostanza che “nel testo originario del d.lg. 20.2.2006 n. 106 si faceva riferimento all’uno o all’altro indifferentemente: se nell’art. 2 veniva disciplinata la delega dei procedimenti, all’art. 1 si stabiliva che il Procuratore deve determinare i criteri di assegnazione dei procedimenti”; Pacileo, Pubblico ministero, Torino, 2011, 39 ss.

[8] Come sostenuto da Corte Cost., sent. 15 febbraio 1991, n. 88.

[9] Corte Cos., sent. 3 aprile 1963, n. 40.

[10] Corte Cost., sent. n. 96 del 1975; sent. 29 aprile 1975, n. 97.

[11] Corte Cost., sent. 23 dicembre 1963, n. 168.

[12] Analoghe considerazioni sono state svolte pure da Proto Pisani, Controriforma dell’ordinamento giudiziario: ultimo atto?, in Foro it., 2005, V, 113, secondo cui “dal combinato disposto degli artt. 112, 102, I co., 107, III co., e 107 ult. co., Cost., si desume inequivocabilmente che anche ai magistrati del pubblico ministero debba essere assicurato lo status di indipendenza inconciliabile con qualsiasi forma organizzativa fondata sulla gerarchia”; Scarselli, Ordinamento giudiziario e forense,Milano, 2008, 221 ss.

[13] Nella stessa direzione Melillo, L’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, in AA.VV. (a cura di Carcano), Il nuovo ordinamento giudiziario, cit., 271 ss.

[14] In proposito la Relazione governativa di presentazione al decreto legislativo n. 106 del 2006, 21, cita come esempi, “nei reati fallimentari, la previsione di soglie minime di valore per l’affidamento di incarichi di consulenza, ovvero, per taluni reati commessi a mezzo telefono, l’utilizzo della documentazione del traffico telefonico piuttosto che il ricorso all’intercettazione telefonica”.

[15] Melillo, L’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, in AA.VV. (a cura di Carcano), Il nuovo ordinamento giudiziario, cit., 282 ss.

[16] Coletta, Il pubblico ministero nella riforma, in AA.VV., Guida alla riforma dell’ordinamento giudiziario, cit., 7.3.7., ha, tuttavia, rilevato che l’art. 4 in commento finisce con il ridurre il magistrato addetto ad una procura della Repubblica a impiegato che si limita a compilare e sottoscrivere moduli di provvedimenti elaborati sulla base di una procedura preconfezionata dal Procuratore.

[17] Si ricorda che, ai sensi del co. 3 dell’art. 53 c.p.p., quando ricorrano le situazioni di incompatibilità indicate nell’art. 36, co. 1 lett. a), b), d), e), sul Procuratore della Repubblica grava l’obbligo di provvedere alla sostituzione del magistrato interessato, venendo riservato al Procuratore generale presso la Corte di Appello di designare per l’udienza un magistrato appartenente al suo ufficio, qualora il capo dell’ufficio ometta di intervenire

[18] Secondo Melillo, L’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, in AA.VV. (a cura di Carcano), Il nuovo ordinamento giudiziario, cit., 281, la mancanza dell’assenso del Procuratore della Repubblica impedirebbe la presentazione della richiesta di misure al giudice per le indagini preliminari, che non potrebbe né esaminarla né deciderla.

[19] Cass., Sez. Un., 22 gennaio-24 febbraio 2009, n. 8388, ha, pertanto, affermato che nel caso in esame“non può seriamente dubitarsi della irritualità del percorso adottato… da tutti i protagonisti della vicenda – il Procuratore della Repubblica e i magistrati assegnatari del procedimento -, i quali hanno proceduto all’inoltro al giudice di una richiesta di misura coercitiva nei confronti dell’indagato, corredata dall’espresso dissenso scritto del Procuratore della Repubblica, il quale optava per l’applicazione di una meno grave misura di tipo interdittivo, così erroneamente ritenendosi l’atto di dissenso, per un verso, come un’autonoma e diretta richiesta del capo dell’ufficio da inoltrare al giudice e, per il verso opposto, come un mero parere da sottoporre alla “libera valutazione dell’organo giurisdizionale”.

[20] La Corte ha in questo senso richiamato“l’art. 1, sulla giurisdizione penale; l’art. 33, sulla capacità del giudice; gli artt. 178 lett. a e 179 comma 1, sulla nullità di ordine generale e assoluta per l’inosservanza delle disposizioni concernenti le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi; l’art. 36, comma 1 lett. g, in tema di astensione e ricusazione del giudice che si trovi in una situazione di incompatibilità; l’art. 43, sulla sostituzione del giudice astenuto o ricusato con altro magistrato dello stesso ufficio; l’art. 610 comma 1-bis, sull’assegnazione dei ricorsi alle singole sezioni della Corte di cassazione; l’art. 163-bis disp. att., circa gli effetti dell’inosservanza delle disposizioni di ordinamento giudiziario relative alla ripartizione tra sede principale e sezioni distaccate, o tra diverse sezioni distaccate, dei procedimenti nei quali il tribunale giudica in composizione monocratica; l’art. 169-bis disp. att., circa la predeterminazione tabellare della sezione della corte di cassazione per l’esame dell’inammissibilità dei ricorsi”; e sempre “con riferimento agli uffici giudicanti, ha ricordato “ che l’art. 7-bis, comma 1 ultimo periodo, del r.d. n. 12 del 1941, aggiunto dall’art. 4, comma 19 lett. b, l. n. 111 del 2007, avverte che in nessun caso la violazione dei criteri (tabellari) per l’assegnazione degli affari, salvo il possibile rilievo disciplinare, determina la nullità dei provvedimenti adottati”.

[21] In proposito la Corte ha ricordato che “Hanno affermato le Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 30/10/2003 n. 45276, P.G. in proc. Andreotti, rv. 226089), con riferimento all’attribuzione del potere di impugnazione delle sentenze d’appello, che “non assumono … alcun rilievo esterno i criteri tabellari stabiliti per l’organizzazione dei servizi e la distribuzione delle incombenze negli uffici di procura, non inerendo comunque, all’evidenza, le garanzie costituzionali di legale precostituzione e di terzietà del giudice, cui pure s’ispira il sistema tabellare, al ruolo e alla struttura organizzativa degli uffici requirenti”, sicché “l’eventuale inosservanza dei criteri di organizzazione dell’ufficio della procura … non costituisce fonte di sanzioni processuali e non incide affatto sulla legittimazione del singolo magistrato della medesima procura a ricorrere per cassazione”, sempre che quel magistrato sia provvisto dei requisiti essenziali per ricoprire l’incarico e appartenga all’ufficio, inteso nella sua organica unitarietà, delle cui funzioni faccia esercizio.

E la giurisprudenza delle Sezioni semplici ha chiarito, a sua volta, che non è dato apprezzare la nullità ex art. 178 lett. b c.p.p., sotto il profilo della capacità o legittimazione del pubblico ministero, con riguardo alle attività compiute da magistrati onorari o ufficiali di polizia giudiziaria, delegati per l’udienza pretorile prima e per l’udienza dinanzi al tribunale in composizione monocratica poi, in violazione dei limiti operativi fissati dall’art. 72 ord. giud. (Cass., sez. VI, 3/7/1996 n. 8815, Bartolomei, rv. 205909; sez. VI, 10/1/2001 n. 20110, P.M. in proc. Sagone, rv. 219153), o alla mancanza in atti del provvedimento di assegnazione del procedimento al sostituto richiedente l’archiviazione (sez. VI, 19/11/2002 n. 18178, Stara, rv. 225212), una volta che il soggetto che svolga tali funzioni sia comunque investito delle relative attribuzioni”.

[22] Cass., Sez. Un., 22 gennaio-24 febbraio 2009, n. 8388, cit.,

[23] Si deve ricordare che anche l’abrogazione dell’art. 72, co. II, ord. giud. disposta dall’art. 7, co. 1 lett. a),  accentua la direzione del Procuratore della Repubblica nella parte in cui dispone che egli, quale preposto all’ufficio, è assolutamente libero di revocare la delega conferita a magistrati onorari per lo svolgimento delle funzioni requirenti, che prima, invece, poteva essere disposta nei soli casi in cui il codice di procedura penale prevedeva la sostituzione del pubblico ministero.

[24] Si ricorda che l’interpretazione qui proposta circa il ruolo di controllo spettante al Csm sulla legittimità del potere di revoca dell’assegnazione e dell’operato del magistrato revocato ha trovato il prezioso avallo pure delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che, nella sentenza n. 8388 del 2009, ha osservato che la procedura prevista dall’art. 2 d.lgs. n. 106, come modificato dalla l. n. 269, consistente nell’adozione da parte del Procuratore della Repubblica di un motivato provvedimento di revoca e nella presentazione da parte del magistrato revocato di “osservazioni scritte” a “tutela della sua autonomia professionale”, è idonea ad essere sottoposta ad un vaglio di legittimità attraverso “il potenziale intervento dei titolari dell’azione disciplinare e dello stesso Csm, chiamato a verificare, non solo a fini disciplinari, la congruità delle determinazioni sia del capo dell’ufficio sia del sostituto”.

[25] Corte di Cassazione, s.u., sent. n. 8388 del 2009. .

Attraverso un documento approvato dal Comitato Direttivo Centrale nella riunione del 10 novembre 2018, l’Associazione Nazionale Magistrati formulava una proposta di riforma in materia di diritto e processo penale funzionale ad incrementare l’efficacia e rapidità operativa del processo penale.

Duole constatare come le indicazioni ivi contenute, sostanzialmente frutto dell’esperienza maturata nella quotidiana applicazione del diritto e formulate beneficiando di una prospettiva di valutazione privilegiata, siano state in buona parte disattese nell’ambito di un dibattito politico alimentato dal confuso e spesso fazioso “tam tam mediatico”, costantemente impegnato nella ricerca di capri espiatori cui addebitare la colpa dei mali sociali, condotta per mano dai moderni mezzi di comunicazione attraverso meccanismi ampiamente semplificatori, che tendono alla ripartizione della generalità dei consociati dietro le barricate dei pro e dei contro, costruite ad arte sulla scena mediatica e nell’arena dello scontro politico. Contesto nel quale rimane nebulizzato o relegato in posizione secondaria l’interesse all’efficace funzionamento del sistema penale, surclassato dalla più stimolante propensione alla valorizzazione mediatica di iniziative punitive della Magistratura, oggi come oggi caprio espiatorio perfetto di ogni male sociale.

….

Ciò posto, piuttosto che soffermarmi, come già altri meglio di me avranno fatto, sulle innovazioni contenute nel d.d.l., reputo più opportuno fare un cenno ad alcune auspicabili innovazioni, ben più importanti, che nello stesso non sono contenute, ad attestazione della chiara volontà di mantenere il processo penale in stato di inefficienza:

1) Il d.d.l. non contempla la modifica che più di tutte incrementerebbe l’efficacia del sistema penale, eliminando l’operatività di un meccanismo in alcun modo al passo con i tempi, né coordinato con la fisiologica magmaticità che per espressa previsione legislativa caratterizza la composizione degli uffici giudiziari. Nulla è previsto, infatti, circa l’ampliamento delle ipotesi comprese nell’ambito operativo dell’art. 190bis c.p.p. e sottratte alla scure della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in ipotesi di mutamento del giudicante o di un componente del collegio. Né tantomeno prevede la sospensione dei termini di prescrizione per il tempo necessario alla ripetizione dell’attività dibattimentale a seguito del cambio della persona del giudicante o della sostituzione di uno o più componenti del collegio giudicante.

Siamo entrati nella seconda metà del 2019. La società SpaceX, di Elon Musk, ha quasi completato i progetti di costruzione del Big Falcon Rocket, vettore spaziale che entro il 2024 dovrebbe condurre quaranta coloni terresti su Marte; due sistemi di intelligenza artificiale creati nei laboratori di Menlo Park (Facebook) hanno iniziato a dialogare autonomamente tra loro adoperando un linguaggio incomprensibile all’uomo, sicché i programmatori li hanno dovuti spegnere prima che potessero decidere di estromettere i loro creatori dal sistema e diventare pericolosi; il dispositivo AlterEgo, sviluppato da alcuni ricercatori del MIT, che si indossa come un paio di cuffie, legge i pensieri di chi lo indossa traducendoli in ricerche su google e successivamente sussurrando all’orecchio le risposte trovate.

In altre parole, l’avanzamento tecnologico fa passi da gigante e penetra ogni settore della società ma inspiegabilmente il processo penale rimane impermeabile ad ogni forma di ragionevole innovazione. Non solo. Il processo penale è fonoregistrato e ben potrebbe essere agevolmente audioripreso, con trasmissione dei relativi file al giudice subentrante ma, ciò nondimeno, siamo costretti quotidianamente ad assistere ad una inutile “sfilata” di testimoni che negli anni sono costretti anche 3 o 4 volte a tornare in aula per limitarsi a confermare quello che hanno già riferito anni prima dinanzi ad un Tribunale in diversa composizione. Nulla di nuovo viene aggiunto ad un dibattimento alla cui effettiva rinnovazione i difensori non sono mai realmente interessati (se non la perdita di credibilità del giudicante agli occhi del cittadino, costretto suo malgrado a partecipare a questa farsa), producendosi l’unica conseguenza di far decorrere inutilmente i termini di prescrizione, sottrarre utili energie e risorse alla definizione delle vicende processuali, con ulteriore appesantimento dei già consistenti carichi di lavoro.

Come se poi il Giudice (in procedimenti spesso caratterizzati dall’afflusso processuale di numeri elevatissimi di testi, ancora oggi prova principe nel sistema accusatorio) fosse realmente in grado di formare il proprio convincimento ricordando a memoria le dichiarazioni, le espressioni facciali, le esitazioni, le peculiarità di ogni singolo teste, dopo averne escussi 40 al giorno nella trattazione di centinaia di procedimenti.

Voci ben più autorevoli hanno manifestato insofferenza nei confronti di questo meccanismo. Basti pensare che con in una recente pronuncia la Corte Costituzionale, pur non negando che il principio di immediatezza rappresenti un cardine del processo accusatorio delineato dal codice di rito, mostrando la capacità di coniugare il suo ruolo istituzionale con una pragmatica analisi della ricaduta concreta dei principi costituzionali nella quotidianità delle aule di giustizia, ha affermato a chiare lettere che: “L’esperienza maturata in trent’anni di vita del vigente codice di procedura penale restituisce, peraltro, una realtà assai lontana dal modello ideale immaginato dal legislatore. I dibattimenti che si concludono nell’arco di un’unica udienza sono l’eccezione; mentre la regola è rappresentata da dibattimenti che si dipanano attraverso più udienze, spesso intervallate da rinvii di mesi o di anni, come emblematicamente illustra l’odierno giudizio a quo (Ritenuto in fatto, punto 2). In una simile situazione, il principio di immediatezza rischia di divenire un mero simulacro: anche se il giudice che decide resta il medesimo, il suo convincimento al momento della decisione finirà – in pratica – per fondarsi prevalentemente sulla lettura delle trascrizioni delle dichiarazioni rese in udienza, delle quali egli conserverà al più un pallido ricordo”. La Corte, peraltro, in un’ottica di leale cooperazione tra poteri dello Stato, si spinge a “suggerire” al legislatore dei rimedi strutturali “in grado di ovviare agli inconvenienti evidenziati, assicurando al contempo piena tutela al diritto di difesa dell’imputato”, proponendo proprio “la videoregistrazione generalizzata dei dibattimenti penali, al fine di consentire al giudice subentrante di poter apprezzare, con parificabile grado di immediatezza, l’assunzione delle prove in dibattimento”, con conseguente eliminazione del meccanismo della necessaria rinnovazione. In sostanza, il Giudice delle leggi invita apertamente il legislatore ad imporre ragionevoli deroghe alla regola dell’identità tra giudice avanti al quale si forma la prova e giudice che decide, in ragione del fatto che il diritto della parte alla nuova audizione dei testimoni di fronte al nuovo giudice o al mutato collegio “non è assoluto, ma “modulabile” (entro limiti di ragionevolezza) dal legislatore”, addirittura precisando che un’eventuale rimodulazione della regola della rinnovazione dibattimentale non troverebbe ostacoli nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte cost., sent. 29 maggio 2019, n. 132).

Tuttavia, piuttosto che cogliere l’illuminato invito dei giudici costituzionali ed adottare una elementare innovazione tecnologica che consenta al Giudice subentrante di visionare nuovamente le udienze ed ascoltare la voce del testimone, contestualmente riservando al difensore la possibilità di procedere a nuova escussione testimoniale su circostanze diverse da quelle oggetto delle precedenti dichiarazioni, si è preferito mantenere in piedi questo malfunzionamento dal sapore pirandelliano (mi riporta alla mente la teorica della maschera).

2) All’interno del d.d.l., nella parte dedicata alla modifica della disciplina dell’appello, non si rinviene alcun riferimento all’eliminazione o rimodulazione del “divieto di reformatio in peius” (modifica dell’art. 597 c.p.p.).

Al riguardo, si impongono riflessioni che travalicano il mero settore giuridico e che in parte mutuo da un collega ben più esperto ed autorevole di me.

In Italia ci sono circa 240.000 avvocati che, in qualche modo, devono sbarcare il lunario e tale dato determina una moltiplicazione esponenziale e patologica dei processi, soprattutto nel settore penale. Il numero dei processi è tanto elevato perché in Italia, per qualsiasi processo penale (anche a fronte di condanne fondate su prove assolutamente evidenti, e magari con l’irrogazione di pene minime), si percorrono in ogni caso tre gradi giudizio, facendo affidamento sull’inefficienza del sistema, destinato ad ingolfarsi, per arrivare ad una pronuncia di prescrizione, o comunque per posticipare nel tempo il passaggio in giudicato della sentenza, confidando sul dato per cui la proposizione dell’appello o del ricorso per Cassazione non comporta in concreto alcun rischio. Al più una condanna alle spese che non più del 5% dei condannati alla fine verserà all’Erario.

Ogni anno, in Cassazione, vengono definiti oltre 55.000 processi ed oltre il 70 % dei ricorsi proposti dalle parti private vengono dichiarati inammissibili. In Francia arrivano alla Corte Suprema ogni anno circa 8000 processi; in Spagna tra i 4000 e i 5000, in Germania tra i 2500 ed i 3000.

In Germania ci sono 39 avvocati cassazionisti e in Francia 100, che esercitano solo davanti alle corti supreme. In Italia sono 52.000 quelli abilitati a patrocinare indifferentemente in ogni grado di giudizio.

In un contesto siffatto, la possibilità illimitata di effettuare “impugnazioni a costo zero” produce una enorme proliferazione di appelli assolutamente immotivati ed infondati.

Assumendo il rischio di una rivisitazione del merito a 360 gradi il difensore stesso sarebbe portato una scelta più meditata sul ricorrere ai giudici di appello, impugnando solo quelle sentenze che paiano rivedibili e censurabili, con conseguente fisiologico innalzamento della qualità degli avvocati patrocinanti dinanzi alle giurisdizioni superiori.

Limito a queste le mie stringate osservazioni, pur rendendosene necessarie tante altre. Tuttavia, da ultimo non posso non rilevare che è da considerarsi disarmante l’assoluto disinteresse che fino a questo momento il legislatore ha dimostrato in riferimento alla progettazione di un processo penale telematico ed all’utilizzo ragionevole delle intelligenze artificiali, essendo io convinto che l’innovazione tecnologica costituisca l’unico strumento realmente in grado di restituire efficienza ed efficacia operativa al processo penale e credibilità alla Magistratura (credibilità che forse non tutti sono interessati a restituirci).

La persistente ritrosia dimostrata sul punto è assolutamente ingiustificata, tanto da far pensare ad un legislatore patologicamente suggestionato dalla ribellione del computer Hal 9000, vero dominus del capolavoro 2001 – A Space Odissey, o dalle affascinanti prospettazioni formulate dall’ingegnere informatico Charles Simon nella sua opera Will computer revolt? Preparing for the future of Artificial Intelligence.

Molti studiosi collocano già nel 2045 il momento in cui un sistema informatico, dotato di autonomia nell’imparare e progettare se stesso, supererà le capacità di comprendere degli esseri umani. Chissà se per allora avremo o meno almeno un fascicolo telematico.

Art. 16 (specificamente a cura di Aldo Natalini)

In ambito processual-penale, l’art. 16 del disegno di legge governativo enuncia i principi e criteri direttivi che il Governo dovrà seguire nell’esercizio della delega, con riferimento alla disciplina dei procedimenti speciali alternativi al dibattimento che si intende incentivare su più fronti.

Per quanto riguarda il giudizio abbreviato (art. 16, lett. a), si prevede la modifica – in senso ampliativo – delle condizioni di accesso al rito abbreviato condizionato ex art. 438, comma 5, c.p.p. In particolare, si propone la sostituzione dell’attuale requisito della compatibilità dell’integrazione probatoria con le «ragioni di economia processuale proprie del procedimento», con i seguenti criteri selettivi:

«rilevanza, novità, specificità, non sovrabbondanza della prova o dei fatti oggetto di prova».

La perseguita finalità governativa è quella di evitare che l’eccessiva elasticità della clausola vigente dia luogo al rigetto di istanze di giudizio abbreviato condizionato all’assunzione di prova (v. Relazione illustrativa).

Nondimeno dalla formulazione – meramente elencativa – dei nuovi parametri non è dato comprendere se trattasi di criteri che il legislatore delegato dovrà dettare in via alternativa o congiunta: aspetto dirimente al fine di valutare, sul punto, la portata ampliativa della proposta riforma dell’abbreviato condizionato, la sua incidenza rispetto al coevo connotato – non inciso dalla ipotesi di novella – della necessità ai fini della decisione nonché, in definitiva, la sua congruenza rispetto alla struttura sommaria del procedimento speciale.

Nel dettaglio, quanto alla possibile esegesi da attribuire ai proposti parametri:

– quanto alla rilevanza, occorrerebbe estrarne un significato concettualmente autonomo rispetto al coevo parametro della necessità ai fini del decidere, per l’accesso al rito condizionato (quale potrebbe essere quello della pertinenza);

– quanto alla «novità», sembrerebbe alludere al carattere “aggiuntivo” (e non meramente “sostitutivo”) rispetto materiale disponibile “allo stato degli atti” e, quindi, effettivamente inedito, come peraltro la dottrina già esige a legislazione vigente rispetto all’iniziativa probatoria di cui all’art. 438, comma 5, c.p.p. (la quale è oggettivamente “nuova” anche quando non sia «necessaria ai fini del decidere»);

– quanto alla «specificità», dovrebbe tradursi nell’onere, per l’imputato, di circoscrivere con il dovuto dettaglio l’oggetto del “nuovo” progetto probatorio (quantomeno in termini di fatti oggetto di prove e di nominativo dei testi addotti, laddove trattasi di prove orali: arg. Cass. pen., Sez. V, n. 55829/2018, Rv. 274623).

– quanto, infine, alla «non sovrabbondanza» della prova (o dei fatti oggetto di prova), da valutarsi ex ante, sembra assibilabile al vigente parametro della superfluità che giustifica, ex post, la revoca delle prove già ammesse nel corso del dibattimento ex art. 495, comma 4, c.p.p. Nondimeno, potrebbe in parte sovrapporsi col coevo – immutato – requisito della necessità ai fini del decidere. 

Per quanto riguarda il giudizio immediato (art. 16, lett. b), la proposta legislativa è duplice, prevedendosi che, a seguito di notifica del decreto di giudizio immediato:

1) nel caso di rigetto da parte del giudice delle indagini preliminari della richiesta di giudizio abbreviato subordinata ad integrazione probatoria, l’imputato possa richiedere il giudizio abbreviato “secco” oppure l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p.;

2) nel caso di dissenso del P.M. all’ipotesi di patteggiamento, o di rigetto da parte del giudice delle indagini preliminari della proposta di applicazione pena, l’imputato possa proporre il giudizio abbreviato.

Viene così demandato al legislatore delegato di prevedere la possibilità, per l’imputato, di avanzare richiesta di riti alternativi ulteriori nel caso di rigetto delle istanze presentate entro i termini. Traducendosi la proposta nell’ampliamento delle facoltà processuali dell’imputato, essa merita condivisione.

Per quanto riguarda, infine, il procedimento monitorio (art. 16, lett. c), si prevede l’estensione del termine per richiedere, da parte del P.M., l’emissione del decreto penale, che passa dagli attuali sei mesi, ad un anno dall’iscrizione nominativa ai sensi dell’articolo 335 c.p.p.

La proposta governativa – condivisibile nella misura in cui mira ad estendere il ricorso al rito alternativo de quo, già “incentivato” per effetto della novella di cui all’art. 1, comma 53 della l. n. 103 del 2017 (introduttiva del comma 1-bis dell’art. 459 c.p.p.) – recepisce in toto la corrispondente proposta elaborata dalla Commissione di studio Anm su diritto e processo penale (v. punto 12 della bozza di testo approvato, con modifiche, dal Comitato Direttivo Centrale del 9 marzo 2019).

Art. 17

In tema di giudizio, alla lettera a) si prevede uno svolgimento calendarizzato delle udienze (laddove non è possibile esaurire il processo in una sola udienza) il cui programma è stabilito già alla prima udienza fino alla istruzione dibattimentale.

La predisposizione di un calendario per ogni singolo processo rende note alle parti e ai difensori le successive date di udienza, in tal modo limitando i rinvii per impedimento degli interessati.

Tuttavia, la lodevole introduzione rischia di trasformarsi in un mero auspicio se non armonizzata con la disciplina dei legittimi impedimenti e delle notifiche ai testimoni (nei processi di media e grande complessità vengono spesso dedicate più udienze proprio alla regolarizzazione delle notifiche cartacee, “all’inseguimento” degli imputati) e con un ampliamento dei poteri negoziali delle parti in termini di acquisizioni probatorie e rinunce istruttorie.

Peraltro, la predisposizione di un calendario fin dal momento dell’ammissione delle prove appare agevole solo nell’ipotesi di effettiva deflazione del dibattimento (con ampio e diverso ricorso ai riti alternativi) e di carico del ruolo non gravoso.

Art. 18

Sempre con riguardo al dibattimento, innanzi al tribunale in composizione monocratica la legge delega intende istituzionalizzare una udienza “filtro” per i reati a citazione diretta a giudizio (art. 550 c.p.p.).

Tuttavia, il “filtro” non è teso alla calendarizzazione o ad una razionale previsione delle ulteriori fasi dibattimentali. La norma interviene, nelle intenzioni a scopo deflattivo, per accertare (sulla base del fascicolo del P.M.) se il dibattimento debba essere celebrato o se debba essere immediatamente pronunciata una sentenza di non luogo a procedere.

Appare, però, evidente il rischio di duplicazione insito nella previsione, in quanto si introdurrebbe una “nuova udienza preliminare” nel rito monocratico. Di certo tale accortezza non gioverebbe alle tempistiche processuali e potrebbe generare frizioni a livello sistemico in tema di incompatibilità. Infatti, è plausibile che, stando ai criteri generali in tema di incompatibilità, l’udienza filtro trattata da un magistrato diverso da quello davanti al quale dovrà essere, eventualmente, celebrato il giudizio potrebbe creare enormi disfunzioni organizzative negli uffici di limitate dimensioni. Il magistrato dell’udienza filtro verrebbe a conoscenza degli atti del P.M. e dunque non potrebbe dirigere la conseguente fase dibattimentale.

In sostanza, invece di semplificare, si assiste ad un ingolfamento ulteriore dei procedimenti di competenza del tribunale in composizione monocratica.

Art. 19

La norma in esame è dedicata alla fase dell’appello.

La previsione sarebbe destinata a ridurre la pendenza dei processi in appello, rendendo inappellabili alcune categorie di sentenze ed introducendo la competenza della Corte di appello in composizione monocratica per i procedimenti penali a citazione diretta, anche con ricorso al rito camerale non partecipato.

Aumentano i casi di inappellabilità, in particolare, per le sentenze di proscioglimento e di non luogo a procedere per i reati puntiti con la pena pecuniaria o alternativa, nonché delle sentenze di condanna per le pene sostituite con lavori di pubblica utilità.

Si fa eccezione d’altro canto, ai reati di cui agli articoli 590, commi 2 e 3, 590-sexies e 604-bis, comma 1, del codice penale, modificando così l’art. 428 comma 3-quater c.p.p.

La inappellabilità di alcune sentenze potrebbe produrre l’incremento dei ricorsi per cassazione e dunque, in assenza di adeguati contrappesi, potrebbe determinarsi soltanto un cambiamento dello sbocco processuale delle impugnazioni.

Anche in sede di appello si punta sulla diversificazione del rito prevedendo la competenza della corte d’appello in composizione monocratica per i reati a citazione diretta, salve alcune eccezioni e l’introduzione del rito camerale non partecipato per l’impugnazione delle decisioni dinnanzi alla corte d’appello in composizione monocratica.

L’introduzione del giudizio monocratico in grado di appello, che vorrebbe snellire evitando a composizione collegiale della corte, determinerà certamente un sensibile aumento del numero di udienze, che necessiterà della disponibilità di un congruo numero di personale ausiliario e di aule di udienza (argomento assolutamente non secondario) oltre che di un ulteriore aggravio per i magistrati in servizio presso le corti di appello. Anche questa modifica – se si pretende di operare a costo zero – potrebbe generare molti più aggravi processuali di quanti ne vorrebbe evitare.

Art. 20 e art. 21

Nulla da rilevare in chiave negativa. Si tratta di scelte condivisibili

Con l’art. 20 si prescrive la procedibilità a querela della persona offesa per il reato di lesioni personali stradali gravi ex art. 590bis.

In questo modo, viene calibrato il reale interesse della persona offesa alle esigenze processuali, poiché la vittima solitamente propende maggiormente per una liquidazione del danno in ambito civile, piuttosto che nella certezza della sanzione penale (blanda) del trasgressore.

Conformemente, viene valutato quale comportamento concludente, la mancata comparizione ingiustificata in udienza da parte del querelante. Per quanto condivisibile non sembra che si stia parlare di un nodo centrale per la efficienza del processo penale.

Con l’art. 21viene rideterminato l’ammontare delle pene pecuniarie per un giorno di pena detentiva ad un importo che non superi i 180 euro, a fronte dei precedenti 250 probabilmente per dare maggiore possibilità al condannato di adempiere agli obblighi pecuniari in luogo della pena detentiva.

Art. 22

Con la previsione dell’art. 22 diventerebbe impugnabile il decreto di perquisizione, anche quando non vi consegua un provvedimento di sequestro.

Il controllo giurisdizionale sulla legittimità della perquisizione, anche nel caso in cui ad essa non consegua il sequestro, intende adeguare la disciplina processuale ai principi CEDU.

Non convince, tuttavia, la previsione generica ed estesa con cui viene introdotto il mezzo di impugnazione che, certamente sarà destinata a produrre un incremento del contenzioso e delle impugnazioni devolute al tribunale del riesame e alla Corte di cassazione.

Sarebbe necessario eventualmente introdurre restrizioni della possibilità di gravame ad ipotesi specifiche o a indici determinati (assenza di motivazione, mancata adozione di garanzie tipiche dell’atto) onde insinuare un vulnus nello strumento di ricerca della prova che, in mancanza di un cuscinetto di irregolarità formali dell’atto, ponga automaticamente a confine la perquisizione legittimamente adottata o autorizzata con la violazione di cui all’art. 609 c.p..

Alla base dell’intervento del legislatore, che agli articoli dal 13 al 22 della legge delega recante un campo di azione vastissimo (disegno  di  legge  recante deleghe   al   governo   per   l’efficienza   del processo  civile  e  del  processo  penale,  per  la  riforma complessiva dell’ordinamento   giudiziario   e   della   disciplina   su eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati nonché disposizioni sulla costituzione e funzionamento del consiglio superiore della magistratura e sulla flessibilità dell’organico di magistratura) riguarda il processo penale, vi sarebbe la stringente necessità di una modifica di un meccanismo processuale sempre più farraginoso e ridondante.

Purtroppo, agli intenti ambiziosi corrispondono soltanto sparuti interventi di riforma, talvolta ispirati astrattamente al principio di economia processuale, senza alcuna riflessione sulle problematiche concrete e in assenza di una vera azione riformatrice di ampio respiro. Nessun cenno, ad esempio, sull’ampliamento dell’applicazione del giudizio direttissimo, sull’efficienza dell’ingresso delle prove in dibattimento (e su altre analoghe tematiche esemplificative, indicate nello scritto che sarà pubblicato a cura di Alessandro De Santis).

A fronte di taluni elementi positivi (l’intervento seppur minimale in tema di notificazioni, i poteri del Giudice dell’udienza preliminare, con la previsione di una fase pre-dibattimentale che possa essere realmente deflattiva, con il mutamento della regola di giudizio ex art. 425 comma 3 c.p.p., e di rimando, dell’art. 125 norme att. c.p.p.), restano numerose criticità e perplessità.

D’altro canto, sembra non emergere affatto una chiara virata verso la “ragionevole durata del processo” (trattasi dell’ennesima riforma “a costo zero”), bensì si prevedono oneri e responsabilità, anche di tipo disciplinare, in capo al Pubblico Ministero.

Non si introduce alcun rimedio teso a modernizzare e snellire le indagini preliminari (ad esempio, concrete potenzialità deflattive della diversificazione del rito), ma si intende “costruire un muro” al termine di esse.

Art. 13

L’articolo 13 costituisce la base della legge delega materia penale. Il raggio di azione è estremamente ampio (modifica del codice di procedura penale, del codice penale e della collegata legislazione speciale e per la revisione del regime sanzionatorio di alcune contravvenzioni, con finalità di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo penale, nel rispetto delle garanzie difensive e secondo i princìpi e criteri direttivi previsti dalle disposizioni del presente capo) e consente al governo un esercizio della delega su tutto il settore penalistico entro i termini prefissati. Qualora veramente l’esecutivo volesse mettere a frutto il termine concesso con la legge delega, in luogo di istituire le ennesime commissioni di studio, potrebbe muovere – almeno in parte – da alcune egregie proposte di riforma già esistenti.

Art. 14

In tema di notificazioni si prevede che l’esercizio della delega debba orientarsi nel senso di :

– prevedere  che  tutte  le  notificazioni  all’imputato  non  detenuto successive  alla  prima  siano eseguite mediante consegna al difensore; al di fuori dei casi previsti dagli articoli 161 e 162 del codice di procedura penale. Tale previsione è auspicata da anni, ma il timore resta connesso a quale estensione sarà riservata alle opportune deroghe al suddetto principio, considerato che sul punto finora si sono registrate notevoli resistenze da parte del ceto forense;

– prevedere che dal secondo atto le notifiche all’imputato saranno effettuate mediante consegna al difensore   che l’imputato ha l’onere di indicare al  difensore  un recapito  idoneo  e ogni mutamento dello stesso. Anche in tal caso la previsione è positiva, ma occorre attendere quali eccezioni verranno formulate alla regola, anche se dovrebbe essere rassicurante la previsione che   non costituisce illecito disciplinare del difensore l’omessa o ritardata comunicazione all’assistito imputabile al fatto di quest’ultimo;

– fare chiarezza sui rapporti tra la notificazione mediante consegna al difensore e gli altri criteri dettati dal codice di procedura penale per le notificazioni degli atti all’imputato.

In sostanza, si perde l’ennesima occasione di rivisitare l’intera materia delle notificazioni, introduce un nuovo sistema snello, razionale e tecnologicamente al passo con i tempi, prevedendo interventi, seppur positivi, parziali. Non si può tralasciare, infatti, che, allo stato attuale, appare anacronistica ai limiti del ridicolo la necessità di una doppia notifica cartacea pro manibus, in specie ove la pratica venga analizzata alla luce di un contesto economico-sociale forgiato dalla dipendenza tecnologica che, attraverso l’istantaneo appagamento delle esigenze individuali, ha plasmato lo stile di vita dell’umanità contemporanea, immersa in una realtà caratterizzata dalla rapidissima circolazione delle informazioni e dalla sempre più pregnante presenza della scienza nella vita quotidiana (fatta eccezione, purtroppo, per il processo penale).

Art. 15

Incidendo su indagini preliminari ed udienza preliminare, le modifiche che dovrebbero investire la fase pre-dibattimentale, sarebbero tutte incentrate sulla volontà di contrarre la dilatazione delle tempistiche che la caratterizzano e sul rafforzamento della funzione di “filtro” dell’udienza preliminare, nonché sull’inutilità dello svolgimento di dibattimenti defatiganti e fondati su prove incerte

Con l’art. 15 lett. a) il Pubblico Ministero, per richiedere il rinvio a giudizio deve avere prove che facciano pronosticare una sentenza di condanna. Cambia la regola di giudizio ex art. 125 delle disposizioni di attuazione. La ragione della modifica è deflattiva, ma si riscontrerebbe l’interferenza del piano dibattimentale con quello investigativo, che presuppone una rinuncia alla fisiologica progressiva costruzione della prova (principio ispiratore del codice di procedura penale vigente).

Specularmente viene modificata la regola di giudizio in capo al G.U.P., di cui all’art. 425 comma 3 c.p.p., secondo cui il rinvio a giudizio viene limitato ai casi per i quali si prospetti l’elevata probabilità della colpevolezza dell’imputato.

Il principio del “ragionevole dubbio” della fase dibattimentale verrebbe così ad insinuarsi nella fase prodromica del rito. Un’udienza preliminare, quindi,  che somiglia sempre più ad un primo grado di giudizio, in cui è inevitabile che il giudice si presti a valutazioni di carattere sostanziale, con il rischio di  influenzare la fase decisoria finale.

Proprio perchè il G.U.P sarebbe investito di una maggiore responsabilità decisoria, a fronte comunque di un impianto probatorio assai limitato, la riforma prevede, al fine di vincere tali resistenze una redazione più snella della sentenza ex art. 425 comma 1 c.p.p., espungendo, la lettera d), dai requisiti dettati dall’art. 426 comma 1 c.p.p, richiedendo all’estensore solo un’esposizione sommaria dei motivi imprescindibili di fatto e di diritto.

In sostanza, sembra che la scelta del legislatore sia orientata ad abdicare alle possibilità di accertare (con il dibattimento o con riti alternativi) o di negoziare (con il potenziamento di forme “patteggiate” di risposta giudiziaria) in tema di responsabilità penali, privilegiando l’archiviazione e/o la sentenza di n.l.p..

Segue art. 15

Con le lettere c), d), e), f), si prevede la rimodulazione dei termini di durata delle indagini e l’obbligo di definizione dei procedimenti in termini brevi, graduati in relazione alla natura e alla gravità dei reati.

In modo neanche troppo velato, il messaggio posto a fondamento di tale prospettiva di riforma è che la lunghezza delle indagini dipende in buona parte dall’inerzia dell’organo requirente, piuttosto che dalla corsa ad ostacoli e trabocchetti rappresentata dall’attuale codice di procedura penale.

La definizione dei procedimenti penali entro termini così contingentati, come quelli previsti dalle lettere sopra indicate dell’art. 15 del d.d.l. di riforma sarà possibile solo nel caso in cui i ruoli gestiti dai singoli magistrati siano numericamente sostenibili e gli organici degli Uffici giudiziari (in termini di magistrati, personale amministrativo e polizia giudiziaria) siano al completo.

Si prevede, poi, che se entro tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini preliminari o nei diversi termini di cinque e quindici mesi dalla stessa scadenza nei casi dell’articolo 407, comma 2, lettera b) e, rispettivamente, comma 2, lettera a),  numeri  1),  3)  e  4),  del  codice  di  procedura  penale, il Pubblico Ministero, non emette avviso ex art. 415bis c.p.p. o richiesta di archiviazione, incorre – in caso di dolo o negligenza inescusabile (art. 15, lett. f), g) ) – in illecito disciplinare. In concreto, vi possono essere varie ragioni che impediscano di provvedere a ciò. Si pensi a casi di coordinamento investigativo in relazione a due o più indagini collegate, di una o più Procure, che impediscano la discovery, anche se i predetti termini sono scaduti.

In ogni caso, con formulazione generica, si prevede che il termine può essere ritardato dal P.M. con provvedimento motivato e per un periodo di tempo limitato.

Il magistrato, inoltre, potrebbe sempre giustificarsi dimostrando di essersi uniformato ai criteri di priorità enucleati nel progetto organizzativo della Procura della Repubblica (cfr. art. 15 lett. i)).

L’art. 15 lett. h) prevede che a seguito della modifica dei termini delle indagini preliminari, venga ripristinato, altresì, l’istituto dell’avocazione per inerzia, così come formulato prima della novella n. 103 del 23 giugno 2017.

Con la lettera i) si prevede che gli uffici del Pubblico Ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, selezionino le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre sulla base di criteri di priorità trasparenti e predeterminati, indicati nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica e redatti periodicamente dai  dirigenti degli  uffici.

A parte la dubbia costituzionalità di tale norma, se la si affianca con le altre previsioni della legge delega contenute nella parte relativa all’ordinamento giudiziario ne consegue il fortissimo rischio di consegnare la scelta di quali reati perseguire nelle mani di pochi magistrati direttivi, dotati di poteri indiscussi di gestione degli uffici. Questa non è la rappresentazione offerta dalla Costituzione (in particolare, art. 104, 107 e 112 cost.). Il legislatore vorrebbe attenuare questa rigidità prevedendo che  nella elaborazione dei criteri di priorità il procuratore della Repubblica curi in ogni caso l’interlocuzione con il procuratore generale presso la corte d’appello e con il presidente del tribunale e tenga conto:

– della specifica realtà criminale e territoriale;

– delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili;

– delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti;

– della redazione periodica, da parte del CSM, di criteri di priorità e trasparenza che gli uffici del Pubblico Ministero sono tenuti a seguire durante l’attività di selezione delle notizie di reato.

A parte la valutazione negativa generale sopra indicata su questa dirompente modifica, appare anche contraddittoria la sua formulazione: se il Procuratore della Repubblica valuta come pervasiva la presenza del crimine organizzato nel suo territorio, ma si rende conto che le risorse tecnologiche, umane e finanziarie sono del tutto inadeguate (come accade in molti distretti che seppure non tradizionalmente “mafiosi” oggi registrano le continue presenze di gruppi organizzati italiani e stranieri) cosa deve fare? Abdicare al traguardo più difficile perché oggettivamente non dispone di strumenti adeguati e quindi indicare di perseguire furti e abusi edilizi? Oppure deve dare priorità al crimine organizzato pur sapendo di non avere i mezzi, sottraendo risorse ai reati più “semplici”, così esponendosi ad un bilancio negativo in futuro, con danno per la propria immagine professionale?

1. Quando vennero introdotti gli strumenti alternativi di definizione delle lite, di matrice anglosassone, si disse che la magistratura era stata dotata finalmente degli strumenti per assicurare una risposta tempestiva alla domanda di giustizia.

Analogo approccio propagandistico venne adottato all’indomani della introduzione del processo civile telematico, senza chiarire all’opinione pubblica e, ancor prima, ai magistrati, che l’operazione determinava altresì il passaggio a carico di questi ultimi di compiti che, anche sulla base dell’attuale codice di rito civile (art. 130 c.p.c.), sarebbero riservati ai cancellieri.

Con la recente proposta di riforma del processo civile, del processo penale e dell’ordinamento giudiziario elaborata dal Ministro della Giustizia Bonafede si cavalca l’onda mediatica generata dai noti eventi per introdurre, in un coacervo di disposizioni innovative prive di un minimo comune denominatore, alcune riforme di cui non vengono sempre adeguatamente ponderate le ricadute sul piano applicativo.

Un primo dato balza agli occhi immediatamente: si sbandierano gli obiettivi di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo civile (proclamando una stretta correlazione tra competitività del Paese e tempi della giustizia civile), ma non si fa cenno ai carichi di lavoro sostenibili da ciascun magistrato, alla mole inesigibile di istanze dalle quali ognuno è gravato, all’assenza di risorse, sul piano umano ed economico, dalla quale è endemicamente caratterizzato il sistema giustizia.

Un timido approccio costruttivo lo si intravede nell’obiettivo di realizzare, mediante lo strumento di una dotazione di pianta flessibile, una task force di magistrati che dovrebbe aggiungersi alla dotazione di pianta degli uffici giudiziari interessati e che dovrebbe determinare, in generale, l’introduzione di un regime di flessibilità delle piante organiche del territorio distrettuale (per un approfondimento si rinvia alla parte curata da Ileana Fedele).

1.1. La principale modifica che si intende introdurre nell’ambito del processo civile è la sostituzione dell’articolato procedimento ordinario di cognizione con un rito semplificato modellato sull’elastico schema procedimentale del rito sommario.

