Programmi di lavoro sostenibili

di Giuseppe Cernuto

Livelli adeguati di tutela giudiziaria in tutte le aree del Paese; una risposta di giustizia coerente con la domanda del territorio; la certezza del diritto e la tutela dei diritti, individuali e collettivi; la tensione verso una giustizia in linea con le aspettative dei cittadini.

Se questi sono traguardi condivisi nel dibattito associativo ed in quello politico generale, sorprende la persistenza dell’equivoco che confonde tali risultati con un mero efficientismo statistico.

Ad un’opinione pubblica disorientata, facile vittima del paralogismo secondo cui un magistrato più deposita provvedimenti più realizza giustizia, corrisponde la deriva fordista di cui sono preda gli stessi operatori giudiziari. Persino la Corte di Cassazione sembra subordinare i propri compiti nomofilattici e di orientamento giurisprudenziale ad un produttivismo che ragguaglia la funzione istituzionale del magistrato alla quantità dei documenti prodotti, piuttosto che alla capacità di fare giustizia. Gli stessi modelli effettivi di magistrato e di magistratura ne risultano profondamente modificati.

Tutto ciò mentre la confusione del fine (l’efficacia della risposta giudiziaria) con i mezzi (i provvedimenti a ciò necessari) contribuisce a burocratizzare la magistratura, inducendo l’impressione che il compito sia quello di esitare fascicoli in tempi predeterminati, non di affermare la giustizia del caso concreto. Non aiuta, al proposito, la propensione della dirigenza degli uffici ad assumere il risultato statistico, in termini di quantità e contenimento dei tempi processuali, quale obiettivo fondante del proprio mandato, anche a costo di trascurare altri indicatori (di accessibilità; rispetto dei diritti delle parti processuali; trasparenza dei percorsi processuali e decisionali; completezza delle istruttorie e delle indagini; qualità della decisione) senza i quali la tutela dei diritti risulta solo apparente. Né aiutano le declinazioni attuali del sistema disciplinare e di valutazione della professionalità, che fanno percepire le statistiche come un fine e non come uno dei molti parametri del lavoro giudiziario.

Spesso i magistrati si sforzano di assicurare egualmente la qualità della giustizia: per amor proprio, senso di responsabilità, adesione a un modello diverso di giudice e di pubblico ministero. Ma se il sistema continuerà a proporre, in concreto, l’idealtipo del magistrato – funzionario, che si “mette a posto” evadendo le pratiche nei tempi assegnati e viene valutato in ragione della disponibilità a migliorare sistematicamente la performance quantitativa dell’anno precedente, rischieremo tutti, prima o poi, di ritrovarci burocrati. Una deriva che, detto incidentalmente, probabilmente alcuni accettano, dentro e fuori la magistratura; cui concorrono le forme crescenti di gerarchizzazione degli uffici (si pensi ai cambiamenti nelle Procure dopo la riforma dell’ordinamento giudiziario); in sintonia con la progressiva riduzione degli spazi di auto-organizzazione (tra l’altro, una esternalità indotta dal processo telematico) in corso da anni; agevolata dalla scarsità cronica delle risorse.

Non credo sia un’evoluzione nell’interesse dei cittadini, o coerente con il disegno costituzionale di una magistratura autonoma ed articolata come potere diffuso. In ogni caso, nessuno avrà interesse ad essere giudicato da un magistrato deresponsabilizzato; frettoloso; pressato dal numero abnorme e dalla scadenza dei provvedimenti da redigere; che non ha il tempo di aggiornarsi; è costantemente sotto stress; e, per fronteggiare carichi di lavoro sempre crescenti, si ritrova ad abbassare il livello qualitativo dell’attività svolta: redigendo provvedimenti approssimativi; cercando scorciatoie processuali; o persino (il pericolo principale, che per pudore nessuno indica volentieri) assume decisioni improvvisate o affrettate.

Se queste premesse sono vere, la soluzione non può che essere quella di completare il disegno di un’organizzazione moderna della giustizia con l’adozione, da parte degli organi di autogoverno, di strumenti di programmazione del lavoro giudiziario ragionevoli, ragionati e rispettosi del livello minimo di qualità del servizio cui ciascun cittadino ha diritto.

Una conclusione semplice, nella sua logica, ma ostacolata da difficoltà di cui anche la magistratura è in parte responsabile.

Alcune componenti della magistratura associata, indulgendo tra l’altro in semplificazioni ad uso propagandistico, hanno erroneamente centrato la riflessione su un corollario di questa dinamica, la previsione per ciascun magistrato di livelli ragionevoli di produttività, rappresentati  però come oggetto della prestazione lavorativa richiesta, e non come limite oltre il quale i vincoli strutturali della sua attività comportano che la qualità necessaria del lavoro sia messa in pericolo. Si è legittimata così l’obiezione di agire in base ad un interesse corporativo, contrapposto a quello collettivo; e si è indicato, sostanzialmente, un approdo in linea con la svolta burocratica da contrastare, mancando in concreto la risposta al problema.

Da un’altra area culturale è stata sostenuta, in alternativa, una altrettanto deleteria concezione eticizzante della giustizia (qual è quella che confonde il lavoro del magistrato con una “missione” da compiere) combinata con l’illusione che l’introduzione di novità organizzative possa risolvere qualsiasi difficoltà: utopie non solo non condivisibili ma funzionali (il missionario, se necessario, deve essere pronto a fronteggiare qualsiasi compito gli si prospetti) ad affermare quell’efficientismo burocratico dilagante cui occorre, invece, fare argine.

La confusione è aumentata dal ricorso corrente ad un concetto, quello di carico esigibile, inteso alla stregua di un livello minimo di produttività che metta il magistrato al riparo da conseguenze disciplinari ed in sede di valutazione di professionalità; e però diversamente delineato dal legislatore nell’art. 37 d.l. n. 98/2011 quale obiettivo massimo possibile di abbattimento della pendenza negli uffici giudiziari civili; mentre per le valutazioni di professionalità altra norma, l’art. 11 commi 2 e 3 d. lgs. n. 160/2006, prevede che siano enucleati standard di rendimento non ancora operativi e neppure raccordati con i carichi esigibili, né nell’accezione normativa né in quella di uso comune.

Un’iniziativa in grado di sciogliere queste contraddizioni non è più differibile; ed emerge, allo stesso tempo, lo spazio politico per un progetto di Unità per la Costituzione che sintetizzi le posizioni espresse dalla magistratura associata in una proposta chiara, responsabile e compatibile con un’offerta di giustizia di qualità.

Nel merito tecnico, parte della strada è già stata tracciata e potrà fare tesoro sia dei format sviluppati ai fini dei programmi di gestione degli uffici e degli standard di rendimento, sia delle migliori informazioni statistiche di cui è annunciata la disponibilità. Anche i dissidi relativi all’indicazione di un numero soglia potranno essere riassorbiti dallo sviluppo di procedure chiare, trasparenti e partecipate di programmazione del lavoro previa individuazione dei livelli minimi e massimi di prestazione in concreto esigibili, intesi quali obiettivi ragionevoli di produttività del magistrato e dell’ufficio. Garantita l’indispensabilità di questo livello di elaborazione, che valorizzi le specificità territoriali e la molteplicità dei mestieri del magistrato, anche le modalità di definizione di un riferimento numerico nazionale potranno essere considerate, quale strumento ulteriore di programmazione dei risultati realisticamente raggiungibili ed elemento di valutazione delle diversità territoriali.

In ogni caso, quel che è certo è che ormai la buona giustizia ha bisogno dei carichi esigibili.

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