Le linee direttrice lungo le quali si intende agire sono rappresentate a) dalla semplificazione del processo (in primo grado e in appello), b) dalla riduzione dei riti e dalla loro semplificazione, c) dalla introduzione di strumenti di istruzione preventiva affidata agli avvocati (nella fase della negoziazione assistita).

Non ho mai visto, quale giudice civile, l’attuale rito (recte, gli attuali riti) a disposizione delle parti come un ostacolo, per la sua (loro) farraginosità, alla rapida definizione dei giudizi. Tutto è perfettibile, ma a me sembra che la struttura del processo civile sia di buona qualità e rappresenti un giusto punto di equilibrio tra le esigenze di giustizia e quelle di rispetto dei diritti di difesa e del contraddittorio.

La sommarizzazione generalizzata del processo civile, semmai, potrebbe scaricare sui giudizi di impugnazione gli effetti di eventuali scelte sbagliate nella gestione del rito (sul punto si rinvia alle osservazioni di Silvia Vitrò).

Siamo proprio sicuri che la qualità della giurisdizione civile verrebbe migliorata intervenendo sul rito, rendendolo peraltro poco duttile, o i rischi connessi, ad esempio, ad una degiurisdizionalizzazione dell’istruttoria svincolata dal filtro terzo e imparziale del giudice (ci si riferisce, soprattutto, all’attività di istruzione stragiudiziale nell’ambito della procedura di negoziazione assistita per favorire soluzioni transattive, connotata dall’acquisizione di dichiarazioni da parte di terzi su fatti rilevanti in relazione all’oggetto della controversia e dalla sollecitazione alla controparte alla confessione stragiudiziale – art. 2735 c.c. -, nonché dall’acquisizione di informazioni dalla p.a. – sul contenuto di atti e provvedimenti -; sul tema si rimanda alle note di Eugenia Italia e Fabio Doro) potrebbero essere maggiori dei vantaggi che si intende conseguire?

Anche con questo preannunciato intervento normativo si dimentica superficialmente che il collo di bottiglia è costituito dalla fase decisoria e che la semplificazione del rito non costituisce di per sé, in assenza di un aumento delle risorse (oltre che di una migliore distribuzione delle stesse), la panacea per risolvere il problema dell’arretrato.

Ed allora le tre principali novità che caratterizzano la sostituzione del rito ordinario con quello sommario, quanto al processo di cognizione di primo grado davanti al tribunale in composizione monocratica (eliminazione della possibilità di conversione; introduzione di un sistema di preclusioni destinate a consentire la fissazione del thema decidendum ancor prima dell’udienza di prima comparizione delle parti; anticipazione della definitiva cristallizzazione del thema decidendum a dieci giorni prima dell’udienza di comparizione delle parti; per l’analisi della fase introduttiva ed istruttoria dinanzi al tribunale in composizione monocratica si rinvia alle note a firma di Antonella Stilo), altro non sono che ‘specchietti per le allodole’ finalizzati a distogliere l’attenzione dal vero problema che attanaglia il sistema giustizia. Al contempo, la previsione secondo cui il rinvio tra l’udienza di trattazione e quella istruttoria non deve superare i 110 giorni (art. 3.1., b)-6)) è effimera.

1.2. Inserendosi nel solco di precedenti interventi normativi, vengono previste: a) l’esclusione del ricorso obbligatorio, in via preventiva, alla mediazione in materia di colpa medica e sanitaria, contratti finanziari, bancari e assicurativi (sono sufficienti altri istituti finalizzati ad agevolare una soluzione stragiudiziale della controversia, quale, in materia di responsabilità medica e sanitaria, l’a.t.p. disciplinato dalla l. 8.3.2017, n. 24); b) l’esclusione del ricorso obbligatorio alla negoziazione assistita nel settore della circolazione stradale; c) l’estensione della mediazione obbligatoria alle controversie derivanti dai contratti di mandato e da rapporti di mediazione; d) l’estensione della negoziazione assistita facoltativa alle materie di cui all’art. 409 c.p.c. Per un’analisi delle ricadute sul piano pratico delle preannunciate modifiche si rinvia alle note di Michele Ruvolo. Quanto alla individuazione delle attività processuali che costituiscono per la parte condizione per potere chiedere l’indennizzo per irragionevole durata del processo, vedasi Fabio Di Lorenzo.

1.3. Quanto alla fase decisoria, mi limito a segnalare nella presente sede che, prevedendo la relativa possibilità come alternativa rispetto al vaglio del giudice sulla complessità della controversia, le parti o, almeno, una di esse (quella che ritiene di poter perdere la lite e, quindi, ha più interesse ad un differimento) tendenzialmente chiederanno (anche in assenza di complessità) un rinvio per la discussione ad altra udienza.

Al contempo, il concetto di note difensive è estremamente più vago e generico rispetto a quello, ormai consolidato, di comparse conclusionali (e di memorie di replica).

1.4. Con riferimento all’appello (per il quale si rinvia all’approfondimento a cura di Danilo Chieca), appaiono opportuni sia il chiarimento (art. 6.1., lett. b) sull’art. 346 c.p.c. (nel senso che le domande ed eccezioni non accolte, siccome ritenute assorbite, in primo grado devono essere riproposte, a pena di decadenza, entro il termine perentorio di 20 giorni prima della data di udienza) sia l’abrogazione dell’art. 348 bis c.p.c. (che ha creato più problemi di quanti ne abbia risolti, tra l’altro scaricando di fatto sulla cassazione un carico non indifferente di nuovo contenzioso).

Non si considera, peraltro, che, di regola, in assenza di attività istruttoria, l’udienza di trattazione, all’esito della quale le parti dovrebbero essere invitate a precisare le conclusioni ed il collegio dovrebbe pronunciare la sentenza, è quella fissata dall’appellante, sicchè il collegio stesso rinvierà la causa ad altra udienza (questa volta di discussione), non fosse altro perché il numero di cause definibili all’udienza di trattazione non dipende da un disegno organizzativo del giudice.

1.5. Apprezzabile è la consacrazione sul piano normativo del principio di chiarezza e di sinteticità degli atti di parte e del giudice (art. 7.1., lett. d), così come l’introduzione del divieto di sanzioni processuali sulla validità degli atti per il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico dell’atto, quando questo abbia comunque raggiunto lo scopo (art. 7.1., lett. e).

In ordine al primo profilo (sul quale vi sono le osservazioni di Silvia Vitrò), va ricordato che, in tema di ricorso per cassazione, il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali che, fissato dall’art. 3, comma 2, del c.p.a., esprime tuttavia un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile, espone il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, non già per l’irragionevole estensione del ricorso (la quale non è normativamente sanzionata), ma in quanto rischia di pregiudicare l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c., assistite – queste sì – da una sanzione testuale di inammissibilità.

1.5. L’esperienza negativa del passato a volte non sempre insegna qualcosa. Nell’abrogato processo societario una delle novità che vennero più aspramente criticate fu quella della previsione della cd. ficta confessio (art. 13, comma 2, del d.lgs. n. 5 del 2003), in palese contrasto con il costante riconoscimento di una valenza di per sé neutra alla contumacia del convenuto.

Ora il legislatore intende reintrodurre l’istituto (art. 9.1., lett. e), sia pure nel limitato ambito dei giudizi di scioglimento delle comunioni (per la cui disamina si rinvia al contributo di Dario Cavallari), prevedendo che il giudice, in assenza di contestazioni sul diritto alla divisione (nulla quaestio), “compresi i casi di contumacia di una o più parti”, disponga lo scioglimento della comunione con ordinanza non revocabile.

Estremamente pericolosa, prestandosi a facili strumentalizzazioni ed elusioni, è la legittimazione riconosciuta al debitore, nell’ambito delle procedure di espropriazione immobiliare, a chiedere l’autorizzazione alla vendita diretta (sul tema si rinvia all’ampia disamina a cura di Emanuela Musi), ponendosi problemi per certi versi simili a quelli che sono sorti, in ambito fallimentare, avuto riguardo, in particolare, alla natura forzata di questo tipo di vendita e agli effetti “purgativi” alla stessa connessi.

Si inserisce nel solco dell’intento di rimpinguare le anemiche casse dello Stato la previsione secondo cui il beneficiario delle sanzioni pecuniarie, in caso di responsabilità aggravata, è la Cassa Ammenda e Prestiti, anziché la controparte (sulla relativa questione si rinvia allo scritto di Fabio Di Lorenzo).

2. Solo all’art. 30 (lett. d) si opera un fugace riferimento ai “carichi esigibili”, ma al solo fine di valutare in concreto la negligenza inescusabile del magistrato che non abbia adottato misure per definire i processi civili e penali da lui iniziati nel termine massimo all’uopo previsto (di quattro anni quanto al giudizio di primo grado; tre anni quanto al giudizio di secondo grado; due anni quanto al giudizio di legittimità). A tal ultimo riguardo, una domanda nasce spontanea: che senso ha prevedere l’obbligo di adottare misure per definire rapidamente i processi pendenti se poi, in concreto, queste misure non sono attuabili? Sembrerebbe che costituisca illecito disciplinare la mancata adozione delle dette misure. E la loro mancata attuazione sul piano pratico?

Ed ancora: quali sono le misure che il magistrato dovrebbe adottare per definire i processi civili e penali da lui iniziati nel termine di quattro anni quanto al giudizio di primo grado? Il calendario del processo (artt. 3, lett. b, punto 8 – quanto ai processi civili -, e 17, lett. a – quanto ai processi penali -) ? Non si è considerato, tra l’altro, quanto al giudizio di legittimità, che i ruoli di udienza, in cassazione, sono predisposti dai presidenti di sezione.

Ulteriore criticità: costituisce specifico illecito disciplinare la mancata adozione delle misure, da cui derivi per negligenza inescusabile il mancato rispetto dei termini in più di un terzo dei processi civili e dei processi penali iniziati dal magistrato (art. 30.1., lett. b). Sembra quasi una istigazione a lasciare andare alla deriva fino a un terzo (1/3) delle cause presenti sul ruolo. Senza tralasciare, ovviamente, che naturaliter la propensione di ogni magistrato sarà nel senso di privilegiare la definizione dei processi di minor complessità.

Riemergono, in modo però non programmatico, i criteri di priorità nella trattazione degli “affari”. Ciò avviene nel disciplinare le indagini preliminari e l’udienza preliminare (art. 15, lett. i), prevedendosi che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme  esercizio dell’azione penale, selezionino le notitiae criminis da trattare con precedenza rispetto alle altre sulla base di criteri di priorità trasparenti e predeterminati, nel regolamentare le funzioni direttive e semidirettive (art. 24.2., lett. b)-3)), stabilendosi che il progetto organizzativo delle procure della Repubblica contengano in ogni caso “i criteri di priorità nella trattazione degli affari”, e nell’introdurre le piante organiche flessibili distrettuali (art. 47, nella parte in cui sostituisce l’art. 5, co. 3, della l. 13.2.2001, n. 48), prevedendosi che, con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il CSM, siano, tra l’altro, definiti i criteri di priorità per destinare i magistrati della pianta organica flessibile alla sostituzione (nei casi di assenza dall’ufficio) ovvero per assegnare gli stessi per far fronte alle condizioni critiche in cui versa un ufficio.

Diventano nevralgici i menzionati criteri di priorità, che dovranno essere elaborati periodicamente dai dirigenti degli uffici, previa interlocuzione con il procuratore generale presso la corte d’appello e con il presidente del tribunale, dovranno essere indicati nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica e dovranno tener conto “della specifica realtà criminale e territoriale, delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili e delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti”.

3. Nell’ambito del processo penale, a fronte di taluni elementi positivi (l’intervento seppur minimale in tema di notificazioni, i poteri delgGiudice dell’udienza preliminare, con la previsione di una fase pre-dibattimentale che possa essere realmente deflattiva, con il mutamento della regola di giudizio ex art. 425 comma 3 c.p.p., e di rimando, dell’art. 125 norme att. c.p.p.), restano numerose criticità e perplessità. Per i relativi approfondimenti si rinvia a David Mancini, Luigi Cuomo, Aldo Natalini (avuto riguardo, in particolare, ai riti speciali) e, anche in una prospettiva de iure condendo, Alessandro De Santis.

4. Apprezzabile risulta l’eliminazione, nella stesura attuale, dell’originaria abrogazione ex lege dei semidirettivi (sullo specifico profilo, si rinvia ai commenti, estesi anche alle funzioni direttive, di Santi Bologna, di Silvia Vitrò e di Tony Nicastro)  Se si voleva tutelare l’autonomia dei singoli magistrati, l’obiettivo certamente non sarebbe stato raggiunto creando capi degli uffici che sarebbero stati dei “domini” assoluti all’interno dei Tribunali e delle Procure, sostanzialmente liberi di selezionare la semidirigenza. Anche a voler prescindere dalla palese violazione dell’art. 105 Cost. che in tal guisa operando si sarebbe realizzata, non vi è chi non veda che solo un sistema di regole trasparenti e di indicatori specifici può evitare che i ruoli di vertice si trasformino in occasioni di esercizio arbitrario dei poteri. La gerarchizzazione delle Procure non ha dato buona prova di sé, come i noti eventi purtroppo testimoniano. Ciò nonostante, si intendeva estenderla anche agli uffici giudicanti. La sottrazione al CSM di questa competenza avrebbe, del resto, determinato un forte accentramento verso la dirigenza giudiziaria, al pari di quanto è già avvenuto nelle Procure.

E’ vero, semmai, il contrario: in un sistema di bilanciamento, connotato da pesi e contrappesi, è proprio la nomina dei semidirettivi sottratta al capo dell’ufficio che consente di ‘compensare’ il potere di quest’ultimo, che altrimenti diverrebbe senza limiti e tale da condizionare l’attività dei magistrati da lui scelti.

5. In ordine al profilo dell’aumento irragionevole delle ipotesi di illecito disciplinare (su cui vedasi Santi Bologna), con particolare riferimento alla tutela dei soggetti che avrebbero dovuto segnalare illeciti dei magistrati e del personale amministrativo degli uffici giudiziari (art. 25, eliminato nella versione che attualmente circola), si rinvia a Francesco Lo Gerfo, non senza qui evidenziare che la norma reintrodurrebbe, di fatto, surrettiziamente la figura del sicofante (modernizzato) contro magistrati e cancellieri sgraditi, fornendogli l’anonimato e l’impunità di fatto.

6. Sul sistema elettorale dei componenti togati del CSM non mi soffermerò, rimandando agli approfondimenti tematici (ed in particolare, all’articolo di Salvo Leuzzi, contenente anche una proposta costruttiva). Mi permetto qui solo di evidenziare che siamo al cospetto di una rappresentatività senza vincolo di mandato, che il metodo di scelta è una “elezione” e che il sorteggio (in qualunque fase collocato) si rivelerebbe senz’altro incostituzionale (siccome in contrasto con l’art. 103, co. 4, Cost.).

Siamo poi sicuri che il CSM, sul piano della trasparenza, verrebbe migliorato o la via della responsabilizzazione passa sempre e comunque attraverso una elevazione degli standard deontologici e comportamentali?

La sfiducia nel possesso da parte della categoria di magistrati di anticorpi per combattere le pressioni esercitate dall’esterno ed i virus presenti all’interno ha indotto il legislatore a cadenzare in modo rigoroso il procedimento di elezione dei componenti togati (artt. 38-41): si va dalla individuazione (con decreto del Ministro della giustizia) dei collegi almeno tre mesi prima del giorno fissato per le elezioni, alla convocazione delle elezioni (fatta dal CSM) almeno 60 giorni prima della data stabilita per l’inizio della votazione), al termine stringente di 7 giorni dalla pubblicazione dell’elenco dei magistrati sorteggiati per la presentazione, ad opera degli stessi, della loro candidatura, alla pubblicazione degli elenchi dei candidati (distinti per singolo collegio) almeno 7 giorni prima della data della votazione, alla previsione che ogni elettore riceve una scheda ed esprime il proprio voto per un solo magistrato. Lo scopo è chiaro: impedire ai gruppi associativi di organizzarsi per fare opera di proselitismo (per una approfondita disamina, che trae origine dal preliminare inquadramento del Consiglio superiore nell’ambito dell’architettura costituzionale, v. Fulvio Troncone).

Ma siamo proprio sicuri che le degenerazioni cui si è assistito nell’ultimo periodo, in assenza di un percorso virtuoso nella direzione di un innalzamento dell’etica, verranno bandite completamente?

7. Nel rinviare per le modifiche che si intende introdurre in tema di valutazioni di professionalità alle osservazioni di Andrea Penta, quanto allo specifico profilo del ricorso ad uno psicologo (sul cui tema rimando alla nota a firma della Professoressa Barbara Segatto e alle osservazioni di Eugenia Italia), ricordo quando nel 2003 l’onorevole Silvio Berlusconi lanciò un’idea non troppo dissimile, definendo, in un’intervista al periodico britannico Spectator, i magistrati come “mentalmente disturbati”. Nel solco di questa esternazione, il Guardasigilli dell’epoca, Roberto Castelli, ipotizzò anche d’introdurre i test.

Non mi piacciono le preconcette “difese di categoria”. Il riconoscimento della delicatezza del ruolo svolto da un magistrato comporta che l’empatia e, soprattutto, la stabilità mentale siano di basilare importanza.

E’ il metodo che trovo sbagliato. Mi meraviglierei molto se lo squilibrio mentale di un collega emergesse solo in occasione delle valutazioni quadriennali di professionalità. Se veramente anomalie di carattere psichico significative esistessero, il capo dell’ufficio sarebbe tenuto a segnalarle a prescindere e senza attendere le dette valutazioni periodiche.

Ed ancora: perché allora non estendere l’ipotesi di utilizzare uno psicologo per selezionare il titolare di un importante incarico pubblico o introdurla per i titolari di un incarico pubblico elettivo, che pur svolgono funzioni altrettanto delicate?

Ed infine mi domando, ragionando per assurdo: e se all’esito della valutazione dello psicologo dovesse emergere che un magistrato versa in uno stato di forte stress determinato dall’eccessivo e non gestibile carico di lavoro che ha inciso sul suo equilibrio psico-fisico, il collega sottoposto a valutazione di professionalità potrebbe instaurare una causa risarcitoria contro il Ministero per ottenere il ristoro del pregiudizio in tal guisa patito?

7.1. Nel restituire una maggiore rilevanza all’anzianità quale indice sintomatico di esperienza nell’esercizio delle funzioni, si parte da un presupposto: che le varie valutazioni di professionalità siano state effettive e personalizzate. Un presupposto che, come l’esperienza ci insegna, è tutto (almeno allo stato) da dimostrare. E’ evidente, infatti, che, a parità (ma solo a parità) di valutazione di professionalità (reso sulla base dei diversi parametri da prendere in considerazione), un magistrato che abbia dimostrato di avere capacità e/o attitudini per un periodo più ampio debba essere preferito rispetto ad un altro che, pur ugualmente meritevole, lo abbia fatto per un periodo più ridotto.

8. Piero Calamandrei, nell’Elogio scritto da un avvocato, sosteneva che “Proprio per questo dovrebbero essere i giudici i più strenui difensori dell’avvocatura: poiché solo là dove gli avvocati sono indipendenti, i giudici possono essere imparziali; solo dove gli avvocati sono rispettati, sono onorati i giudici; e dove si scredita l’avvocatura, colpita per prima è la dignità dei magistrati, e resa assai più difficile ed angosciosa la loro missione di giustizia”.

Non mi preoccupa la convivenza con gli avvocati, perché ritengo che la magistratura e l’avvocatura rappresentino due corpi indefettibili del sistema giustizia. Ciò che mi preoccupa è il rischio di strumentalizzazioni.

Molti interventi sul piano normativo determinerebbero di fatto anche un ampliamento delle aree dalle quali i professionisti (e, in primo luogo, gli avvocati) potrebbero attingere per ottenere incarichi, a detrimento delle sfere di competenza dei giudici, e, quindi, consentire ai primi il realizzo di maggiori entrate economiche. La scelta annida dentro di sé un recondito scopo propagandistico, ma non mi diffonderò sulla stessa. Il riferimento è, in particolare, agli artt. 2, lettere e) (il quale prevede una semplificazione della procedura di negoziazione assistita, anche utilizzando un modello di convenzione elaborato dal Consiglio Nazionale Forense), f) (il quale consente, nell’ambito della procedura di negoziazione assistita, un’attività istruttoria con la necessaria partecipazione di tutti gli avvocati che assistono le parti coinvolte), g)-4) (il quale contempla una maggiorazione del compenso degli avvocati, in misura non inferiore al 30%, anche con riguardo al successivo giudizio, che abbiano fatto ricorso all’istruttoria stragiudiziale; per quanto, nel successivo n. 5, sia previsto, a mò di contraltare, che il compimento di abusi nell’attività di acquisizione delle dichiarazioni costituisca per l’avvocato grave illecito disciplinare), 9, lett. a) (che, nell’ambito delle controversie aventi ad oggetto lo scioglimento delle comunioni, prevede un obbligatorio procedimento di mediazione pregiudiziale innanzi ad un notaio o a un avvocato; nel qual caso la determinazione dei compensi da riconoscersi al professionista per l’espletamento di tale procedimento è rimessa ad un decreto ministeriale), 10, lett. g) (che, nell’ambito dei procedimenti di espropriazione immobiliare, prevede la delega, da parte del giudice dell’esecuzione, ad uno dei professionisti iscritti nell’elenco di cui all’art. 179-ter disp. att. c.p.c. della riscossione del prezzo e delle operazioni di distribuzione del ricavato).

Le disposizioni “pericolose” sono gli artt. 24, lett. a) (nella parte in cui prevede, nell’ambito dei procedimenti per la deliberazione dei posti direttivi, l’obbligo di sentire tra l’altro, sia pure con le modalità stabilite dal CSM, i rappresentanti dell’avvocatura) e 26.1., lett. a) (che introduce il diritto cd. di tribuna, vale a dire il diritto dei componenti non togati – avvocati e professori universitari – del consiglio giudiziario di assistere alle discussioni e deliberazioni relative alla formulazione di pareri sull’attività dei magistrati sotto il profilo della preparazione, della capacità tecnico-professionale, della laboriosità, della diligenza, dell’equilibrio nell’esercizio delle funzioni). Un conto è, infatti, acquisire preventivamente e per iscritto le motivate e dettagliate valutazioni del consiglio dell’ordine degli avvocati avente sede nel luogo dove il magistrato esercita le sue funzioni e, se non coincidente, anche del consiglio dell’ordine degli avvocati avente sede nel capoluogo del distretto (art. 15, co. 1, lett. b, d.lgs. n. 25/2006), un altro conto è consentire una partecipazione (silenziosa?) dell’avvocatura. E ciò non in quanto vi siano scheletri negli armadi da nascondere, ma perché delle due l’una. Ma perché si percepirebbe inevitabilmente la mera presenza fisica dei componenti non togati come un segnale di sfiducia nei confronti della componente togata ed alla stregua di un “cavallo di Troia” fatto entrare con l’inganno nei sancta sanctorum dei consigli giudiziari.

9. Di un testo normativo, soprattutto se, come quello in esame, in fieri, è anche metodologicamente sbagliato porre in rilievo solo gli aspetti negativi, senza segnalare gli eventuali passaggi condivisibili.

Oltre a quelli già indicati in precedenza, meritano, a mio modo di vedere, di essere evidenziati i seguenti:

  1. la previsione di un termine non superiore a 60 giorni entro il quale la p.a., cui siano state richieste informazioni ai sensi dell’art. 213 c.p.c., deve trasmetterle o deve comunicare le ragioni del diniego (art. 11, lett. c; sul punto si rinvia alle osservazioni di Fabio Di Lorenzo);
  2. la previsione che i procedimenti per la deliberazione dei posti direttivi e semidirettivi siano tendenzialmente avviati ed istruiti secondo l’ordine temporale con cui i posti si sono resi vacanti (art. 24.1., lett. a);
  3. la previsione – finalizzata ad assicurare una continuità nello svolgimento dell’incarico – che le funzioni direttive e semidirettive possano essere conferite esclusivamente ai magistrati che, alla data della vacanza del posto messo a concorso, assicurino almeno 4 anni di servizio prima della data di collocamento a riposo (art. 24.1., lett. n);
  4. la previsione secondo cui il termine per i tramutamenti su domanda sia ridotto a tre anni per i magistrati che esercitano le funzioni presso la sede di prima assegnazione (art. 27.1., lett. g);
  5. la regolamentazione al passo coi tempi della disciplina dell’accesso in magistratura (art. 27; tema approfondito da Santi Bologna).

10. Concludo ringraziando tutti i colleghi che, ritagliando piccoli spazi di tempo in un periodo dell’anno in cui le energie psico-fisiche sono agli sgoccioli, hanno dato la loro disponibilità ad approfondire le questioni sottese al ddl in esame, dimostrando di nutrire la passione per il confronto dialettico, pur delusi per le pratiche distorte divenute di recente di dominio pubblico di cui l’intera magistratura deve fare severa autocritica.

Rapporto 2014 di Eurojust. Aumento del 14,5 per cento dei casi di cooperazione giudiziaria rispetto al 2013 (da 1.576 a 1.804). Stabili le riunioni di coordinamento e le squadre investigative comuni. Settori prioritari: frode, traffico di droga, crimine organizzato itinerante, reati PIF (protezione interessi finanziari), traffico esseri umani, corruzione, cybercrime, immigrazione illegale, terrorismo. Altri settori: riciclaggio di denaro, crimini ambientali, pirateria marittima, protezione di minori. Aumento cooperazione con Paesi terzi. Accordi.

Il Presidente di Eurojust, Michele Coninsx, ha trasmesso il Rapporto Annuale delle attivita’ svolte nel 2014, la cui versione in italiano e’ stata teste’ pubblicata sul sito http://www.eurojust.europa.eu. Il Rapporto fa stato di un complessivo rafforzamento delle attivita’ e del profilo dell’Agenzia, il cui bilancio per l’anno in oggetto e’ stato pari a 33,6 milioni di Euro, con un tasso di attuazione del 99,82 per cento.

Durante l’anno in oggetto l’Agenzia ha affrontato 1.804 casi di cooperazione giudiziaria rispetto ai 1.576 del 2013 (con un incremento del 14,5 per cento) ed ha tenuto riunioni di coordinamento cui hanno partecipato 1.882 autorita’ giudiziarie straniere, inclusi magistrati, giudici e funzionari di polizia. Come ricordato dalla Presidente Coninsx, il Rapporto 2014 si concentra sia sui mandati di arresto europeo (MAE), oltre che sulle sfide e le migliori prassi nell’ambito di traffico di stupefacenti e di criminalita’ informatica. Inoltre, nel corso dell’anno, Eurojust ha sostenuto 122 squadre investigative comuni (SIC), di cui 45 costituite nel 2014. In 266 occasioni, la cooperazione dell’Agenzia e’ stata richiesta nell’esecuzione di mandati d’arresto europei.

Per quanto attiene alle riunioni di coordinamento, il loro numero e’ rimasto stabile rispetto all’anno precedente (dopo il sostanziale aumento verificatosi nel 2011): esse sono state richieste prevalentemente da Regno Unito, Francia e Germania, mentre gli Stati piu’ frequentemente richiesti erano Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna. Il Rapporto afferma con soddisfazione: ”il fatto che si sia tenuto un numero leggermente inferiore di riunioni di coordinamento a fronte della registrazione di un maggior numero di casi presso Eurojust riflette l’impegno continuo dell’Agenzia volto a promuovere e a potenziare questo strumento, selezionando i casi per i quali si rivela adatta una riunione di coordinamento”. Per quanto concerne i centri di coordinamento, attualmente ve ne sono dieci, di cui due in Italia. Per quanto attiene alle SIC, Eurojust ha ricevuto 59 notifiche da parte degli Stati: il Rapporto afferma che in particolare ”le SIC si sono inoltre evolute in uno strumento flessibile e di rapida attuazione ai fini della cooperazione con i Paesi terzi”, su cui Eurojust ha fornito il suo supporto per l’avvio di sette SIC riguardanti Paesi terzi (di cui tre costituiti nel 2014). Si ricorda a questo proposito la decima riunione annuale della rete degli esperti nazionali in materia di SIC che Eurojust ha ospitato nel giugno u.s..

Per quanto concerne i settori di intervento, Eurojust ha trattato casi relativi a settori prioritari per un ammontare pari al 65 per cento del totale. Tali settori sono: frode, traffico di droga, crimine organizzato itinerante, reati PIF (protezione interessi finanziari), traffico esseri umani, corruzione, cybercrime, immigrazione illegale, terrorismo. Sulla frode (560 casi, 60 riunioni di coordinamento e 32 squadre investigative comuni), i principali richiedenti di assistenza sono stati Ungheria, Austria e Slovenia, mentre i maggiori destinatari sono stati Regno Unito, Germania e Spagna. Sulla corruzione (55 casi e 9 riunioni di coordinamento), i principali richiedenti sono stati Spagna, Grecia, Croazia, Italia e Lettonia, mentre i maggiori destinatari sono stati Regno Unito, Austria, Germania e Paesi Bassi. Sui reati PIF (70 casi nel 2014 rispetto ai 31 nell’anno precedente), i Paesi piu’ richiedenti sono stati Ungheria, Bulgaria, Malta e Polonia, mentre i maggiori destinatari sono stati Germania, Regno Unito e Repubblica Slovacca. Il crimine organizzato itinerante ha invece interessato 128 casi e 13 riunioni di coordinamento, con valori in diminuzione rispetto ai livelli dell’anno precedente; i Paesi piu’ richiedenti sono stati Francia, Polonia, Belgio e Repubblica Ceca, mentre i maggiori destinatari sono stati Francia, Italia, Danimarca e Romania. In merito al contrasto al traffico di droga, i casi sono aumentati a 283 mentre le riunioni di coordinamento sono diminuite a 52: i principali richiedenti sono stati Spagna, Italia e Slovenia, mentre Spagna, Paesi Bassi e Italia sono stati i maggiori destinatari di richieste di assistenza. In netto aumento i procedimenti relativi al cybercrime (42 casi, 15 riunioni di coordinamento e 6 SIC), gli Stati maggiormente richiedenti sono stati Romania, Regno Unito ed Ungheria, mentre i maggiori destinatari sono stati Francia, Danimarca e Paesi Bassi. Sull’immigrazione clandestina (32 casi, 10 riunioni di coordinamento e 9 SIC, cifre in aumento rispetto al 2013), i Paesi maggiormente richiedenti sono stati Regno Unito, Ungheria ed Italia, mentre i maggiori destinatari sono stati Italia, Francia e Regno Unito. Sul terrorismo (14 casi, 4 riunioni di coordinamento e 2 SIC), i Paesi maggiormente richiedenti sono stati Spagna, Paesi Bassi, Portogallo e Regno Unito, laddove Germania, Francia e Belgio sono stati i maggiori destinatari. Infine, per quanto concerne la tratta di esseri umani (71 casi e 12 riunioni di coordinamento), Bulgaria, Regno Unito e Romania sono stati i maggiori richiedenti, mentre Romania, Germania ed Italia sono stati i maggiori destinatari. Oltre ai settori prioritari, Eurojust si e’ occupata di riciclaggio di denaro (220 casi), crimini ambientali (5 casi), pirateria marittima, protezione di minori (14 casi).

Per quanto concerne la cooperazione con organi o agenzie esterne, Europol si configura come il principale partner, essendo stata coinvolta in 44 casi ed in 98 riunioni di coordinamento. La cooperazione fra le due Agenzie continua a basarsi sull’Accordo del 2009. Come afferma il Rapporto, ”l’aumento significativo nel numero delle riunioni di coordinamento di Eurojust a cui ha presenziato Europol (75 nel 2013) indica che gli sforzi sostenuti da Eurojust nel rafforzamento dei legami operativi hanno riscontrato un certo successo”. In secondo luogo viene l’Ufficio per la lotta anti-frode (OLAF), con cui Eurojust coopera grazie all’Accordo del 2008: nel 2014 la collaborazione si e’ concretizzata in 4 casi. In terzo luogo vengono le varie altre Agenzie di giustizia e affari interni (CEPOL, EASO, EIGE, EMCDDA, FRA, FRONTEX). Per quanto concerne gli Stati terzi, il Rapporto fa stato della conclusione di un accordo di cooperazione con la Moldova, e ribadisce l’importanza di stipulare analoga intesa con l’Ucraina. In fase di valutazione sarebbe l’eventuale avvio di negoziati con Albania, Bosnia Erzegovina, Israele, Serbia, Turchia. Di tutti i 1804 casi del 2014, 208 hanno riguardato richieste di cooperazione giudiziaria con Paesi non membri dell’Unione Europea: i piu’ frequenti sono stati Svizzera, Norvegia e Stati Uniti d’America (che sono risultati anche quelli piu’ frequentemente coinvolti nelle riunioni di coordinamento, assieme all’Ucraina). In aumento, inoltre, la nomina di punti di contatto Eurojust da parte di Paesi terzi.

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di Roberta D’Onofrio

1. L’ “effettiva conoscenza” del processo da parte dell’imputato nella riforma dell’art. 175 cpp.

Il principio della “effettiva” conoscenza del processo da parte dell’imputato non risultava codificato, nel nostro ordinamento giuridico, quantomeno fino alla riforma dell’istituto della rimessione in termini, come introdotta dal D.L. 21 Febbraio del 2005 n.17 convertito nella Legge 22 Aprile 2005 n.60.

Fino a quel momento il nostro ordinamento era improntato al modello della conoscenza “legale” del processo da parte dell’imputato,  non tenuto ad alcun obbligo di informazione, fondato unicamente sul principio della ritualità delle notificazioni.

In effetti, l’originaria disciplina codicistica prevedeva la possibilità della restituzione nel termine, per proporre impugnazione avverso la sentenza contumaciale o l’opposizione al decreto penale di condanna, esclusivamente  per l’imputato che provasse di non aver avuto effettiva conoscenza del provvedimento, sempre che l’impugnazione non fosse stata proposta dal difensore e il fatto non fosse dovuto a sua colpa ovvero, qualora la sentenza contumaciale fosse stata notificata mediante consegna al difensore nei casi previsti dagli artt. 159, 161 comma 4 e 169, il soggetto non si fosse sottratto alla conoscenza degli atti del procedimento.[1]

Ma il sistema legale di conoscenza del processo da parte dell’imputato coniato dal legislatore italiano, fondato su presunzioni,  è risultato in stridente contrasto con l’art. 6 Cedu : la sentenza Somogyi c. Italia n. 67972/01 del 18 maggio 2004 e la sentenza Sejdovic c. Italia n. 56581/00 del 10 novembre 2004, difatti, dimostrano come a ben poco siano valsi gli sforzi del nuovo codice di procedura penale intervenuto nel 1988 e le successive interpolazioni normative volte ad una risistemazione della disciplina della contumacia .[2]

Il caso Somogyi riguardava un’inchiesta per traffico d’armi nell’ambito della quale veniva imputato un cittadino ungherese, Tamas Somogyi. Il giudice delle indagini preliminari di Rimini aveva fatto notificare in Ungheria l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, tradotto in lingua magiara, a mezzo di una semplice lettera raccomandata, che fu, poi, restituita al Tribunale di Rimini con la firma del destinatario. Successivamente il Sig. Somogyi, non presentandosi all’udienza preliminare né al dibattimento, fu dichiarato contumace, difeso da un avvocato d’ufficio e condannato ad anni otto di reclusione con sentenza definitiva del 22 giugno 1999. Arrestato in Austria, estradato in Italia e condotto in esecuzione pena, egli dichiarò di non aver mai avuto conoscenza “effettiva”  delle imputazioni mosse a suo carico, né della pendenza del processo nei suoi confronti.  La sua richiesta di restituzione nel termine per impugnare di cui all’art. 175 comma 2 c.p.p., presentata al giudice dell’esecuzione, venne, poi,  rigettata il 24 ottobre 2000 con la considerazione che il ricorrente avrebbe dovuto presentare un cosiddetto appello tardivo dal momento che la suddetta restituzione sarebbe stata ammissibile solo nel caso di mancata conoscenza della condanna per causa di forza maggiore, nel cui ambito non poteva ricondursi anche  la volontaria sottrazione alla conoscenza degli atti del procedimento da parte dell’imputato. A questo punto il sig. Somogyi, in data 5 Marzo del 2001, proponeva ricorso alla Corte di Strasburgo sostenendo la non conformità della sua condanna in contumacia ai principi dell’equo processo consacrati nell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La Corte adìta ribadiva, da un lato, che l’assenza di un imputato in un processo a suo carico non fosse di per sé stessa incompatibile con l’art. 6 della Convenzione,ma, al contempo stabiliva il seguente principio:  “vi è un diniego di giustizia quando un individuo condannato in absentia non può ottenere successivamente che una giurisdizione statuisca di nuovo, dopo averlo sentito, sul merito dell’accusa in fatto e in diritto, ove non sia stabilito in maniera non equivoca che abbia rinunciato alla sua facoltà di comparire e di difendersi, né che abbia avuto l’intenzione di sottrarsi alla giustizia”.

Con la sentenza Somogyi, quindi, l’Italia veniva condannata per  la violazione dell’art. 6 sull’equo processo.

Nella mancata risposta del legislatore interno, la Corte di Strasburgo  veniva sollecitata, poi, nuovamente, e si pronunciava con la sentenza Seidovic contro Italia prima che  si intervenisse sulla disciplina della restituzione in termini con il D.L. 21 febbraio 2005 n. 17, convertito con la l. 22 aprile 2005 n. 60.

La sentenza Sejdovic, del 10 novembre 2004, infatti, riconosce un vero e proprio difetto strutturale del sistema giuridico italiano che lo rende non conforme ai principi della Convenzione e indica le misure di carattere generale atte ad impedire la ripetizione di situazioni analoghe a quelle riscontrate nel caso in esame.[3]

In questa occasione il governo Italiano era invitato a garantire il diritto delle persone iniquamente condannate in contumacia ad ottenere che una giurisdizione statuisse di nuovo, dopo averle sentite nel rispetto delle esigenze di cui all’art 6 Cedu, sul merito delle accuse, suggerendo altresì due possibili soluzioni: sopprimere tutti gli ostacoli normativi alla restituzione del termine per impugnare ovvero prevedere la celebrazione di un nuovo giudizio. Si era evidenziata, quindi, l’inadeguatezza dell’art 175, comma 2 c.p.p., il quale non costituiva quel rimedio che consentisse automaticamente la riapertura del procedimento in favore del condannato giudicato in abstentia, precedentemente mai informato in maniera effettiva delle pendenze a suo carico e non rinunciante inequivocabilmente al suo diritto a presenziare.[4] Nel caso in esame il giudice europeo aveva statuito che il mancato ritrovamento dell’imputato, il quale aveva lasciato il territorio italiano nell’immediatezza dei fatti oggetto di giudizio e pertanto dichiarato contumace, non poteva elevarsi ad indice di una consapevole rinuncia a comparire, mancando la prova dell’esistenza di una comunicazione ufficiale.

In risposta al monito europeo, il legislatore ha inciso su due punti: la restituzione nel termine e il regime delle notificazioni. Con le modifiche all’art. 175 c.p.p., l’obiettivo del legislatore è stato quello di garantire in modo più concreto la possibilità di un’impugnazione della sentenza contumaciale da parte del condannato che non risultasse essere stato pienamente – effettivamente-  informato dell’esistenza di un procedimento a suo carico rinunciando a prendervi parte attiva, sia partecipando al giudizio che presentando impugnazione; ampliando i termini per presentare la richiesta di restituzione nel termine, infine, si è inteso rendere più agevole il ricorso all’istituto previsto dall’art. 175 c.p.p. consentendo a chi fosse realmente ignaro di una pendenza giudiziaria a proprio carico di avvalersi degli strumenti “riparatori” apprestati dall’ordinamento.

Il comma 2 dell’art. 175 c.p.p., nella sua formulazione successiva al D.L. 21 febbraio 2005 n. 17, convertito con la l. 22 aprile 2005 n. 60,   prevede che il soggetto giudicato in contumacia ha diritto alla restituzione nel termine «salvo che … abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento e abbia volontariamente rinunciato a comparire ovvero a proporre impugnazione. A tal fine l’autorità giudiziaria compie ogni necessaria verifica».

Stando all’interpretazione letterale, avallata da autorevole dottrina, [5] le due condizioni impeditive per accedere alla restituito in integrum sarebbero alternative tra loro: provata l’effettiva conoscenza del procedimento oppure la rinuncia a comparire in giudizio, nessuna importanza sarebbe stata assegnata alla mancata cognizione- in maniera effettiva- del provvedimento conclusivo dello stesso. In tal modo il legislatore ha voluto escludere che il soggetto, il quale si disinteressi “volontariamente” del processo che lo coinvolge, possa poi avanzare richiesta di restituzione nel termine per impugnare.

La novella introdotta dalla riforma del 2005, dunque, assume una portata “rivoluzionaria” rispetto ai principi fino ad allora vigenti in termini di partecipazione dell’imputato al processo.

Fino a quel momento era rimasto in auge il principio della “presunzione di conoscenza legale” del processo da parte dell’imputato ove risultasse rispettato lo schema legale del regime notificatorio. L’unica possibilità di scalfire siffatto impianto presuntivo, per l’imputato ignaro, era la remota possibilità che questi dimostrasse la propria mancata effettiva conoscenza per cause tipizzate di “forza maggiore o caso fortuito”. L’onere della prova di siffatti eventi atipici ed eccezionali incombeva integralmente su colui che chiedeva la restituzione in termini.

A seguito della novella del 2005, invece, si è operata una”rivoluzione copernicana” del sistema, soprattutto in punto di onere della prova.  

Nell’attualità, infatti, è stato introdotto in capo al giudice l’obbligo di compiere la necessaria verifica per accertare che l’imputato fosse effettivamente a conoscenza del procedimento a suo carico sgravandosi, pertanto, l’interessato dall’onere di fornire la probatio diabolica della prova negativa della conoscenza.

Si aggiunga, poi, che  la restituzione in termini da istituto quasi inaccessibile (ante 2005) è divenuto  un vero e proprio istituto aperto anche alle ipotesi in cui gli indici presuntivi della conoscenza risultino ambigui o contraddittori ossia laddove la prova della conoscenza del processo sia basata su indici ‘ deboli’ di cui si parlerà meglio nel proseguo.

Il che risulta a maggior ragione rivoluzionario ove si rifletta sugli stretti collegamenti fra la norma di cui all’art. 175 c.p.p. e l’art. 670, comma III, cpp il quale ne richiama la disciplina nella ipotesi di domanda di restituzione in termine per l’impugnazione della sentenza irrevocabile inoltrata al Giudice dell’essecuzione.

La norma, invero, non brilla di linearità e chiarezza per ciò che attiene l’ individuazione dell’oggetto dell’effettiva conoscenza da parte dell’imputato capace di determinare la preclusione alla restitutio in integrum. In particolare, il dubbio interpretativo nasce dall’utilizzo del termine “procedimento” che, inteso in senso tecnico, appare riferirsi a tutta la sequenza procedimentale dalla acquisizione della notitia criminis fino alla sentenza definitiva. Come affermato da dottrina e giurisprudenza, risulta essere idoneo, a fondare l'”effettiva” cognizione del procedimento, il primo ‘contatto ufficiale’ con l’iter processuale, anche se distante nel tempo dalla vocatio in iudicium.

Tali conclusioni  non sembrano andare, però,  esenti da critiche poiché, almeno nell’ottica della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, la conoscenza “effettiva” del procedimento presuppone, ex art. 6, un atto formale di contestazione idoneo ad informare l’accusato, nel più breve tempo possibile, in una lingua comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico, al fine di consentirgli di difendersi nel “merito”. [6]

La norma, così come introdotta con il D.L. 21 febbraio 2005 n. 17, convertito con la l. 22 aprile 2005 n. 60, lascia insoluti non pochi problemi pratici: il legislatore non è riuscito a delineare un preciso spartiacque tra una conoscenza legale ed una effettiva del procedimento. Se, da un lato,  ha sgravato l’imputato dal rendere prova della propria non conoscenza, non ha specularmente introdotto dei criteri atti ad orientare l’organo giudicante per una verifica circa l’effettiva conoscenza che il soggetto possa avere del giudizio a suo carico.

Difatti , anche la modifica in tema di notificazioni lascia margini di incertezza. Anzitutto, le condizioni per ottenere la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello da parte dell’imputato ex art. 603 comma 4 c.p.p non sono state coordinate con il nuovo testo dell’art. 175 c.p.p. Il soggetto restituito nel termine è ancora onerato, per poter ottenere la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, a dimostrare che la sua mancata comparizione in primo grado non sia dovuta ad un proprio comportamento colpevole o che non si sia volontariamente sottratto alla conoscenza degli atti del procedimento. Ben potrà accadere, quindi, che, nonostante la restituzione nel termine per impugnare, il soggetto non ottenga un vero e proprio “nuovo processo” perdendo, in ogni caso, il diritto al doppio grado di merito e l’opzione per i riti alternativi a carattere premiale. Nel contempo, non si è colta l’occasione per rivedere completamente il meccanismo delle notificazioni: un sistema basato su una conoscenza “legale” al momento del controllo sulla regolare costituzione delle parti mal si concilia con la verifica sulla conoscenza “effettiva” imposta al giudice al fine di negare la restituzione nel termine ex art. 175 c.p.p. Occorrerebbe, invece, un controllo più rigoroso dei motivi della non presenza dell’imputato in udienza, dando reale preferenza alle forme di notificazioni a mani proprie. Numerosi sono i punti che il legislatore ha lasciato insoluti, il che ridonda  a svantaggio dell’organo giudicante.

Si pensi alle ipotesi in cui, anche una volta divenuta irrevocabile  la sentenza ( e ciò in base al richiamo espresso contenuto nell’art. 175 c.p.p. all’articolo 670 c.p.p. da leggersi in combinato disposto), il condannato avrebbe potuto facilmente sollevare eccezioni circa la mancata effettiva conoscenza del procedimento svoltosi a proprio carico, seppur formalmente il regime notificatorio fosse, secondo i parametri legali, rispettato. Pertanto, il giudice adìto ai sensi dell’articolo 670 c.p.p. è chiamato a controllare la validità del titolo esecutivo, sia sotto il profilo dell’esistenza del provvedimento da cui trae origine che sotto quello della sua esecutività.[7] La richiesta ex art 175 c.p.p, d’altro canto, presuppone in linea generale, che vi sia divergenza tra conoscenza legale ed effettiva della decisione, mentre la declaratoria di non esecutività trova la necessaria premessa nel difetto di conoscenza legale del provvedimento. Il legislatore, expressis verbis, ha ovviato a tale differenza di regime concependo l’istanza formulata ai sensi dell’art. 175 come subordinata all’accertamento della validità del titolo esecutivo, nel senso che potrà esserci una decisone sulla restituzione solo nel caso di rigetto della questione sulla non esecutività del titolo. La verifica della corretta notificazione del titolo esecutivo deve avvenire sotto il profilo meramente formale, essendo l’indagine affidata al giudice dell’esecuzione limitata al controllo  dell’effettiva esistenza del titolo esecutivo e della sua legittima formazione, mentre resta estranea , agli effetti di tale verifica, la conoscenza piena – effettiva- che del titolo abbia avuto l’imputato. Siffatta, invero,  potrà solamente rilevare ai fini di un’istanza di restituzione del termine, spettando al giudice il potere di valutare la ricorrenza dei presupposti per l’accoglimento della stessa.[8]

2. Dal principio dell’ “effettiva conoscenza” del processo a quello del processo in “absentia”

Lo sfondo legislativo fin qui tratteggiato permette di cogliere in pieno laratiodella riforma del 2014, che ha abolito la contumacia ed è stata salutata con favore nella parte in cui ha introdotto la possibilità di sospendersi il processo nei confronti dell’imputato ignaro.

La ratio del d.l. 21 febbraio 2005, n.17, poi convertito dalla L. 22 aprile 2005, n.60, risiede nella necessità,  di introdurre un sistema aggiuntivo ed ulteriore, rispetto all’ordinario regime notificatorio – sul quale il legislatore non ha in alcun modo inciso- per consentire all’Autorità Giudiziaria di vagliare l’effettiva conoscenza del processo da parte dell’imputato e di sospenderne il giudizio laddove ricorrano indici sintomatici di mancata conoscenza; dall’altro, nella volontà di rimediare al “difetto strutturale” del sistema codicistico italiano, individuato dalla Corte europea, nell’assenza di un meccanismo effettivo volto a concretizzare il diritto delle persone condannate in contumacia (e che non siano state effettivamente informate del procedimento a loro carico e a condizione che non abbiano rinunciato in maniera certa e consapevole a comparire ) ad ottenere che una giurisdizione esamini nuovamente il caso, nel rispetto dei principi di cui all’art. 6 Cedu.

Su questo panorama si innesta la L. 67 del 2014 la quale si è mossa seguendo alcune direttrici: abolizione del rito contumaciale; sospensione del processo nei confronti degli irreperibili di fatto; nuova regolamentazione del c.d. processo in assenza; previsione di rimedi restitutori, volti a permettere all’imputato di ottenere una nuova pronuncia nel merito in primo grado ove non abbia potuto partecipare al processo.

È così rimasta ferma l’impostazione originaria del codice di rito: partecipare al processo è un diritto dell’imputato, non è un obbligo.

 La rinuncia a tale diritto presuppone la conoscenza delle accuse a carico e poiché per l’irreperibile di fatto  tale conoscenza è solo ipotetica il processo va sospeso.

Nel caso in cui la prova della mancata partecipazione al processo per legittimo impedimento o per mancata conoscenza del processo intervenga successivamente alla sua celebrazione, operano i rimedi restitutori. Il processo è celebrato in assenza quando l’imputato rinuncia espressamente a partecipare o quando vi sono degli elementi da cui desumere che egli abbia avuto conoscenza dell’esistenza del procedimento.[9]

Punto fermo in questa disamina deve restare il concetto che la L. 67 del 2014 non incide sulla normativa in tema di notifiche,  che resta salda nel suo impianto ordinario.

Ciò che la novella si propone di apportare come fattore di novità è il passaggio da una conoscenza legale del procedimento ad una conoscenza effettiva: si valorizzano tutti quegli indici che, anche in ipotesi atipiche ovvero di una conoscenza ‘non qualificata’ del procedimento, permettono di far evincere che il soggetto abbia avuto contezza degli addebiti a proprio carico consentendo, in tal modo, la celebrazione in sua assenza.

Secondo la nuova formulazione dell’articolo 420-bis comma 1 c.p.p.,se l’imputato, libero o detenuto non è presente all’udienza e, anche se impedito, ha espressamente rinunciato ad assistervi non si pone alcun problema di sorta per l’organo giudicante: egli procederà in sua assenza e non sussiste alcuna violazione dei propri diritti, ricorrendo in tal caso una rinuncia non equivoca al diritto di partecipare al processo.

La rinuncia espressa deve essere in equivoca, consapevole e volontaria ed implica che l’imputato conosce anche l’accusa sulla quale si fonda il processo.

Siffatta non può non essere intesa come atto personalissimo, in quanto tale insuscettibile di essere surrogato con una manifestazione di volontà che sia espressa dal mero difensore.

Oltre alla rinuncia la quale presuppone una dichiarazione di volontà espressa di mancata partecipazione alla prima udienza (e si badi bene non al processo tout court considerato) , il legislatore ha introdotto una serie di “indici presuntivi” dell’effettiva conoscenza, quelle che la dottrina definisce delle ‘inedite fictiones‘ in tema di conoscenza del processo.[10]

Secondo la lettera della legge, vi sono fatti sintomatici che impongono di presumere la conoscenza del procedimento, da tale conoscenza presunta si ricaverebbe, a sua volta ed in via presuntiva, la conoscenza dell’imputazione e della vocatio in iudicum. In effetti, anche la disciplina del processo in assenza risponde (come quella delle notifiche) all’esigenza fondamentale di porre il soggetto in condizioni di partecipare al giudizio a suo carico. [11]

Infatti, il tradizionale sistema delle notifiche, con tutta la sua disciplina, rimane a monte, sia in senso logico che temporale, rispetto agli accertamenti che il giudice è tenuto a compiere al fine di pronunciare l’ordinanza con la quale dispone di procedere in assenza dell’imputato. Ciò posto, la l. n. 67 del 2014 non vuole affatto eliminare (nel configurare la pienezza del contraddittorio) la conoscenza formale che deriva da una valida notifica; vuole però cambiare  profondamente il ruolo della notifica, dato che essa diventa ora solo un prerequisito del processo celebrato in assenza dell’imputato. [12] La novella, infatti, aggiunge alla conoscenza formale dell’atto (citazione per l’udienza), prodotta dalla notifica, un requisito ulteriore, consistente nella reale (non formale) conoscenza del procedimento da parte dell’imputato. Solo la combinazione di questi due requisiti consente al giudice di procedere in assenza dell’imputato. All’esito dei suddetti accertamenti  sulla regolarità delle notifiche e sull’eventuale impedimento a comparire dell’imputato o del suo difensore (prima fase) il giudice (se l’imputato non è comparso in udienza) potrà affrontare la questione del processo in assenza (seconda fase).

A questo punto egli dovrà accertare l’esistenza delle condizioni previste dal secondo comma dell’art. 420 bis c.p.p., ossia se risulti comunque con certezza che l’imputato sia a conoscenza del procedimento (o si sia volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo). Occorre allora analizzare singolarmente i casi di assenza ‘ non impeditiva’ contenuti nell’art. 420-bis commi 1 e 2 c.p.p. i quali, in tal modo, saldandosi con la valida verifica dell’avviso a monte –  verifica dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare contenente i requisiti dell’art. 419, comma 1 c.p.p. nel rispetto del termine a comparire ci cui all’art. 419, comma 4, c.p.p. nonché della norme in materia di notificazione- dovrebbero essere in grado di colorare di cosciente volontarietà l’assenza dell’imputato all’udienza e legittimare la decisione di procedere in assenza.

È di tutta evidenza che anche in questo quadro risolutorio possono crearsi delle perplessità data la differenziazione dei casi che involgono la conoscenza o meno del procedimento, difatti, in prima approssimazione, occorre tener distinti i casi di conoscenza – e quindi del regime notificatorio- forte o debole, ovvero ‘ qualificata’ o ‘ non qualificata’.[13]  Un regime notificatorio ‘ forte’ ovvero ‘ qualificato’ si può trovare nell’ipotesi di imputato che abbia ricevuto personalmente la notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza, oppure quando ha espressamente rinunciato a comparire all’udienza medesima. Una valida rinuncia espressa integra una ipotesi di assenza non impeditiva, derivante da conoscenza qualificata consentendo di raggiungere il massimo grado di certezza circa la contezza del soggetto in relazione al procedimento a proprio carico. Di qui, l’assoluta serenità per l’organo giudicante di dichiararne l’assenza. . In tal sede è da sottolineare come la novella non ha per nulla inciso sul sistema di notifica ammettendo così che la consegna a mani non sia l’unica e principale modalità poiché ad essa si somma la notifica a mezzo postale, la consegna da parte dell’incaricato del servizio postale o il ritiro della raccomandata effettuata dall’interessato.[14]

Di contro, la situazione del regime notificatorio ‘ debole’ o ‘ non qualificato’ si evidenzia nella situazione in cui l’imputato non sia a conoscenza certa e personale del provvedimento di fissazione dell’udienza preliminare, ad esempio per non avere ricevuto la notifica a mani proprie dell’avviso di udienza,  ma risulta che egli abbia avuto contezza della pendenza del procedimento a suo carico,  da evincersi attraverso la valutazione di uno degli indici sintomatici previsti dall’articolo 420-bis comma 2 cpp. In queste ipotesi, l’assenza dell’imputato il giorno dell’udienza preliminare, senza che sia addotto un impedimento, induce il giudice a procedere in assenza ma l’imputato che successivamente non risulti essere  a conoscenza del procedimento a suo carico potrà esperire i rimedi resi tutori.

Se, infatti, la rinunzia al diritto di partecipare al processo presuppone la conoscenza effettiva delle accuse da parte dell’imputato, al di fuori dei casi in cui la notificazione è effettuata nelle mani dell’interessato (situazione questa alla quale può essere equiparato il ritiro diretto o da parte di un delegato del plico presso l’Ufficio postale), non è possibile far discendere la conoscenza dell’atto dalla regolarità delle notificazioni “deboli”, giacché, in questi casi,  non sempre la conoscenza legale coincide con la conoscenza “effettiva e personale” del provvedimento.

La novella sembra affidarsi ad alcuni meccanismi presuntivi: si è ritenuto che l’elezione del domicilio, la nomina del difensore di fiducia e l’esecuzione di un provvedimento limitativo della libertà personale, poiché generalmente implicano la conoscenza del procedimento, consentano di attribuire all’assenza dell’imputato il significato di una rinunzia tacita ad esercitare personalmente il diritto di difesa. Sennonché, non necessariamente a una delle situazioni ricomprese nell’elenco stilato dal legislatore, corrisponde realmente la consapevolezza dell’imputato circa l’esistenza del procedimento. E anche accettando l’idea che la sussistenza dei presupposti indicati dall’art. 420-bisc.p.p. attesti la consapevolezza della pendenza di un procedimento penale, far derivare da ciò la presunzione che l’imputato non comparso sia a conoscenza dell’accusa posta a suo carico e abbia consapevolmente rinunciato al suo diritto di partecipare al processo sembra eccessivo.

L’elezione di domicilio indubbiamente è funzionale a favorire le notificazioni, agevolando le autorità competenti nella ricerca dei luoghi in cui potere effettuare la consegna dell’atto. In mancanza di una modifica del regime delle notificazioni, tuttavia, è inevitabile chiedersi se il legislatore con la riforma abbia voluto realmente rafforzare il diritto dell’imputato ad essere presente al processo o sia stata realizzata un’opera machiavellica atta nascondere i segni di un sistema lacunoso.[15]

Critiche, soprattutto, devono rivolgersi alla disciplina delle notificazioni ad interposta persona che consente di ritenere raggiunta la conoscenza dell’atto mediante una mera fictio iuris.[16]

L’indagato (o imputato) è chiamato a collaborare lealmente alla notificazione indicando il luogo in cui vuole ricevere gli atti con una dichiarazione o elezione di domicilio che ha effetti tendenzialmente estesi all’intero procedimento ivi compresa la fase del giudizio.

L’art. 161 c.p.p. stabilisce che, nel primo atto compiuto con l’intervento della persona sottoposta alle indagini, il P.M. o la P.G. devono invitare l’indagato ad eleggere domicilio per le notificazioni avvertendolo che ha l’obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto e che, in mancanza di tale comunicazione o nel caso di rifiuto di dichiarare o eleggere domicilio, le notificazioni verranno eseguite mediante consegna al difensore. Prevede poi che analogo invito debba essere formulato dall’autorità giudiziaria quando per la prima volta notifica un atto all’imputato o indagato. In tal caso egli deve essere avvisato che, se la dichiarazione o elezione di domicilio risulterà mancante, insufficiente o inidonea le successive notificazioni verranno eseguite nel luogo in cui l’atto è stato notificato. Con l’invito a dichiarare o eleggere domicilio l’indagato è messo a conoscenza della pendenza del procedimento ed è invitato a indicare dove vuole ricevere tutti gli atti successivi. Avendo fornito questa indicazione,  egli ha l’onere di comunicare eventuali mutamenti del domicilio dichiarato o eletto e viene informato (a pena di nullità ex art.171 comma 1 lett e) che se non lo farà gli atti potranno essere validamente notificati presso il difensore ovvero nel luogo in cui è avvenuta la prima notifica. Da quanto esposto emerge che, se vi è stata dichiarazione o elezione di domicilio, la eventuale mancata conoscenza della celebrazione del processoè tendenzialmente imputabile, secondo il principio ispiratore della riforma,  ad una sorta di negligenza dell’interessato che infatti si può dolere solo se l’omessa comunicazione del mutamento del domicilio dichiarato o eletto è dipesa da caso fortuito o forza maggiore (art. 161 comma 4 ultima periodo).

In coerenza con tale impostazione,  la novella legislativa ha previsto che si possa procedere in assenza dell’imputato che “nel corso del procedimento  abbia dichiarato o eletto domicilio”.

Il ragionamento è chiaro: l’imputato ha avuto conoscenza del procedimento quando ha dichiarato o eletto domicilio; ciò gli avrebbe consentito – se si fosse comportato secondo diligenza – di venire a conoscenza della celebrazione del processo e, se lo avesse voluto, anche della data d’udienza. Se non è presente, quindi, è perché ha rinunciato ad esserlo o perché non si è adoperato, come avrebbe potuto o dovuto fare, per ricevere le informazioni a lui destinate. A regime delle notificazioni invariato, sembrerebbe che la sussistenza di uno degli indicatori tipici considerati dall’art. 420-bis c.p.p. consenta di celebrare il processo in assenza a prescindere dalle modalità con cui sia stata effettuata la notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare. «Con il paradosso per cui si dovrebbe procedere in absentia anche nei confronti dell’imputato divenuto irreperibile o al quale la comunicazione della data del processo sia stata comunicata al difensore d’ufficio per l’impossibilità sopravvenuta di procedere alla notifica nel domicilio dichiarato eletto».[17]  

In questi casi, cioè, in base ad una interpretazione rigoristica degli indici sintomatici dell’effettiva conoscenza del processo se la notificazione dell’avviso è stata effettuata regolarmente, ove ricorra, ad esempio, l’elezione del domicilio da parte dell’imputato, essendovi in atti la prova della conoscenza del procedimento, il processo dovrebbe essere comunque celebrato in assenza, salvo poi l’imputato dimostrare che, a causa della irreperibilità sopravvenuta, non si è avuta effettivaconoscenza del processo, con conseguente operatività dei rimedi restitutori. Con i limiti, tuttavia, derivanti dall’aver posto nuovamente a carico dell’interessato la prova che l’assenza è stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo. Rimettendo, così, però, il legislatore,  alla scelta del  giudicante la responsabilità di celebrare un processo nei confronti di un soggetto del quale sia dubbia la effettiva conoscenza del processo, pur in presenza di un indice sintomatico  (una presunzione) di effettiva conoscenza. Non può non rilevare, sul punto, l’interprete, infatti, come l’indice presuntivo della conoscenza del procedimento rappresentato dalla elezione di domicilio non possa non avere un contenuto più  significante variabile a seconda che sia intervenuto all’inizio o nel corso del procedimento o, addirittura, nel processo,  ed in conseguenza del diverso contegno processuale intrattenuto dall’imputato nel corso del procedimento o del processo. 

Altro indicatore sintomatico è che durante le indagini il soggetto sia stato ‘arrestato, fermato, o sottoposto a misura cautelare’. Ma anche in questo casa i  dubbi non sono pochi : trattasi di provvedimenti che potrebbero essere stati adottati diversi anni prima, o disposti da un’ autorità differente od ancora essere relativi a fatti diversi.[18] L’idea, altresì, che dalla mera esecuzione di tali provvedimenti discenda una sorta di onere d’informazione, a carico dell’indagato, sugli sviluppi futuri del procedimento non convince perché non tiene adeguatamente conto del monito della giurisprudenza della Corte europea attenta a non fare affidamento solo su elementi presuntivi, bensì a considerare l’effettiva conoscenza della esistenza del processo e la volontà non equivoca di parteciparvi. Senza trascurare che si tratta di un onere oggettivamente gravoso che rischia di fare aumentare il numero dei processi rispetto ai quali venga successivamente fornita la prova della incolpevole assenza dell’imputato.

La nomina del difensore di fiducia  è l’ultimo degli indici sintomatici previsti dalla legge.  Non dissimile dalle critiche mosse agli altri ‘indicatori’ preposti dal legislatore è quella movibile a quest’ultimo: se la nomina vale a dimostrare la consapevolezza del soggetto di essere sottoposto ad indagine penale in un certo momento, il rinvio a giudizio potrebbe arrivare a distanza di molti anni davanti ad una diversa autorità. Si consideri, poi, che il difensore di fiducia, nominato all’inizio del procedimento, potrebbe aver rimesso il mandato ancora in fase indagini, con ciò interrompendo ogni via informativa con l’assistito. Tale assetto presuntivo ha iniziato a far riflettere l’ermeneuta sulla validità o meno della elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio, in ragione,  più che di connotati astratti, della consistenza materiale del patrimonio informativo posseduto dall’indagato e della solidità e stabilità del suo stato personale e di soggiorno. Grazie a tale sviluppo concettuale si è formato l’orientamento giurisprudenziale più innovativo secondo cui le notificazioni al difensore d’ufficio sarebbero, di per sé, inidonee a dimostrare l’effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento in capo all’imputato, salvo che la conoscenza non emerga aliunde ovvero non si dimostri che il difensore d’ufficio sia riuscito a rintracciare il proprio assistito ed a instaurare un effettivo rapporto professionale con lui.[19]

Nel quadro descritto,  occorre soffermarsi anche sulla tematica  delle notifiche per compiuta giacenza. Nemmeno questa norma è stata incisa dalla novella, e quindi essa continua a regolare la relativa forma di notifica.  Anche in questo caso occorre ribadire  che le due fasi (notifica e processo in assenza) sono autonome, e vanno sottoposte a verifica ciascuna sulla base delle normative che le riguardano. Ne consegue che potrà esservi una valida notifica all’imputato (dell’avviso di udienza) anche se perfezionatasi “per compiuta giacenza”.Ma nella successiva fase in cui il giudice dovrà accertare se esistono le condizioni per procedere in assenza dell’imputato, sarà necessario accertare se l’imputato stesso abbia avuto conoscenza del procedimento, a prescindere dalla notifica avvenuta per compiuta giacenza, bensì sulla base di tutte le condizioni previste dal secondo comma dell’art. 420 bis c.p.p. .Pertanto, in presenza di -almeno una di- queste ultime, il giudice dovrà procedere in assenza dell’imputato, nonostante che la notifica dell’avviso di udienza gli sia stata notificata “per compiuta giacenza”.[20] E’ evidente che proprio il tema delle notifiche per compiuta giacenza offre i più sensibili spunti di riflessione in ordine alla necessità, in presenza di siffatto regime notificatorio per sua natura molto “debole”, di un maggiore e più attento controllo della valenza sintomatica dell’indice presuntivo dell’effettiva conoscenza che si vada, di volta in volta, a delineare. Ciò ove l’interpreti si spinga a ricercare non solo un’interpretazione letterale della novella di cui all’art. 420 bis cpp ma che sia orientata al rispetto non solo delle norme costituzionali ma anche delle norme della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo immediatamente alle prime interposte (vedasi l’art. 117 della Costituzione in richiamo ai principi di cui all’art. 6 CEDU)

3. Prospettive ermeneutiche a confronto

La novella delineata non è stata esente da critiche. Autorevole dottrina ha  equiparato il sistema delineato dalla Legge a quanto sancito in materia civilistica come il doppio passaggio praesumptum de praesumto. Vi sarebbero dei fatti sintomatici che impongono di presumere la conoscenza del procedimento e da siffatta conoscenza presunta del procedimento, si ricaverebbe, a sua volta, nuovamente in via presuntiva, la conoscenza dell’imputazione e della vocatio in iudicum; ancora, poi, da queste ultime si dovrebbe presumere la volontaria rinuncia a comparire.[21] In presenza di un fatto sintomatico, la conoscenza dell’accusa e del processo risulterebbe, ancora una volta,  affidata esclusivamente al meccanismo delle notificazioni. Di qui la particolarità: ci troveremmo davanti ad una catena di presunzioni che finisce con l’incidere sul diritto fondamentale dell’imputato di avere conoscenza del processo a suo carico.  Tuttavia, la descritta catena di presunzioni  avrebbe, secondo la citata dottrina, un anello debole, nella specie, nel punto in cui  la conoscenza del processo viene fatta ricavare dalla conoscenza del procedimento a mezzo di canoni fittizi in considerazione del fatto che  dal compimento di un atto di indagine possono passare anni e possono verificarsi sviluppi inaspettati al punto da cambiare completamente il quadro dell’originaria accusa.

In senso deteriore rispetto alla previgente disciplina della dichiarazione di contumacia, dunque, si porrebbe la novella introdotta con la L. 28 Aprile 2014 n.67 dal momento che mentre in passato era consentito al giudicante valutare liberamente l’improbabilità che l’imputato non avesse avuto effettiva conoscenza della prima udienza, attualmente sussisterebbero degli indici sintomatici codificati di conoscenza del “procedimento” (ad esempio, la nomina a difensore di fiducia, l’elezione di domicilio etc.) una volta constatata la presenza dei quali sarebbe precluso al giudicante ogni ulteriore valutazione.

E’ questa, l’impostazione di parte della Giurisprudenza[22] la quale, attenta al dato letterale dell’art. 420 bis c.p., sottolinea l’impossibilità, in concreto, per il giudicante di effettuare valutazioni concrete ed ulteriori rispetto alla conoscenza “effettiva” laddove ricorra unod egli  indici sintomatici prescelti dal legislatore per valutare la presumibile conoscenza del “procedimento” da parte dell’imputato.

Con la conseguenza che sarebbe anomalo, in presenza di alcuno degli indici suddetti, che il Giudicante si soffermasse al punto tale da dover disporre la rinnovazione della notifica a mani ex art. 420 quater c.p.p. e, nel caso di constatata impossibilità di rinnovazione della notifica a mani, addirittura fino ad arrivare a sospendere il processo.

E’ noto, infatti, che nel disegno del legislatore,  la mancata rinnovazione della notifica a mani in favore dell’imputato ai sensi dell’art. 420 quater cpp comporta che l’itinerario processuale rimanga  sospeso, con la sola possibilità di assumere, esclusivamente a richiesta di parte, prove non rinviabili secondo le modalità del dibattimento. Dopo un anno dalla dichiarazione di sospensione – e in seguito con cadenza annuale – sempre che il giudice non ne ravvisi anteriormente necessità, vengono disposte nuove ricerche ai fini di notificare l’avviso (art. 420-quinquies c.p.p.), con trasmissione dell’ordinanza di sospensione anche alla locale sezione di polizia giudiziaria, competente per le ulteriori ricerche ai sensi dell’art. 143 bis Disposizioni di Attuazione al Codice di procedura Penale. E’ noto, ancora come la sospensione del processo comporti anche la sospensione della prescrizione per un periodo non superiore a un quarto del termine massimo, elevabile a seconda della sussistenza o meno di situazioni di recidiva.[23] E’ notorio, ancora, come l’ordinanza di sospensione possa essere  revocata solo se le ricerche abbiano avuto esito positivo o se l’imputato nelle more abbia nominato un difensore di fiducia e in ogni altro caso in cui vi sia la prova certa che l’imputato abbia conosciuto il procedimento nei suoi confronti.

Ebbene, secondo l’impostazione interpretativa che privilegia il dato letterale di cui all’art. 420 bis cpp, sarebbe “anomalo”, addivenirsi alla sospensione del processo, con tutte le conseguenze in termini di empasse che ne deriverebbe, nelle ipotesi in cui ricorra pure un elemento sintomatico di conoscenza del processo, così come normativamente tipizzato.

4. Una  possibile soluzione

La soluzione del problema, a parere di chi scrive, non può prescindere dal tentativo di fornire una interpretazione che, oltre ad essere attenta al dato letterale, si ponga come concreta attuazione dei principi ispiratori instillati al legislatore interno dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Questo per il fatto che una interpretazione costituzionalmente orientata non può non essere illuminata dai principi dettati dalla Convenzione  per la Salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, così come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.    

A ben leggere, dunque, la disposizione di cui all’art. 420 bis c.p.p. è possibile trovare una soluzione interpretativa adeguatrice.

Il comma secondo dell’art. 420 bis del codice di procedura penale introduce, a conclusione dell’elenco degli indici sintomatici dell’effettiva conoscenza del procedimento da parte dell’imputato una ‘ clausola di chiusura’: ‘ il giudice procede altresì in assenza dell’imputato nel caso in cui l’imputato assente abbia ricevuto personalmente la notificazione dell’avviso dell’udienza ovvero risulti comunque con certezza che lo stesso è a conoscenza del procedimento’.

Considerando che la disciplina delle notificazioni è rimasta invariata e che , specularmente, la mera regolarità formale della notificazione non garantisce la conoscenza effettiva dell’atto, tale clausola, aperta nel suo contenuto, permette all’organo giudicante di accertare comunque, nel caso concreto la certezza della conoscenza del procedimento.

E ciò anche nelle ipotesi in cui ricorra uno o più degli indici presuntivi elencati nella prima parte del secondo comma del detto articolo ma ove gli stessi siano tanto risalenti nel tempo (o meglio collocati così all’inizio del procedimento) o poco significativi da far dubitare che una conoscenza iniziale del procedimento non si sia tradotta, poi, in conoscenza certa del processo.

E’ evidente come siffatta indagine risulti del tutto inutile in tutte quelle ipotesi in cui vi sia prova che l’imputato, in virtù di un regime notificatorio “forte”, abbia ricevuto personalmente la conoscenza della prima udienza. Si pensi ad esempio, alle notifiche a mani  dell’imputato od anche a mani dello stesso o di un familiare convivente con il medesimo, sia a mezzo dell’ufficiale giudiziario che del servizio postale. Parimenti si può ritenere uno strumento notificatorio “forte” il ritiro della raccomandata inoltrata a mezzo del servizio postale, prima che intervenga la compiuta giacenza, ritiro che deve essere  effettuato, per disposizione regolamentare sul servizio postale, direttamente dal destinatario oppure  a mezzo di delegato dal destinatario, peraltro con allegazione necessaria alla delega della fotocopia del documento di identità del delegante.

Al contrario, il problema della valorizzazione del canone della risultanza della conoscenza certa del procedimento da parte dell’imputato si pone in presenza di tutte le altre forme di notificazione “debole”, quali, ad esempio, i casi di notifica nelle mani del portiere dello stabile od a mezzo del servizio postale perfezionatasi con la compiuta giacenza o, soprattutto, nelle ipotesi di decretazione di irreperibilità.

In tutte queste ipotesi, dunque, il giudicante dovrà necessariamente porsi il problema della significatività e rilevanza degli eventuali indici sistematici dell’effettiva conoscenza di volta in volta rinvenuti nel processo.

Nulla quaestio, ovviamente, ove ricorra una nomina, da parte dell’imputato, del difensore di fiducia e questi sia sempre presente al dibattimento oppure nelle ipotesi in cui vi sia una elezione di domicilio relativamente recente.

Il problema, invero, dovrà porsi in tutti quei casi in cui gli indici sintomatici della presumibile conoscenza del “procedimento” non risultino più dotati di attualità al momento in cui il giudicante deve, in prima udienza dibattimentale, dichiarare l’assenza dell’imputato.

Si pensi, ad esempio, alle ipotesi in cui la nomina del difensore di fiducia sia intervenuta in una fase assai risalente delle indagini e , poi, lo stesso non sia mai comparso al dibattimento ad assumere la difesa del proprio assistito, soprattutto laddove il regime notificatorio della prima udienza dibattimentale sia molto debole (ad esempio per compiuta giacenza dovuta ad irreperibilità all’indirizzo di residenza del destinatario).

Oppure alla ipotesi di domicilio eletto dall’imputato straniero presso il difensore all’inizio del procedimento, love, poi, il difensore nominato esprima al dibattimento la rinuncia al mandato difensivo e, di fatto, sia impossibile comunicare siffatto atto all’imputato, resosi, ormai, non più reperibile al processo.

E, pure, a tutte quelle ipotesi in cui all’elezione di domicilio presso il difensore sia seguìta la rinunci al mandato difensivo.

In questi ed in tutti i casi in cui insorga un serio e fondato dubbio sulla “certezza della conoscenza del procedimento” deve intervenire il canone imposto dalla clausola di salvaguardia che impone al giudicante di valutare, caso per caso, la perdurante valenza probatoria del dato sintomatico. E questo per evitare processi nei confronti di “convitati di pietra”, processi che, poi, eventualmente risulterebbero inutilmente dati in quanto suscettibili di essere rescissi anche ove portati a cosa giudicata.

La  clausola di salvaguardia si biforca in due ipotesi: la prima secondo cui si procede nei confronti dell’imputato non comparso che risulti comunque con certezza a conoscenza del procedimento;  la seconda, per cui si procede nei confronti dell’imputato non comparso che volontariamente si sia sottratto alla conoscenza del procedimento. Difatti, tutte le situazioni che si è ritenuto non potessero rientrare o nella conoscenza ‘ qualificata’ o in uno dei tre indici sintomatici di cui sopra, possono comunque essere attratte nell’orbita della ‘ certezza della conoscenza’. [24] Tale clausola residuale è suscettibile di ricomprendere variegate situazioni, e sarà allora compito dell’interprete , di volta in volta, verificare se e a quale grado di consapevolezza l’ipotesi ‘ atipica’ riesca in concreto a soddisfare l’esigenza di contezza del procedimento in capo al soggetto.[25]

Tale clausola non è , nello stesso tempo, andata esente da critiche. In dottrina è stato osservato come pur non dovendosi dar rilievo alla ritualità formale della notifica ma all’esistenza di un complesso di circostanze capaci di fondare l’effettiva conoscenza del procedimento queste stesse possono essere sì collegate ma distinte rispetto alla condizioni di regolarità della notifica.[26] Si riporta l’esempio della notifica all’imputato non detenuto: la prima notificazione, ove non sia possibile consegnare la copia personalmente all’interessato, è eseguita nella casa di abitazione o nel luogo in cui l’imputato esercita abitualmente l’attività lavorativa, mediante consegna di una copia dell’atto a una persona che conviva anche temporaneamente o, in mancanza, al portiere o chi ne fa le veci (art. 157 c.p.p).

È stato osservato come ,in un’ottica garantista occorrerebbe dare rilievo ai soli rapporti familiari “qualificati”, come quelli esistenti tra genitori e figli minori e tra coniugi. L’ufficiale giudiziario, inoltre, dovrebbe verificare con scrupolo i vincoli di parentela o la sussistenza di un rapporto di convivenza, con specifica annotazione nella relata di notifica, occorrendo qualcosa di più della mera apparenza di una situazione di convivenza. [27]

In ogni caso, l’art. 420-bis c.p.p. va interpretato alla luce dei principi fondamentali che lo hanno ispirato.

Ne consegue che, non potendo acquisire rilievo la mera regolarità delle notificazioni ad interposta persona, dovrebbero ricercarsi altri elementi da cui desumere la certezza della conoscenza del procedimento da parte dell’imputato, in mancanza dei quali si impone la rinnovazione dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare. In questi casi, dunque, deve procedersi ai sensi dell’art. 420-quater c.p.p. pur non sussistendo, a rigore, né  un impedimento a comparire -che legittimi il rinnovo dell’avvisoexart. 420-ter c.p.p.- né una nullità della notificazione. Ciononostante, avendo un dubbio sulla certezza della conoscenza del procedimento,  il giudice dovrebbe tentare di notificare l’atto personalmente all’imputato avvalendosi della polizia giudiziaria. A questo punto, non trattandosi di un soggetto irreperibile, il provvedimento probabilmente riuscirà a essere consegnato nelle mani dell’interessato. Ove ciò non si verificasse, dovrebbe, in coerenza,  disporsi la sospensione del processo.

 Ed è sintomatico come sia proprio la dottrina ad auspicare  che si attribuisca al giudice alcuni spazi di discrezionalità con  forme di valutazione in concreto della volontarietà della rinuncia a comparire, anche quando essa sia implicitamente fondata sugli elementi sintomatici. L’organo giudicante dovrebbe godere di uno spazio di autonomia che possa fungere da cardine nell’intero sistema volto a verificare se l’imputato abbia o meno consapevolezza dell’esistenza del procedimento e abbia rinunciato a parteciparvi.

Per concludere, occorrerebbe  interpretare ciascuno degli indicatori dell’art. 420-bis c.p.p. non come una presunzione legale astratta e formalistica, ma come un fatto concreto e specifico secondo regole di consolidata esperienza. Spetta al giudice, dunque, valutare senza rigidi automatismi, bensì con le ordinarie cautele del ragionamento indiziario, se in concreto possa affermarsi con certezza l’effettiva conoscenza del procedimento o la volontaria sottrazione alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo.

Pertanto, è proprio  l’inserimento della descritta clausola di chiusura a rappresentare  la chiave di volta del sistema: essa permette al giudicante di non doversi necessariamente agganciare a rigidi automatismi nell’iterlogico da seguire quanto di affidarsi ad ordinarie cautele del ragionamento indiziario per affermare se in concreto il soggetto abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o si sia volontariamente sottratto ad essa.

Roberta D’Onofrio

(con la collaborazione della tirocinante ex art. 73 L.n.98 del 2013, d.ssa Francesca Bucci)


[1] Per approfondimenti, D. Negri, L’imputato presente al processo. Una ricostruzione sistematica, Giappichelli, Torino, 2012.

[2] Oltre alle condanne di Strasburgo, una revisione del processo contumaciale sembrava imposta anche dalla disciplina in tema di mandato d’arresto europeo, in quanto l’articolo 5 della decisione quadro del consiglio dell’Unione 2002/584/GAI del 13 giugno 2002 ( recepita in Italia con legge 22 aprile 2005, n.69) prevede che, quando il condannato contumace non sia stato informato della data e del luogo dell’udienza, la sua consegna possa essere subordinata alla condizione che l’autorità giudiziaria emittente fornisca assicurazioni sufficienti a garantire alla persona la possibilità di chiedere un nuovo giudizio e di essere ad esso presente.

[3] Per approfondimenti, Tamietti, processo contumaciale e Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: la Corte di Strasburgo sollecita l’Italia ad adottare riforme legislative, in Cass. Pen. 2005, pag. 989 ss.

[4] Va , ancora, notato come la Corte europea si è sempre limitata a postulare la necessità di garantire al contumace successivamente comparso la pronuncia sull’accusa a suo carico da parte di un nuovo giudice senza precisare se l’esigenza di restituito in integrum del diritto del contumace al processo in contraddittorio debba necessariamente implicare il ritorno del rito in prima istanza o se essa possa dirsi soddisfatta nell’ambito di un giudizio di impugnazione sulla sentenza contumaciale.

[5] R. Casiraghi, Il giudizio in assenza dell’imputato, cap. La disciplina del giudizio senza imputato : quadro retrospettivo., Giappichelli, Torino, Ius Novum 2014.

[6] P. Spagnolo, La disciplina della restituzione nel termine tra istanze sopranazionali e legislazione italiana. Articolo pubblicato sul web.

[7] Per un approfondimento, Il giudizio in contumacia e la restituzione nel termine a cura di Piercamillo Davigo, Consigliere della Suprema Corte di Cassazione, articolo pubblicato sul web.

[8] V. Silvestri, Relazione del Massimario, Le nuove disposizioni in tema di processo ‘in assenza’ dell’imputato, pag.40.

[9] Cfr.Cass., sez. V, 23 maggio 2006, n. 25618, in C.E.D. Cass., n. 234369, secondo la quale la prova dell’effettiva conoscenza da parte dell’imputato del procedimento e della rinuncia a comparire, nonché dell’effettiva conoscenza del provvedimento e della rinuncia ad impugnare può desumersi dal fatto che l’imputato abbia partecipato all’udienza preliminare, nominando un difensore di fiducia presso il quale ha eletto domicilio, avendo egli predisposto tutti gli strumenti di conoscenza legale dell’attività processuale; Cass., sez. I, 25 maggio 2006, n. 28619, ivi n. 234285, sulla base della considerazione che il difensore ha il dovere deontologico di far pervenire al proprio assistito gli atti a lui diretti personalmente, oppure di comunicare all’ufficiale giudiziario e all’ufficio giudiziario immediatamente gli eventi che rendevano impossibile la notificazione presso di lui. In senso contrario v. Cass., sez. I, 1 febbraio 2006, n. 18467, ivi n. 233871, per la quale la notifica presso il domicilio eletto nello studio del difensore di fiducia, pur dando luogo, nell’ambito del processo, ad una presunzione assoluta di conoscenza, non ne assicura l’effettività che può venire meno in presenza della comprovata negligenza del domiciliatario. Spetta, quindi, al giudice investito della richiesta di verificare se, in concreto la conoscenza sia mancata e se la mancanza dipenda da volontaria interruzione dei contatti da parte dell’interessato (equivalente a rinuncia a seguire gli sviluppi del procedimento) o da difetto di informazione da parte del suo fiduciario; Cass., sez. III, 1 febbraio 2006, n. 13215, ivi n. 233640, secondo la quale qualora la notifica sia stata regolarmente eseguita nel domicilio eletto presso il difensore di fiducia, poi sostituito con altro, senza revocare l’elezione di domicilio, il giudice ha l’obbligo di compiere ogni necessaria verifica in relazione all’effettiva conoscenza del provvedimento.

[10] Per una disamina completa, C. Conti, Processo in absentia a un anno dalla riforma: praesumptum de praesumpto e spunti ricostruttivi, in Diritto penale e processo 4/2015

[11] Carlotta Conti nel Processo in absentia a un anno dalla riforma: praesumptum de praesumpto e spunti ricostruttivi, in Diritto penale e processo 4/2015 osserva che ‘Se vogliamo tracciare alcune categorie generali – con tutte le relative approssimazioni, perché molti ordinamenti distinguono anche a seconda della gravità del reato, ritenendo non necessaria la presenza dell’imputato per i reati bagatellari- dall’esame del diritto comparato si ricava l’esistenza di tre modelli. Si delinea un primo modello “a presenza tendenzialmente necessaria” con accompagnamento coattivo per i reati più gravi. Si tratta di un meccanismo adottato nei sistemi di common law, in Spagna ed in Germania. così D. Negri, L’imputato presente al processo. Una ricostruzione sistematica, ristampa emendata, Torino, 2014, 32 Per un’apertura verso il sistema a presenza necessaria G. Lattanzi, Spunti critici sulla disciplina del processo contumaciale, in Leg. pen., 2004, 600. Si profila un secondo modello “a presenza obbligatoria” con sanzioni a carico dell’assente, quale tipicamente, il processo con privazione di garanzie. È, infine, individuabile un terzo modello “a presenza facoltativa”, dove la scelta di assistere al proprio processo è considerata un diritto dell’imputato dove tutto si gioca sulla consapevolezza della rinuncia e  sulle misure ripristinatorie in favore dell'”inconsapevole”.Si tratta del sistema accolto in Italia nel codice del 1913e nel codice del 1930 dopo la riforma del 1955 in modo semprepiù marcato fino ai giorni nostri. Considerano tale modello e un’espressione del sistema accusatorio temperato, P. Tonini eM. Ingenito, La sospensione del processo contro l’irreperibile ela frattura legislativa tra vecchia contumacia e nuova assenza,in Aa.Vv., Le nuove norme sulla giustizia penale, a cura di C. Conti, A. Marandola, G. Varraso, Padova, 2014, 181. Per un’approfondita disamina dei singoli ordinamenti, D. Vigoni,Panorama europeo in tema di giudizio senza imputato, in Aa.Vv.,Il giudizio in assenza dell’imputato, a cura di D.Vigoni, Torino,2014, 34 ss.’

[12] S. Marcolini, in Il giudizio in assenza dell’imputato, cap. I presupposti del giudizio in assenza, Giappichelli Editore, Torino, Ius Novum, 2014.

[13] Sulla distinzione, D. Chinnici, Sospensione del processo nei confronti degli irreperibili, in Treccani, la cultura italiana, Libro dell’anno 2015.

[14] QUATTROCOLO, Commento all’art. 2 l. n. 60 del 2005, in Legisl. pen. 2005, p. 292. Del resto se così non fosse non avrebbe senso la previsione della possibilità di dichiarare od eleggere domicilio: FILIPPI, op. cit., 2201 .In giurisprudenza, sottolineano che la disposizione dell’art. 157 comma 8-bis c.p.p. si applica a tutte le notificazioni successive alla prima compiute ai sensi dell’art. 157 c.p.p., anche se la prima notificazione sia stata regolarmente eseguita nell’abitazione dell’imputato: Cass., sez. IV, 11 ottobre 2005, n. 41649, in C.E.D. Cass., n. 232409, in cui si osserva che tale procedura, ispirata a garantire la ragionevole durata del processo in ottemperanza all’art. 111 Cost. non viola gli artt. 3 e 24 Cost. in quanto non elide il diritto dell’imputato ad essere informato direttamente del processo, ma lo regolamenta, potendo egli interrompere tale automatismo, eleggendo domicilio; Cass., sez. I, 11 aprile 2006, n. 17344, ivi n. 234020; v. però, Cass., sez. V, 24 ottobre 2005, n. 44608, ivi n. 232612, secondo la quale la disposizione di cui all’art. 157 comma 8-bis c.p.p. si applica solo alle notificazioni successive a quella eseguita ai sensi dell’art. 157 comma 8 (mediante deposito dell’atto e affissione dell’avviso), mentre non si applica nell’ipotesi in cui – come nella specie – l’imputato abbia precedentemente eletto domicilio nel luogo di abituale dimora ex art.161 c.p.p.

[15] Sul punto, ad esempio, sono ancora valide le osservazioni critiche della Giunta dell’Unione delle Camere penali a proposito del c.d. Progetto Mastella, secondo cui l’introduzione di elementi presuntivi di conoscenza – quali la nomina fiduciaria di un difensore o l’esecuzione di una misura cautelare – finisce per porre a carico dell’imputato un dovere di diligenza «che non trova alcun fondamento nel nostro sistema processuale e nella stessa Convenzione Europea e che tradisce un pregiudizio di fondo nei confronti delle persone sottoposte alle indagini, riguardo alle quali la celebrazione del dibattimento viene considerata come esito processuale ineluttabile» (Documento della Giunta e del Centro Marongiu sul testo del DDL Mastella su “Disposizioni in materia di accelerazione e razionalizzazione del processo penale, prescrizione dei reati, confisca e criteri di ragguaglio tra pene detentive e pene pecuniarie”, 20, in www.camerepenali.it).

[16] A. Ciavoli, Alcune considerazioni sulla nuova disciplina del processo in assenza e nei confronti degli irreperibili. Tante ombre e qualche luce, in dirittopenalecontemporaneo.it

[17] Come è stato osservato da A. Ciavoli, Alcune considerazioni sulla nuova disciplina del processo in assenza e nei confronti degli irreperibili. Tante ombre e qualche luce, in diritto penale contemporaneo.it

[18] Per una critica in tal senso, S. Marcolini, in Il giudizio in assenza dell’imputato, cap. I presupposti del giudizio in assenza, Giappichelli editore, Torino, Ius Novum. 2014

[19] Per un approfondimento anche giurisprudenziale, Carlo A. M. Brena, Note su elezione di domicilio e notifiche presso difensore: profili normativi e questioni applicative con riferimento alla cd. elezione di “stile”

[20] Per approfondimenti, D. Potetti I CASI TIPICI DI GIUDIZIO IN ASSENZA DELL’IMPUTATO (ART. 420 BIS, COMMA 2, C.P.P.).STANDARD CASES IN THE PRACTICE OF TRIAL IN ABSENTIA (ART. 420 BIS, COMMA 2, C.P.P.).

[21] C. Conti, Processo in absentia a un anno dalla riforma: praesumptum de praesumpto e spunti ricostruttivi, in Diritto penale e processo 4/2015

[22] V. Silvestri, Relazione del Massimario, Le nuove disposizioni in tema di processo ‘in assenza’ dell’imputato

[23] L’aggancio del termine massimo a quello di cui all’art. 161, co. 2, c.p.p. sembra giustificato dalla opportunità di non addossare all’imputato, cui «non può essere mosso alcun rilievo sotto il profilo della leale collaborazione», l’effetto negativo di rimanere sine die sottoposto a un procedimento penale, sebbene, almeno quanto ai fatti non particolarmente gravi, il rischio in concreto sia quello, per così dire, di una messa da parte dei processi fino alla maturazione della prescrizione

[24] V. Silvestri, Relazione del Massimario, Le nuove disposizioni in tema di processo ‘in assenza’ dell’imputato

[25] Per questi ed atri casi analoghi, A. Ciavola, Alcune considerazioni sulla nuova disciplina del processo in assenza e nei confronti degli irreperibili. Tante ombre e qualche luce, in dirittopenalecontemporaneo.it

[26] Per la critica, S. Marcolini, Il giudizio in assenza dell’imputato, cap. i Presupposti del giudizio in assenza.

[27] A. Ciavola, Alcune considerazioni sulla nuova disciplina del processo in assenza e nei confronti degli irreperibili. Tante ombre e qualche luce, in dirittopenalecontemporaneo.it

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di Assunta Cocomello e Vittorio Pazienza

Rel. n.  57/15

Roma, 13 ottobre 2015

OGGETTO:

A) 609088 – REATO – ESTINZIONE (CAUSE DI) – IN GENERE -Sospensione con messa alla prova – Limiti edittali di applicabilità – Individuazione – Aggravante ad effetto speciale – Rilevanza – Ragioni – Contrasto di giurisprudenza

RIF. NORM.:Cod. pen., art. 63. 168-bis; cod. proc. pen., artt. 4, 464 bis, 550.

B) 609088 – REATO – ESTINZIONE (CAUSE DI) – IN GENERE -Sospensione con messa     alla prova – Ordinanza di rigetto della istanza di sospensione – Autonoma ricorribilità per cassazione  – Contrasto di giurisprudenza. 

RIF. NORM.:Cod. pen., art. 168-bis; cod. proc. pen., artt. 464-quater, 586.   

La VI sezione penale, con decisione assunta alla Camera di Consiglio del 30 giugno 2015, n. 36687, Fagrouch, ha affermato i principi di diritto così massimati:

A)  “In tema di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, quando si procede per reati diversi da quelli nominativamente individuati per effetto del combinato disposto dagli artt. 168 bis, primo comma, cod. pen., e 550, comma secondo, cod. proc. pen., il limite edittale, al cui superamento consegue l’inapplicabilità dell’istituto, si determina tenendo conto delle aggravanti per le quali la legge prevede una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale. (In motivazione,la Corteha precisato che tale criterio risponde ad una interpretazione sistematica che rispetta la “voluntas legis” – desumibile dal rinvio operato dall’art. 168 bis, comma primo, cod. pen. all’art.550, comma secondo, cod.proc.pen. – di rendere applicabile la messa alla prova a tutti quei reati per i quali si procede con citazione diretta a giudizio dinanzi al giudice in composizione monocratica)”(Rv. 264045).

B) “L’ordinanza di rigetto dell’istanza di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato è autonomamente impugnabile con ricorso per cassazione, in quanto il tenore letterale dell’art. 464 quater, comma settimo, cod. proc. pen., che include nella disciplina dell’autonoma ricorribilità qualsiasi provvedimento decisorio, sia esso ammissivo o reiettivo della richiesta in questione, sottrae questo alla previsione generale di cui all’art. 586 cod. proc. pen.” (RV, 264046).

In relazione ad entrambi i principi qui riportati, si registra un contrasto all’interno della giurisprudenza della Suprema corte.

A) Il problema della individuazione dei criteri per definire il perimetro della sanzione penale, che rende ammissibile la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, è affrontato dalla sentenza in esame ponendosi in consapevole contrasto con altro orientamento della giurisprudenza di legittimità.

In particolare, la pronuncia invoca una soluzione interpretativa che risponda a canoni di unità e coerenza del sistema ed afferma la necessità di applicare, ai fini dell’art.168 bis. cod. pen., i medesimi criteri di determinazione della pena specificati all’art. 4 cod. proc. pen. in materia di individuazione della competenza. A detti criteri, infatti, rinviano numerose altre disposizioni del codice di rito, quali quelle contenute nell’art.278 (in materia di applicazione di misure cautelari), nell’art.379 (in tema di arresto e fermo) e 550 (relativa alla individuazione dei casi di citazione diretta a giudizio).

Tali criteri – che prevedono debba tenersi conto della pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato e che non si tiene conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze, fatta eccezione delle aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa e di quelle ad effetto speciale – dovranno trovare applicazione, per la sentenza in commento, anche nell’ipotesi prevista dall’art.168 bis cod. pen., non solo in ragione della invocata coerenza ed unicità del sistema, ma anche al fine di rispettare la “logica complessiva della legge di rendere applicabile l’istituto della messa alla prova a tutti quei delitti per i quali si procede a citazione diretta a giudizio dinanzi al giudice in composizione monocratica”.

L’opposto orientamento – che la sentenza in esame espressamente critica, censurandone l’asistematicità – fornisce invece una interpretazione diversa del silenzio del legislatore nell’indicare i criteri per la determinazione della pena nella disposizione di cui all’art. 168 bis cod. pen., e, evidenziando come nel testo della norma manchi qualsiasi riferimento alla possibile incidenza di eventuali aggravanti, afferma che “laddove il legislatore ha voluto che si tenesse conto delle circostanze aggravanti, lo ha espressamente previsto”, così come avvenuto per gli artt. 4, 157, 278 e 134 bis cod. proc. pen. (Sez. VI, 9 dicembre 2014, n. 6483/2015, P.M. in proc. Gnocco, Rv. 262341; Sez. II, 14 luglio 2015, n. 33461, Ardissone; Sez. IV, 10 luglio 2015, n.32787, Jenkins).

In particolare, la pronuncia della Sez. VI, Gnocco, nega che il legislatore abbia inteso far coincidere il perimetro di operatività delle ipotesi per le quali è consentita la citazione diretta a giudizio con quelle per le quali è permessa la “probation”, in quanto “ove il legislatore avesse inteso tracciare una siffatta coincidenza, si sarebbe al fine riportato per intero al disposto dell’art. 550 c.p.p.”. Secondo questa pronuncia, infatti, il legislatore ha intenzionalmente richiamato soltanto il secondo comma dell’art. 550, al fine di evitare di escludere l’applicazione del nuovo istituto a quei reati di competenza collegiale puniti con la pena edittale inferiore nel massimo ai quattro anni. Quanto sopra in coerenza con la funzione deflattiva perseguita dal legislatore con l’introduzione della nuova disciplina, che deve “guidare l’interprete nella puntuale individuazione dei fondamenti oggettivi dell’istituto”.

Sez. IV, Jenkins, poi aggiunge che il mancato richiamo alla possibile incidenza delle aggravanti è coerente con la previsione dell’ammissibilità dell’istanza di sospensione e messa alla prova in una fase in cui al giudice non è consentito pronunciarsi sulla fondatezza dell’accusa così come formulata, se non in termini negativi circa la sussistenza delle condizioni per la pronuncia di non luogo a procedere ex art. 425 cod. proc. pen.

B) Sulla questione dell’autonoma impugnabilità dell’ordinanza di diniego della sospensione del procedimento con messa alla prova, la sentenza in esame ha aderito all’indirizzo, ripetutamente espresso dalla Suprema corte, secondo cui al quesito deve darsi risposta positiva, valorizzando il tenore letterale dell’art. 464 quater, cod. proc. pen.: opinione definita dal Collegio “oramai tendenzialmente maggioritaria”, alla luce delle conformi indicazioni fornite da Sez. II, 12 marzo 2015, n. 14112, Allotta; Sez. II, 6 maggio 2015, n. 20602, Corallo; Sez. V, 23 febbraio 2015, n. 24011, B., Rv. 263777; Sez. III, 24 aprile 2015, n. 27071, Frasca, Rv. 263814.

Tale ultima pronuncia, in motivazione, ha tra l’altro osservato che l’art. 464-quater, prevedendo l’autonoma impugnabilità per cassazione dell’ordinanza che decide sull’istanza di messa alla prova, senza alcuna distinzione tra ordinanze di ammissione e ordinanze di rigetto, si pone in deroga al principio generale espresso dall’art. 586 cod. proc. pen., dell’impugnabilità delle ordinanze emesse in dibattimento solo insieme alla sentenza (principio del resto operante, ai sensi dello stesso art. 586, “salvo che la legge disponga altrimenti”); la stessa decisione ha rinvenuto un ulteriore elemento a sostegno della soluzione positiva nel fatto che, in relazione al diverso istituto della messa alla prova degli imputati minorenni,la S.C.aveva affermato l’immediata ricorribilità per cassazione della sola ordinanza dispositiva della sospensione e la messa alla prova, valorizzando la concatenazione delle specifiche disposizioni dettate in materia (Sez. I, 24 aprile 1995, n. 2429, Rv.201298, inrelazione all’art. 28, secondo e terzo comma, d.P.R. n. 448 del 1988).

Anche in questo caso, la sentenza segnalata si è posta in consapevole contrasto con un diverso orientamento espresso dalla Suprema corte. In particolare, Sez. V, 15 dicembre 2014, n. 5673/2015, A.T., Rv. 262106, quale ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso immediato per cassazione, ritenendo operare il richiamato principio generale di cui all’art. 586 cod. proc. pen.. In senso analogo, si sono espresse anche Sez. V, 14 novembre 2014, n. 5656/2015, Ascione, e Sez. V, 3 giugno 2015, n. 25666, Marcozzi, secondo cui l’impugnazione diretta prevista dal settimo comma dell’art. 464-quater ha ad oggetto esclusivamente il provvedimento di ammissione al beneficio, “giacché solo in tal caso alle parti non sarebbe altrimenti consentito alcun rimedio avverso la decisione assunta”. Nella sentenza Marcozzi, si è inoltre osservato che non può darsi rilievo, in senso contrario, al fatto che sia stata espressamente prevista anche la legittimazione dell’imputato (il quale potrebbe ad es. avere interesse ad impugnare prescrizioni ritenute troppo gravose o comunque eccentriche rispetto al programma), né al fatto che il settimo comma dell’art. 464-quater faccia generico riferimento alla «ordinanza che decide sull’istanza di messa alla prova», dal momento che tale disposizione deve essere interpretata alla luce dei commi precedenti, “i quali disciplinano l’oggetto e gli effetti del provvedimento di accoglimento, mentre quello di reiezione viene menzionato solo nel successivo nono comma ed all’esclusivo fine di prevedere la facoltà di riproposizione della richiesta”.

Redattori: Assunta Cocomello – Vittorio Pazienza

Il vice direttore

Giorgio Fidelbo

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di Fulvio Baldi

SOMMARIO: Premessa

PARTE PRIMA:

Orientamenti di diritto sostanziale

A) REATI CONTRO IL PATRIMONIO: Le condotte illecite ai danni degli istituti assicurativi (art. 642 c.p. e possibili altri) -Le truffe on line- Le truffe non informatiche (art. 640 c.p.) – Omesso pagamento del pedaggio autostradale (artt. 640 c.p. e 641 c.p.) -Omessa restituzione di beni ricevuti in leasing(art. 646 c.p) -La ricettazione (art. 648 c.p.) ed i reati tradizionalmente connessi – L’usura (art. 644 c.p.) -B) ALTRE TIPOLOGIE DI ILLECITI: La corruzione (art. 318 ss. c.p.) -La diffamazione (art. 595 c.p.) -Le lesioni colpose (art. 590 c.p.) -Lo stalking (art. 612 bis c.p.) -I maltrattamenti (art. 572 c.p.) ­Sottrazione e trattenimento di minori all’estero (art. 574bisc.p.) -I reati associativi (art. 416 c.p., 416 bis c.p., art. 74 d.P.R. n. 309/1990) -L’accesso abusivo a sistema informatico (art. 615 terc.p.) -L’omesso versamento dei contributi INPS (art. 2, comma primo bis, d.l. n. 463 del 1983, conv. con mod. in l. n. 638 del 1983) -La frode sportiva (all’art. 1, comma primo, l. 13 dicembre 1989, n. 401)

PARTE SECONDA:

Orientamenti di diritto processuale

Gli spostamenti di competenza ex art. 11 c.p.p.

Premessa

Come è noto, la Procura Generale della Cassazione ha diramato a tutte le Procure della Repubblica, ad inizio di autunno del 2014, una sorta di vademecum per illustrare, circa le tipologie più ricorrenti ed attuali di contrasti, quali fossero gli orientamenti consolidati da essa adottati su ognuna di dette tipologie, al fine di favorirne la conoscenza negli uffici requirenti di primo grado. Tale documento, pur non avendo, né potendo avere, efficacia vincolante, di fatto è servito ad orientare i sostituti procuratori dell’intero territorio nazionale circa l’opportunità di sollevare un contrasto, in base alla presumibile opinione di chi avrebbe dovuto deciderne l’esito. Anche ad esso si deve, con ogni probabilità, la riduzione dei contrasti iscritti nel 2014 (n. 380) a fronte di quelli iscritti nel 2013 (n. 530). Nell’anno 2015, invece, si è registrato un aumento del numero dei contrasti pervenuti (n. 437), ricollegabile al fatto che ben 73 di essi ha riguardato il fenomeno delle truffe on line, su cui la sentenza n. 25230/2015 della Cassazione ha rivisitato un pregresso orientamento giurisprudenziale pressoché consolidato, che ancora questa Procura segue, provocando l’effetto del nuovo aumento del contenzioso sulla competenza. Così come già nella prima edizione, nel cd. vademecum sono contenuti, comunque, solo gli orientamenti:

1) consolidati della Procura Generale della Cassazione;

2) tendenzialmente non in difformità dalla giurisprudenza di legittimità;

3) corrispondenti a tipologie di contrasto maggiormente frequenti.

Rispetto alla prima versione del documento si è preferito aggiungere, oltre che i necessari aggiornamenti, anche una serie di suggerimenti volta a favorire l’osservanza delle norme processuali così come interpretate dalla Procura generale, sempre al fine di contenere i contrasti “evitabili”.

PARTE PRIMA: ORIENTAMENTI DI DIRITTO SOSTANZIALE

A) REATI CONTRO IL PATRIMONIO

Le condotte illecite ai danni degli istituti assicurativi (art. 642 c.p. e possibili altri)

1) Nel caso di denuncia di infortuni mai accaduti (art. 642, c. 2, c.p.), è stato ritenuto che il reato si perfeziona nel momento e nel luogo in cui la denuncia perviene alla società assicuratrice, soggetto passivo del reato, che solo al momento della ricezione viene a conoscenza di un atto che fino a quel momento resta nella sfera del denunciante. Ne consegue la competenza della Procura ove si trova l’ufficio cui la denuncia viene recapitata.

2) La soluzione non cambia laddove la denuncia del falso incidente si accompagni alla falsificazione di certificati medici attestanti lesioni in realtà mai riportate (art. 476 c.p.), posto che, pur nella connessione dei delitti previsti dagli artt. 642 c.p. e 476 c.p., non conoscendosi il luogo in cui quest’ultimo, decisamente più grave, sia avvenuto, la competenza deve determinarsi in relazione al reato residuo.

3) La stessa soluzione è stata adottata nel caso in cui la truffa si sostanzi nella falsa denuncia del furto dell’auto (art. 367 c.p.). In tal caso, in presenza della connessione, stante la maggiore gravità del reato sub art. 642 c.p., si applica la regola per cui è competente la Procura ove si trova l’ufficio della società assicurativa cui la denuncia viene recapitata.

Le truffe on line

Va premesso che in ogni caso di truffa on line nel commercio elettronico (mediante artifici e raggiri consistenti nell’invio di messaggi volti a indurre in errore la persona offesa e tesi ad ottenere il pagamento mediante forme di bonifico telematico o su carte prepagate) il delitto di truffa è delitto istantaneo di danno, che si perfeziona nel momento in cui alla realizzazione della condotta tipica da parte dell’autore abbia fatto seguito la deminutio patrimonii del soggetto passivo: è pertanto irrilevante il luogo nel quale il raggirato abbia effettuato il pagamento, assumendo rilievo ai fini della consumazione del reato esclusivamente il luogo nel quale l’autore della contestata truffa consegue la provvista.

In base agli ormai consolidati orientamenti della Procura generale della Cassazione, ai fini della determinazione della competenza, rileva:

1) nei casi di pagamento a mezzo vaglia postale, il luogo ove il vaglia viene materialmente riscosso;

2) nei casi di pagamento a mezzo bonifico, il luogo ove ha sede la filiale presso la quale l’autore della condotta ha acceso il conto corrente su cui sono state accreditate le somme tramite bonifico bancario;

3) nei casi di pagamento a mezzo ricarica di carta prepagata (postepay e simili), ove detta carta sia “appoggiata” su un conto corrente bancario o postale, il luogo ove hanno sede la filiale della banca o l’ufficio postale presso il quale è stato acceso il conto medesimo;

4) nei casi di pagamento a mezzo ricarica di carta prepagata (postepay e simili), ove detta carta nonsia “appoggiata” ad alcun conto corrente, il luogo ove hanno sede l’ufficio o l’esercizio commerciale presso il quale la carta prepagata è stata attivata (identificabile attraverso il cd. codice univoco della carta).

Laddove le indagini non abbiano consentito di acquisire alcuno dei dati di cui ai punti precedenti, ai sensi dell’art. 9 cpv. c.p.p. rilevano il luogo di residenza e di domicilio dell’indagato. E’ appena il caso di aggiungere che tali criteri consentono una più agevole concentrazione delle indagini ed un più efficace esercizio dell’azione penale.

La Procura generale, dunque, non aderisce all’impostazione interpretativa della sentenza n. 25230/2015 della Prima sezione penale della Cassazione, palesemente in contrasto con altra precedente giurisprudenza (v. Sez. II, n. 7749/2015), con l’auspicio che possano intervenire le Sezioni Unite, già allertate con la segnalazione di contrasto n. 68/2015 da parte del Massimario, a mettere ordine in materia.

Le truffe non informatiche (art. 640 c.p.)

Il reato di truffa, essendo reato istantaneo e di danno, si perfeziona nel luogo del conseguimento dell’effettivo profitto, con il contestuale concreto danno patrimoniale subito dalla parte offesa. Il principio ha varie applicazioni pratiche:

1) Quando il reato abbia come oggetto immediato il conseguimento di assegni bancari, il danno si verifica nel momento in cui i titoli vengono posti all’incasso ovvero usati come normali mezzi di pagamento, mediante girata a favore di terzi portatori legittimi;

2) Nel caso di consegna al vettore, ai sensi dell’art. 1685 c.c., le cose restano nella disponibilità del mittente fino alla consegna al destinatario, momento in cui passano nella disposizione di quest’ultimo. Il profitto viene, dunque, realizzato dall’indagato nel luogo in cui la merce fu consegnata e il profitto illecito conseguito;

3) La truffa contrattuale si consuma non già quando il soggetto passivo assume per effetto di artifici e raggiri l’obbligazione della datio di un bene economico, ma nel momento in cui si realizza l’effettivo conseguimento del bene da parte dell’agente e la definitiva perdita dello stesso da parte del raggirato;

4) In tema di mutuo il reato si consuma con la consegna del danaro;

5) Nel caso di finanziamento per l’acquisto di un’autovettura il reato si consuma non già nel momento in cui la società finanziatrice ha deliberato la concessione del finanziamento, bensì nel momento in cui il denaro è stato materialmente erogato al richiedente tramite il beneficiario concessionario;

6) Nel caso di truffa consumata in danno di una compagnia assicuratrice, il reato si consuma nel luogo e nel momento in cui l’agente ha ricevuto la polizza assicurativa nonché i relativi documenti assicurativi.

Laddove la truffa si manifesti in connessione con altri reati (per il caso di ricettazione v. l’apposito paragrafo), si applica l’art. 16 c.p.p..

Omesso pagamento del pedaggio autostradale (artt. 640 c.p. e 641 c.p.)

In materia occorre distinguere:

  • integra gli artifici e i raggiri tipici della truffa la condotta di chi abbia imboccato la corsia che conduce alle porte riservate al possessore di Telepass o Viacard, ponendosi poi sulla scia dell’autovettura che lo precede munita di telepass o di tessera Viacard, il quale guadagni l’uscita dal casello prima che la sbarra si abbassi. In tal caso la truffa si consuma nel momento e nel luogo di conseguimento del profitto e, quindi, con il passaggio della barriera autostradale di uscita (cfr. Cass. n. 666/10, 51810/13, 51278/14);
  • integra invece il reato di insolvenza fraudolenta la condotta di chi si immetta nella rete autostradale con il proposito – reso successivamente manifesto dalla impossibilità/indisponibilità a pagare verificata al momento dell’uscita dalla rete stessa -di non adempiere alla relativa obbligazione (cfr. Cass. n. 7738/97). In relazione al reato di insolvenza fraudolenta la Procura generale suole determinare la competenza a favore della Procura presso il Tribunale nel cui territorio si è verificato il primo passaggio autostradale abusivo, restando i successivi ininfluenti ai fini della competenza stessa. La soluzione è imposta dall’art. 16 c.p.p. per i reati connessi di pari gravità, in cui si privilegia il primo in ordine cronologico.

Omessa restituzione di beni ricevuti in leasing (art. 646 c.p)

Va premesso che integra il reato di appropriazione di un bene ricevuto dall’agente in leasing la condotta di mancata restituzione dopo la risoluzione del contratto e l’avvenuta richiesta di rendere il bene, essendo il delitto integrato dalla mera interversione del possesso, che sussiste anche in caso di mera detenzione qualificata, consistente nell’esercizio sulla cosa di un potere di fatto al di fuori della sfera di sorveglianza del titolare. Secondo l’orientamento della Procura, ai fini della determinazione della competenza deve aversi riguardo al luogo in cui i beni sono stati consegnati al locatario, che a volte coincide per contratto con quello in cui essi vanno anche restituiti. Il luogo di avvenuta consegna, invero, segna quello certo di utilizzo dei beni ricevuti in leasing e si fa preferire rispetto a quello, incerto, di dove si trova il bene al momento in cui andrebbe restituito. Ne consegue che, laddove luogo della consegna e luogo della mancata restituzione non coincidano, quest’ultimo non ha alcuna rilevanza decisiva.

La ricettazione (art. 648 c.p.) ed i reati tradizionalmente connessi

Il luogo in cui si consumano le condotte di ricettazione (ricezione, acquisto, occultamento, intromissione finalizzata alle predette condotte) è, di solito, non conosciuto.

1) Orbene, nel caso di indagato ignoto, poichè trattasi di reato istantaneo, che si perfeziona all’atto della ricezione della cosa proveniente da delitto, a nulla rilevando il luogo in cui viene accertata la detenzione della res,non può aversi riguardo al criterio previsto dall’art. 8, comma 1, c.p.p., nè può farsi riferimento al criterio sussidiario di cui all’art. 9,comma 1, c.p.p., sicchè è doveroso applicare la regola residuale dell’art. 9, comma 3, c.p.p.

2) Nel caso di indagato noto, invece, può applicarsi il criterio sussidiario di cui al secondo comma dell’art. 9 (residenza, dimora o domicilio). Nessun rilievo devono avere il luogo in cui è stato commesso il reato presupposto o quello in cui la cosa ricettata è stata rinvenuta, posto che l’elemento oggettivo della fattispecie fa riferimento alle condotte di acquisto, ricezione, occultamento ed intermediazione.

3) Spesso la ricettazione si manifesta in connessione con altri reati. L’ipotesi più frequente è quella della truffa (art. 640 c.p.) e della sostituzione di persona (art. 494 c.p.), allorquando l’indagato, ricevuti assegni provento di furto o rapina, li contraffà, spesso fornendo anche false generalità, e li gira ad ignaro venditore incamerando il profitto derivante dal negozio giuridico stipulato con quest’ultimo. In tale contesto, sebbene la ricettazione funga da reato sicuramente più grave tra quelli connessi, essa resta consumata in luogo non conosciuto. Sarà quindi competente il P.M. del luogo in cui si è consumato con certezza il reato connesso in via gradata meno grave rispetto alla ricettazione, a norma dell’art. 16, commi 1 e 3, c.p.p.. Nel caso della falsità in scrittura privata, prima dell’intervento di depenalizzazione del reato sub art. 485 c.p. (ex art. 1 del d.lgs. 15.1.2016, n. 7, in vigore dal 6.2.2016), come è noto il reato si perfezionava con il primo atto di uso del documento falso, essendo questo il luogo di consumazione dell’illecito. A tale momento, dunque, per effetto di detta depenalizzazione, non si potrà dare più importanza. Caduta ogni ragione di connessione con la ricettazione, il luogo di consumazione del reato si dovrà, pertanto, individuare solo con riferimento a quest’ultima figura.

4) Stessa sorte tocca alle ipotesi di concorso tra la ricettazione ed il reato di cui all’art.55 d.lgs. 21 novembre 2007n. 231, sostanzialmente riproducente il testo dell’art.12 della l. 5 luglio 1991, n. 12. Per detta norma è punito chiunque, al fine di trarne profitto per sè o per altri, indebitamente utilizza, non essendone titolare, carte di credito o di pagamento ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi oppure, sugli stessi oggetti, operi falsificazioni, alterazioni o semplicemente ne sia in possesso, li ceda, li acquisisca. Orbene, laddove non sia noto il luogo di consumazione della ricettazione, i cui rapporti con la condotta de qua sono stati chiariti da Sez. Un. n. 22902/2001 nel senso della specialità reciproca, competente a procedere è la Procura nel cui territorio sia avvenuta una di dette condotte e, tra esse, soprattutto quella dell’utilizzo, non occorrendo la realizzazione del profitto ai fini della consumazione dell’illecito. Il caso classico è quello dell’acquisto di un biglietto in una stazione ferroviaria facendo uso di un personal number reservation abusivamente captato.

L’usura (art. 644 c.p.)

Il delitto di usura, rientrando nel novero dei reati a condotta frazionata o a consumazione prolungata, si consuma con i pagamenti effettuati dalla persona offesa in esecuzione del patto usurario, atteso che questi ultimi compongono il fatto lesivo penalmente rilevante, di cui segnano il momento consumativo sostanziale, sicchè essi non sono qualificabili come post factum non punibile dell’illecita pattuizione (v. Cass. pen., Sez. II, n. 34910/2008). Laddove difetti l’elemento della riscossione dei ratei usurari, dovrebbe aversi riguardo al momento del perfezionamento dell’accordo o, se questo è ignoto, al luogo in cui è avvenuta la richiesta della somma in denaro.

In tema di usura bancaria, nessuna importanza, ai fini della competenza, riveste la sede legale ove operano i vertici della banca.

B) ALTRE TIPOLOGIE DI ILLECITI

La corruzione (art. 318 ss. c.p.)

Il delitto di corruzione si perfeziona alternativamente con l’accettazione della promessa ovvero con la dazione -ricezione dell’utilità, e tuttavia, ove alla promessa faccia seguito la dazione -ricezione, è solo in tale ultimo momento che, approfondendosi l’offesa tipica, il reato viene a consumazione (Sez. Un n. 15208/2010). Lo stesso principio è stato affermato in relazione al millantato credito(art. 346 c.p.), avuto riguardo all’analogia di struttura con la corruzione (Sez. 6, Sentenza n. 50078 del 28/11/2014, Rv. 261540).

La diffamazione (art. 595 c.p.)

Vanno distinte le diffamazioni a mezzo stampa, a mezzo TV e a mezzo Internet.

1) Il reato di diffamazione a mezzo stampa si consuma nel luogo e nel momento in cui ha avuto diffusione la notizia di stampa ritenuta lesiva, la quale di solito coincide con il luogo della stampa, nella ragionevole presunzione che, una volta uscito lo stampato dalla tipografia, si verifica l’immediata possibilità che esso venga letto da altre persone e, quindi, la diffusione dello stesso in senso potenziale con contestuale percezione dell’offesa. Venuto meno l’obbligo di deposito preventivo delle pubblicazioni presso la Prefettura a seguito dell’entrata in vigore del D.P.R. 3 maggio 2006, n. 252 e potendo tale deposito avvenire entro 60 giorni dalla pubblicazione, esso non è più utile a determinare il momento della diffusione. Si impone, quindi, il ritorno al criterio generale che rimanda all’accertamento del luogo di stampa. Dato che alcuni giornali vengono sottoposti ad una particolare procedura industriale di “incellophanatura”, questo ufficio ha ritenuto che la prima diffusione avviene subito dopo tale accorgimento, allorquando il settimanale è pronto per essere distribuito ai rivenditori, con immediata possibilità, quindi, che esso venga letto da persone estranee al procedimento di redazione e stampa. Nel caso di stampa estera, deve aversi riguardo al primo luogo di diffusione in Italia, con conseguente radicamento della giurisdizione nazionale o, se non è possibile determinarlo, a quello del luogo di prima iscrizione ex atrt. 9, c. 3, c.p.p..

2) Il reato di diffamazione a mezzo trasmissione televisiva si consuma nel momento e nel luogo in cui avviene la diffusione della trasmissione televisiva; l’art. 30 l. 223/90 deroga alla disciplina generale disponendo che, quando vi sia attribuzione di un fatto determinato, la competenza territoriale è determinata in base al luogo di residenza della persona offesa. Tuttavia, in un caso in cui la persona offesa risultava risiedere all’estero, questo ufficio, ritenendo non più applicabile la disciplina derogatoria, ha determinato la competenza territoriale in base alla regola dell’art. 8 c.p.p. con riguardo al luogo di consumazione del reato, avvenuto in Roma negli studi RAI.

3) Quanto alla diffamazione via internet, l’inserimento di frasi offensive o di immagini denigratorie nella rete telematica (internet) dà luogo ad un reato di evento che si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l’espressione ingiuriosa. Quando, tuttavia, non sono noti né il luogo in cui le espressioni inserite nella rete telematica sono state percepite da terzi, né il luogo in cui l’agente ha immesso le stesse nel relativo sitoweb, condotta che costituisce una parte dell’azione (art. 9, c. 1, c.p.p.), per l’individuazione del luogo di consumazione del delitto de quo deve farsi ricorso al criterio suppletivo di cui all’art. 9, c. 2 c.p.p., cioè al luogo di residenza, domicilio o dimora dell’indagato, ovvero ancora al criterio suppletivo di cui all’art. 9, c. 3, c.p.p.

Nel ribadire il principio di cui sopra, si è altresì precisato che il diverso luogo nel quale risultano immesse nel web le espressioni ritenute lesive dell’altrui reputazione potrebbe venire in considerazione solo qualora mancasse l’effettiva percezione della notizia e, quindi, nel caso di reato tentato.

Le lesioni colpose (art. 590 c.p.)

Il delitto di lesioni personali colpose è reato istantaneo che si verifica nel momento dell’insorgenza della malattia. L’insorgenza della sintomatologia durata per lungo periodo determina il luogo (ed il momento) della consumazione. Se non è possibile stabilire ove la malattia è insorta, è competente il P.M. che ha iscritto per prima la notizia di reato.

Laddove le lesioni siano state provocate da merce adulterata oggetto di vendita, il luogo noto dell’adulterazione, ove è sito lo stabilimento di produzione, prevale su quello in cui è insorta la malattia. Se si tratta di medicinale, e non è chiaro ove esso sia stato prodotto, riprende vigore il criterio dell’insorgenza delle lesioni, non avendo alcun rilievo il luogo in cui l’assunzione di esso sia stata prescritta.

Lo stalking (art. 612 bis c.p.)

Trattasi di reato abituale e di evento, che si consuma non appena gli atti abbiano raggiunto un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima. Il luogo di consumazione è quello in cui vengono percepiti i primi atti persecutori e minacciosi. Laddove il reato si accompagni a fatti di sangue, deve valutarsi la gravità e l’entità di questi ultimi. In caso di lesioni lievi (art. 582 c.p.), stante la connessione, a guidare la competenza resterà il reato di stalking, ma non altrettanto può dirsi laddove le lesioni siano gravissime (art. 583 c.p.) o, a maggior ragione, qualora si verifichino episodi omicidiari (art. 575 c.p.). Per le ipotesi di connessione con il reato di maltrattamenti (art. 572 c.p.) v. oltre.

I maltrattamenti (art. 572 c.p.)

Il reato di maltrattamenti in famiglia, configurando un’ipotesi di reato abituale che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti che isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili, si consuma nel momento e nel luogo in cui le condotte poste in essere divengono complessivamente riconoscibili e qualificabili come maltrattamenti. È stata ritenuta, specificamente, non applicabile la norma di cui all’art. 8, c. 3, c.p.p., riferita ai reati permanenti e non segnatamente a quelli abituali, ed applicabile invece la norma sub art. 9, c. 1, c.p.p. (l’ultimo luogo dove è avvenuta una parte dell’azione). In caso di connessione con fatti di stalking (art. 612bis c.p.) la competenza sarà determinata dal luogo di consumazione dei maltrattamenti, in quanto reato più grave. Resta per lo più assorbita la competenza del reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.), che si consuma nel luogo in cui l’assistenza va prestata.

Sottrazione e trattenimento di minori all’estero (art. 574 bis c.p.)

Trattandosi di reato permanente, ai fini della competenza deve privilegiarsi l’applicazione dell’art. 8, c. 3, c.p.p. (luogo in cui ha avuto inizio la consumazione sottrattiva). Laddove la condotta sia stata commessa interamente all’estero da parte di cittadino straniero, si riespande il criterio della prima iscrizioneexart. 9/3 c.p.p. cui fa rinvio l’art. 10/2 c.p.p..

I reati associativi (art. 416 c.p., 416 bis c.p., art. 74 d.P.R. n. 309/1990)

Essendo i reati associativi di natura permanente, la regola generale da applicare è contenuta nell’art. 8, c. 3, c.p.p., secondo cui è competente il giudice del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione. In difetto di elementi storicamente certi in ordine alla genesi del vincolo associativo, soccorrono criteri presuntivi che valgono a radicare la competenza territoriale nel luogo in cui il sodalizio criminoso si sia manifestato, per la prima volta, all’esterno ovvero si siano concretizzati i primi segni della sua operatività. Quando, inoltre, risultino reati-satellite, è pacifico e consolidato l’orientamento giurisprudenziale per cui, ai fini della determinazione della competenza per territorio, la connessione tra delitto associativo e reati-fine può ritenersi sussistente solo nell’eccezionale ipotesi in cui risulti che, fin dalla costituzione del sodalizio criminoso o dall’adesione ad esso, un determinato soggetto, nell’ambito del generico programma criminoso, abbia già individuato uno o più specifici fatti di reato, da lui poi effettivamente commessi. Una volta riconosciuta la connessione, nulla osta che il reato satellite più grave attragga la competenza di quello associativo, purchè non si versi, naturalmente, in una delle ipotesi di cui all’art. 51, c. 3bis, c.p.p.

L’accesso abusivo a sistema informatico (art. 615 ter c.p.)

In tema di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, il luogo di consumazione del delitto coincide con quello in cui si trova l’utente che, tramite elaboratore elettronico o altro dispositivo per il trattamento automatico dei dati, digitando la “parola chiave” o altrimenti eseguendo la procedura di autenticazione, supera le misure di sicurezza apposte dal titolare per selezionare gli accessi e per tutelare la banca-dati memorizzata all’interno del sistema centrale ovvero vi si mantiene eccedendo i limiti dell’autorizzazione ricevuta (v. Sez. Un. n. 17325 del 26/3/2015).

L’omesso versamento dei contributi INPS (art. 2, comma primo bis, d.l. n. 463 del 1983, conv. con mod. in l. n. 638 del 1983)

Il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali si consuma nel luogo in cui devono essere versati i contributi previdenziali ed assicurativi, da identificarsi in quello della sede dell’istituto previdenziale ove l’impresa ha aperto la sua posizione assicurativa e non in quello della sede legale dell’impresa. Ciò, in applicazione della disposizione dell’art. 1182, comma secondo, cod. civ. per il quale le obbligazioni aventi per oggetto una somma di denaro devono essere adempiute al domicilio che il creditore ha al tempo della scadenza.

La frode sportiva (all’art. 1, comma primo, l. 13 dicembre 1989, n. 401)

Il delitto di frode sportiva si consuma nel momento e nel luogo in cui si verifica la promessa o l’offerta di un vantaggio indebito o la commissione di ogni altra condotta fraudolenta e non in quello dell’accettazione di tale promessa od offerta (v. Sez. 3, Sentenza n. 12562 del 25.2.2010).

PARTE SECONDA: ORIENTAMENTI DI DIRITTO PROCESSUALE

Nel seguire i criteri tassativamente indicati in modo gerarchico dagli artt. 8 e ss. c.p.p. e dall’art. 51, c. 3 bis c.p.p. e, naturalmente, dalle leggi speciali, si raccomanda di ricordare:

1) che la Procura generale per lo più rispetta le pronunce delle Sezioni Unite nonrimesse in discussione da giurisprudenza successiva;

2) che per Sez. Un. n. 40537 del 16/07/2009, Rv. 244330 “qualora per il reato più grave si ignori il luogo di consumazione o non sia applicabile una delle altre regole dell’art. 8 c.p.p. ma si conosca dove è avvenuta una parte dell’azione o dell’omissione, giudice competente sarà quello dell’ultimo luogo della parte di azione od omissione, ai sensi dell’art. 9, comma 1 c.p.p.”. La sentenza ha altresì statuito che “se nessuno di questi luoghi è conosciuto, non si dovrà fare subito ricorso ai criteri suppletivi di cui all’art. 9, commi 2 e 3, ma si dovrà passare al luogo di commissione del più grave, in via successivamente gradata, fra i residui reati connessi. Anche per questo secondo reato, ovviamente, il luogo di commissione andrà individuato applicando in via gradata le regole di collegamento oggettive dettate dall’art. 8 e dall’art. 9, primo comma. Se poi per tutti i reati connessi non sarà possibile individuare il luogo di commissione secondo le regole di cui agli artt. 8 e 9, comma 1, allora si dovrà tornare a fare riferimento al reato più grave ed individuare il giudice competente in relazione a tale reato sulla base innanzitutto del criterio suppletivo di cui all’art. 9, comma 2, e subordinatamente, qualora anche tale criterio non sia utilizzabile, del criterio suppletivo di cui all’art. 9, comma 3. Nell’ipotesi poi di più reati connessi di pari gravità, dovranno ovviamente essere seguite le stesse regole e, quindi, si dovrà passare dal primo reato più grave agli ulteriori reati più gravi più recenti nel tempo e, poi, a mano a mano, agli eventuali reati meno gravi, sempre se per nessuno dei reati via via presi in considerazione si conosca il luogo in cui è avvenuta parte dell’azione o dell’omissione”;

3) che per Sez. Un. n. 27343 del 28/02/2013, Rv. 255345, “le regole sulla competenza derivante dalla connessione di procedimenti non sono subordinate alla pendenza dei procedimenti nello stesso stato e grado, essendo anche quello basato sulla connessione un criterio originario e autonomo di attribuzione della competenza”;

4) che ai fini della configurabilità della connessione teleologica prevista dall’art. 12 , lett.c), c.p.p., è richiesto che vi sia identità fra gli autori del reato-fine e quelli del reato-mezzo (v. Sez. 4, n. 27457 del 10.03.2009);

5) che i dubbi in punto di fatto sul luogo di consumazione del reato possono essere risolti non sollevando contrasto, ma con specifiche indagini;

6) che, ai fini determinazione della competenza in fase di indagine, non possono aver rilievo fatti per cui non si può procedere per difetto di querela;

7) che, ai fini dell’applicazione delle disposizioni introdotte dal d.lgs. 7 settembre 2012, n. 155, recante “Nuova organizzazione dei tribunali ordinari e degli uffici del pubblico ministero, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 settembre 2011, n. 148″, si considerano già “pendenti”, con conseguente radicamento della competenza per territorio, i procedimenti penali relativi a notizie di reato acquisite o pervenute ai competenti uffici del pubblico ministero entro il 13 settembre 2013, data di efficacia del D.Lgs. n. 155 del 2012, come chiarito dalla disposizione interpretativa contenuta nell’art. 8 del D.Lgs. 19 febbraio 2014, n. 14 v. Sez. 1, Sentenza n. 41757 del 16/09/2014, Confl. comp. in proc. c/ Ignoti);

8) che è opportuno che il pubblico ministero il quale trasmetta gli atti ad altro ufficio formuli compiutamente l’ipotesi accusatoria (con indicazione degli articoli violati e la sommaria descrizione della condotta) indicando le ragioni dell’altrui competenza per territorio. È altresì opportuno che il P.M. che ha ricevuto gli atti, ma ritenga la competenza dell’ufficio che glieli ha trasmessi, esprima chiaramente le ragioni del dissenso: a) formulando la diversa ipotesi accusatoria ritenuta corretta e sulla base della quale esclude la propria competenza; b) oppure spiegando le ragioni per le quali, pur condividendo l’ipotesi accusatoria, giunge a conclusioni diverse quanto alla competenza.

Gli spostamenti di competenza ex art. 11 c.p.p.

L’operatività dell’art. 11 c.p.p. è subordinata alla condizione che il magistrato abbia la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato, purchè tali qualità siano state formalmente assunte nella sede procedimentale. Ciò in quanto, derogando l’art. 11 c.p.p. al principio costituzionale del giudice naturale, la norma è di stretta interpretazione e non suscettibile di interpretazioni estensive.

Altra conseguenza di detta natura è il fatto che la semplice prospettazione ed il sospetto non sono idonei a far operare il criterio di competenza di cui all’art. 11, occorrendo, invece, che il magistrato ritenuto autore del reato sia individuato e raggiunto da concreti indizi. Parimenti non si verificano spostamenti di competenza allorquando sia stata la magistratura nel suo insieme ad essere offesa dal reato o la giustizia.

Non spostano, inoltre, la competenza le posizioni processuali assunte da magistrato non più appartenente all’Ordine giudiziario o le considerazioni in ordine alla plausibilità o meno della notitia criminis.

Se il magistrato sia rimasto ignoto, lo spostamento di competenza ex art. 11

c.p.p. è ugualmente operativo, purchè il magistrato medesimo sia individuabile. Lo stesso avviene quando si tratti di magistrato onorario, posto che l’incarico di quest’ultimo è connotato dalla continuatività riconosciuta formalmente per un arco temporale significativo che lo radica istituzionalmente nel plesso territoriale di riferimento (v. sopra). La stessa regola vale, a maggior ragione, per i giudici di pace, in quanto magistrati onorari dotati di competenza istituzionale propria rispetto a tutti gli altri magistrati “non togati”.

Il sostituto Procuratore generale

Dr. Fulvio Baldi 

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di Vittorio Pazienza

Sommario: 1. Premessa. – 2. La giurisprudenza sulle nuove disposizioni in tema di esigenze cautelari. – 2.1. Le sentenze in tema di attualità del pericolo. – 2.2. (Segue): attualità del pericolo e presunzione relativa di sussistenza delle esigenze. – 2.3. Esigenze cautelari e “gravità del titolo di reato”. – 3. La giurisprudenza sulle nuove disposizioni in tema di scelta della misura.- 3.1. Custodia in carcere e valutazione prognostica sulla pena che sarà irrogata. – 3.2. Scelta della misura e “braccialetto elettronico”. – 4. La giurisprudenza sulle nuove disposizioni in tema di motivazione dell’ordinanza cautelare. 5. La giurisprudenza sul coinvolgimento della persona offesa nei procedimenti di revoca o sostituzione delle misure cautelari. – 6. – La giurisprudenza sulle modifiche al procedimento di riesame personale. – 6.1. La partecipazione del ricorrente all’udienza camerale. – 6.2. Il termine per il deposito dell’ordinanza. – 6.3. Il divieto di rinnovazione della misura divenuta inefficace. 7. La giurisprudenza sulle modifiche al procedimento di riesame reale.

1. Premessa.

Nel corso degli ultimi tre anni, com’è noto, il legislatore ha ripetutamente modificato il “sottosistema cautelare”, con una serie di interventi spesso risultati di particolare incidenza  nella prassi applicativa, oltre che di rilevante impatto sull’impianto del codice di rito.

Basti qui richiamare, in ordine cronologico: l’innalzamento da quattro a cinque anni di reclusione della soglia edittale necessaria per l’applicazione della custodia in carcere (artt. 280, comma 2 e 274 lett. c, come modificati dal decreto legge 2 luglio 2013, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 94); il coinvolgimento della persona offesa di reati con violenza alla persona nel procedimento di revoca o modifica delle misure cautelari disposte nei confronti dell’imputato (art. 299, commi 2-bis, 3 e 4-bis, come modificati dal decreto legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119); la riduzione, per il giudice procedente, degli spazi discrezionali nella prescrizione di particolari modalità di controllo – c.d. braccialetto elettronico – in sede applicativa degli arresti domiciliari (art. 275-bis, come modificato dal decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10);  il divieto di applicazione della custodia cautelare in carcere – fatte salve alcune particolari ipotesi – qualora il giudice ritenga che, all’esito del giudizio, verrà irrogata una pena non superiore a tre anni (art. 275, comma 2-bis, come modificato dal decreto legge 26 giugno 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 117).

A tali interventi, quasi tutti di portata settoriale, ha fatto seguito, da ultimo, la legge 15 aprile 2015, n. 47 (d’ora in avanti: legge n. 47), che ha non solo apportato ulteriori modifiche ad alcune disposizioni da poco “ritoccate” (ad es. gravando il giudice della cautela di un particolare onere motivazionale, in caso di ritenuta inidoneità degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico), ma ha anche introdotto una serie di importanti novità nell’intero sistema: si allude, tra l’altro, agli interventi in tema di esigenze cautelari (art. 274), alla completa revisione degli automatismi nell’applicazione della custodia in carcere (artt. 275 comma 3, 276 comma 1-ter,  284 comma 5-bis), al rafforzamento delle misure interdittive (artt. 289, 308), all’individuazione di ulteriori requisiti della motivazione dell’ordinanza cautelare (artt. 292, 309), alle rilevanti modifiche in tema di procedimento di riesame ed appello cautelare, personale e reale (artt. 309, 310, 324).

Il numero ed il rilievo degli interventi modificativi non poteva non dar luogo a divergenze interpretative, talora rilevabili anche nell’evoluzione della giurisprudenza di legittimità.

Nei paragrafi seguenti, si farà riferimento ad alcuni di questi aspetti problematici, per come emersi dall’analisi delle sentenze depositate nel corso del 2015. Per ragioni di coerenza e chiarezza espositiva, si è ritenuto di esaminare le questioni non secondo la richiamata successione cronologica delle modifiche legislative, ma nell’ordine in cui, nel codice di rito, sono previsti e regolati i diversi aspetti della disciplina cautelare interessati dagli interventi di riforma.

2.La giurisprudenza sulle nuove disposizioni in tema di esigenze cautelari.

La legge n.47 hamodificato l’art. 274 cod. proc. pen. effettuando un duplice, “simmetrico” intervento sulle lettere b) e c), all’interno delle quali sono delineati i requisiti che il pericolo di fuga e quello di reiterazione di condotte criminose devono necessariamente presentare, per poter assurgere a presupposto applicativo di una misura cautelare personale.

In particolare, da un lato, si è previsto che il pericolo di fuga – come quello di reiterazione – sia non solo “concreto”, ma anche “attuale”; dall’altro, si è escluso che le situazioni di concreto e attuale pericolo, di fuga o di reiterazione, possano “essere desunte dalla gravità del titolo di reato per il quale si procede”.

Nelle pagine seguenti, si darà conto dell’interpretazione elaborata dalla Suprema corte in ordine a tali innovazioni, con particolare riferimento al loro “impatto” sugli orientamenti consolidatisi nella vigenza della precedente formulazione dell’art. 274 cod. proc. pen..

2.1.Le sentenze in tema di attualità del pericolo.

Nella giurisprudenza di legittimità non sembra esservi unanimità di vedute, anzitutto,  quanto alla reale portata innovativa dell’introduzione del requisito dell’attualità del pericolo (accanto a quello della concretezza).

Invero, già all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 47,Sez. IV, 21 maggio 2015 n. 24861, Iorio, Rv. 263727– nel ritenere adeguatamente motivata un’ordinanza cautelare emessa prima della novella, che aveva ravvisato il pericolo di reiterazione nella recidiva, nei carichi pendenti e nella mancanza di segni di ravvedimento da parte dell’indagato – ha precisato che “una più puntuale motivazione sul punto si imporrebbe” alla luce del nuovo testo dell’art. 274 lett. c) cod. proc. pen: disposizione peraltro ritenuta non applicabile nel caso di specie, in forza del principio tempus regit actum (per l’operatività di tale principio in tema di esigenze cautelari, e la conseguente necessità di valutare la legittimità dell’ordinanza alla luce delle norme vigenti al tempo della sua emissione, v. diffusamente, tra le altre, Sez. IV, 18 giugno 2015, n. 28153, Cassano, Rv. 264043,con ampi richiami ai principi espressi al riguardo dalle Sezioni unite, con le sentenze 31 marzo 2011, n. 27919, Ambrogio, Rv. 250195, e 17 luglio 2014, n. 44895, Pinna, Rv. 260927).

La sentenza Cassano qui appena richiamata ha peraltro inteso sottolineare, in motivazione, che il requisito dell’attualità era già stato “recepito quale presupposto implicito della misura cautelare dalla giurisprudenza di legittimità nel vigore della precedente normativa” (con un esplicito richiamo a Sez. VI, 26 novembre 2014, n. 52404, Alessi, Rv. 261670, che in tema di associazione ex art. 74 T.U. Stup., aveva affermato la necessità di desumere la sussistenza delle esigenze cautelari – rispetto a condotte esecutive risalenti nel tempo – da specifici elementi di fatto idonei a dimostrarne l’attualità). In senso analogo v. anche, più di recente, Sez. VI, 18 settembre 2015, n. 42630,Tortora, e Sez. V, 24 settembre 2015, n. 43083, Maio, Rv. 264902, secondo le quali il difetto dell’attualità era già rilevabile in base alla preesistente previsione di cui all’art. 292, lett. c), cod. proc. pen.; nonché Sez. VI, 1 ottobre 2015, n. 44605, De Lucia, la quale – richiamando la già citata sentenza Alessi del 2014 – ha posto in rilievo che la giurisprudenza aveva “già considerato l’attualità come necessariamente insita nella concretezza, quindi ritenendola una condizione necessaria al fine di applicazione della misura cautelare”.

È opportuno poi richiamare Sez. IV, 28 maggio 2015, n. 24865, Cuscinà , secondo cui, anche nella vigenza della precedente formulazione dell’art. 274, il giudice era tenuto a motivare rigorosamente sull’attualità delle esigenze cautelari (oltre che sulla scelta della misura) nelle ipotesi in cui il titolo cautelare venga emesso ad un’apprezzabile distanza temporale dai fatti, come del resto affermato già da Sez. un., 24 settembre 2009, n. 40538, Lattanzi, Rv. 244377. Intale prospettiva, l’inserimento del requisito dell’attualità accanto a quello della concretezza, all’interno dell’art. 274, dovrebbe piuttosto segnare – ad avviso della Quarta Sezione – il superamento del diffuso indirizzo interpretativo secondo cui il pericolo di reiterazione “può essere desunto anche dalla molteplicità dei fatti contestati, in quanto la stessa, considerata alla luce delle modalità della condotta concretamente tenuta, può essere indice sintomatico di una personalità proclive al delitto, indipendentemente dall’attualità di detta condotta e quindi anche nel caso in cui essa sia risalente nel tempo” (cfr. ad es. Sez. III, 17 dicembre 2013, n. 3661/2014, Tripicchio, Rv. 258053).

Va tuttavia sottolineato che, nonostante tale revisione critica – fondata anche, se non soprattutto, sull’esplicito richiamo all’attualità oggi contenuto nell’art. 274 – l’orientamento qui appena richiamato è stato ribadito da diverse decisioni, emesse sia subito dopo l’entrata in vigore della l. n. 47 (cfr. Sez. VI, 12 maggio 2015, n. 23304, Vecchi), sia nei mesi successivi (cfr. Sez. III, 10 luglio 2015, n. 33423, Accaputo; Sez. Fer., 28 luglio 2015, n. 34287, Abbinante). Si è anzi ulteriormente precisato, da ultimo, che la motivazione in ordine all’attualità e concretezza del pericolo di recidiva può basarsi “non solo sull’intrinseco disvalore del fatto, ma altresì su un’accertata e immanente proclività al delitto del soggetto attivo (ravvisata, nella specie, sulla base delle modalità particolarmente riprovevoli della sua condotta e della peculiare posizione fiduciaria rivestita rispetto alle persone offese), pur laddove il fatto contestato sia risalente nel tempo e indipendentemente dal fatto che il soggetto attivo non risulti aver posto in essere ulteriori condotte criminose” (Sez. IV, 5 novembre 2015, n. 46442, D.V.).

Una posizione di segno nettamente diverso è stata assunta, rispetto al panorama giurisprudenziale fin qui richiamato, da Sez. III, 19 maggio 2015, n. 37087, Marino, Rv. 264688, che ha attribuito alla modifica dell’art. 274 lett. c) una valenza innovativa di particolare rilievo. Muovendo dall’affermazione consolidatasi nella giurisprudenza anteriore alla novella, secondo cui il requisito della concretezza del pericolo di reiterazione non doveva identificarsi “con quello dell’attualità, derivante dalla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati” (cfr. ad es. Sez. VI, 5 aprile 2013, n. 28618, Vignali, Rv. 255857),la Terzasezione ha osservato che l’inserimento dell’attualità accanto alla concretezza, all’interno dell’art. 274, imponeva di includere nella valutazione prognostica anche tale specifico aspetto, nei termini delineati dall’interpretazione giurisprudenziale appena ricordata. Si è affermato, in altri termini, che, per poter ritenere che un pericolo “concreto” di reiterazione sia anche “attuale”, non è più sufficiente ritenere – con certezza o alta probabilità – che l’imputato tornerebbe a delinquere, qualora se ne presentasse l’occasione, essendo necessario prevedere anche (negli stessi termini di certezza o alta probabilità) che una ulteriore occasione per compiere nuovi delitti si presenti effettivamente. In senso conforme, cfr. Sez. III, 15 settembre 2015, n. 43113, Kamis; Sez. III, 13  ottobre 2015, n. 45280, D.L.,nonché, da ultimo, Sez. III,  27 ottobre 2015, n. 49318, Barone, secondo la quale il riferimento all’attualità delle esigenze specialpreventive, introdotto dalla novella, richiede che l’ordinanza applicativa o confermativa della misura contenga specifiche indicazioni al riguardo, “da ricavare dalla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati. Occasioni, quindi, non meramente ipotetiche ed astratte, ma probabili nel loro vicino verificarsi”.

Discostandosi consapevolmente da tale impostazione, la già citata Sez. V, 24 settembre 2015, n. 43083, Maio, Rv.264092 haperaltro evidenziato che la portata innovativa della modifica apportata all’art. 274 lett. c) non può essere enfatizzata oltre misura, in quanto già nell’assetto previgente incombeva sul giudice uno specifico onere motivazionale (art. 292, comma 2, lett. c, cod. proc. pen.) circa l’attualità delle esigenze, in ragione del tempo trascorso dalla commissione del reato contestato.

La distinzione tra “attualità” e “concretezza” tracciata nelle sentenze della Terza sezione poc’anzi richiamate sembra essere stata valutata criticamente, da ultimo, anche da Sez. VI, 29 ottobre 2015, n. 50027, Aurisicchio, che ha ribadito l’indirizzo secondo cui l’attualità deve ritenersi insita nella concretezza. Ad avviso della Sesta sezione, in particolare, l’aspetto innovativo riconducibile alla legge n. 47 “non consiste nella necessità di ricercare una «attualità» che vada oltre quella richiesta dalla giurisprudenza citata, ma nel fatto che non è più consentita la misura secondo la interpretazione restrittiva della «concretezza». Il codice continua a distinguere tra «esigenze cautelari» ed «eccezionali esigenze cautelari», a dimostrazione che l’attualità non è «nell’immediatezza»”.

In relazione all’inserimento dell’attualità anche nella lett. b) dell’art. 274, si segnala infine Sez. II, 13 ottobre 2015, n. 44526, Castillo Quintana, Rv. 265042, la quale ha riconosciuto a tale modifica una specifica portata innovativa, affermando – in linea con la relazione di accompagnamento al disegno di legge – la necessità che il pericolo di fuga sia non solo concreto, ma anche attuale, “nel senso che il rischio che la persona possa fuggire debba essere imminente”. 

2.2.(Segue): attualità del pericolo e presunzione relativa di sussistenza delle esigenze.

Si è visto nel paragrafo precedente che, sulla questione dell’attualità delle esigenze cautelari – con particolare riguardo alla configurabilità di uno specifico onere motivazionale a carico del giudice emittente la misura – la giurisprudenza della Corte di cassazione ha fornito risposte non del tutto univoche, prima dell’entrata in vigore della legge n. 47.

È utile segnalare che, in relazione alla particolare ipotesi in cui il titolo cautelare venga emesso in relazione ad uno dei reati per i quali vige la presunzione (relativa) di sussistenza delle esigenze cautelari, ai sensi dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. (come modificato, da ultimo, dalla predetta legge n. 47), il panorama giurisprudenziale appare tuttora – ovvero anche dopo l’entrata in vigore della novella – alquanto controverso.

Infatti, secondo un primo orientamento, “non è necessario che l’ordinanza cautelare motivi anche in ordine alla rilevanza del tempo trascorso dalla commissione del fatto, così come richiesto dall’art. 292, comma secondo, lett. c), dello stesso codice, in quanto per tali reati vale la presunzione di adeguatezza di cui al predetto art. 275, che impone di ritenere sussistenti le esigenze cautelari salvo prova contraria”: ferma restando, peraltro, la necessità che il giudice emittente valuti “se tale presunzione non possa essere vinta proprio dal distacco temporale intervenuto dai fatti laddove lo stesso, per la sua significativa durata e per la combinazione con altri fattori soggettivi ed oggettivi, possa dare dimostrazione della insussistenza delle esigenze cautelari” (Sez. III, 15 luglio 2015, n.33037, G., Rv. 264190; in senso analogo, v. ad es. Sez. III, 1 aprile 2014, n. 27439, Cetrullo, Rv. 259723).

In una diversa prospettiva, si è invece affermato che, anche qualora si proceda per uno dei reati per cui vige una presunzione relativa di adeguatezza della custodia in carcere, “la considerevole distanza temporale tra i fatti contestati e l’applicazione della misura costituisce elemento che impone al giudice di dare adeguata motivazione non solo della sussistenza della pericolosità sociale dell’indagato in termini di attualità, ma anche della necessità di dover applicare la misura di maggior rigore per fronteggiare adeguatamente ipericula libertatis” (Sez. VI, 10 giugno 2015, n. 27544, Rechichi, Rv. 263942; in senso conforme, v. Sez. VI, n. 52404 del 2014, Alesse, cit.;Sez. IV, 11 giugno 2015, n. 26570, Flora, secondo cui tale orientamento risulta preferibile anche avuto riguardo alle modifiche apportate dalla l. n. 47 al terzo comma dell’art. 275).

In tale prospettiva – che in sostanza ritiene pregiudiziale ed indefettibile l’indagine sull’attualità delle esigenze, prima di poter ritenere operante la presunzione – è stata di recente valorizzata la collocazione in sequenza degli artt. 274 lett. c) e 275 comma 3: collocazione che evidenzia “icasticamente le tappe del procedimento decisorio che il giudice è tenuto a compiere nell’applicazione delle misure cautelari personali: appare evidente, infatti, che la valutazione in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari deve precedere temporalmente e logicamente quella riferita alla scelta della misura concretamente adottabile e pertanto risulta parimenti evidente che, una volta esclusa per qualsiasi ragione e quindi anche per il decorso di un significativo lasso temporale (art. 292 lett. c cod. proc. pen.), la sussistenza delle esigenze special – preventive non residua alcuna necessità di ordine prima logico che giuridico di procedere a valutazioni inerenti la scelta di una misura che si è già escluso di dover applicare” (Sez. VI, 18 settembre 2015, n. 42630, Tortora, Rv. 264984).

A tale impostazione si è peraltro replicato, altrettanto recentemente (ed in linea con il primo orientamento qui richiamato), che “l’esistenza di una presunzione relativaex legedi sussistenza delle esigenze cautelari (art. 275 co. 3 cod. proc. pen.) inverte gli ordinari «poli» del ragionamento giustificativo, nel senso che il giudice che applica o che conferma la misura cautelare non ha un obbligo di dimostrazione «in positivo» della ricorrenza dei  pericula libertatis… ma ha un obbligo di apprezzamento delle eventuali «ragioni di esclusione» , tali da smentire, nel caso concreto, l’effetto di detta presunzione” (Sez I, 6 ottobre 2015, n. 45657, Varzaru).

2.3.Esigenze cautelari e “gravità del titolo di reato”. Si è già accennato al fatto che il secondo intervento, operato “simmetricamente” dalla l. n. 47 sulle lettere b) e c) dell’art. 274 cod. proc. pen., è consistito nell’inserimento della locuzione “le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere desunte dalla gravità del titolo di reato per il quale si procede” (nella lett. c, si precisa che tale preclusione opera “anche in relazione alla personalità dell’imputato”). Il riferimento alla “gravità del titolo di reato” richiama quindi, con ogni evidenza, la fattispecie incriminatrice astratta contestata nel procedimento.

Peraltro, l’originaria stesura della legge di riforma aveva previsto il divieto di desumere il pericolo di reiterazione “esclusivamente dalle modalità del fatto per cui si procede”: si era osservato, in proposito, che tale locuzione aveva il chiaro intento di superare l’orientamento, largamente maggioritario nella giurisprudenza della Suprema corte, secondo cui gli elementi apprezzabili per la configurabilità del pericolo “possono essere tratti anche dalle specifiche modalità e circostanze del fatto, considerate nella loro obiettività, giacché la valutazione negativa della personalità dell’indagato può desumersi dai criteri oggettivi e dettagliati stabiliti dall’art. 133 cod. pen. tra i quali sono comprese le modalità e la gravità del fatto reato” (Sez. II, 16 ottobre 2013, n. 51843, Caterino, Rv. 258070).

Dopo l’entrata in vigore della legge n. 47, tale indirizzo – che in sostanza consente di operare, nel giudizio prognostico di cui all’art. 274 lett. c), una duplice valutazione degli elementi fattuali della vicenda: sia quanto alla sua gravità, sia quanto alla capacità a delinquere dell’imputato – è stato ripetutamente ribadito da varie Sezioni della Suprema corte: v., tra le altre, Sez. I, 22 luglio 2015, n. 32199, Vasquez; Sez. I, 16 luglio 2015, n. 35948, Santoro; Sez. II, 16 settembre 2015, n. 41359, De Girolamo; Sez. III, 15 ottobre 2015, n. 45911, Cojocari; Sez. III, 27 ottobre 2015, n. 45285, Peritore. In particolare,Sez. II, 20 ottobre 2015, n. 42746, Femia, ha esplicitamente escluso che un divieto di valutare la personalità dell’imputato sulla base delle condotte poste in essere sia ricavabile dal nuovo testo dell’art. 274, dal momento che, ai sensi di tale articolo, “è vietato trarre un giudizio sulla personalità dell’imputato dalla gravità del titolo del reato e non dalla gravità concreta del reato stesso”. V. anche, da ultimo, Sez. VI, 28 ottobre 2015, n. 46803, Polverino, che, nel ribadire la persistente validità dell’orientamento giurisprudenziale maturato prima della novella, ha valorizzato la radicale diversità – cui si è già accennato all’inizio del presente paragrafo – della locuzione introdotta nella stesura definitiva della legge, rispetto a quelle proposte nel corso dei lavori preparatori (cfr.supra).

È tuttavia utile segnalare che, in alcune pronunce (Sez. II, 29 settembre 2015, n. 41771, Caputo; Sez. II, 14 ottobre 2015, n. 43352, Tatti; Sez. II, 20 ottobre 2015, n. 45512, Russo), si è invece affermato che la nuova formulazione dell’art. 274  “lascia chiaramente intendere la necessità di superare l’indirizzo interpretativo” favorevole alla valutazione della personalità sulla scorta delle modalità e della gravità del reato; tali pronunce sottolineano, comunque, la necessità che il pericolo di reiterazione si basi, alla luce della novella, su “un giudizio prognostico basato su dati concreti necessariamente considerati nell’attualità”.

3.La giurisprudenza sulle nuove disposizioni in tema di scelta della misura.

Già dai cenni introduttivi svolti in premessa (cfr.supra, § 1), emerge chiaramente che quello dei criteri di individuazione della misura cautelare applicabile nel caso concreto costituisce forse l’aspetto che ha subito le più ampie e rilevanti modifiche, da parte degli interventi legislativi degli ultimi anni: basti pensare, da ultimo, alla completa ridefinizione dell’ambito applicativo delle presunzioni di adeguatezza della custodia in carcere, operata dalla l. n.47 inpiena sintonia con la ben nota opera “demolitoria” del sistema codificato nel 2009, progressivamente attuata dalle sentenze della Corte costituzionale.

In questa sede, si ritiene peraltro di soffermare l’attenzione su altri rilevanti aspetti della problematica in esame, alla luce di alcune pronunce emesse nel corso del 2015: si allude, da un lato, al divieto di applicazione della custodia in carcere introdotto nell’art. 275, comma 2 bis, cod. proc. pen., e, dall’altro, alle questioni emerse in tema di arresti domiciliari con le “particolari modalità di controllo” di cui all’art. 275 bis del codice di rito.

3.1.Custodia in carcere e valutazione prognostica sulla pena che sarà irrogata.

Sono note le vivaci reazioni dottrinali alle modifiche apportate, dal d.l. n. 92 del 2014 e dalla relativa legge di conversione n. 117 del 2014, all’art. 275, comma 2 bis, cod. proc. pen., il cui secondo e terzo periodo prevedono che “salvo quanto previsto dal comma 3 e ferma restando l’applicabilità degli articoli 276, comma 1-ter, e 280, comma 3, non può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni. Tale disposizione non si applica nei procedimenti per i delitti di cui agli articoli 423-bis, 572, 612-bis e 624-bis del codice penale, nonché all’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, e quando, rilevata l’inadeguatezza di ogni altra misura, gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell’articolo 284, comma 1, del presente codice”.  Altrettanto noto è il fatto che, in sede di conversione, sono state introdotte le eccezioni qui appena richiamate alla regola generale dell’inapplicabilità della misura carceraria, ed è stata sostituita – quale oggetto del giudizio prognostico – la locuzione “pena detentiva da eseguire” (che aveva dato luogo a plurimi rilievi, anche per le criticità connesse allo scomputo del presofferto) con l’attuale riferimento alla “pena irrogata”.

Una prima questione, emergente dall’analisi delle pronunce emesse nel corso del 2015, concerne la funzione che, nel sottosistema cautelare, deve essere attribuita alle nuove disposizioni qui richiamate.

Al riguardo, è opportuno richiamare Sez. I, 1 ottobre 2015, n. 40887, Alesse, secondo cui la novella “ha introdotto un espresso «divieto» di applicazione della custodia in carcere”, divieto peraltro non operante ove ricorrano talune circostanze di fatto (trasgressione di misura già applicata, indisponibilità di un luogo di esecuzione degli arresti domiciliari) ovvero si proceda per determinati titoli di reato. Ad avviso della Prima Sezione, si tratta di una ulteriore concretizzazione dei noti principi di proporzionalità e adeguatezza della misura cautelare rispetto al prevedibile esito del giudizio, essendo chiara la correlazione con il sistema delle misure alternative alla detenzione: in altri termini, la novella ha introdotto “un evidente limite al potere discrezionale del giudice”nell’individuazione della misura applicabile, “posto che – tranne le ipotesi prima descritte – lì dove la prognosi quoad poenam risulti contenuta nel limite dei tre anni la misura «massima» applicabile risulta quella degli arresti domiciliari”. Da tali premesse ricostruttive, consegue – perla Prima Sezione- un ineludibile onere, per il giudice emittente la misura e per quello investito del riesame, di formulare il giudizio prognostico sulla pena che sarà irrogata: si è in presenza “di un limite posto direttamente dalla legge” all’applicazione della misura inframuraria, il cui superamento postula appunto la previsione di una pena irrogata in misura superiore ai tre anni, ovvero la ricorrenza di una delle situazioni eccezionali codificate nello stesso comma 2-bis dell’art. 275.

In senso analogo – ovvero per una ricostruzione in termini di vero e proprio “divieto” di applicazione della misura carceraria, con una prognosi di pena irrogata inferiore a tre anni – si sono espresse, tra le altre, Sez. V, 4 febbraio 2015, n. 7742, Rv. 262838 (relativa ad una fattispecie in cui, peraltro, il divieto non è stato ritenuto applicabile per l’indisponibilità di un luogo di esecuzione degli arresti domiciliari, stante l’imminente scadenza del contratto di locazione dell’immobile); Sez. II, 14 gennaio 2015, n. 4418, Rv. 262377, secondo cui il divieto in questione non riguarda gli arresti domiciliari (né le misure ulteriormente gradate), perciò applicabili anche qualora il giudice ritenga che verrà irrogata una pena inferiore a tre anni.

È peraltro necessario ricordare che una posizione radicalmente diversa è stata assunta da Sez. III, 27 febbraio 2015, n. 32702, Jabbar, Rv. 264261, secondo la quale i limiti di applicabilità della misura inframuraria, introdotti dalla novella, “possono essere superati dal giudice qualora ritenga, secondo quanto previsto dal successivo comma terzo, prima parte, della norma citata, comunque inadeguata a soddisfare le esigenze cautelari ogni altra misura meno afflittiva”. Ad avviso della Terza sezione, in sostanza, il richiamo al comma 3 dell’art. 275, contenuto nel comma 2-bis, deve intendersi riferito non solo alle disposizioni che regolano la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere, ma anche a quella che apre il predetto comma 3, secondo cui “la custodia in carcere può essere applicata soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata”. In tale prospettiva, pertanto, “nonostante i limiti e le preclusioni previste dall’art. 275, comma 2 bis, secondo paragrafo, la misura della custodia cautelare in carcere può essere applicata quando il giudice ritenga possibile una condanna a pena uguale o inferiore a tre anni di reclusione e contestualmente reputi inutile, sul piano cautelare, ogni altra misura meno afflittiva (tanto varrebbe, allora, non applicare affatto alcuna misura cautelare)”.

Un secondo aspetto su cui sono riscontrabili posizioni non univoche, nella giurisprudenza della Corte di cassazione, concerne il rapporto tra le disposizioni qui in esame, da un lato, e, dall’altro, il divieto di concessione degli arresti domiciliari a chi sia stato condannato per evasione nei cinque anni precedenti al fatto per cui si procede (art. 284, comma 5 bis).

Secondo un primo indirizzo, tale divieto di concessione degli arresti domiciliari “ha carattere assoluto e, pertanto, prevale sulla disposizione di cui all’art. 275, comma 2 bis, cod. proc. pen., in base alla quale non può essere applicata la misura della custodia in carcere quando il giudice ritiene che la pena irrogata non sarà superiore a tre anni” (Sez. II, 12 marzo 2015, n. 14111, Rondinone, Rv. 262960; in senso analogo, v. Sez. VI, 24 giugno 2015, n. 34025, Annoscia).

In una diversa ed anzi opposta prospettiva, si è invece affermato (Sez. VI, 12 febbraio 2015, n. 17657, Caradonna), che il divieto di applicazione della custodia in carcere in caso di prognosi sanzionatoria inferiore ai tre anni, di cui all’art. 275 comma 2 bis, prevede quale eccezione la sola ipotesi della violazione delle prescrizioni imposte con gli arresti domiciliari: deve pertanto escludersi l’applicazione dell’art. 284, comma 5 bis, “perché tale disposizione presuppone chiaramente che per il reato in questione possa essere disposta la custodia in carcere” (principio affermato in una fattispecie in cui l’imputato era stato condannato, in primo grado, alla pena di anni uno, mesi sei di reclusione).

Nella successiva evoluzione giurisprudenziale in materia, potrebbe assumere rilevanza il fatto che, a seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 47 al comma 5 bis dell’art. 284, il divieto di concessione degli arresti domiciliari al condannato per evasione nel quinquennio non è più assoluto (laddove l’assolutezza veniva valorizzata, come si è visto, dalle pronunce orientate per la prevalenza di tale divieto sulla disposizione di cui all’art. 275, comma 2 bis): il novellato comma 5 bis fa infatti salva l’ipotesi “che il giudice ritenga, sulla base di specifici elementi, che il fatto sia di lieve entità e che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con tale misura”.

Per ciò che riguarda, infine, il momento in cui il giudice procedente è chiamato ad operare la valutazione prognostica sulla pena che sarà irrogata, la giurisprudenza ha affermato che “il limite di tre anni di pena detentiva necessario per l’applicazione della custodia in carcere, previsto dall’art. 275, comma secondo bis, cod. proc. pen., come novellato dal D.L. 26 giugno 2014, n. 92, nel testo anteriore alle modificazioni introdotte dalla legge di conversione 11 agosto 2014, n. 117, deve essere oggetto di valutazione prognostica solo al momento di applicazione della misura, ma non anche nel corso della protrazione della stessa, con la conseguenza che il presupposto assume rilievo non in termini di automatismo, ma solo ai fini del giudizio di perdurante adeguatezza del provvedimento coercitivo, a norma dell’art. 299, cod. proc. pen.” (Sez. VI, 16 dicembre 2014, n. 1798/2015, Ila, Rv. 262059).

Tale percorso argomentativo è stato successivamente confermato, da diverse pronunce, anche in relazione alle ordinanze cautelari emesse dopo l’entrata in vigore della legge di conversione n. 117 del 2014 (e quindi in relazione alla pena detentiva che sarà irrogata, e non alla pena “da eseguire”): cfr.. Sez. IV, 26 marzo 2015, n. 13025, Iengo, Rv. 262961; Sez. IV, 3 giugno 2015, n. 33836, Nadir; Sez. IV, 6 luglio 2015, n. 33848, Bruno, la quale ha tra l’altro posto in evidenza che la scelta del legislatore è stata quella di tener ferma una cesura tra custodia cautelare (in cui rileva il necessario bilanciamento tra esigenze di libertà e di sicurezza dei cittadini) ed esecuzione della pena (in cui rileva invece l’individuazione delle più idonee possibilità di recupero per il condannato):“tale differenza non permette l’applicazione dei criteri di cui all’art. 275 c.p.p., comma 2 bis nel corso del procedimento, quando la misura cautelare sia già in atto; la circostanza delimita la necessità di tale prognosi alla fase applicativa della misura, come del resto previsto dalla collocazione della disposizione invocata, ed esclude la presenza di un obbligo di costante analisi, sulla base degli effettivi e concreti sviluppi del procedimento, con valutazione che deve avere quale orizzonte valutativo l’esito del giudizio e non le determinazioni che intervengono nelle fasi intermedie, con la considerazione del presofferto”.

3.2.Scelta della misura e “braccialetto elettronico”.

Com’è noto, la disciplina delle “particolari modalità di controllo” correlate alla misura degli arresti domiciliari ha subito un duplice ordine di modifiche, negli anni qui presi in considerazione.

Da un lato, la prescrizione del c.d. braccialetto elettronico deve oggi essere senz’altro disposta dal giudice (accertata la disponibilità dei necessari apparati da parte della polizia giudiziaria), salvo che venga ritenuta non necessaria in relazione alle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto (art. 275-bis, comma 1, cod. proc. pen., come modificato dal d.l. n. 146 del 2013 conv. in l. n. 10 2014): laddove invece, prima della novella, il controllo elettronico veniva disposto dal giudice solo se ritenuto necessario. D’altro lato, la legge n.47 haintrodotto – inserendo un comma 3 bis all’interno dell’art. 275 – uno specifico onere motivazionale a carico del giudice che intenda disporre la custodia in carcere, essendo egli tenuto ad “indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all’art. 275 bis, comma 1”.

Nella più recente giurisprudenza della Corte di cassazione, non si registra unanimità di vedute per ciò che riguarda il problema della eventuale indisponibilità degli strumenti elettronici da parte della polizia giudiziaria, ed in particolare delle conseguenze di tale indisponibilità sulla misura da applicare nel caso concreto.

Secondo una prima opinione, “in tema di arresti domiciliari con la prescrizione dell’adozione del cosiddetto “braccialetto elettronico”, qualora il giudice – ritenendo che tale strumento di controllo sia nel caso concreto una modalità di esecuzione degli arresti domiciliari necessaria ed idonea per fronteggiare le esigenze cautelari – non accolga un’istanza di sostituzione della custodia in carcere, a causa della indisponibilità di “braccialetti” da parte della P.G., non sussiste alcun “vulnus” ai principi di cui agli artt. 3 e 13 Cost., perché la impossibilità della concessione degli arresti domiciliari senza controllo elettronico a distanza dipende pur sempre dalla intensità delle esigenze cautelari e, pertanto, è ascrivibile alla persona dell’indagato. (Conf. Sez. 1, n. 520 del 2015, non massimata)” (Sez. II, 19 giugno 2015, n. 28115, Candolfi, Rv. 264230). In tale prospettiva – che in sostanza impone di includere l’indisponibilità degli strumenti di controllo, pur non imputabile all’indagato, tra i fattori da considerare nella valutazione dell’adeguatezza degli arresti domiciliari – si è ulteriormente precisato, da ultimo (Sez. II, 10 novembre 2015, n. 46238, Pappalardo), che, dopo la ricordata modifica dell’art. 275 bis, l’applicazione delle modalità di controllo non può essere più considerata una mera modalità di esecuzione degli arresti domiciliari, come finora reiteratamente affermato dalla giurisprudenza, ma piuttosto la regola generale, “con la sola eccezione rimessa alla prudente valutazione del giudice in relazione alle esigenze cautelari sottese alla privazione della libertà personale dell’indagato. Ma tuttora l’applicazione della misura, con le descritte modalità, è subordinata all’accertamento preventivo della disponibilità dei mezzi elettronici o tecnici (cosiddetto braccialetto elettronico) da parte della polizia giudiziaria. A ciò consegue che, in caso di accertata indisponibilità dei suddetti mezzi di controllo, al giudice, sarà necessariamente imposta l’adozione della misura della custodia in carcere. Difatti le stesse esigenze cautelari che imponevano l’adozione della misura degli arresti domiciliari con adozione degli strumenti di controllo si prestano ad essere adeguatamente tutelate solo con l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere“.

In un’ottica ricostruttiva totalmente diversa, si è invece affermato (Sez. I, 10 settembre 2015, n. 39529, Quici, Rv. 264943) che la modifica dell’art. 275-bis ha confermato la natura di mera modalità esecutiva degli arresti domiciliari, che deve essere attribuita alle procedure di controllo elettronico. Pertanto, “se viene ritenuta dal giudice la idoneità della misura degli arresti domiciliari a soddisfare le concrete esigenze cautelari, la applicazione ed esecuzione di detta misura non può essere condizionata da eventuali difficoltà di natura tecnica e/o amministrativa per l’esecuzione della misura, trattandosi di presupposti, all’evidenza, non comparabili tra loro”. In buona sostanza, ad avviso della Prima Sezione, “una volta valutata la adeguatezza della misura domiciliare secondo i criteri di cui all’art. 275 cod. proc. pen., il detenuto dovrà essere controllato con i mezzi tradizionali se risulti la indisponibilità degli strumenti elettronici”.

Per ciò che riguarda invece la seconda modifica legislativa sopra richiamata, riguardante il nuovo onere motivazionale imposto al giudice in sede di applicazione della custodia in carcere, è opportuno richiamare Sez. III, 27 ottobre 2015, n. 45699, Nannavecchia, che ha accolto un’interpretazione rigorosa del nuovo comma 3 bis dell’art.275. Inparticolare, è stata annullata un’ordinanza emessa in sede di riesame che non aveva assolto al predetto obbligo, essendosi limitata “solo a chiarire le ragioni dell’inadeguatezza degli arresti domiciliari “semplici” a salvaguardare l’esigenza cautelare richiamata, senza tuttavia argomentare specificamente – come oggi richiesto dalla novella del 2015 – in ordine all’inidoneità a fronteggiare la predetta esigenza cautelare mediante la predetta misura domiciliare “aggravata””. Sulla stessa linea interpretativa v. altresì, da ultimo, Sez. II, 4 dicembre 2015, n. 49105, Bacio Terracino, che ha ricollegato la necessità di un puntuale adempimento del nuovo onere motivazionale al fatto che, ai sensi del novellato art. 275 bis, l’applicazione degli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico costituisce ormai la “regola generale”. V. anche Sez. III, 25 novembre 2015, n. 48700, Buscema, la quale ha sottolineato che la carenza argomentativa qui in esame, rilevata nel provvedimento impositivo della misura custodiale, può comunque essere colmata dal tribunale del riesame, attraverso i propri poteri di integrazione della motivazione.

In senso nettamente diverso appare peraltro orientata Sez. VI, 28 ottobre 2015, n. 46806, Zanga, secondo la quale deve escludersi la sussistenza del difetto di motivazione ex art. 275 comma 3 bis qualora il giudice – sulla base della pericolosità dell’indagato e delle circostanze del caso concreto – abbia adeguatamente motivato sull’inadeguatezza degli arresti domiciliari per fronteggiare il rischio di recidiva, in quanto, in tale ipotesi, “il mancato cenno alla previsione del possibile utilizzo del braccialetto risulta assorbito dalla argomentazione complessivamente spesa per escludere l’adeguatezza in sé degli arresti”. Sull’ammissibilità di una motivazione implicita, agli specifici fini che qui interessano, v. anche Sez. I, 16 luglio 2015, n. 35948, Santoro.

In una posizione per così dire intermedia sembra possibile collocare Sez. III, 1 dicembre 2015, n. 48962, D.R., che ha sottolineato la necessità di una compiuta analisi della motivazione dell’ordinanza, per verificare la sua rispondenza ai nuovi requisiti motivazionali (nella specie, la S.C. ha posto in evidenza che l’ordinanza impugnata non si era limitata ad osservare che “l’utilizzo del braccialetto elettronico non neutralizzerebbe ogni possibilità di movimento criminale dell’indagato”– locuzione censurata dalla difesa per il suo carattere tautologico – ma aveva evidenziato l’assoluta necessità di far cessare radicalmente le comunicazioni con gli altri associati, per le quali l’indagato aveva fatto uso anche di apparecchi intestati a persone inesistenti. In tale contesto, perla Terza Sezione, non era necessario aggiungere alcun’altra “specifica ragione” per motivare l’inadeguatezza degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico).

Sempre in tema di onere motivazionale ex art. 275, comma 3-bis, si segnala anche Sez. I, 5 giugno 2105, n. 27335, Margari, la quale ha escluso che la nuova disposizione sia applicabile alle ordinanze cautelari emesse in relazione a reati per i quali vige la presunzione relativa di adeguatezza della sola custodia in carcere, ai sensi del comma 3 dello stesso art. 275: infatti, per tali fattispecie, il legislatore – privilegiando non irragionevolmente le esigenze di tutela della collettività – ha ritenuto non idonea “la modalità di esecuzione della custodia domiciliare con braccialetto elettronico, riferibile soltanto agli altri reati meno gravi per i quali non opera alcuna presunzione e la sottoposizione a custodia in carcere sia frutto di scelta discrezionale del giudice, da giustificare in modo puntuale anche sotto il profilo dell’insufficienza dei dispositivi di controllo applicabili”.

Sul rapporto tra braccialetto elettronico e presunzione di adeguatezza, si era in precedenza affermato che, “nei reati con presunzione relativa di idoneità della custodia cautelare in carcere, la disponibilità ad indossare il predetto dispositivo presuppone che la presunzione sia già vinta, ossia che il giudice, valutando gli elementi specifici del singolo caso, ritenga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con misure diverse dalla detenzione carceraria” (Sez. III, 3 dicembre 2014, n. 7421/2015, F., Rv. 262418).

4.La giurisprudenza sulle nuove disposizioni in tema di motivazione dell’ordinanza cautelare.

Com’è noto, la legge n. 47 ha introdotto rilevanti modifiche alle disposizioni del codice di rito concernenti i requisiti dell’ordinanza cautelare, modifiche chiaramente volte – come emerge dai lavori parlamentari – ad evitare la redazione di motivazioni “appiattite” su quelle del pubblico ministero richiedente. In particolare, da un lato, è stato inserito nelle lettere c) e c-bis) dell’art. 292, accanto a quello della “esposizione”, il requisito della “autonoma valutazione” degli elementi ivi indicati (esigenze cautelari, indizi, ritenuta irrilevanza delle argomentazioni difensive, inadeguatezza di misure gradate rispetto a quella carceraria); dall’altro, sono stati corrispondentemente rivisti i poteri decisori del tribunale del riesame, aggiungendo all’art. 309, comma 9 – che prevede tra l’altro il potere, rimasto immutato, di confermare l’ordinanza impugnata anche per ragioni diverse da quelle ivi indicate – il seguente periodo conclusivo: “Il tribunale annulla il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292, delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa”.

Tra le pronunce emesse dalla Suprema corte in argomento, va anzitutto segnalata Sez. VI, 15 settembre 2015, n. 40978, De Luca, Rv. 264567, che ha attribuito alle nuove disposizioni una valenza meramente ricognitiva dei rigorosi approdi ermeneutici già raggiunti da una parte della giurisprudenza (cfr. Sez. VI, 13 marzo 2014, Sanjust, Rv. 259462), secondo i quali il tribunale del riesame non può ricorrere al proprio potere integrativo per completare la motivazione di un’ordinanza cautelare che sia priva dell’autonoma valutazione, da parte del giudice emittente, del materiale posto a sostegno della richiesta. In altri termini, ad avviso della Sesta sezione, “il riferimento alla «autonoma valutazione» non aggiunge, a quelli preesistenti, un nuovo requisito a pena di nullità bensì ritiene corretta quell’interpretazione secondo la quale il provvedimento di custodia deve sia avere il necessario contenuto «informativo» che dimostrare la effettiva valutazione da parte del giudicante e, quindi, il reale esercizio della giurisdizione”; in tale prospettiva, l’annullamento previsto dal novellato comma 9 dell’art. 309, per l’ipotesi in cui la motivazione “manca” o “non contiene l’autonoma valutazione”, va inteso nel senso che “la nullità ricorre quando, pur a fronte di un contenuto ineccepibile dell’atto sul piano formale di completezza, si tratta chiaramente di una mera adesione acritica alle scelte dell’accusa”. In senso analogo, v. anche Sez. VI,1 ottobre 2015, n. 44607, Di Marzo; Sez. VI, 22 ottobre 2015, n. 45934, Perricciolo, Rv. 265068; Sez. VI, 29 ottobre 2015, n. 47233, Moffa;Sez. II, 28 ottobre 2015, n. 46136, Campanella, la quale ha evidenziato che la dimensione “autonoma” della valutazione giudiziale, relativa alla consistenza e legittimità degli elementi disponibili, è “connaturata alla funzione di controllo affidata al giudice per le indagini preliminari”, pur se è stata richiesta espressamente solo dalla legge n. 47. Da ultimo, cfr. la già citata Sez. III, n. 48962 del 2015, D.R., la quale ha precisato che lo sforzo motivazionale richiesto dalla novella “non può essere inteso come finalizzato ad una «originale esposizione» dei fatti; la necessità del vaglio critico degli elementi indiziari e delle esigenze cautelari non si traduce infatti nella necessità di una riscrittura del testo della richiesta del P.M., ciò che finirebbe per risolversi in un impegno letterario che poco aggiungerebbe alla tutela del diritto di difesa, cui tende l’intervento riformatore”. Tale pronuncia si segnala anche per aver ricondotto l’onere motivazionale in questione anche al provvedimento emesso dal tribunale del riesame ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen.

Diverse sentenze hanno poi affrontato la questione – di assoluto rilievo nella pratica giudiziaria, oltre che strettamente correlata a quella fin qui discussa – della compatibilità, con le nuove disposizioni, della motivazione c.d.per relationem: questione ripetutamente risolta in senso positivo.

Si è in particolare affermato (Sez. Fer., 12 agosto 2015, n. 34858, Liotta) che l’espressa previsione di un obbligo di autonoma valutazione dei presupposti dell’intervento cautelare non sembra potersi tradurre tout court nel divieto di motivare per relationem, dovendosi invece ancorare la legittimità dell’ordinanza “alla dimostrazione che il giudice, nel riportarsi al contenuto di un atto del procedimento ovvero nel riprodurlo nel corpo della motivazione, ne abbia non solo preso cognizione, ma altresì effettivamente soppesato la coerenza con la decisione assunta. Che è esattamente una delle condizioni già individuate dalla giurisprudenza per legittimare il ricorso alla motivazione  per relationem, condizione che il legislatore si è dunque limitato a recepire”. Nello stesso senso, v. tra le altre Sez. VI, 29 ottobre 2015, n. 45166, Esposito, secondo la quale le disposizioni introdotte dalla legge n. 47, lungi dal vietare la motivazione per relationem, si pongono in una linea di continuità con i principi costantemente affermati dalla Suprema corte sin da Sez. un.,  21 giugno 2000, Primavera, Rv. 216664; cfr. anche le già citate Sez. II, n. 45934 del 2015, Perricciolo  e, da ultimo, Sez. II, n. 46136 del 2015, Campanella, secondo la quale “la tecnica del rinvio testuale è legittima nella misura confinata nell’area della «esposizione» degli elementi posti a sostegno della misura, ma non può estendersi fino all’assorbimento dei contenuti valutativi della richiesta cautelare, confliggendo tale operazione con la strutturale funzione di controllo affidata al giudice per le indagini preliminari in materia di misure cautelari”.

La giurisprudenza della Suprema corte ha anche sottolineato, per altro verso, che le nuove disposizioni introdotte dalla l. n. 47 non hanno fatto venir meno il potere integrativo esercitabile, dal tribunale del riesame, ai sensi del comma 9 dell’art. 309 (cfr.supra): fermo restando, ovviamente, che tale potere potrà oggi essere esercitato solo ove non ricorrano le nuove ipotesi di annullamento (motivazione mancante o priva dell’autonoma valutazione). In tal senso, v. Sez. VI, 22 ottobre 2015, n. 44433, Bellinghieri;Sez. VI, 5 novembre 2015, n. 46623, Orsi, secondo la quale il potere integrativo di cui trattasi è pienamente esercitabile, in presenza dell’autonoma valutazione di cui si è detto, per integrare la “esposizione” degli elementi previsti, a pena di nullità, dalle lettere c) e c-bis) del comma 2 dell’art. 292 cod. proc. pen..

5.La giurisprudenza sul coinvolgimento della persona offesa nei procedimenti di revoca o sostituzione delle misure cautelari.

Si è già accennato, in premessa, alle importanti modifiche introdotte nell’art. 299 cod. proc. pen. – con riferimento ai procedimenti aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona – dal d.l. n. 93 del 2013, convertito dalla l. n. 119 del 2013: le nuove disposizioni prevedono infatti una forma di interlocuzione obbligatoria con la persona offesa, qualora venga proposta una richiesta di revoca o sostituzione delle misure cautelari coercitive diverse dal divieto di espatrio e dall’obbligo di presentazione alla p.g.. Invero, sia nella fase delle indagini che in quelle successive, le richieste di revoca o sostituzione devono essere contestualmente notificate al difensore della persona offesa (ovvero, in mancanza, a quest’ultima), a pena di inammissibilità delle richieste medesime.

A tale ultimo proposito, la giurisprudenza della Suprema corte è ripetutamente intervenuta, nel corso del 2015, chiarendo tra l’altro che la predetta sanzione deve ritenersi applicabile anche quando l’oggetto della richiesta sia costituito dalla revoca o dalla sostituzione della misura, ma dall’applicazione di quest’ultima con modalità meno gravose (Sez. VI, 5 febbraio 2015, n. 6717, D. Rv. 262272). La stessa pronuncia ha anche sottolineato che, con le nuove disposizioni, si intende rendere la persona offesa partecipe dell’evoluzione della posizione cautelare dell’indagato o imputato, “consentendole di presentare, entro un breve lasso temporale, memorie ai sensi dell’art. 121 c.p.p., al fine di offrire all’autorità giudiziaria procedente la conoscenza di ulteriori elementi di valutazione pertinenti all’oggetto della richiesta e garantire in tal modo la possibilità di instaurare un adeguato contraddittorio con la vittima del reato all’interno dell’incidente cautelare”; in senso conforme, v. anche Sez. VI, 23 luglio 2015, n. 35613, T., Rv. 264342. Un’interpretazione rigorosa della sanzione di inammissibilità era stata del resto già fornita dalle decisioni meno recenti, sia quanto alla rilevabilità d’ufficio, sia quanto alla “insanabilità” della situazione fino al giudicato (cfr. ad es. Sez. IV, 26 luglio 2014, n. 29045, Isoldi, Rv. 259984).

È tuttavia necessario sottolineare che, di recente, è stata proposta dalla Suprema corte un’interpretazione volta a ridimensionare sensibilmente la portata applicativa delle nuove disposizioni. Si è in particolare sostenuto (Sez. II, 14 ottobre 2015, n. 43353, Quadrelli, Rv. 265094) che queste ultime dovrebbero riguardare solo i procedimenti per reati con violenza alla persona connotati da un pregresso rapporto personale tra vittima e imputato, non anche quelli in cui l’azione violenta è risultata del tutto occasionale.

A sostegno di tale assunto,la Secondasezione ha affermato che – nonostante anche le vittime occasionali siano esposte al rischio di ulteriori episodi delittuosi, magari per finalità ritorsive correlate alla loro decisione di sporgere denuncia – solo un pregresso rapporto tra vittima e aggressore può “presumibilmente” consentire alla prima di avere a disposizione ulteriori elementi di conoscenza, da offrire al giudicante attraverso la presentazione di memorie ex art. 121 cod. proc. pen.: “Fuori da questo ambito, il rapporto di maggior tutela, rivolto indiscriminatamente a tutte le vittime di reati con violenza alla persona, appare ridursi ad un mero formalismo, in quanto alla vittima occasionale della rapina, di regola solo casualmente – anche nella “scelta” dell’aggressore – vittima del reato, non può derivare ragionevolmente alcun pregiudizio dalla circostanza che all’imputato si revochi o si modifichi l’originaria misura cautelare”. Su tali basi,la Secondasezione – in una fattispecie relativa a misura cautelare disposta per più delitti di rapina aggravata in danno di istituti di credito – ha annullato l’ordinanza emessa dal tribunale, ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen., che aveva d’ufficio ritenuto sussistente l’inammissibilità dell’istanza, per la mancata notifica della stessa alle persone offese.

6.La giurisprudenza sulle modifiche al procedimento di riesame personale.

Nel corso della presente esposizione, si è già avuto modo di accennare ad un’importante modifica apportata dalla legge n. 47 all’art. 309 del codice di rito, concernente la ridefinizione dei poteri decisori del tribunale investito dell’impugnazione cautelare (cfr.supra, § 4). Va peraltro evidenziato che la predetta legge ha profondamente innovato anche altri aspetti del procedimento di riesame, tra i quali la partecipazione del ricorrente all’udienza camerale, i termini perentori (oggi previsti non solo per la trasmissione degli atti e per la decisione, ma anche per il deposito dell’ordinanza), le conseguenze derivanti dalla violazione dei predetti termini (oggi non più limitate alla perdita di efficacia della misura).

Nelle pagine seguenti, si farà cenno ad alcune pronunce della Suprema corte che – talora con risultati non convergenti – si sono occupate delle questioni interpretative sollevate dalle nuove disposizioni.

6.1. La partecipazione del ricorrente all’udienza camerale.

Com’è noto, la materia era finora regolata dal comma 8 dell’art. 309 cod. proc. pen., con un rinvio alle disposizioni generali dettate, per il procedimento camerale a partecipazione non necessaria, dall’art. 127 del codice di rito: rinvio che aveva dato luogo a marcate divergenze interpretative, soprattutto quanto alla posizione del detenuto “fuori distretto”. Era stata infatti sostenuta sia l’insussistenza di un diritto a presenziare (avendo il detenuto solo il diritto di essere ascoltato dal magistrato di sorveglianza del luogo di detenzione: cfr. Sez. IV, 12 luglio 2007, Cammarata, Rv. 237886); sia – all’opposto – la necessità di tradurre all’udienza camerale, a pena di nullità assoluta ed insanabile, il detenuto che ne avesse fatto richiesta (opinione maggioritaria: cfr. da ultimo Sez. VI, 21 maggio 2015, n. 21849, Farina, Rv. 263630); sia anche – in un’ottica intermedia dai marcati contorni “sostanzialisti” – la necessità di condizionare la traduzione alla manifestazione di volontà, da parte del detenuto richiedente, “di rendere dichiarazioni su questioni di fatto concernenti la propria condotta” (cfr .Sez. II, 5 novembre 2014, n. 6023/2015, Di Tella, Rv. 262312). Quanto poi alla questione della tempestività della richiesta di traduzione (di intuitivo rilievo, in un procedimento come quello ex art. 309), la giurisprudenza aveva fornito indicazioni che, ovviamente, risentivano della mancanza di specifiche indicazioni normative (cfr. ad es. Sez. VI, 4 novembre 2011, n. 42710, Ventrici, Rv. 251277, secondo cui la richiesta di traduzione doveva essere formulata “nella ragionevole immediatezza della ricezione della notificazione dell’avviso della data fissata per l’udienza camerale”).

La legge n. 47 ha apportato modifiche sostanziali all’art. 309, pur lasciando intatto il rinvio all’art. 127 contenuto nel comma8. Inparticolare, da un lato, al comma 6 del predetto articolo si prevede che “l’imputato può chiedere di comparire personalmente”; dall’altro, il novellato comma 8-bis dispone che “l’imputato che ne abbia fatto richiesta ai sensi del comma6 hadiritto di comparire personalmente”.

Tali disposizioni sono state diffusamente analizzate da Sez. I, 6 ottobre 2015, n. 49882, Pernagallo, secondo cui esse paiono “affermare, in modo inequivoco, il diritto del ricorrente di comparire all’udienza camerale fissata per la trattazione, anche se eventualmente detenuto fuori distretto; la possibilità di esercitare tale diritto, peraltro, risulta strettamente correlata, per l’impugnante detenuto o internato, alla formulazione della richiesta nell’atto di riesame”. In altri termini, ad avviso della Prima sezione, la novella ha inteso superare ogni pregressa incertezza sia quanto alla sussistenza del diritto a presenziare, sia quanto alla tempestività della relativa richiesta: né la previsione relativa al necessario inserimento di quest’ultima nell’atto di impugnazione può dirsi lesiva dei diritti di difesa, sia perché il ricorrente ha già potuto avere un contatto con l’organo che ha emesso la misura (a seconda dei casi, in sede di convalida o di interrogatorio di garanzia), sia perché l’impugnazione ex art. 309, con la eventuale richiesta di presenziare all’udienza, può comunque essere anche presentata dal (solo) difensore.

Infine, ad avviso della Prima sezione, deve oggi escludersi – pur essendo rimasto immutato, nel comma 8 dell’art. 309, il rinvio all’art. 127 cod. proc. pen. – che il detenuto fuori distretto possa chiedere di essere sentito prima dell’udienza dal magistrato di sorveglianza: le nuove disposizioni in tema di riesame costituiscono infatti una lex specialis  destinata a prevalere sulle disposizioni generali di cui all’art. 127 (diversamente opinando, si avrebbe per la sentenza “una irragionevole «rimessione in termini» a beneficio esclusivo di chi è detenuto o internato in luogo posto fuori del circondario del Tribunale competente”).

6.2. Il termine per il deposito dell’ordinanza.

Nel richiamare le pronunce emesse nel 2015 dalla Suprema corte in tema di esigenze cautelari (cfr.supra, § 2), si è già accennato al fatto che la giurisprudenza ha ripetutamente escluso – in applicazione del principio tempus regit actum– che le modifiche introdotte dal codice di rito dalla legge n. 47 (con particolare riguardo al requisito dell’attualità dei pericoli di cui alle lettere b e c dell’art. 274) possano incidere sulla legittimità delle ordinanze cautelari emesse in applicazione della previgente normativa: con la conseguente impossibilità di ritenere carente di motivazione un provvedimento che non abbia esaminato aspetti non contemplati dalle norme in vigore al momento della emissione (cfr. in tal senso, oltre alle sentenze già richiamate al § 2, Sez. II, 16 settembre 2015, n. 44515, Ax).

Una divergenza interpretativa in ordine alle implicazioni concrete del principio tempus regit actumsi è invece registrata con riferimento ad una delle più rilevanti innovazioni apportate dalla l. n. 47 al procedimento di riesame. Si allude all’introduzione, nell’art. 309 comma 10 cod. proc. pen., di un termine perentorio per il deposito dell’ordinanza in cancelleria (trenta giorni decorrenti dalla decisione, salva l’indicazione di un termine non superiore a quarantacinque, qualora la motivazione si riveli particolarmente complessa): termine che va ad aggiungersi a quelli – anch’essi perentori, a pena di inefficacia della misura –  concernenti la mancata trasmissione al tribunale degli atti posti a sostegno della misura entro i cinque giorni dalla richiesta, e la mancata decisione sulla richiesta di riesame entro dieci giorni dalla ricezione degli atti.

Il contrasto interpretativo cui si accennava concerne la particolare ipotesi in cui la decisione del tribunale sia ritualmente intervenuta prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni (con il deposito del dispositivo nei dieci giorni dalla trasmissione degli atti), ma l’ordinanza, completa della motivazione, sia stata depositata in cancelleria dopo la novella.

Da un lato, infatti, Sez. V, 17 settembre 2015, n. 40342, Ricciardi, Rv.264939, haritenuto applicabile la nuova normativa, dichiarando la perdita di efficacia della misura per il mancato deposito dell’ordinanza nei trenta giorni dalla decisione. A sostegno di tali conclusioni ,la Quinta Sezione ha escluso che esse conseguano ad un’applicazione retroattiva della legge n. 47, essendo invece necessario individuare quale segmento dell’attività procedimentale debba essere regolato secondo le nuove disposizioni: “attività che deve senz’altro essere identificata nella redazione della motivazione dell’ordinanza decisoria della procedura di riesame, e non più nella precedente ed ormai esaurita emissione del dispositivo della stessa”. In buona sostanza, tale pronuncia conferisce decisiva rilevanza al fatto che, al momento dell’entrata in vigore della nuova legge, i termini per la stesura della motivazione dell’ordinanza erano ancora pendenti, e come tali assoggettati alla nuova disciplina, sia quanto alla loro durata sia quanto alla sanzione prevista, in caso di inosservanza.

A diverse ed anzi opposte conclusioni è invece pervenuta Sez. I, 6 ottobre 2015, n. 43804, Farina, secondo la quale deve attribuirsi un rilievo dirimente al fatto che la decisione sulla richiesta di riesame intervenga prima della novella: anche attraverso un esplicito richiamo alla già citata sentenza Ambrogio delle Sezioni unite, la Prima sezione ha infatti affermato che “il principio tempus regit actum comporta che, di regola, la norma vigente al momento del compimento di ciascun atto ne segna definitivamente, irrevocabilmente, le condizioni di legittimità, ne costituisce lo statuto regolativo: un atto, una norma…poiché, al momento della pronuncia dell’ordinanza, il termine suddetto non esisteva, esso non può trovare applicazione con riferimento a quel provvedimento”. In senso del tutto conforme, v. anche Sez. VI, 21 settembre 2015, n. 41322, Policastri, la quale ha altresì posto in evidenza che la motivazione “non rappresenta un atto diverso e separato dal tipo di provvedimento giurisdizionale cui inerisce quale elemento costitutivo, ma ne seguein totola disciplina normativa in vigore al momento dell’adozione”.

6.3. Il divieto di rinnovazione della misura divenuta inefficace.

Com’è noto, la l. n.47 haintrodotto un’ulteriore, rilevantissima modifica al comma 10 dell’art. 309, prevedendo che, in caso di mancato rispetto di uno dei tre termini perentori cui si è poc’anzi accennato, “l’ordinanza che dispone la misura coercitiva perde efficacia e, salve eccezionali esigenze cautelari, non può essere rinnovata”.

Al riguardo, è opportuno segnalare, da un lato, Sez. VI, 12 maggio 2015, n. 23304, Vecchi, la quale ha escluso – in base all’appena richiamato principio tempus regit actum, ed alla conseguente necessità di valutare un atto in relazione alla norma vigente al momento della sua emanazione – che il divieto di rinnovazione in parola possa applicarsi con riferimento ad ordinanze cautelari che abbiano perso efficacia prima dell’entrata in vigore della l. n. 47.

D’altro lato, viene in rilievo la già citata Sez. III, 27 ottobre 2015, n. 45285, Peritore, secondo cui il divieto di rinnovazione di cui al novellato comma 10 dell’art. 309 opera esclusivamente nelle ipotesi di perdita di efficacia della misura causata dal mancato rispetto dei termini previsti per la trasmissione degli atti, per la decisione sulla richiesta di riesame e per il deposito dell’ordinanza: non anche nelle ipotesi (quale quella ricorrente nella fattispecie) di annullamento del titolo cautelare per motivi formali. Ad avviso della Terza Sezione, deve altresì escludersi qualsiasi possibilità di estensione analogica delle nuove disposizioni, “in quanto la specificazione che il legislatore ha inteso fare nell’art. 309 comma 10 prevedendo il divieto (peraltro non assoluto) di rinnovare una misura cautelare dichiarata inefficace per inosservanza dei termini indicati, non incide minimamente sulla reiterabilità della misura cautelare divenuta inefficace per questioni puramente formali la cui ammissibilità trova il suo fondamento – e perciò non ha formato oggetto di specifica previsione – nel generale principio del “ne bis in idem”, che è ostativoalla reiterazione della misura solo quando il giudice sia chiamato a riesaminare nel merito quegli stessi elementi che già siano stati ritenuti insussistenti o insufficienti, e non quando tali elementi non siano stati valutati nel merito”.

7. La giurisprudenza sulle modifiche al procedimento di riesame reale.

Come già accennato in premessa, la legge n.47 hamodificato anche il procedimento di riesame avverso i provvedimenti di sequestro preventivo, conservativo e probatorio, delineato dall’art. 324 cod. proc. pen.: prima della novella, il comma 7 del predetto articolo richiamava  – quali disposizioni applicabili anche nel procedimento di riesame reale  – i commi 9 e 10 dell’art. 309. La legge n.47 hainserito anche il richiamo al comma 9-bis dell’art. 309 (il quale ha introdotto, com’è noto, la possibilità per il ricorrente di richiedere il differimento dell’udienza camerale): sicchè, nel testo novellato, il comma 7 dell’art. 324 dispone che nel procedimento di riesame reale “si applicano le disposizioni dell’art. 309, commi 9, 9-bis e10”.

Una prima questione affrontata dalla giurisprudenza, dopo l’entrata in vigore della l. n. 47, è quella dell’applicabilità anche ai riesami reali del termine perentorio di cinque giorni per la trasmissione degli atti (previsto per i procedimenti di riesame personale dal comma 5 dell’art. 309) e della relativa “sanzione” costituita dalla perdita di efficacia della misura, ai sensi del comma 10 del medesimo art. 309. Prima della novella, com’è noto, il quesito era stato risolto dal Supremo consesso in senso negativo (Sez. un., 28 marzo 2013, Cavalli, Rv. 255581-255584).

Al riguardo, si è affermato che, anche nella vigenza delle nuove disposizioni, “non è applicabile, nel procedimento di riesame del provvedimento di sequestro, il termine perentorio di cinque giorni per la trasmissione degli atti al tribunale, previsto dall’art. 309, comma quinto, cod. proc. pen., con conseguente perdita di efficacia della misura cautelare impugnata in caso di trasmissione tardiva, ma il diverso termine indicato dall’art. 324, comma terzo, cod. proc. pen., che ha natura meramente ordinatoria sicché il termine perentorio di dieci giorni, entro cui deve intervenire la decisione a pena di inefficacia della misura, decorre, nel caso di trasmissione frazionata degli atti, dal momento in cui il tribunale ritenga completa l’acquisizione degli atti mancanti, nei limiti dell’effetto devolutivo dell’impugnazione” (Sez. III, 29 settembre 2015, n. 44640, Zullo). La persistente validità dei principi affermati dalle Sezioni unite nella sentenza Cavalli è stata esplicitamente ribadita – senza peraltro alcun richiamo alla legge n. 47 – anche da Sez. V, 26 giugno 2015, n. 48021, Attia; Sez. III, 24 settembre 2015, n. 465531, Antenori; Sez. III, 22 ottobre 2015, n. 45638, Vaudi..

Un diverso profilo problematico, conseguente all’entrata in vigore della novella, concerne poi la natura del rinvio operato dal comma 7 dell’art. 324 ai commi 9, 9-bis e 10 dell’art. 309: occorre infatti tener presente che, secondo la più volte citata sentenza Cavalli del 2013, tale rinvio era di natura statica o recettizia, nel senso che oggetto del richiamo erano i commi 9 e 10 nella formulazione originaria (ovvero, quanto al comma 10, quella antecedente alle modifiche apportate dalla legge 8 agosto 1995, n. 332, proprio in tema di termine per la trasmissione degli atti e relativa perdita di efficacia della misura, in caso di inosservanza).

Il problema che si pone, evidentemente, è quello di stabilire se tali conclusioni debbano esser tenute ferme – in tutto o in parte – anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 47: si tratta di una questione di grande rilievo anche pratico, essendo in gioco l’applicazione ai riesami reali delle importanti innovazioni introdotte dalla medesima legge nei commi 9 e 10 dell’art. 309 (annullamento dell’ordinanza in caso di motivazione mancante o difettosa nella “autonoma valutazione”; termine perentorio anche per il deposito dell’ordinanza; divieto di rinnovazione della misura divenuta inefficace per la scadenza dei termini, salva l’esistenza di esigenze eccezionali).

Al riguardo, occorre per un verso segnalare che, secondo quanto incidentalmente affermato dalla già citata sentenza Zullo della Terza Sezione, “sembrerebbe sostenibile”  che al rinvio debba oggi riconoscersi natura formale o dinamica (con conseguente applicazione ai riesami reali anche delle nuove disposizioni introdotte nei commi 9 e 10 dell’art. 309), avendo la legge n. 47 modificato anche la struttura dell’art. 324, con il ricordato intervento sul comma 7.

Per altro verso, va posto in evidenza che la stessa Terza Sezione della Suprema corte, con ordinanza 26 novembre 2015, n. 50581, Capasso, ha rimesso la questione alle Sezioni unite: sarà quindi il Supremo consesso a stabilire – con le conseguenze applicative cui si è in precedenza accennato – se il novellato art. 324 comma 7 richiami i commi 9 e 10 dell’art. 309 nella nuova o nella previgente formulazione. La rimessione è stata motivata prospettando la possibilità di un contrasto interpretativo nella giurisprudenza di legittimità, anche alla luce delle divergenti posizioni espresse in dottrina.

In particolare, a sostegno della tesi della persistente natura recettizia (o statica) del rinvio,la Terzasezione ha tra l’altro evidenziato che le nuove disposizioni potrebbero essere ritenute giustificabili solo con riguardo alle misure cautelari personali, ma non anche quanto a quelle reali,“alla luce del bene interesse coinvolto, di rango costituzionale ma suscettibile di compressione maggiore rispetto alla libertà personale”. Con specifico riguardo al divieto di rinnovazione, si è evidenziato il suo carattere “non proporzionato all’oggetto della tutela e potenzialmente idoneo ad annullare – senza alcuna possibilità di recupero – la funzione conservatrice e preventiva propria del vincolo, al di fuori dei casi di cui all’art. 240, comma 2, cod. pen. comunque “fatti salvi” dall’art. 324, comma 7″. Sempre in un’ottica volta a sostenere la natura recettizia del rinvio,la Terzasezione ha altresì posto in evidenza, da un lato, che la legge n.47 haintrodotto nel solo procedimento di riesame personale analoghe disposizioni anche nel giudizio di rinvio (cfr. art. 311 comma 5 bis, relativo appunto ai termini perentori per la decisione e per il deposito dell’ordinanza, nonché al divieto di rinnovazione): disposizioni certamente non applicabili al giudizio di rinvio a seguito di annullamento di un provvedimento impositivo di un sequestro, non essendovi alcun richiamo al predetto comma 5 bis all’interno degli artt. 324 e 325 cod. proc. pen.. D’altro lato, l’ordinanza di rimessione ha valorizzato la specifica modalità di intervento del legislatore sul comma 7 dell’art. 324: intervento consistito nella sostituzione delle parole “articolo 309 commi9″con le parole “articolo 309 commi 9, 9 bis”, senza alcun richiamo al comma 10.

Quali argomenti di possibile sostegno della tesi volta a riconoscere natura “dinamica” al rinvio, il Collegio rimettente ha invece richiamato, in primo luogo, il fatto che la legge n. 47 è intervenuta anche nel settore del riesame reale, modificando l’art. 324 con il richiamo anche del comma 9-bis dell’art. 309 (laddove invece l’intervento operato dalla l. n. 332 del 1995, analizzato dalla sentenza Cavalli, aveva riguardato il solo settore delle misure personali). In tale prospettiva, l’inserimento del comma 9 bis accanto ai commi 9 e 10 potrebbe indurre ad interpretare tali disposizioni come uncorpus unico posto a tutela dei diritti di difesa, indipendentemente dall’oggetto (personale o reale) del giudizio di riesame. Inoltre, il riferimento alla possibilità di differire anche il termine per il deposito della decisione, contenuto nel comma 9-bis, avrebbe senso solo applicando il novellato comma 10 dell’art. 309. Infine, quanto alla tecnica di modifica legislativa, l’omessa menzione del comma 10 da parte della l. n. 47 non sarebbe decisiva, essendo stato necessario richiamare il solo comma 9, per collegarvi il comma 9-bis.

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3) – 924/VV/2015 – APPROVATA IN PLENUM IL 20 APRILE 2016

Limiti e modalità di esercizio delle competenze del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’Appello ai sensi dell’art. 6 D. legs. 106/2006 – quesito del Procuratore della repubblica presso il Tribunale di Torino (relatore ARDITURO – CANANZI)

Con nota del 14 dicembre 2014, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino, ha formulato il seguente quesito, con richiesta al Consiglio Superiore della magistratura di volere ulteriormente precisare:

– i limiti delle competenze del Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello ai sensi dell’art. 6  D. Lgs. 20 febbraio 2006 n. 106 ;

– se gli sia consentita dalla norma, oltre quella con i Procuratori della Repubblica del Distretto e con il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, una interlocuzione “esterna” con gli organi di polizia giudiziaria, persino con comunicazioni (e con direttive di fatto) dai contenuti non condivisi dai titolari dell’azione penale nel territorio di competenza.

Il quesito prendeva spunto da una vicenda che traeva origine dalla riunione tenutasi presso la procura generale di Torino in data 29 novembre 2015 convocata dal Procuratore generale con tutti i Procuratori della Repubblica presso i Tribunali del Distretto con all’ordine del giorno la “Adozione di eventuali linee guide in applicazione a seguito dell’entrata in vigore il 29 maggio 2015 della L. 22 maggio 2015 n. 68, inerente Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente”.

La riunione si concludeva senza che i presenti raggiungessero un orientamento comune sull’interpretazione della complessa disciplina ed in particolare sull’ambito di applicazione della normativa, discutendosi sul tipo di contravvenzioni a cui la nuova legge ed il relativo procedimento fosse applicabile, in relazione al tipo di pena prevista (questione controversa in dottrina e oggetto allo stato di diverse interpretazioni anche in altre sedi giudiziarie … ndr).  

Il Procuratore della Repubblica di Torino ha lamentato che il Procuratore generale, pur preso atto delle differenti opinioni ed interpretazioni su questo significativo punto, inviava ai Prefetti di tutto il Piemonte, al Presidente della giunta regionale della Valle d’Aosta, al Direttore dell’A.R.P.A. Piemonte e, per conoscenza, a tutti i Procuratori della Repubblica del Distretto, una nota con la quale rappresentava “la propria interpretazione di normative che hanno dato e continuano a dar luogo a disparate interpretazioni destinate a tradursi in sconcertanti diversità operative nell’ambito dello stesso distretto, se non addirittura all’interno di ciascun ufficio di Procura”.  La missiva terminava altresì con l’ invito ai destinatari “..di voler portare a conoscenza della presente tutte le forze di polizia giudiziaria e degli organi di vigilanza operanti nei territori di competenza”

Il Procuratore di Torino, evidenziando che in fatto tale missiva anche per il riferimento a tale ultimo punto si traduceva in una direttiva rivolta anche alle forze di polizia giudiziaria ed agli organi di vigilanza aventi poteri di accertamento, inviava agli stessi destinatari del circondario di Torino una sua nota nella quale ribadiva la propria diversa interpretazione, evidenziava che la nota de P.G. non poteva essere considerata come direttiva a cui le forze di polizia giudiziaria dovessero attenersi, ed allegava le proprie linee guida sul punto.

Orbene, va premesso che la risposta che spetta al Consiglio formulare non tocca minimamente il contenuto della diatriba interpretativa sulla portata della specifica legge, in quanto non è competenza consiliare quella di intervenire ex professo sull’interpretazione della legge processuale, tantomeno se sollecitato in questo senso da un ufficio giudiziario.

Si tratta invece di rispondere a quesiti di stretta natura ordinamentale che involgono pienamente le attribuzioni del Consiglio, anche in quanto attinenti al rapporto fra ufficio requirente di primo grado e ufficio requirente di secondo grado.

Del resto non può sfuggire che i fatti riportati e documentati hanno potuto determinare sconcerto negli autorevoli destinatari istituzionali delle missive cui si è fatto cenno, in quanto venivano comunicati indirizzi interpretativi e, di conseguenza, operativi contrastanti provenienti dalle diverse autorità requirenti del Distretto incidenti sul medesimo circondario di Torino.

Occorre tenere conto delle norme effettivamente incidenti sul tema in questione che possono così ricordarsi:

a)     l’art. 2 del decreto legislativo n. 106 del 2006, attribuisce al Procuratore della Repubblica, in quanto “titolare esclusivo dell’azione penale”  il dovere ex art. 1 co. 2 di “assicurare il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale; il Procuratore determina fra l’altro anche “i criteri generali ai quali i magistrati addetti all’ufficio devono attenersi nell’impiego della polizia giudiziaria”e definisce “i criteri generali da seguire per l’impostazione delle indagini in relazione a settori omogenei di procedimenti”.

b)    L’art. 6 D.Legs 106/2006 attribuisce al procuratore generale un potere di vigilanza e di sorveglianza al fine di “verificare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale ed il rispetto delle norme del giusto processo, nonché il puntuale esercizio da parte dei Procuratori della Repubblica dei poteri di direzione, controllo e organizzazione degli uffici ai quali sono preposti”. A tal fine acquisisce dati e notizie dalle Procure della Repubblica del distretto  e  sul punto invia al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione  una relazione almeno annuale.

Ebbene, quanto al potere ex art. 6 del Procuratore generale, il Consiglio Superiore della Magistratura si è recentemente espresso con la delibera del 16 marzo 2016 che, sebbene avesse ad oggetto la materia specifica dell’antiterrorismo, contiene principi di carattere generale a cui può farsi integrale richiamo.

In quella sede si è chiaramente escluso un potere di coordinamento investigativo del Procuratore Generale e, contestualmente, si è inteso il potere ex art. 6 come un potere di vigilanza di cui in concreto e nella prassi si è declinata una accezione positiva di  ricognizione e di diffusione delle buone prassi, nonché di costante impulso e sollecitazione alla condivisione di comuni moduli organizzativi ed alla procedimentalizzazione della collaborazione fra uffici in alcuni settori strategici o in quelli che fisiologicamente esulano da competenze territoriali settoriali[1].

Tali sollecitazioni devono auspicabilmente trovare attuazione in protocolli o intese a livello distrettuale che, solo laddove risultino il frutto della unanime e condivisa  valutazione di tutti i procuratori del distretto, potranno pervenire a direttive di carattere generale distrettuale anche in materia di protocolli investigativi in senso stretto e di interpretazione condivisa di norme[2].

Ancora una volta, come da ultimo nella delibera del 16 marzo 2016 in materia di coordinamento antiterrorismo, deve richiamarsi il generale dovere di collaborazione istituzionale fra le diverse autorità giudiziarie, che si declina come uno spirito di coordinamento che, prima ancora che da disposizioni cogenti o di indirizzo, deve derivare naturalmente da una avanzata e matura cultura delle indagini che fa della collaborazione istituzionale e della ricerca di soluzioni condivise, uno dei degli elementi più nitidi della professionalità del pubblico ministero nel nostro ordinamento.

Dunque il perimetro del potere ex art. 6 D. Legs 106/2006 va in questi termini correttamente inquadrato e non consente al Procuratore generale di svolgere una funzione di coordinamento investigativo, se non nei casi e con gli stretti limiti in cui tale funzione è prevista espressamente dalla legge (cit. art. 118 bis disp.att., dell’art. 372 co. 1 bis) in forma sussidiaria, organizzativa e in ultima analisi “patologica” attraverso il potere di avocazione, ed in ogni caso attinente al rapporto interno fra uffici requirenti del Distretto.

Deve escludersi, di conseguenza,  un potere di direttiva esterna – rivolta agli organi di polizia giudiziaria ed a quelli amministrativi con poteri di accertamento  – che abbia ad oggetto protocolli investigativi o linee guida per l’interpretazione delle norme che incidano sullo svolgimento delle indagini, essendo tale potere demandato esclusivamente al Procuratore della Repubblica nell’ambito del più generale potere di assicurare il corretto puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penalenel circondario.

Nell’ esercizio delle proprie competenze di vigilanza sul corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale nei circondari del Distretto, il Procuratore generale presso la Corte d’Appello ha invece il potere – dovere di richiedere informazioni, di riferire  al Procuratore generale della Corte di Cassazione sull’esito delle attività ex art. 6 svolte nel Distretto, nonché un più generale potere – dovere di operare per favorire soluzioni condivise, attivandosi attraverso atti di impulso e di coordinamento volti a pervenire a tale positivo ed auspicabile risultato.

In questi termini può rispondersi al quesito formulato ed indicato in premessa.


[1] Così testualmente nella delibera del 16 marzo 2016:  Si tratta, invero di poteri che vanno riconosciuti al procuratore generale nell’ambito della migliore interpretazione dell’art. 6 del D.l.vo 106/2006, che ha visto nel tempo stratificarsi, per effetto dell’azione del Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, e con l’osservazione attenta della settima commissione consiliare, più che una interpretazione del contenuto di una norma apparsa inizialmente come una sorta di cuneo nelle maglie dell’autonomia degli uffici di primo grado, un vero e proprio metodo di lavoro, fatto della paziente e diffusa attività di armonizzazione, prima a livello distrettuale e poi a livello nazionale, delle migliori prassi di organizzazione applicate al settore investigativo e requirente.

[2] Ancora dalla citata delibera:Si tratta dunque di un compendio normativo che va maneggiato con cura in una doppia direzione, solo apparentemente antitetica e che invece, a ben guardare, rappresenta la corretta lente di osservazione di un delicato meccanismo nell’architettura dell’ordinamento: da un lato quella della precisa e puntuale interpretazione delle norme, che affidano al procuratore generale poteri circoscritti e procedimentalizzati, da interpretarsi senza tentazioni estensive che apparirebbero una forzatura rispetto al sistema; dall’altro quella della prassi virtuosa dell’applicazione dell’art. 6 e dei poteri di impulso e di vigilanza che, ben lungi dall’utilizzare la spuntata arma del principio di autorità e di gerarchia, affida all’autorevolezza del lavoro di coordinamento organizzativo il metodo per puntare all’uniformità dell’azione penale nel rispetto dell’autonomia dell’ufficio del pubblico ministero di primo grado.

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di Matilde Brancaccio

Rel. n.  23/16

Roma, 7 aprile 2016

Orientamento di giurisprudenza

OGGETTO:  664008   – MISURE CAUTELARI – PERSONALI- DISPOSIZIONI GENERALI – ESIGENZE CAUTELARI -Legge n. 47 del 2015 – “Attualità” del pericolo di commissione di ulteriori reati – Nozione – Orientamento di giurisprudenza.

RIF. NORM.: Cod. proc. pen. art. 274; Legge 16 aprile 2015, n. 47.

1.   La legge n. 47 del 2015 ed il requisito di attualità delle esigenze cautelari.

La legge 16 aprile 2015, n. 47, ultimo atto legislativo, in ordine di tempo, tra i numerosi interventi di modifica normativa attinenti alla materia cautelare succedutisi negli ultimi tre anni, ha, come noto, introdotto una serie di novità di non poco momento nella disciplina della fase di valutazione, applicazione e impugnazione delle misure cautelari.

In particolare, si sono previste significative modulazioni delle disposizioni riferite alle esigenze cautelari (art. 274 cod. proc. pen.), una rilevante rivisitazione degli automatismi nell’applicazione della misura specifica della custodia in carcere (artt. 275 comma 3, 276 comma 1-ter, 284 comma 5-bis cod. proc. pen.), un più incisivo onere motivazionale per l’ipotesi in cui si ritenga inidonea l’applicazione degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico (in ragione, probabilmente, della constatazione che tale misura costituisce losteplogico immediatamente precedente al determinarsi del convincimento del giudice circa l’adozione della custodia intramuraria, escluso il quale, quest’ultima si individua come unica misura capace di soddisfare le esigenze cautelari), diverse novità in materia di misure interdittive (artt. 289, 308), caratteri ed elementi della motivazione dell’ordinanza cautelare (artt. 292, 309), procedimento di riesame ed appello cautelare, personale e reale (artt. 309, 310, 324).

In tale mutato quadro normativo, che somma le citate modifiche ad altre innovazioni stratificatesi nel corso degli ultimi tre anni[1], una delle questioni che si sta affacciando con maggior frequenza nelle prime interpretazioni delle nuove disposizioni è quella riferita al significato da attribuire all’espressa previsione del requisito dell’attualità , accanto a quello, già indicato, della concretezza, per connotare il pericolo di fuga (lett. b dell’art. 274, comma 1, cod. proc. pen.) ed il pericolo di reiterazione di condotte criminose (lett. c dell’art. 274, comma 1, cod. proc. pen.). Tenuto conto, altresì, del fatto che, se da un lato si è previsto che il pericolo di fuga – come quello di reiterazione – sia non solo “concreto”, ma anche “attuale”; dall’altro, si è escluso che le situazioni di concreto e attuale pericolo, di fuga o di reiterazione, possano “essere desunte dalla gravità del titolo di reato per il quale si procede”, con ciò segnalando la necessità di evitare di ritenere in re ipsa  le esigenze cautelari, in presenza di condotte riferite a reati di particolare o tradizionale allarme sociale, e di ricercare elementi ulteriori dai quali desumere i presupposti applicativi delle misure stesse.

2. La novella del 2015 e gli orientamenti della corte di cassazione: sintesi delle posizioni in campo.

Immediatamente è risultato chiaro che la questione interpretativa riferita all’eventuale significato ulteriore e diverso, rispetto al dettato normativo precedente, della nuova qualificazione “attuale” del “pericolo” quale presupposto applicativo della cautela, imponeva una rimeditazione dell’onere motivazionale del giudice chiamato a pronunciarsi sulle esigenze cautelari.

Se tale rimodulazione delle opzioni valutative del giudice abbia un contenuto di effettiva novità rispetto al passato e, in caso di risposta positiva a tale interrogativo, quali siano gli elementi che compongono tale “nuovo” contenuto, rappresentano le questioni su cui si intende soffermarsi, analizzando le pronunce più significative, intervenute in materia, nel corso di questo primo periodo di applicazione della riforma legislativa di cui alla legge n. 47 del 2015.

Deve segnalarsi che la giurisprudenza di legittimità si è orientata in senso non univoco.

Secondo una prima opzione, deve ritenersi la sovrapponibilità del dato normativo oggi vigente, rispetto a quello passato, ed una sostanziale omogeneità di contenuti ed obblighi motivazionali nell’individuazione del pericolo cautelare ex art. 274 cod. proc. pen. tra la disciplinaantelegge n. 47 del 2015 e quella successiva ad essa: invero, il legislatore parrebbe avere oggi solo espressamente indicato, esplicitandolo, il riferimento al requisito dell’attualità quale contenuto necessario del giudizio cautelare rimesso al giudice, aderendo a quella opzione che, già emersa nella giurisprudenza pregressa, rilevava la necessità di leggere il requisito della “concretezza” anche come “attualità” del pericolo, valutando l’esigenza cautelare specificamente con riguardo ad entrambi i caratteri.

Secondo, invece, una diversa opzione dovrebbe affermarsi un carattere (parzialmente) innovativo della disciplina oggi vigente; la tesi, muovendo dalla constatazione del rilievo conferito alla motivazione sull’attualità da una parte consistente della giurisprudenza di legittimità, anche precedentemente alla novella, assegna all’espressa previsione della qualificazione del pericolo “attuale” (di fuga o reiterazione del reato) una connotazione più pregnante ed un significato diverso ed ulteriore di certezza ed alta probabilità che all’imputato si presentino effettivamente occasioni per compiere ulteriori delitti, non meramente ipotetiche o astratte, ma probabili nel loro vicino verificarsi.

Pur nella diversità degli accenti interpretativi sopra richiamati, è evidente che entrambi gli orientamenti puntano l’attenzione sul tema degli obblighi motivazionali del giudice nell’individuazione delle esigenze cautelari e, risentendo inevitabilmente delle fattispecie di volta in volta sottoposte a giudizio, soprattutto con riferimento al tempo trascorso dalla commissione del delitto per cui si valuta l’istanza di cautela, modulano la risposta secondo la specificità delle ipotesi concrete esaminate.

E’ innegabile, tuttavia, che, dopo la novella del 2015, l’interpretazione della Corte di cassazione voglia segnare il passo rispetto a prassi motivazionali collegate alla sola, prevalente analisi della gravità del reato o dei reati oggetto del provvedimento, piuttosto che ad una valutazione complessiva dei caratteri normativi del giudizio cautelare, divenuto, per volontà espressa del legislatore, un unico “contenitore” argomentativo che deve tener presente, parimenti, il titolo di reato, le caratteristiche della condotta criminosa, il tempo trascorso dalla sua commissione, la prognosi di reiterazione, ancorata al vissuto del soggetto autore ed alla sua personalità, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali.

In tale ottica, anche la distinzione tra i due orientamenti sopradetti perde di portata divisiva: ed infatti, da un lato, la prima opzione sottolinea l’obbligo motivazionale continuativo e perdurante riferito sia all’attualità che alla concretezza del pericolo (i due poli attorno ai quali si costruisce il giudizio cautelare), quasi desumendolo da una natura intrinseca ed ineludibile della valutazione sulla cautela e svincolandolo, quindi, dallo stesso dettato legislativo espresso, che diventa una esplicitazione di un carattere (quello dell’endiadi concretezza/attualità) comunque imprescindibile; d’altro canto, il secondo orientamento, ponendo l’accento sulla “vicinanza” o “imminenza” delle occasioni prossime di reato, come contenuto nuovo del giudizio prognostico cautelare, non fa che ribadire l’attitudine “concreta” ed “attuale” del pericolo.

Alcune delle sentenze espressione del primo orientamento tengono ad indicare, inoltre, una strada comune che, correggendo l’affermazione sul carattere “imminente” del pericolo formulata dal secondo orientamento, traccia precisi confini del concetto di attualità, quasi più stringenti del richiamo alla vicinanza del pericolo, nella loro specifica indicazione: il riferimento è alla dimensione di “continuità del periculum libertatis“, apprezzata sulla base della vicinanza ai fatti in cui si è manifestata la potenzialità criminale dell’indagato, ovvero della presenza di elementi indicativi recenti, idonei a dar conto della effettività del pericolo di concretizzazione dei rischi che la misura cautelare è chiamata a neutralizzare (così Sez. 6, n. 3043 del 27/11/2015, Esposito, Rv. 265618).

3. La giurisprudenza che ritiene la continuità tra nuova e vecchia disciplina in tema di esigenze cautelari.

Subito dopo l’entrata in vigore della disciplina modificativa di cui alla legge n. 47 del 2015, numerose pronunce, provenienti da diverse Sezioni della Suprema Corte, hanno optato per una lettura che privilegia la sostanziale continuità normativa tra vecchie e nuove previsioni, pur constatando il mutato dato semantico e l’espressa volontà del legislatore di indicare l’attualità tra i requisiti del pericolo cautelare, e ritenendo, tuttavia, tale intervento additivo sostanzialmente indicativo di un rinnovato monito di attenzione, diretto al giudice, nella valutazione delle esigenze cautelari, cui fa da pendant una ineludibile necessità di compiuta motivazione in ordine ad esse. 

L’orientamento in esame ha spesso richiamato quella giurisprudenza di legittimità[2] formatasi prima della legge n. 47 del 2015, che segnalava, già sotto il vigore della precedente disciplina, la necessità di collegare ai presupposti applicativi dell’art. 274 cod. proc. pen. anche un onere motivazionale che desse conto dell’attualità del pericolo cautelare, quale base della valutata esigenza di applicare una misura, ciò soprattutto in casi nei quali la distanza temporale tra il fatto e la decisione del giudice sulla cautela risultava maggiormente ampia; in tale ottica, si afferma che la novella del 2015 avrebbe solo “normativizzato” un requisito già enucleabile dal precedente assetto delle disposizioni cautelari del codice di procedura penale.

Le pronunce che si iscrivono, con differenti accenti, nell’opzione interpretativa che ritiene la sostanziale sovrapponibilità della disciplina previgente con quella oggi in vigore sono, tra quelle massimate o più rilevanti, le seguenti:

Sez. 4, n. 28153 del 18/6/2015, Cassano, Rv. 264043; Sez. 5, n. 43083 del 24/9/2015, Maio, Rv. 264902, Sez. 6, n. 44605 del 1/10/2015, De Lucia,Rv. 265350; Sez. 6, n. 50027 del 29/10/2015, Aurisicchio;Sez. 6, n. 3043 del 27/11/2015, Esposito, Rv. 265618; nonché, tra quelle non massimate, Sez. 4, n. 24865 del 28/5/2015, Cuscinà e Sez. 1, n. 5787 del 21/10/2015, dep. 2016, Calandrino. Afferma il principio incidentalmente, ragionando di reati con presunzione cautelare di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., anche Sez. 6, n. 42630 del 18/9/2015, Tortora, Rv. 264984.

La giurisprudenza espressione di tale orientamento tiene sovente conto, in motivazione, di quanto affermato da Sez. U, n. 40538 del 24/9/2009, Lattanzi, Rv. 244377, con riferimento al rapporto “distanza dal reato/esigenza di motivazione cautelare”, là dove le Sezioni unite avevano rilevato come, in tema di misure cautelari, il riferimento al “tempo trascorso dalla commissione del reato” di cui all’art. 292, comma 2, lett. c), cod. proc. pen., impone al giudice di motivare, sotto il profilo della valutazione della pericolosità del soggetto, in proporzione diretta al tempo intercorrente tra tale momento e la decisione sulla misura cautelare, giacché ad una maggiore distanza temporale dai fatti corrisponde un affievolimento delle esigenze cautelari (la fattispecie sottoposta al giudizio delle Sezioni unite si riferiva, peraltro, ad ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa in relazione a fatti commessi più di tre anni prima).

E’ utile analizzare specificamente alcuni passaggi motivazionali più significativi di alcune delle pronunce richiamate, al fine di comprendere i termini del ragionamento giuridico condotto.

La sentenza Cassano ha sottolineato che il requisito dell’attualità era già stato “recepito quale presupposto implicito della misura cautelare dalla giurisprudenza di legittimità nel vigore della precedente normativa”, richiamando espressamente Sez. 6, n. 52404 del 26/11/2014, Alessi, Rv. 261670, che, in tema di associazione ex art. 74 D.P.R. n. 309 del 1990, aveva rilevato come, con riferimento a condotte risalenti nel tempo, era necessario desumere la sussistenza delle esigenze cautelari da specifici elementi di fatto idonei a dimostrarne l’attualità.

Analogamente, le sentenzeTortora e Maio hanno affermato che il difetto del requisito di attualità della misura cautelare era già rilevabile in base alla preesistente previsione di cui all’art. 292, lett. c), cod. proc. pen.

La sentenza Maio, in particolare, ha chiarito che la legge 16 aprile 2015, n. 47, introducendo nell’art. 274, lett. c), cod. proc. pen. il requisito dell’attualità del pericolo di reiterazione del reato, ha evidenziato la necessità che tale aspetto sia specificamente valutato dal giudice emittente la misura, avendo riguardo alla sopravvivenza del pericolo di recidivanza al momento della adozione della misura in relazione al tempo trascorso dal fatto contestato ed alle peculiarità della vicenda cautelare, segnalando che la sussistenza di un onere motivazionale sull’attualità delle esigenze cautelari era già desumibile, nell’assetto normativo previgente, dall’art. 292, comma secondo, lett. c), cod. proc. pen., nella lettura che di esso avevano offerto, tra le altre, le pronunceSez. 6, n. 28618 del 5 aprile 2013, Vignali, Rv. 255857; Sez. 1, n. 25214 del 3 giugno 2009, Pallucchini, Rv. 244829.

La portata innovativa del dettato normativo di nuova formulazione dell’art. 274 lett. c) cod. proc. pen., pertanto, non può essere enfatizzata oltre misura, secondo quanto espressamente affermato dalla sentenza in commento, che, infatti, annullando la motivazione perché “lacunosa” sotto il profilo della esplicitazione del requisito di attualità dell’esigenza cautelare, sottolinea come a tale risultato si sarebbe dovuti pervenire anche se la modifica del 2015 non vi fosse stata.

Insiste sulla “normativizzazione” di un principio giurisprudenziale preesistente alla novella del 2015 anche la sentenza De Lucia.

La sentenza Aurisicchio ha ribadito l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’attualità doveva ritenersi requisito già insito nella previgente nozione di concretezza, poiché “riesce difficile immaginare delle esigenze cautelari di prevenzione rispetto al rischio di recidiva che, nell’essere concrete, non siano anche attuali”; di conseguenza, la valenza innovativa riconducibile alla legge n. 47 “non consiste nella necessità di ricercare una «attualità» che vada oltre quella richiesta dalla giurisprudenza citata, ma nel fatto che non è più consentita la misura secondo la interpretazione restrittiva della «concretezza».

La stessa sentenza, peraltro, ha significativamente messo in luce la distinzione tra “attualità” ed “immediatezza”, che costituisce, sostanzialmente, il punto di frizione tra i due orientamenti presenti nella giurisprudenza; si è detto, infatti, che “Il codice continua a distinguere tra «esigenze cautelari» ed «eccezionali esigenze cautelari», a dimostrazione che l’attualità non è «nell’immediatezza»”.

Infine, la sentenza Esposito, con un’ampia motivazione che sviluppa proprio tale ultimo argomento, ha enunciato il principio secondo cui, in tema di presupposti per l’applicazione delle misure cautelari personali, il requisito dell’attualità del pericolo di reiterazione del reato, introdotto nell’art. 274, lett. c), cod. proc. pen. dalla legge 16 aprile 2015, n. 47, non va equiparato all’imminenza del pericolo di commissione di un ulteriore reato.

La sentenza, premesso che il tempo trascorso dalla commissione del reato, anche alla luce della recente novella legislativa n. 47 del 2015, non ne esclude automaticamente l’attualità e la concretezza del pericolo di reiterazione e, quanto al concetto di “attualità” espressamente introdotto dalla novella del 2015, afferma:

–      che la sussistenza di un onere motivazionale sull’attualità delle esigenze cautelari era già desumibile, nell’assetto normativo previgente, dalla lettura dell’art. 292, comma secondo, lett. c), cod. proc. pen. (si citano, a conferma, le pronunce Sez. 6, n. 28618 del 05/04/2013, Vignali, Rv. 255857; Sez. 4, n. 18851 del 10/04/2012, Schettino, Rv. 253864; Sez. 1, n. 25214 del 03/06/2009, Pallucchini, Rv. 244829);

–      che la ratio dell’intervento legislativo, individuata nell’avvertita necessità di richiedere al giudice un maggiore e più compiuto sforzo motivazionale quanto all’individuazione delle esigenze cautelari di cui all’art. 274, lett. c), cod. proc. pen., impone oggi uno specifico vaglio non più solo del requisito della concretezza, ma anche, allo stesso modo, di quello del connesso profilo dell’attualità.

Nella citata pronuncia -svolgendo un’affermazione che si pone idealmente in contrapposizione con quanto affermato dall’altro orientamento in tema di significato della novella in tema di attualità e che cita, espressamente aderendovi, il principio stabilito dalla sentenza Maio- si ritiene che le esigenze cautelari volte ad impedire la reiterazione del reato devono avere riguardo alla sopravvivenza del pericolo di recidiva al momento della sua adozione, in relazione al tempo trascorso dal fatto contestato ed alle peculiarità della vicenda cautelare in esame (Sez. 5, n. 43083 del 24/09/2015, Maio, Rv. 264902), poiché il requisito dell’ attualità non può assumere significato equivalente a quello di imminenza del pericolo di commissione di un ulteriore reato, ma sta invece ad indicare la continuità del periculum libertatis nella sua dimensione temporale, che va apprezzata sulla base della vicinanza ai fatti in cui si è manifestata la potenzialità criminale dell’indagato, ovvero della presenza di elementi indicativi recenti, idonei a dar conto della effettività del pericolo di concretizzazione dei rischi che la misura cautelare è chiamata a neutralizzare.[3]

La sentenza Cuscinà punta l’attenzione sulla necessità di un rigoroso obbligo di motivazione sia in relazione all’attualità sia in relazione alla scelta della misura, poiché la distanza temporale tra i fatti e il momento della decisione cautelare può costituire, tendenzialmente, un elemento “dissonante” con l’attualità e l’intensità dell’esigenza cautelare; la legge n. 47/2015 aggiunge, in tale prospettiva, una precisa indicazione normativa in detta direzione e conforta, quindi, l’interpretazione che già in precedenza chiedeva al giudice, anche in rapporto al giudizio di sussistenza del pericolo di recidiva, di “esplorare la dimensione dell’attualità del pericolo di reiterazione dell’illecito”[4].

 Sulla base di queste considerazioni, la sentenza Cuscinà prospetta il superamento del diffuso indirizzo interpretativo, esistente nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui il pericolo di reiterazione “può essere desunto anche dalla molteplicità dei fatti contestati, in quanto la stessa, considerata alla luce delle modalità della condotta concretamente tenuta, può essere indice sintomatico di una personalità proclive al delitto, indipendentemente dall’attualità di detta condotta e quindi anche nel caso in cui essa sia risalente nel tempo” (in tal senso Sez. 3,  n. 3661 del 17/12/2013, dep. 2014, Tripicchio, Rv. 258053). [5]

La pronuncia Calandrino afferma che il richiamo espresso operato dal legislatore del 2015 alla attualità ha natura “simbolica” rispetto all’osservanza di una norma già presente nel sistema.

Sullo stesso piano si muove Sez. 4, n. 24861 del 21/5/2015, Iorio, Rv. 263727 che ha sottolineato come la nuova formulazione dell’art. 274, lett. c, cod. proc. pen. imporrebbe, in relazione al requisito dell’attualità, solo “una più puntuale motivazione sul punto”Peraltro, la sentenza in esame ha ritenuto non applicabile all’ipotesi ad essa sottoposta la nuova disciplina cautelare, sul presupposto che in materia opera il principio del tempus regit actum.

L’opzione è conforme a quanto indicato sul punto dalla giurisprudenza costante delle Sezioni unite (cfr., in particolare, Sez. U, n. 27919 del 31/3/2011, Ambrogio, Rv. 250195 e Sez. U, n. 44895 del 17/7/2014, Pinna, Rv. 260927  che hanno stabilito la necessità di valutare la legittimità dell’ordinanza alla luce delle norme vigenti al tempo della sua emissione, la prima avuto riguardo al fenomeno della successione di leggi nel tempo, la seconda anche in relazione alla dichiarazione di incostituzionalità di una norma incidente sul trattamento sanzionatorio e, quindi, sulla durata dei termini di fase).

4. La giurisprudenza che rileva caratteri di “novum” nella espressa previsione di “attualità”  introdotta dalla novella del 2015.

Nella giurisprudenza di legittimità, all’indomani della novella del 2015, si è fatto strada, parallelamente all’indirizzo sopra esaminato, altro orientamento che, come anticipato, ritiene più significativo il dato di novità derivante dall’inserimento del requisito espresso dell’attualità nel testo dell’art. 274, lett. c) cod. proc. pen.

Numerose sentenze, infatti, hanno rappresentato la necessità, alla luce della modifica normativa, di leggere il carattere “attuale” dell’esigenza di cautela, con riferimento specifico al pericolo di reiterazione del reato, in chiave di “nuovo” obbligo motivazionale previsto per il giudice, il quale dovrà d’ora innanzi rilevare la concreta possibilità che un’ulteriore occasione per compiere reati possa verificarsi non più solo secondo un astratto giudizio ipotetico (“qualora se ne ripresentasse l’occasione”), ma effettivamente e, addirittura, sulla base di una valutazione di “vicina” probabilità di verificazione.

In tal senso si orientano Sez. 3, n. 37087 del 19/5/2015, Marino, Rv. 264688; Sez. 3, n. 43113 del 15/9/2015, K, Rv. 265653; Sez. 3, n. 45280 del 13/10/2015, D.L., nonché, da ultimo, Sez. 3,  n. 49318 del 27/10/2015, Barone, Rv. 265623; Sez. 2, n. 50343 del 3/12/2015, Capparelli, Rv. 265395; Sez. 3, n. 50454 del 10/11/2015, Altea, Rv. 265695; Sez. 6, n. 1406 del 2/12/2015, dep. 2016, Pmt ed altro, in corso di massimazione;tra quelle non massimate e più recenti, si segnala Sez. 2, n. 9908 del 3/3/2016; Sez. 6, n. 1405 del 2016; mentre, in precedenza, Sez. 3, n. 37089 del 2015.

Tali pronunce, lette nel loro complesso, attribuiscono alla modifica dell’art. 274 lett. c) una valenza innovativa di particolare rilievo, pur se ciascuna con accenti diversi e non sempre con eguale approfondimento motivazionale (alcune di esse soltanto aderendo ai principi “segnati” dalla sentenza Marino).

Si tiene presente, senza dubbio, l’orientamento già citato, rinvenibile nella giurisprudenza di legittimità precedente alla novella del 2015, circa la sussistenza del requisito dell’attualità, come presupposto cautelare applicativo e valutativo, anche prima della sua espressa previsione normativa, poiché insito in quello della “concretezza”; tuttavia non si propende per una mera “normativizzazione” del carattere “attuale” del pericolo cautelare da parte della legge n. 47, bensì si vuol leggere, nell’espresso inserimento di tale requisito nella disposizione processuale, la necessità di indicare un oggetto più ampio di valutazione, ai fini del giudizio sulle esigenze cautelari: non soltanto la certezza o alta probabilità che l’imputato tornerebbe a delinquere, qualora se ne presentasse l’occasione, ma anche la necessità di prevedere (negli stessi termini di certezza o alta probabilità) che una ulteriore occasione per compiere nuovi delitti si presenti effettivamente (così espressamente la sentenza Marino).

La sentenza Barone aggiunge che il significato del riferimento all’attualità delle esigenze specialpreventive introdotto nell’art. 274, lett. c, cod. proc. pen. deve cogliersi nell’obbligo di motivare (sia in ordinanza applicativa che confermativa della misura) specificamente al riguardo, segnalando la “riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati. Occasioni, quindi, non meramente ipotetiche ed astratte, ma probabili nel loro vicino verificarsi”.

Deve segnalarsi, peraltro, come, nella pronuncia richiamata, si colgano aspetti di sovrapposizione con l’orientamento contrapposto, forse nella consapevolezza che unico appare il fine verso cui entrambi tendono: richiamare il compito di motivazione del giudice ad una verifica sempre più attenta e completa, condotta in concreto, sulla reale sussistenza delle esigenze cautelari in chiave prognostica, soprattutto là dove sia trascorso un tempo considerevole tra la (richiesta di) applicazione della misura e il fatto di reato commesso.

E difatti, si afferma che l’indagine sul requisito di attualità «assume poi rilievo ancora maggiore quanto più ampio sia lo spettro cronologico che divide i fatti contestati dall’ordinanza cautelare», sottolineando espressamente come «già ben prima della novella del 2015» la Corte di cassazione «aveva comunque affermato che il riferimento al “tempo trascorso dalla commissione del reato”, di cui all’art. 292, comma 2, lett. c) cod. proc. pen., impone al Giudice di motivare sotto il profilo della valutazione della pericolosità del soggetto in proporzione diretta al tempo intercorrente tra tale momento e la decisione sulla misura cautelare, giacché ad una maggiore distanza temporale dai fatti corrisponde un affievolimento delle esigenze cautelari» (citandosi, al riguardo, Sez. U, n. 40538 del 24/9/2009, Lattanzi, Rv. 244377 e, successivamente, tra le altre, Sez. 4, n. 24478 del 12/3/2015, Palermo, Rv. 263722).

Tali principi, secondo la pronuncia Barone, sono “all’evidenza, da confermare con ancora più forte rigore nell’attuale contesto normativo”.

La sentenza Altea, infine,si muove in un contesto di revoca o sostituzione di misura cautelare personale: il giudice richiesto dell’istanza -si dice- deve esaminare anche gli eventuali ulteriori elementi “medio tempore” acquisiti nel corso dell’istruttoria dibattimentale, al fine di valutare l’attualità del pericolo di reiterazione del reato mediante un giudizio che, per effetto delle modifiche apportate all’art. 274, comma primo lett. c), cod. proc. pen. dalla legge n. 47 del 2015, investe anche la prognosi di certezza o di alta probabilità che si riproponga l’occasione di delitto; ciò facendo aderendo esplicitamente, in motivazione, alla sentenza Marino e mutuandola sul principio.

5. Attualità del pericolo e reati a presunzione relativa di adeguatezza ai sensi dell’art. 275 cod. proc. pen..

Per completare l’analisi degli atteggiamenti della giurisprudenza di legittimità all’indomani dell’esplicito inserimento del requisito dell’attualità nel testo dell’art. 274 cod. proc. pen., occorre segnalare alcune pronunce riferite al tema della valutazione di attualità vista dall’orizzonte dei reati per i quali vige la presunzione (relativa) di sussistenza delle esigenze cautelari, ai sensi dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. (come modificato, da ultimo, anch’esso dalla predetta legge n. 47 del 2015), presunzione prevista in ragione della natura delle condotte ad essi riferibili.

Anche in tale ambito paiono riscontrarsi opzioni interpretative non del tutto sovrapponibili, benché le distanze tra le differenti tesi siano meno rilevanti di quelle che potrebbero apparire: si evidenzia, in quest’ottica, l’opportunità di leggere le pronunce in parallelo, evitando una lettura parcellizzata di esse.

Ebbene, secondo una prima tesi, non è necessario che l’ordinanza cautelare motivi anche in ordine alla rilevanza del tempo trascorso dalla commissione del fatto, così come richiesto dall’art. 292, comma secondo, lett. c), dello stesso codice, in quanto per tali reati vale la presunzione di adeguatezza di cui al predetto art. 275, che impone di ritenere sussistenti le esigenze cautelari salvo prova contraria. Tuttavia, la stessa tesi sottolinea il carattere “relativo” della presunzione normativa e la necessità che il giudice cautelare verifichi “se tale presunzione non possa essere vinta proprio dal distacco temporale intervenuto dai fatti laddove lo stesso, per la sua significativa durata e per la combinazione con altri fattori soggettivi ed oggettivi, possa dare dimostrazione della insussistenza delle esigenze cautelari” (così Sez. 3, n. 33037 del 15/7/2015, G., Rv. 264190)[6].

Sul tema, si evidenzia, anche l’affermazione di Sez. 1, n. 45657 del 6/10/2015, Varzaru, Rv. 265419 che, in motivazione, individua, leggendo il testo dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., così come modificato nel 2015,un “doppio livello di presunzioni” -di sussistenza delle esigenze e di adeguatezza della custodia in carcere– di natura sempre relativa, quella riferita alla valutazione della sussistenza delle esigenze, e, quanto alla porzione di presunzione riferita all’adeguatezza, di natura relativa per tutti i reati previsti dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., all’esito degli interventi della Corte costituzionale[7], ed assoluta per quei delitti per i quali tale natura residua, al netto degli interventi demolitori del giudice delle leggi. Con riferimento ai caratteri di tali presunzioni, poi, la sentenza afferma che  “l’esistenza di una presunzione relativa ex lege di sussistenza delle esigenze cautelari (art. 275 co. 3 cod. proc. pen.) inverte gli ordinari «poli» del ragionamento giustificativo, nel senso che il giudice che applica o che conferma la misura cautelare non ha un obbligo di dimostrazione «in positivo» della ricorrenza dei pericula libertatis… ma ha un obbligo di apprezzamento delle eventuali «ragioni di esclusione» , tali da smentire, nel caso concreto, l’effetto di detta presunzione”: una sorta di “prova di resistenza” della presunzione, secondo l’espressione utilizzata dalla stessa sentenza. In termini identici si esprime, altresì, la citata sentenza n.5787 del 2016, Calandrino. 

Una differente opzione, invece, ritiene che, anche qualora si proceda per uno dei reati per cui vige una presunzione relativa di adeguatezza della custodia in carcere, “la considerevole distanza temporale tra i fatti contestati e l’applicazione della misura costituisce elemento che impone al giudice di dare adeguata motivazione non solo della sussistenza della pericolosità sociale dell’indagato in termini di attualità, ma anche della necessità di dover applicare la misura di maggior rigore per fronteggiare adeguatamente i pericula libertatis” (Sez. 6, n. 27544 del 10/6/2015, Rechichi, Rv. 263942; conf. sent. n. 27545/2015 e n. 27546/2015, n.m.).

In tale ottica interpretativa si iscrive anche Sez. 6, n. 42630 del 18/9/2015, Tortora, Rv. 264984che delinea i passaggi sequenziali del ragionamento applicativo della misura cautelare nelle ipotesi previste dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., sottolineando come sia preliminare e vincolante, seguendo il percorso tracciato dalle norme, valutare l’attualità delle esigenze e l’andella misura, mentre, solo se risolta positivamente tale verifica, potrà farsi luogo all’operatività della presunzione di adeguatezza della custodia in carcere, sicchè “una volta esclusa, per qualsiasi ragione e quindi anche per il decorso di un significativo lasso temporale (art. 292 lett. c cod. proc. pen.), la sussistenza delle esigenze special-preventive, non residua alcuna necessità di ordine prima logico che giuridico di procedere a valutazioni inerenti la scelta di una misura che si è già escluso di dover applicare”.

Appare plausibile, all’esito di tale analisi, ritenere che non vi sia una rilevante difformità di vedute in punto di verifica del requisito dell’attualità con riferimento ai reati inseriti nel novero di quelli “a presunzione cautelare” di cui all’art. 275, comma 3, bensì, piuttosto, diversi punti di partenza del ragionamento logico, i quali, tuttavia, confluiscono verso un unico risultato. La presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari può essere “vinta”, infatti, sia nell’ottica del primo orientamento che in quella della seconda opzione interpretativa; nel primo caso, si propone un rapporto di “eccezione a regola” (non deve motivarsi sull’attualità, ma devono verificarsi gli eventuali elementi dai quali desumere la non sussistenza delle esigenze cautelari); nel secondo caso, si adotta un canone di ragionamento “unico”, che, simultaneamente, si determina per la sussistenza di esigenze cautelari, verificandone inevitabilmente anche l’attualità, valutati eventuali elementi specifici di segno contrario, così come oggi espressamente previsto dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.

Il redattore: Matilde Brancaccio

Il vicedirettore

Giorgio Fidelbo


[1] Per una sintesi delle riforme attuate ed un’analisi completa delle ricadute sugli orientamenti della giurisprudenza di legittimità delle numerose novità normative degli ultimi anni in materia cautelare, si rinvia a V. Pazienza, Primi orientamenti sulle nuove disposizioni in materia cautelare, Cap. II, Sez. IV, Terza Parte della Rassegna della giurisprudenza di legittimità – Gli orientamenti delle sezioni penali, Anno 2015, a cura dell’Ufficio del Massimario Penale.

[2]  Il riferimento, in particolare, è – tra le molte ed a partire da Sez. U, n. 40538 del 24/9/2009, Lattanzi, Rv. 244377 – a Sez. 6, n. 28618 del 05/04/2013, Vignali, Rv. 255857; Sez. 4, n. 18851 del 10/04/2012, Schettino, Rv. 253864; Sez. 1, n. 25214 del 03/06/2009, Pallucchini, Rv. 244829.

[3] In relazione all’inserimento dell’attualità anche nella lett. b) dell’art. 274, si segnala infine Sez. II, 13 ottobre 2015, n. 44526, Castillo Quintana, Rv. 265042, la quale ha riconosciuto a tale modifica una specifica portata innovativa, affermando – in linea con la relazione di accompagnamento al disegno di legge – la necessità che il pericolo di fuga sia non solo concreto, ma anche attuale, “nel senso che il rischio che la persona possa fuggire debba essere imminente”. 

[4] La pronuncia, in applicazione del principio, annulla l’ordinanza cautelare con cui il Tribunale non esplicita in quale modo una condotta tenuta in un tempo risalente al gennaio 2012 e precedenti penali ancor più risalenti possano dare indicazioni sulla condotta di vita del prevenuto al tempo della adozione del provvedimento concernente la richiesta di misura cautelare; la totale mancanza di informazioni in merito alla condotta di vita del soggetto tra il gennaio 2012 e il dicembre 2014 (quasi tre anni) non può essere colmata -si dice- da un giudizio che nega in radice ogni possibilità di mutamento di tale condottae che omette di investigare l’attualità.

[5] Tuttavia, anche successivamente alla novella della legge n. 47 del 2015 e nonostante le argomentazioni contrarie fondate su di essa e sull’esplicito richiamo all’attualità oggi contenuto nell’art. 274 cod. proc. pen., l’orientamento che ritiene la possibilità di una motivazione cautelare basata sulla (anche sola) molteplicità dei fatti contestati è stato ribadito da diverse decisioni (tra queste, Sez. 6, n. 23304 del 12/5/2015, Vecchi; Sez. 3, n. 33423 del 10/7/2015, Accaputo; Sez. F, n. 34287 del 28/7/2015, Abbinante, nonché Sez. 2, n. 9500 del 23/2/2016, con alcune precisazioni sul contenuto del giudizio). Si è anzi ulteriormente precisato, da ultimo, che la motivazione in ordine all’attualità e concretezza del pericolo di recidiva può basarsi “non solo sull’intrinseco disvalore del fatto, ma altresì su un’accertata e immanente proclività al delitto del soggetto attivo (ravvisata, nella specie, sulla base delle modalità particolarmente riprovevoli della sua condotta e della peculiare posizione fiduciaria rivestita rispetto alle persone offese), pur laddove il fatto contestato sia risalente nel tempo e indipendentemente dal fatto che il soggetto attivo non risulti aver posto in essere ulteriori condotte criminose” (Sez. 4, n. 46442 del 5/11/2015, D.V.).

[6]  Deve segnalarsi la specifica declinazione della questione con riferimento al reato di cui all’art. 74 D.P.R. n. 309 del 1990.Ed infatti, mentre Sez. 3, n. 27439 del 1/4/2014, Cetrullo, Rv. 259723 ritiene la non necessità di motivare sulla distanza temporale dai fatti anche nel caso di delitto di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, contra, tuttavia, Sez. 4, n. 26570 del 11/6/2015, Flora, Rv. 263871 e Sez. 6, n. 44129 del 22/10/2015, Vitali, Rv. 265457, che ritengono inapplicabili le regole di esperienza, alla base della presunzione per la fattispecie di cui all’art. 416 bis cod. pen., a quella dell’associazione ex art. 74 t.u.s.: in particolare il riferimento è alla regola della tendenziale stabilità del sodalizio in difetto di elementi contrari attestanti il recesso individuale o lo scioglimento del gruppo; precedentemente alla novella del 2015, nello stesso senso, Sez. 6, n. 52404 del 26/11/2104, Alessi, Rv. 261670; tra le più recenti non massimate sul punto Sez. 6, n. 1406 del 2/12/2015, dep. 2016,

[7] Il riferimento è alle seguenti pronunce: sent. 21 luglio 2010, n. 265, relativa ad alcuni delitti a sfondo sessuale; sent. 12 maggio 2011, n. 164, relativa al delitto di omicidio volontario; sent. 22 luglio 2011, n. 231, riguardo alla associazione finalizzata al narcotraffico; sent. 3 maggio 2012, n. 110, relativa al delitto di associazione per delinquere realizzata allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 cod. pen.; sent. 18 luglio 2013, n. 213, concernente il sequestro di persona a scopo di estorsione; sent. 23 luglio 2013, n. 232, concernente la violenza sessuale di gruppo; sent. n. 57 del 2013 relativa alla previsione di custodia carceraria obbligatoria per i reati aggravati a norma dell’art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991; sent. n. 48 del 2015, con riferimento alla presunzione assoluta di adeguatezza operante per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

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di Luigi Giordano

Sommario: 1. Premessa. ­- 2. La motivazione del provvedimento: il collegamento tra il reato da accertare e la persona intercettata. – 2.a. segue: la proroga della captazione. – 2.b. segue: richiesta del pubblico ministero e cognizione del GIP. – 3. Intercettazioni disposte per un reato di cui all’elenco dell’art. 266 cod. proc. pen. ed utilizzabilità per i restanti reati dello stesso procedimento. – 3.a. segue: la separazione del procedimento in origine unitario. – 4. Utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi: nozione sostanziale di “stesso procedimento” e rilievo della originaria unitarietà. – 4.a. segue: i presupposti per l’utilizzo delle captazioni eseguitealiunde. – 5. Intercettazioni tra presenti: la necessaria determinazione del luogo. – 6. Intercettazioni e nuove tecnologie: premessa. – 6.a. segue: la sentenza sull’agente intrusore. – 6.b. segue: le intercettazioni dei messaggi PIN to PIN. – 7. Il valore probatorio delle conversazioni captate e la loro interpretazione. – 7.a. Conversazioni avvenute nella lingua dell’imputato e diritto alla traduzione degli atti. – 8. Questioni di inutilizzabilità: il rilievo del vizio. – 8.a. segue: la “delimitazione” dell’area operativa della violazione dell’art. 203 cod. proc. pen. – 8.b. segue: omessa trasmissione dei “brogliacci di ascolto”. – 8.c. segue: l’uso di impianti diversi da quelli della Procura. – 8.d. segue: ulteriori violazioni procedurali. – 8.e. segue: il limite temporale all’utilizzabilità dei tabulati.

1. Premessa. Il presente contributo ha ad oggetto una ricognizione della giurisprudenza di legittimità del 2015 sull’ammissibilità delle intercettazioni e sulla loro utilizzabilità nel processo al fine di verificare se siano intervenute significative evoluzioni negli indirizzi interpretativi precedentemente affermati.

E’ stato segnalato da tempo che l’approccio alle intercettazioni soffre della tendenza ad una valutazione complessiva delle problematiche toccate dall’istituto. Il tema dei limiti di ammissibilità del mezzo di ricerca della prova e dell’utilizzabilità dei suoi risultati, infatti, sovente è evocato nel medesimo contesto in cui si affronta il diverso aspetto della tutela del diritto alla segretezza delle conversazioni. A quest’ultima, talvolta, si affianca il profilo del costo dello strumento investigativo, che non riguarda la garanzia della riservatezza, ma i rapporti tra le autorità pubbliche ed i gestori dei servizi telefonici.

Questo metodo non ha agevolato lo svolgimento del necessario approfondimento dei profili controversi dell’argomento, essendo invece necessario distinguere le diverse questioni sul campo, da valutare alla luce degli interessi di cui sono portatori i vari soggetti interessati.

Il disegno di legge n. 2798, approvato dalla Camera dei deputati il 23 settembre 2015 e trasmesso al Senato, ove ha preso il n. 2067, intitolato “Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi nonché all’ordinamento penitenziario per l’effettiva rieducazione della pena”, muovendosi in una direzione diversa, all’art. 30, prevede il conferimento di una delega al Governo per l’adozione di un decreto legislativo recante disposizioni dirette a garantire la riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni in conformità all’art. 15 Cost. Le nuove prescrizioni dovranno incidere soltanto sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle intercettazioni, prevedendo una scansione procedimentale per la selezione in contraddittorio del materiale registrato, con speciale riguardo alla tutela della riservatezza delle persone occasionalmente coinvolte, in particolare dei difensori. Questa delega sottende la convinzione che, sotto il profilo della divulgazione dei risultati delle captazioni, non sarebbe possibile pervenire ad un più equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali in conflitto solo in base alle norme vigenti, sicché sarebbe inevitabile il ricorso a nuove regole che permettano di contemperare il diritto della collettività ad essere informata con la presunzione di innocenza degli indagati e con la riservatezza di terzi occasionalmente ascoltati a non veder pubblicate vicende intime, magari non inerenti ai fatti penalmente rilevanti. Anche la Corte Costituzionale, del resto, ha richiesto al legislatore la determinazione di <<diversi e migliori equilibri>> tra i valori costituzionali implicati, perché si assiste ad <<un dilagante e preoccupante fenomeno di violazione della riservatezza, che deriva dalla incontrollata diffusione mediatica di dati e informazioni personali, sia provenienti da attività di raccolta e intercettazione legalmente autorizzate, sia … effettuate al di fuori dell’esercizio di ogni legittimo potere da pubblici ufficiali o da privati mossi da finalità diverse, che comunque non giustificano l’intrusione nella vita privata delle persone>>  (Corte cost. 11 giugno 2009, n. 173).

Il disegno di legge citato, invece, non prevede modificazioni delle disposizioni sull’ammissibilità e sull’utilizzabilità delle intercettazioni. In questo ambito, il bilanciamento tra le prerogative individuali e le esigenze investigative è affidato alla giurisprudenza cui è demandato di fissare il corretto punto di equilibrio tra l’esigenza di repressione dei reati e la salvaguardia della riservatezza.

In questa materia, collocata nel punto che sembra divenuto quello di massima frizione tra i poteri dell’Autorità e le libertà individuali, la giurisprudenza di legittimità, per mezzo di diversi interventi anche delle Sezioni Unite, sta svolgendo un delicato compito, che è stato definito di “costruzione del sistema”, tratteggiando i contorni dell’istituto e fissandone i limiti di utilizzabilità. La Suprema Corte (Sez. Un. 12 luglio 2007 n. 30347, Aguneche, Rv. 236754), al riguardo, ha chiarito che <<la formidabile capacità intrusiva del mezzo di ricerca della prova nella sfera della segretezza e libertà delle comunicazioni costituzionalmente presidiata … non può tollerare deroghe, scorciatoie, pigrizie o, peggio, radicali omissioni …>>, precisando in una pronuncia del 2015 (Sez. VI, 26 maggio 2015 n. 27100, Musumeci), che le disposizioni che prevedono la possibilità di intercettare comunicazioni sono di stretta interpretazione, perché <<la norma costituzionale pone … il fondamentale principio secondo il quale la libertà e la segretezza delle comunicazioni sono inviolabili, ammettendo una limitazione soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria e con le garanzie stabilite dalla legge>>.

2. La motivazione del provvedimento: il collegamento tra il reato da accertare e la persona intercettata.

La ricerca del corretto bilanciamento tra le esigenze costituzionali per le quali sono previste le attività finalizzate all’accertamento dei reati e quelle poste a tutela degli individui ha un momento centrale nella motivazione degli atti che permettono le intercettazioni. Il giudice deve dare atto delle ragioni che giustificano la limitazione della prerogativa del singolo e, quindi, dell’equilibrio tra i valori costituzionali interessati. Il tema concerne l’interpretazione dell’art. 267 cod. proc. pen. e riguarda essenzialmente il rapporto tra il presupposto dei <<gravi indizi di reato>>  e quello dell’assoluta indispensabilità dello strumento. Questa norma, invero, assicura il rispetto dell’art. 8 CEDU: la Corte EDU ha affermato che la regolamentazione delle intercettazioni è compatibile con la preminenza del diritto necessaria in una società democratica solo se garantisce una protezione adeguata contro il pericolo di arbìtri lesivi della riservatezza, dovendo disciplinare, in tale prospettiva, in modo sufficientemente preciso, le categorie di persone assoggettabili al mezzo di ricerca della prova, la natura dei reati che vi possano dare luogo, l’indipendenza dell’organo deputato ad autorizzare lo strumento investigativo e le precauzioni da osservare per garantire la privacy degli interlocutori che siano casualmente attinti dalle captazioni senza aver alcun collegamento con l’oggetto delle indagini in corso (cfr. Corte EDU, Sez. II, 10 aprile 2007, Panarisi c. Italia; Corte EDU, Sez. IV, 10 febbraio 2009, Iordachi c. Moldavia).  

Anche nel corso del 2015, la Suprema Corte (Sez. III, 2 dicembre 2014 n. 14954 (dep. 13 aprile 2015), Carrara ed altri, Rv. 263044) è tornata sull’art. 267 cod. proc. pen., ribadendo che, sebbene il primo presupposto contemplato dalla norma non assuma un significato probatorio e, dunque, non imponga una valutazione del fondamento dell’accusa <<in chiave di prognosi, seppure indiziaria, di colpevolezza>>, non deve ingenerarsi l’equivoco che possa essere autorizzata un’intercettazione fondata su illeciti penali meramente ipotetici. E’ richiesta <<l’esistenza, in chiave altamente probabilistica o, nel caso di reati di criminalità organizzata, nel più ristretto ambito della sufficienza indiziaria, di un fatto storico integrante una determinata ipotesi di reato, il cui accertamento imponga l’adozione del mezzo di ricerca della prova>>. Il legislatore, in altri termini, mirando a prevenire qualsiasi uso non necessario di uno strumento tanto insidioso per la sfera della libertà, prescrive <<un controllo penetrante circa l’esistenza delle esigenze investigative e la finalizzazione delle intercettazioni al relativo soddisfacimento, senza alcun riferimento alla delibazione nel merito di una ipotesi accusatorio che può ancora non avere trovato una sua consistenza>>. Questo consolidato approdo interpretativo già rappresenta un punto importante nella prospettiva della tutela delle libertà individuali, essendo idoneo a <<prevenire il rischio di autorizzazione in bianco e di impedire che l’intercettazione da mezzo di ricerca della prova si trasformi in mezzo per la ricerca della notizia di reato>>.

Il giudice, poi, deve ragionare secondo una logica di concreta residualità dell’intercettazione rispetto ad altri strumenti investigativi cd. “tradizionali”. Solo quando altri mezzi sono inutili, se non impossibili, può essere legittimo azionare uno strumento tanto invasivo come quello in esame. Ciò comporta che va indicato il criterio di collegamento tra l’indagine in corso e l’intercettando (cfr. Sez. VI, 12 febbraio 2009, n. 12722, Lombardi Stronati, Rv. 243241). Questo è l’aspetto più denso di significato dell’obbligo di motivazione che, ai sensi degli artt. 15 Cost. e 267, comma primo, cod. proc. pen., incombe in maniera espressa e diretta sul giudice. Nella decisione del 2015 dapprima citata, sul punto, è precisato che il soggetto intercettato <<è stato indicato nel decreto autorizzativo delle intercettazioni come cointeressato all’attività di spaccio>>. Tale laconica affermazione è stata reputata sufficiente per osservare il criterio di collegamento tra il reato da accertato e il soggetto nei cui confronti è stata eseguita l’intercettazione.

2.a. segue: la proroga della captazione

E’ noto che nella prassi la motivazione della proroga del decreto che autorizza l’intercettazione di comunicazione sia notevolmente più sintetica rispetto a quella dell’autorizzazione. Tale consuetudine, anche nel 2015, ha trovato l’avallo della giurisprudenza di legittimità. Secondo Sez. IV, 19 marzo 2015 n. 16430, Caratozzolo, Rv. 263401, la motivazione dei decreti di proroga può essere ispirata anche a criteri di minore specificità e può risolversi <<nel dare atto della constatata plausibilità delle ragioni esposte nella richiestadel pubblico ministero>>. In particolare, secondo questa decisione, per la protrazione delle intercettazioni non è necessario che emergano elementi nuovi. Il semplice contatto della persona intercettata con soggetti indagati, rispetto ai quali cioè erano già emersi indizi di colpevolezza, giustifica il permanere degli ascolti.

Si comprende agevolmente il rischio sotteso a questo indirizzo giurisprudenziale: la motivazione della proroga potrebbe ridursi al mero rinvio all’informativa di polizia giudiziaria allegata alla richiesta del Pubblico Ministero, nel quale spesso sono riportate solo talune conversazioni reputate utili dall’operatore delegato all’ascolto, se non il mero elenco dei contatti giudicati “significativi”. L’art. 267 cod. proc. pen., invece, prevede che la persistenza delle condizioni legittimanti le captazioni debba risultare dalla motivazione del provvedimento di proroga.

2.b. segue: richiesta del pubblico ministero e cognizione del GIP.

Un’interessante decisione del 2015 (Sez. VI, 21 luglio 2015 n. 34809, Gattuso, Rv. 264447)ha precisato che il decreto di autorizzazione del giudice non è vincolato dai limiti della richiesta del pubblico ministero. Nella fattispecie, in particolare, era stata dedotta la sussistenza di uno dei reati contenuti nel catalogo di cui all’art. 266 cod. proc. pen. ed erano state richieste intercettazioni per la durata di soli quindici giorni. L’autorizzazione, invece, era stata concessa da giudice per quaranta giorni, essendo stata riferita a diversa ipotesi di reato che legittimava il ricorso all’art. 13 della legge n. 203 del 1991. La Suprema Corte ha ritenuto che il giudice per le indagini preliminari possa riqualificare la richiesta del pubblico ministero in presenza di sufficienti indizi di delitti di criminalità organizzata, sebbene essa faccia esclusivo riferimento alla disciplina dettata dagli artt. 266 e segg. cod. proc. pen. e, comunque, al termine di quindici giorni.

3. Intercettazioni disposte per un reato di cui all’elenco dell’art. 266 cod. proc. pen. ed utilizzabilità per i restanti reati dello stesso procedimento. Il bilanciamento tra il diritto individuale di cui all’art. 15 Cost. e la necessità garantire strumenti per la ricerca degli autori dei reati ha condotto alla formulazione, nell’art. 266 cod. proc. pen., di un catalogo di illeciti per i quali, in considerazione della gravità o anche per l’impossibilità di raccogliere in modo diverso mezzi di prova (come avviene, ad esempio, per la contravvenzione di molestia o disturbo alle persone con il mezzo del telefono prevista dall’art. 660 cod. pen.), è giustificata, in presenza di determinate condizioni, la compressione della libertà di comunicare.

E’ frequente peraltro che, disposta un’intercettazione per l’accertamento di un reato per il quale il mezzo di ricerca della prova sia consentito dall’art. 266 cod. proc. pen., emerga un fatto diverso o elementi di prova anche di altro o di altri illeciti, che possono anche non essere previsti nell’elenco di cui all’art. 266 cod. proc. pen.

L’orientamento giurisprudenziale prevalente ritiene utilizzabili i risultati delle intercettazioni telefoniche, autorizzate per un reato che rientra tra quelli contemplati dall’art. 266 cod. proc. pen., anche relativamente ai rimanenti illeciti per i quali si procede nel medesimo procedimento, pur se per essi le intercettazioni non sono permesse (cfr. Sez. III, 22 settembre 2010 n. 39761, S.S.; Sez. VI, 5 aprile 2012 n. 22276, Maggioni, Rv. 252870).

L’art. 266 cod. proc. pen., invero, non disciplina il caso di concorso di reati nel medesimo procedimento e, in particolare, non esclude l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazione per i reati diversi da quelli indicati dalla stessa disposizione che siano emersi nel corso dell’indagine per altri illeciti. La locuzione che adopera la disposizione appena citata (<<nei procedimenti relativi ai seguenti reati>>) deve essere interpretata nel senso della sufficienza, per l’accesso al mezzo di ricerca della prova nel corso del procedimento, della presenza di almeno uno dei reati di cui all’art. 266 cod. proc. pen. (Sez. VI, 14 giugno 2011, n. 34735, Anzillotti). Milita in questo senso un’esigenza di intrinseca coerenza sistematica che impone la valutazione unitaria, coerente e complessiva del materiale probatorio acquisito legittimamente al processo. Sarebbe paradossale, del resto, dover sostenere che l’art. 266 cod. proc. pen. disciplina solo i casi in cui il singolo procedimento tratta uno solo, o più, dei reati che espressamente indica.

L’art. 270 cod. proc. pen., d’altra parte, quando deve individuare i parametri per legittimare l’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in altri procedimenti, non richiama l’elencazione tassativa dell’art. 266 cod. proc. pen., ma introduce diversi presupposti, certamente non sovrapponibili, né coincidenti con la clausola generale di cui all’art. 266, comma primo, lett. a), cod. proc. pen.

3.a. segue: la separazione del procedimento in origine unitario.

L’indirizzo giurisprudenziale appena illustrato, ai fini dell’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, postula che i reati ulteriori rispetto a quello per cui sia stato disposto il mezzo di ricerca della prova siano trattati nello stesso procedimento.

L’eterogeneità delle ipotesi accusatorie e degli indagati, tuttavia, può condurre al frazionamento del giudizio per la mancanza delle condizioni di connessione che giustificano lo svolgimento di un procedimento simultaneo. In questo caso, i risultati delle intercettazioni legittimamente acquisiti nel procedimento nella fase in cui era unitario sono sempre utilizzabili, anche nel procedimento separato, non trovando applicazione l’art. 270 cod. proc. pen. che presuppone l’esistenza di più procedimenti ab origine distinti tra loro.

E’ stato puntualizzato (Sez. VI, 16 dicembre 2014 n. 6702 (dep. 16 gennaio 2015)La Volla, Rv. 262496), infatti, che l’unitarietà iniziale del procedimento – piuttosto che il criterio della stretta connessione tra i fatti – reato oggetto dei distinti procedimenti – costituisce il dato processuale per consentire l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per i distinti reati, oggetto del procedimento frazionato, quando sussistono le condizioni di ammissibilità di cui all’art. 266 cod. proc. pen. ed anche quando si tratti di illeciti che non rientrano nell’elenco contenuto in detta disposizione.

Su questo ultimo punto, però, un’altra sentenza sempre del 2015 (Sez. VI, 17 giugno 2015 n. 27820, Morena, Rv. 264087) ha espresso un indirizzo che appare difforme. L’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni nel procedimento separato, secondo questa decisione, presuppone che in relazione agli ulteriori reati il controllo avrebbe potuto essere autonomamente disposto ai sensi del predetto art. 266 cod. proc. pen., così alludendosi alla circostanza che debba trattarsi di illeciti contenuti nel catalogo contenuto nella norma citata.In particolare, è stato ulteriormente precisato che la regola appena indicata opera anche se il giudizio separato riguarda <<fatti strettamente connessi>> all’illecito per il quale sono state disposte le intercettazioni. La sentenza in esame ha richiamato un precedente arresto della stessa Suprema Corte con il quale è stato puntualizzato che la circostanza che non possano considerarsi pertinenti a “diverso procedimento”  risultanze concernenti fatti strettamente connessi a quello cui si riferisce l’autorizzazione giudiziale e che, dunque, non rilevino i limiti di utilizzabilità fissati all’art. 270 cod. proc. pen. in ragione dell’originaria unitarietà del giudizio, non esclude che siano applicabili le condizioni generali cui la legge subordina l’ammissibilità delle intercettazioni (Sez. VI, 15 gennaio 2004 n. 4942, Kolakowska Bozena, Rv. 229999).

4. Utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi: nozione sostanziale di “stesso procedimento” e rilievo della originaria unitarietà.Una decisione del 2015 (Sez. V, 20 gennaio 2015 n. 26693, Catanzaro, Rv. 264001) ha riaffermato il principio giurisprudenziale secondo cui la nozione di identico procedimento, che esclude l’operatività del divieto di utilizzazione previsto dall’art. 270 cod. proc. pen., prescinde da elementi formali come il numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato, implicando una valutazione di tipo “sostanziale”. Il procedimento va considerato identico solo quando tra il contenuto dell’originaria notizia di reato alla base dell’autorizzazione e quello dei reati per cui si procede vi sia una stretta connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico.

La “stretta connessione” a cui allude la Corte di Cassazione per escludere la diversità del procedimento viene riferita alle fattispecie concorsuali (art. 12, comma primo, cod. proc. pen.) o di concorso formale di reati ovvero ai reati legati dal vincolo della continuazione (art. 12, comma secondo, cod. proc. pen.) o a quelli commessi per eseguire o per occultare gli altri (art. 12, comma terzo, cod. proc. pen.) nonché a quelli in cui la cui prova deriva, anche solo in parte, dalla stessa fonte (art. 371, comma secondo, lett. c), cod. proc. pen.).

Secondo la pronuncia indicata, dunque, il dato formale dell’identità del numero del procedimento nel cui ambito sono state eseguite le intercettazioni – che, peraltro, lascia supporre l’unitarietà iniziale – non determina necessariamente che le conversazioni siano utilizzabili per reati trattati in diversi giudizi, che non risultano connessi o collegati sul piano probatorio.

Una sentenza sempre del 2015 (Sez. VI, 16 dicembre 2014 n. 6702 (dep. 16 febbraio 2015), La Volla, Rv. 262496), invece, è giunta a conclusioni diverse proprio facendo leva sull’originaria unitarietà dei procedimenti.

Secondo questa decisione, la disposizione in esame intende impedire soltanto il trasferimento dei risultati delle operazioni tecniche da uno ad un altro procedimento che abbiano avuto un’autonoma e distinta origine. I risultati delle intercettazioni legittimamente acquisiti nell’ambito di un procedimento penale inizialmente unitario, invece, sono sempre utilizzabili, ancorché lo stesso sia stato successivamente frazionato a causa della eterogeneità delle ipotesi di reato e dei soggetti indagati, poiché in tal caso non trova applicazione l’art. 270 cod. proc. pen. che postula l’esistenza di più procedimenti ab origine distinti tra loro.

Alla stregua di questa pronuncia, il fatto che sia intervenuta una separazione perché le ipotesi di reato erano eterogenee e diversi erano i soggetti indagati (o in altri termini, perché le ipotesi di reato non erano connesse, né collegate sul piano probatorio) non esclude l’utilizzo delle intercettazioni in ragione dell’origine unitaria.

L’equivoco in cui è incorsa anche parte della giurisprudenza di legittimità, sempre secondo questa pronuncia, <<è stato quello di attribuire rilevanza preminente al dato formale della diversità dei procedimenti nella loro fase statica, senza invece considerarne la genesi. E’ stato, allora, necessario ricorrere al criterio della stretta connessione tra i fatti – reato oggetto dei distinti procedimenti per recuperare l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni in procedimenti aventi finanche la medesima scaturigine oppure costituenti la prosecuzione, mediante riapertura delle indagini ex art. 414 cod. proc. pen., di altro procedimento già definito mediante archiviazione. Eppure alcune pronunzie di questa Corte di legittimità … avevano affermato a chiare lettere il concetto che non si dà diversità di procedimenti ai sensi e per gli effetti dell’art. 270 cod. proc. pen. nel caso in cui le indagini riguardino un unico iniziale procedimento, ancorché per avventura successivamente frazionatosi per la diversità dei soggetti indagati e dei reati>>.

La disciplina di cui all’art. 270 cod. proc. pen., in conclusione, si applica soltanto nel caso in cui i risultati delle intercettazioni transitano tra procedimenti ab origine distinti (Sez. IV, 8 aprile 2015, n. 29907, Bono, Rv. 244382)

4.a. segue: i presupposti per l’utilizzo delle captazioni eseguite aliunde. L’indispensabilità dell’impiego dei risultati delle intercettazioni compiute in altri procedimenti, secondo Sez. II, 18 febbraio 2015, n. 12625, Moi, Rv. 262927, significa che i risultati delle captazioni debbano essere necessarie per la prova anche di un qualsiasi elemento dell’imputazione, compresi i fatti relativi alla punibilità, alla determinazione della pena, alla qualificazione del reato, alle circostanze attenuanti o aggravanti. L’indispensabilità, pertanto, potrebbe ricorrere pure se le registrazioni sono utili come mero dato di riscontro di dichiarazioni accusatorie.

L’art. 270 cod. proc. pen., per giustificare l’utilizzo, inoltre, pretende che i risultati delle captazioni siano indispensabili per l’accertamento di un reato per il quale è obbligatorio l’arresto in flagranza. La disposizione alza il limite per l’impiego delle registrazioni, non riferendosi al catalogo dei reati di cui all’art. 266 cod. proc. pen., ma alle fattispecie per le quali la legge prevede l’arresto obbligatorio. Secondo Sez. III, 29 gennaio 2015 n. 12536, Anania, Rv. 262999, però, al fine di valutare la esistenza della condizione richiesta dall’art. 270, comma primo, cod. proc. pen. per la deroga al divieto di utilizzazione in altri procedimenti, non è necessario che dalla conversazione intercettata emerga immediatamente l’esatta qualificazione giuridica del delitto “diverso” per il quale è obbligatorio l’arresto in flagranza. Le informazioni raccolte tramite le attività di captazione legittimamente disposte in un determinato procedimento, infatti, possono essere comunque utilizzate come “fonti” da cui eventualmente desumere una successiva notitia criminis. In altri termini, qualora emerga un delitto per il quale l’arresto in flagranza non è obbligatorio, dai risultati delle intercettazioni legittimamente disposte possono essere desunte notizie di reato.

Una decisione del 2015 (Sez. III, 29 gennaio 2015 n. 21451, L., Rv. 263746), poi, ha chiarito che, nel caso di successione di leggi che incidano sui requisiti e sui presupposti legittimanti i mezzi di ricerca della prova e l’utilizzazione dei relativi elementi, il principio tempus regit actum opera in maniera differente qualora siano ontologicamente separati i due momenti di formazione dell’atto e di formale acquisizione dei risultati della ricerca probatoria. Nell’ipotesi di utilizzazione delle intercettazioni telefoniche in procedimento diverso da quello in cui sono state disposte, poiché l’utilizzazione è subordinata, da una parte, alla legalità dell’ intercettazione nel momento genetico, e, dall’altra, a precise condizioni di assunzione nel diverso processo, i due requisiti, di legalità del mezzo e di legittimità dell’acquisizione, vanno individuati nelle leggi vigenti nei rispettivi momenti, pur se diversamente disciplinati. La Suprema Corte, pertanto, ha ritenuto utilizzabili in diverso procedimento le intercettazioni per il reato di cui all’art. 609-quater cod. proc. pen., che, solo successivamente rispetto al momento in cui erano state disposte ed eseguite le attività di captazione, è stato ricompreso tra quelli per i quali l’art. 380 cod. proc. pen. prevede l’arresto obbligatorio in flagranza.

5. Intercettazioni tra presenti: la necessaria determinazione del luogo. Un’interessante pronuncia (Sez. IV, 12 marzo 2015, n. 24478, Palermo, Rv. 263723) ha provveduto a una puntualizzazione in tema di intercettazioni ambientali. Il decreto di autorizzazione delle operazioni di captazione deve riportare i dati che permettono di determinare precisamente la portata della compressione della libertà di comunicazione. Questa regola, sebbene apparentemente non espressa in modo esplicito nella disciplina codicistica delle intercettazioni, è insita nella prescrizione costituzionale. Il decreto autorizzativo di captazioni effettuate mediante l’uso del telefono, pertanto, deve contenere l’identificazione della specifica apparecchiatura o del particolare sistema da sottoporre a intercettazione. In termini sostanzialmente analoghi, nel caso di intercettazioni delle comunicazioni tra presenti, è indispensabile l’individuazione o, quanto meno, l’individuabilità in base agli elementi contenuti nel decreto autorizzativo del preciso luogo nel quale deve intervenire l’ascolto.

Quando l’intercettazione deve avvenire in una vettura, tuttavia, non è necessario che nel provvedimento sia indicata la targa, il modello o un altro dato identificativo del veicolo, essendo possibile richiamare qualsiasi altro elemento idoneo a consentire l’esatto riconoscimento dell’ambiente ove va svolta la captazione.

Il dato che permette l’individuazione del luogo, in particolare, può essere anche di natura relazionale, come l’indicazione del soggetto proprietario o dell’utilizzatore del veicolo, ma solo se ciò non determina incertezze, come, al contrario, potrebbe avvenire nel caso del possessore di un vasto parco macchine. Ne consegue che, quando si verifica la sostituzione dell’autovettura nella quale è stata autorizzata la captazione, le intercettazioni sono comunque utilizzabili e non è necessario un nuovo decreto autorizzativo. Non muta, infatti, lo specifico ambiente per il quale è stata autorizzata l’intercettazione, se detto luogo è determinato con riferimento al rapporto con un determinato utilizzatore o proprietario ed al riguardo non sorge alcuna incertezza.

6. Intercettazioni e nuove tecnologie: premessa. L’impiego a fini investigativi delle moderne tecnologie informatiche ha determinato un nuovo spazio d’intervento per la giurisprudenza, impegnata a delineare i presupposti di ammissibilità di nuovi strumenti, ricercando soluzioni soddisfacenti per il rispetto delle garanzie costituzionali.

In quest’ambito, invero, una difficoltà è rappresentata dal fatto che nella disciplina codicistica delle intercettazioni si rinviene un unico riferimento normativo, rappresentato dalla disposizione che consente di intercettare le comunicazioni informatiche o telematiche. L’art. 266-bis cod. proc. pen., come è noto, permette l’intercettazione del flusso di comunicazioni “relativo a sistemi informatici o telematici ovvero intercorrente tra più sistemi”. Il “flusso” consiste nello scambio di dati numerici (bit). Oggetto di intercettazione informatica o telematica è la connessione, fissa o occasionale, tra computer tra loro collegati o in rete o via modem o con qualsiasi altra forma che potrebbe essere impiegata.

Sebbene la disposizione sia ormai risalente, suscita tuttora qualche problema applicativo. Il messaggio di posta elettronica (e – mail), ad esempio, sembra rilevare quale comunicazione istantanea, alla stregua di quella telefonica, suscettibile, pertanto, di essere intercettata quando il mittente invia il suo messaggio. In questa prospettiva, i messaggi già pervenuti al destinatario ed archiviati in apposite cartelle nella memoria del computer potrebbero esulare dal materiale intercettabile, trattandosi di un flusso di dati “già avvenuto”, rispetto al quale mancherebbe uno dei presupposti tipici dell’intercettazione rappresentato dall’apprensione “in tempo reale” della comunicazione. Diversa appare la situazione che si verifica nel caso di acquisizione di mail archiviate in cartelle “bozze” e non spedite. Si allude a un’ingegnosa modalità di comunicazione che consiste nell’accedere alla medesima casella di posta elettronica tramite internet da parte di due o più persone, che si sono scambiate in precedenza la password. In questo caso si verifica uno scambio comunicativo, sebbene la mail non sia stata inoltrata al destinatario, il quale, peraltro, ne ha preso cognizione. In questa ipotesi, un “flusso” di dati numerici captabile in tempo reale potrebbe ravvisarsi in occasione dell’accesso alla casella di posta elettronica per la lettura della “bozza”.

Il profilo più delicato, però, è certamente rappresentato dalle intercettazioni compiute per mezzo di “agente intrusore”, cioè di virus informatico, del tipo cd. trojan, che consente quella che è stata anche definita nei primi commenti la “perquisizione on line o elettronica”.

Con questa espressione si allude all’istallazione, in genere “da remoto” per mezzo di un programma inviato unitamente ad una mail o ad un sms, di un captatore informatico in un computer o in uno smartphone. Questo strumento consente di captare tutto il traffico dati in arrivo o in partenza dal dispositivo “infettato”, di attivare il microfono e, dunque, di intercettare le conversazioni tra presenti e di mettere in funzione la videocamera, permettendo di carpire le immagini, oltre a fare copia, totale o parziale, delle unità di memoria del sistema informatico preso di mira ed a decifrare quel che viene digitato sulla tastiera collegata al sistema.

I dati raccolti sono trasmessi in tempo reale o ad intervalli prestabiliti ad altro sistema informatico in uso agli investigatori.

Il sistema descritto, evidentemente, è molto utile per lo svolgimento delle indagini. Per esempio, permette l’apprensione delle comunicazioni VOIP, voice over IP, e, comunque, di carpire le comunicazioni che viaggiano direttamente tra i terminali di due utenti, senza attraversare una struttura centrale di commutazione, per mezzo di dati informatici in forma crittografata, che possono essere letti solo da chi (nella specie il gestore) possiede la chiave di decodifica.

Utilizzando il virus informatico sul telefono cellullare, però, le intercettazioni, potenzialmente, non sono soggette ad alcuna restrizione, né temporale, né spaziale. Il telefono, infatti, è divenuto un oggetto che accompagna ogni nostro movimento e che ci segue in ogni luogo, sicché il suo uso come mezzo di intercettazione permette di sottoporre l’individuo ad un indiscriminato controllo della sua vita. Questo controllo si estende ai soggetti che stanno vicino alla persona intercettata. L’intercettazione telefonica, divenuta ambientale, inoltre, avviene anche all’interno di un domicilio e non solo in luoghi pubblici o aperti al pubblico.

Secondo il primo arresto giurisprudenziale che ha affrontato il tema (Sez. V, 14 ottobre 2009, n. 16556 (dep. 29 aprile 2010), Virruso, Rv. 246954), è legittimo il decreto del pubblico ministero che ha permesso l’estrapolazione dei dati già formati contenuti nella memoria del “personal computer”, ma anche di quelli che sarebbero stati memorizzati dopo detta installazione(acquisizione in copia della documentazione informatica memorizzata nel “personal computer” in uso all’indagato) che non si risolverebbe nella registrazione di flusso di comunicazioni. Poiché l’attività consiste nel prelevare e copiare documenti memorizzati (o che sarebbero stati memorizzati) sull’hard disk del computer, non avrebbe ad oggetto un “flusso di comunicazioni”, richiedente un dialogo con altri soggetti. Sebbene nel caso concreto posto al vaglio della Suprema Corte avesse innescato un monitoraggio occulto e continuativo del computer che si era protratto per oltre otto mesi, si sarebbe trattato di una mera “relazione operativa tra microprocessore e video del sistema elettronico”ossia”un flusso unidirezionale di dati”  confinati all’interno dei circuiti del computer.

6.a. segue: la sentenza sull’agente intrusore. Una decisione del 2015 (Sez. VI, 26 maggio 2015 n. 27100, Musumeci) ha affrontato le problematiche determinate dal nuovo strumento investigativo in una dimensione sistematica.

Per un corretto esame del tema, in particolare, ha ritenuto necessario distinguere le due peculiarità tecniche che contraddistinguono una simile modalità di eseguire intercettazioni: l’attivazione, “da remoto”, del microfono e l’attivazione, sempre a distanza, della telecamera.

Quanto al primo profilo, è stato rilevato che il nuovo meccanismo realizza un’intercettazione ambientale, la cui legittimità va valutata alla stregua della previsione di cui all’art. 266, comma secondo, cod. proc. pen. Questa disposizione, nel contemplare l’intercettazione di comunicazioni tra presenti, si riferisce alla captazione di conversazioni che avvengono in un determinato luogo e non “ovunque”. La norma va interpretata in modo rigoroso alla luce della previsione di cui all’art. 15 Cost. Essa, pertanto, non consente intercettazioni ambientali effettuate in qualunque luogo, includendo la possibilità di una captazione esperibile ovunque il soggetto si sposti. L’unica opzione ermeneutica compatibile con il dettato costituzionale, al contrario, è quella secondo la quale l’intercettazione ambientale deve avvenire in luoghi ben circoscritti e individuati ab origine e non in qualunque luogo si trovi il soggetto.

La giurisprudenza, del resto, ammette una variazione dei luoghi in cui deve svolgersi la captazione solo se rientra nella specificità dell’ambiente oggetto dell’intercettazione autorizzata (Sez VI, 11 dicembre 2007, n. 15396, Sitzia, Rv. 239634, relativa ad una fattispecie in cui l’autorizzazione dell’intercettazione ambientale aveva ad oggetto la sala colloqui della casa circondariale in cui era ristretto l’imputato e le operazioni di captazione erano proseguite presso la sala colloqui della diversa casa circondariale in cui era stato successivamente trasferito).

Nella stessa prospettiva, si ammette che, una volta autorizzata la captazione delle conversazioni in un determinato luogo, l’attività possa intervenire anche nelle pertinenze, senza necessità di ulteriore specifica autorizzazione, sul presupposto che non si possa considerare luogo diverso dall’abitazione principale (Sez. II, 15 dicembre 2010, n. 4178 (dep. 4 febbraio 2011), Fontana, Rv. 249207) o che la captazione ambientale possa essere trasferita dalla vettura oggetto di autorizzazione a quella successivamente acquistata dall’indagato sottoposto ad intercettazione (Sez. V, 6 ottobre 2011 n. 5956 (dep. 15 febbraio 2012), Ciancitto, Rv. 252137).

Nel caso di specie, la tecnica utilizzata, per mezzo dell’attivazione del microfono del telefono cellulare, consente la captazione di comunicazioni in qualsiasi luogo si rechi il soggetto, portando con sé l’apparecchio. Si tratta di una modalità di captazione che aggiunge un quid pluris rispetto alle ordinarie potenzialità dell’intercettazione, costituito, per l’appunto, dalla possibilità di captare conversazioni tra presenti non solo in una pluralità di luoghi a seconda degli spostamenti del soggetto, ma – e questo è il punto dolente – senza limitazione di luogo, in violazione della normativa codicistica e, soprattutto, del precetto costituzionale di cui all’art. 15 Cost.

Dalle considerazioni appena svolte, è tratta una conclusione significativa, invero in grado di limitare notevolmente le potenzialità investigative del nuovo strumento: il decreto autorizzativo deve individuare con precisione i luoghi nei quali dovrà essere espletata l’intercettazione delle comunicazioni tra presenti, non essendo ammissibile un’indicazione indeterminata o addirittura l’assenza di ogni indicazione al riguardo. Le captazioni compiute in luoghi diversi da quelli ai quali si riferiva l’autorizzazione devono essere espunte dal materiale cognitivo e valutativo, perché illegittime. Se i provvedimenti autorizzativi, poi, non contengono alcuna specificazione dei luoghi in cui effettuare l’intercettazione ambientale, l’intero materiale captato è illegittimo e, quindi, inutilizzabile, perché non è consentita l’effettuazione di intercettazioni tra presenti senza delimitazioni spaziali.

Il secondo aspetto problematico determinato dal nuovo strumento concerne l’attivazione a distanza della telecamera del telefono cellulare (o del computer) per effettuare video-riprese. Al riguardo, è necessario richiamare un fondamentale arresto giurisprudenziale (Sez. un. 28 marzo 2006, n. 26795, Prisco, Rv. 234267) secondo cui le videoregistrazioni in luoghi pubblici o aperti o esposti al pubblico, non compiute nell’ambito del procedimento penale, vanno incluse nella categoria dei documenti ex art. 234 cod. proc. pen., mentre quelle effettuate dalla polizia giudiziaria, anche d’iniziativa, costituiscono prove atipiche, soggette alla disciplina dettata dall’art. 189 cod. proc. pen.

In ogni caso, le riprese video non possono essere realizzate in ogni luogo. Quelle compiute in ambito domiciliare, in mancanza di una disciplina specifica attuativa dell’art. 14 Cost., sono acquisite illecitamente e, dunque, inutilizzabili.

La tutela costituzionale del domicilio, peraltro, va limitata ai luoghi con i quali la persona abbia un rapporto stabile. Quando si tratta di riprese in luoghi nei quali si svolgono attività riservate, ma che non presentano natura di domicilio, dovendo assicurarsi tutela solo al diritto alla riservatezza di cui all’art. 8 CEDU e all’art. 2 Cost. e non alla prerogativa di cui all’art. 14 Cost., la prova atipica può essere ammessa con provvedimento motivato dell’Autorità giudiziaria (giudice, ma anche pubblico ministero). Il provvedimento dell’Autorità giudiziaria integra il livello minimo di garanzia a cui ha fatto riferimento la Corte Costituzionale (Corte Cost. 11 marzo 1993 n. 81; Corte Cost. 17 luglio 1998 n. 281)

Ne consegue che, nel caso di impiego dell’agente intrusore, sono inutilizzabili le video riprese realizzate in un domicilio e quelle compiute in ambienti in cui va salvaguardata la riservatezza, se, in questo secondo caso, compiute senza un preventivo provvedimento dell’Autorità giudiziaria che spieghi le ragioni che inducono a compiere l’atto per la ricerca della prova di un reato.

6.b. segue: le intercettazioni dei messaggi PIN to PIN. La Corte di Cassazione (Sez. VI, 22 settembre 2015, n. 39925, Solimando)si è occupata anche dell’intercettazione di messaggi fra telefoni Blackberry, scambiati con il sistema PIN to PIN. Il PIN (da non confondere con il codice PIN della scheda SIM telefonica) è un codice univoco che identifica ogni dispositivo Blackberry (analogamente a un numero di serie o a un codice IMEI). È possibile inviare messaggi PIN ad altri telefoni BlackBerry, in modo simile agli SMS, conoscendo i loro codici PIN.

In questa decisione, la Suprema Corte ha affermato che le intercettazioni sono utilizzabili a condizione che i dati informatici siano trasmessi in originale dalla sede italiana della società canadese che gestisce i flussi di comunicazioni direttamente al server degli uffici della Procura della Repubblica, ove possono essere custoditi, con possibilità di accesso e consultazione delle parti, a garanzia della genuinità della prova.

Non è necessaria, inoltre, l’attivazione di una rogatoria internazionale. Va applicato, infatti, anche a queste comunicazioni il principio consolidato in tema di intercettazioni telefoniche. Non bisogna esperire la rogatoria internazionale allorquando l’attività di captazione e di registrazione del flusso comunicativo avviene in Italia, circostanza che ricorre anche nel caso di utenza mobile italiana in uso all’estero o di utenza straniera impiegata in Italia. Occorre fare ricorso alla rogatoria solo nell’ipotesi in cui l’attività captativa sia diretta a percepire contenuti di comunicazioni transitanti unicamente sul territorio straniero. Sul punto, Sez. IV, 29 gennaio 2015 n. 9161, Andreone, Rv. 262441, ha ribadito che non rileva, al fine della individuazione della giurisdizione competente, il luogo dove sia in uso il relativo apparecchio, bensì esclusivamente la nazionalità dell’utenza, essendo tali apparecchi soggetti alla regolamentazione tecnica e giuridica dello Stato cui appartiene l’ente gestore del servizio.

Nel caso di intercettazioni PIN to PIN, sarà utilizzabile solo la captazione di apparecchi Blackberry localizzati in Italia o, quanto meno, quando almeno uno di essi si trova in Italia, impiegando un nodo per le comunicazioni nazionale.

7. Il valore probatorio delle conversazioni captate e la loro interpretazione. Nel corso del 2015, la Suprema Corte (Sez. un, 26 febbraio 2015 n. 22471, Sebbar, Rv. 263715,) ha ribadito l’indirizzo consolidato secondo cui le dichiarazioni carpite nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzata, con le quali un soggetto accusa se stesso e/o altri della commissione di reati, hanno piena valenza probatoria e non necessitano di ulteriori elementi di corroborazione ai sensi dell’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. Al riguardo, in precedenza era stata giudicata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 192, 195, 526 e 271 cod. proc. pen., per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost. e l’art. 6 CEDU, nella parte in cui non prevedono che le indicazioni di reità e correità, captate nel corso di conversazioni intercettate, debbano essere corroborate da altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità, come avviene per le chiamate in reità o correità rese dinanzi all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria, e nella parte in cui non prevedono l’inutilizzabilità di tali dichiarazioni qualora il soggetto, indicato quale fonte informativa nella conversazione intercettata, si avvalga poi della facoltà di non rispondere (Sez. VI, 20 febbraio 2014 n. 25806, Caia, Rv. 259673).

La stessa decisione delle Sezioni Unite dapprima indicata ha affrontato il tema dell’interpretazione dei risultati delle captazioni, che è strettamente legato a quello del valore probatorio delle stesse.

Secondo l’indirizzo consolidato, recepito dalla sentenza, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, rappresenta una questione di fatto rimessa all’apprezzamento del giudice di merito e si sottrae al giudizio di legittimità, se la valutazione risulta logica in base alle massime di esperienza utilizzate.

Non solo il significato attribuito al linguaggio criptico utilizzato dagli interlocutori, ma anche la stessa natura convenzionale di esso, invero, costituisce una valutazione di merito insindacabile in cassazione. La censura di diritto può riguardare soltanto la logica della chiave interpretativa impiegata dal giudice di merito.

Una di tali chiavi di lettura può essere integrata dal frequente ricorrere di termini che non trovano una spiegazione coerente con il tema del discorso e che, invece, si spiegano nel contenuto ipotizzato nella formulazione dell’accusa oppure dalla connessione con determinati fatti commessi da persone che usano gli stessi termini in contesti analoghi (Sez. V, 14 luglio 1997, n. 3643, Ingrosso, Rv. 209620).

Sebbene l’interpretazione delle conversazioni debba fondarsi sul tenore complessivo delle indagini, indispensabili pure per la corretta identificazione degli interlocutori, essa può riposare anche su “massime di esperienza” (Sez. VI, 11 dicembre 2007 n. 15396 (dep. 11 aprile 2008), Sitzia, Rv. 239636; Sez. VI, 30 ottobre 2013 n. 46301, Corso, Rv. 258164). Queste ultime sono costituite da generalizzazioni tratte con procedimento induttivo dalla esperienza comune, conformemente agli orientamenti diffusi nella cultura e nel contesto spazio-temporale in cui matura la decisione (Sez. VI, 28 maggio 2014 n. 36430, Schembri, Rv. 260813; Sez. II, 6 dicembre 2013 n. 51818, Brunetti, Rv. 258117). Al riguardo, trova applicazione il principio secondo cui il ricorso alle”massime d’esperienza”ed al criterio di verosimiglianza conferisce al dato preso in esame valore di prova solo se può escludersi plausibilmente ogni spiegazione alternativa che invalidi l’ipotesi all’apparenza più verosimile (Sez. VI, 22 ottobre 2014 n. 49029, Leone, Rv. 261220). In questo caso, il controllo della Cassazione sui vizi di motivazione della sentenza impugnata, se non può estendersi al sindacato sulla scelta delle massime di esperienza, può però avere ad oggetto la verifica sul se la decisione abbia fatto ricorso a mere congetture, consistenti in ipotesi non fondate sullo id quod plerumque accidited in suscettibili di verifica empirica od anche ad una pretesa regola generale che risulta priva di una pur minima plausibilità (Sez. I, 11 febbraio 2014 n. 18118, Marturana, Rv. 261992; Sez. VI, 27 novembre 2013 n. 1686 (dep. 15 gennaio 2014), Keller, Rv. 258135).

La decifrazione dei significati, però, deve essere priva di ambiguità, in modo che la ricostruzione del contenuto delle conversazioni non lasci margini di dubbio sul significato complessivo dei colloqui intercettati (Sez. VI, 10 giugno 2005, n. 35680, Patti, Rv. 232576).

7.a. Conversazioni avvenute nella lingua dell’imputato e diritto alla traduzione degli atti. Il d.lgs. n. 32 del 2014, attuativo della direttiva 2010/64/UE sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali, ha riformato l’art. 143 cod. proc. pen. La disposizione riconosce all’imputato che non conosce la lingua italiana il diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete, indipendentemente dall’esito del procedimento, al fine di poter comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti e lo svolgimento delle udienze cui partecipa. Egli ha altresì diritto alla traduzione di taluni atti processuali ed all’assistenza gratuita di un interprete per le comunicazioni con il difensore, prima di rendere un interrogatorio ovvero al fine di presentare una richiesta o una memoria nel corso del procedimento. L’art. 143, comma terzo, cod. proc. pen., poi, contiene una sorta di clausola di salvaguardia, permettendo al giudice di disporre la traduzione gratuita di altri atti o anche solo di parte di essi, ritenuti essenziali per consentire all’imputato di conoscere le accuse a suo carico, anche su richiesta di parte, con atto motivato, impugnabile unitamente alla sentenza. Queste norme tutelano i fondamentali diritti, costituzionalmente garantitiexartt. 24 e 111 Cost., di difesa e di partecipazione dell’imputato al processo, permettendo il rispetto dell’art. 6 CEDU.

Secondo Sez. I, 13 maggio 2015 n. 22151, Carrus, Rv. 263781, il diritto alla traduzione riguarda l’imputato e non il suo difensore. Quest’ultimo non potrà dolersi della mancata traduzione in lingua italiana delle conversazioni intercettate, intervenute in lingua sarda, segnatamente nel dialetto barbaricino – dorgalese, a lui sconosciuta.

Il diritto dell’imputato alla traduzione degli atti processuali, invero, mira a garantire la conoscenza dei motivi dell’accusa e delle prove formate in una lingua da lui non conosciuta. Ne consegue che non possa essere esteso alle conversazioni avvenute nella sua lingua madre, evidentemente diversa dall’italiano, ma da lui conosciuta.

8. Questioni di inutilizzabilità: il rilievo del vizio. Una decisione del 2015 (Sez. III, 26 novembre 2014 n. 15828 (dep. 16 aprile 2015), Solano, Rv. 263342), consolidando l’interpretazione che assicura margini più ampi di tutela delle prerogative individuali, ha precisato che l’inosservanza dell’obbligo di motivazione dei decreti autorizzativi o di quelli proroga integra un’inutilizzabilità del risultato delle intercettazioni di carattere “assoluto” o “patologico”, non sanabile in virtù della richiesta di accesso al rito abbreviato, perché derivante dalla violazione dei diritti fondamentali della persona tutelati dalla Costituzione. Il difetto “patologico”, invero, investe tanto le prove oggettivamente vietate, quanto le prove comunque formate o acquisite in violazione – o con modalità lesive – dei diritti fondamentali della persona tutelati dalla Costituzione e, perciò, assoluti e irrinunciabili, a prescindere dall’esistenza di un espresso o tacito divieto al loro impiego nel procedimento contenuto nella legge processuale (che nella specie, peraltro, è individuabile proprio nel predetto art. 271, comma primo, cod. proc. pen.).

Secondo questa pronuncia, inoltre, il vizio può essere dedotto dalle parti, per la prima volta, nel giudizio di cassazione e rilevato oltre il devolutum anche dal giudice di legittimità ai sensi dell’art. 609, comma secondo, cod. proc. pen., perché l’inutilizzabilità è rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento a norma dell’art. 191 cod. proc. pen.

Sotto questo profilo, la decisione si pone in contrasto con un precedente orientamento (Sez. V, 1 ottobre 2008, n. 39042, Samà, Rv. 242319), che escludeva la deduzione per la prima volta con il ricorso per cassazione dell’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche o ambientali.

Una successiva decisione (Sez. III, 27 febbraio 2015, n. 32699, Diano, Rv. 264518) sembra aver composto il contrasto, precisando che l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni non può essere dedotta per la prima volta con il ricorso per cassazione, qualora l’eccezione si fondi su questioni di fatto mai dedotte in precedenza. Il sindacato del giudice di legittimità comprende certamente il potere di esaminare gli atti per verificare l’integrazione della dedotta violazione, ma non anche quello di interpretare in modo diverso, rispetto alla valutazione del giudice di merito, i fatti storici posti a base della questione (se non nei limiti della mancanza o manifesta illogicità della motivazione). Nel caso di specie, solo con il ricorso per cassazione era stata dedotta l’inutilizzabilità delle intercettazioni, per la mancanza dei presupposti di fatto per la proroga dell’efficacia dei decreti originari, che non era stata prospettata in precedenza.

8.a. segue: la “delimitazione” dell’area operativa della violazione dell’art. 203 cod. proc. pen.Una decisione del 2015 (Sez. II, 20 ottobre 2015, n. 42763, Russo)è tornata sul tema delle intercettazioni disposte nei confronti di soggetti individuati in base a “fonti confidenziali”, ribadendo una distinzione idonea a circoscrivere la portata del vizio di inutilizzabilità delle captazioni o, quanto meno, a descriverne un’ampiezza “variabile”. Secondo questa sentenza, il vizio sussiste solo se le informazioni confidenziali abbiano costituito l’unico elemento da cui è stata desunta la sussistenza degli indizi di reato. La fonte confidenziale, invece, può essere usata per individuare la persona fisica da sottoporre a intercettazione.

8.b. segue: omessa trasmissione dei “brogliacci di ascolto”. Una decisione del 2015 (Sez. I, 9 gennaio 2015, n. 15895, Riccio, Rv. 263107) ha affrontato una fattispecie nella quale un’ordinanza cautelare non trovava fondamento sui cd. brogliacci di ascolto delle intercettazioni, che non erano stati trasmessi al GIP, né sulle tracce foniche delle captazioni, analogamente non in atti, ma sulla documentazione delle registrazioni contenuta nel decreto di fermo emesso dal Pubblico Ministero. Secondo questa decisione, una simile situazione non determina l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni. Sarebbe sufficiente anche la sola trasmissione da parte del pubblico ministero al GIP di una sommaria ed informale documentazione, che dia conto sinteticamente del contenuto delle conversazioni contenute negli atti della polizia giudiziaria. Il tribunale ha l’obbligo di fornire congrua motivazione in ordine alle eventuali difformità, che fossero specificamente indicate dalla parte, fra i testi delle conversazioni telefoniche richiamati negli atti e quelli risultanti dai brogliacci o, meglio ancora, dall’ascolto in forma privata dei relativi file audio. Anche in questo caso, si apprezza un’ampiezza “variabile” dell’inutilizzabilità. La portata del vizio questa volta dipende dal comportamento delle parti. Da un lato, gli attori del processo sono responsabilizzati nel senso che gravano sugli stessi oneri al fine di far valere l’invalidità della prova. Dall’altra, proprio detto onere, di fatto, rimette alla disponibilità dell’interessato l’allegazione dei fatti costitutivi dell’invalidità, determinando finanche, nel caso di inerzia dell’interessato, una sorta di quiescenza del vizio.

La richiesta del difensore volta ad accedere, prima del loro deposito ai sensi dell’art. 268, comma quarto, cod. proc. pen., alle registrazioni di conversazioni intercettate, sommariamente trascritte dalla polizia giudiziaria nei cd. brogliacci di ascolto, utilizzati ai fini dell’adozione di un’ordinanza di custodia cautelare, peraltro, secondo Sez. IV, del 28 maggio 2015 n. 24866, Palma, Rv. 263729, determina l’obbligo per il pubblico ministero di provvedere tempestivamente solo quando il difensore specifica che l’accesso è finalizzato alla presentazione di un’istanza di riesame. 

8.c. segue: l’uso di impianti diversi da quelli della Procura. Il decreto del pubblico ministero che dispone, a norma dell’art. 268, comma terzo, cod. proc. pen., il compimento delle operazioni mediante impianti diversi da quelli in dotazione alla Procura della Repubblica, deve motivare sia in ordine al requisito delle eccezionali ragioni di urgenza sia con riguardo all’insufficienza o all’inidoneità delle apparecchiature installate presso il suo ufficio. Al riguardo, la prospettiva del riconoscimento di margini più ampi di tutela dei diritti individuali ispira un’altra decisione depositata nel 2015 (Sez. V, 2 ottobre 2014 n. 6439 (dep. 13 febbraio 2015), Sparandeo, Rv. 262661). Secondo questa pronuncia, l’inosservanza della norma processuale appena illustrata deve intendersi sanzionata da inutilizzabilità patologica delle intercettazioni, secondo il combinato disposto degli artt. 191 e 271 dello stesso codice.

La decisione si pone in consapevole contrasto con quanto affermato da Sez. II, 14 gennaio 2014 n. 3606, Garzo, Rv. 258541, secondo cui sarebbero riconducibili alla “inutilizzabilità patologica” – rilevabile, dunque, anche nel rito abbreviato – i soli difetti derivanti dalla violazione dei “diritti fondamentali” enunciati negli artt. 188 e 189 cod. proc. pen. e non tutti quelli contemplati dall’art. 271, comma primo, cod. proc. pen.

E’ stato altresì precisato (Sez. V, 11 febbraio 2015 n. 22949, Bevilacqua, Rv. 263987) che la motivazione sulle ragioni di eccezionale urgenza per l’uso di impianti in dotazione della polizia giudiziaria, a norma dell’art. 268, comma terzo, cod. proc. pen., è assorbente rispetto ai profili tecnici di inidoneità funzionale degli impianti della Procura della Repubblica, sicché, in tal caso, l’omessa indicazione specifica dei precisati aspetti tecnici non è causa di nullità o inutilizzabilità del decreto di intercettazione.

Nello sforzo di delimitare l’ambito operativo dell’art. 268, comma terzo, cod. proc. pen., inoltre, una decisione (Sez. I, 19 dicembre 2014 n. 3137 (dep. 22 gennaio 2015), Terracchio, Rv. 262485)ha specificato che la disposizione non vieta l’utilizzazione di impianti e mezzi appartenenti a privati, né il ricorso all’eventuale ausilio tecnico ad opera di soggetti esterni che siano richiesti di intervenire per fronteggiare esigenze legate al corretto funzionamento delle apparecchiature noleggiate e che si trovano ad agire, in tale evenienza, come longa manus o ausiliari del Pubblico ministero o della polizia giudiziaria.

Secondo Sez. IV, 27 novembre 2014 n. 5401 (dep. 5 febbraio 2015), Lazzaroni, Rv. 262125, infine, non è configurabile alcuna nullità, né inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni se le operazioni di “masterizzazione” dei dati relativi alle conversazioni registrate sono state effettuate fuori dei locali della Procura della Repubblica dove, tuttavia, deve essere stata eseguita la registrazione delle comunicazioni. Il pubblico ministero non ha l’obbligo di avvisare la difesa dell’indagato in ordine allo svolgimento della “masterizzazione” dei dati registrati, alle quali il difensore ha diritto di assistere ma, soltanto, previa specifica richiesta da formularsi dopo la notifica degli avvisi di cui all’art. 268, comma quarto, cod. proc. pen. o all’art. 415-bis cod. proc. pen.

8.d. segue: ulteriori violazioni procedurali. L’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, peraltro, è confinata dalla Suprema Corte negli ambiti descritti dall’art. 271, comma primo, cod. proc. pen.

Non determina l’inutilizzabilità degli esiti delle attività di captazione, in particolare, l’irregolare indicazione di inizio e fine delle operazioni nei verbali cui fa riferimento l’art. 267, comma quinto, cod. proc. pen. e che attengono alla durata complessiva dell’attività di intercettazione autorizzata per le singole utenze o i singoli ambienti privati (Sez. VI, 21 luglio 2015, n. 33231, Murianni, Rv. 264462) ovvero la mancata indicazione nei verbali di inizio e fine delle operazioni, dei nominativi degli ufficiali di P.G. che hanno preso parte alle stesse (Sez. III, 17 febbraio 2015, n. 20418, Iannuzzi, Rv. 263625).

8.e. segue: il limite temporale all’utilizzabilità dei tabulati. Una decisione della Suprema Corte (Sez. V, 5 dicembre 2014, n. 15613 (dep. 15 aprile 2015), Geronzi, Rv. 263805) ha reputato patologicamente inutilizzabili i dati contenuti nei tabulati telefonici acquisiti dall’Autorità giudiziaria senza rispettare i termini di cui all’art. 132 del d.Lgs. n. 196 del 2003. Questa norma dispone che, per finalità di accertamento e repressione dei reati, il fornitore debba conservare i dati relativi al traffico telefonico per ventiquattro mesi dalla data della comunicazione, mentre quelli concernenti il traffico telematico per dodici mesi dalla data della comunicazione. Entro questi termini, i suddetti dati sono acquisiti presso il fornitore con decreto motivato del pubblico ministero, anche su istanza del difensore dell’imputato, della persona sottoposta alle indagini, della persona offesa e delle altre parti private.

Va segnalato che, nel caso preso in esame dalla sentenza indicata, la richiesta di utilizzare i tabulati era stata avanzata dalla difesa.

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