Proposte di modifiche della disciplina normativa relativa agli istituti della proposta conciliativa e della mediazione

di Michele Ruvolo

La causa della ritardata definizione dei procedimenti è dovuta, all’evidenza, all’elevatissimo numero delle cause in entrata, numero che da solo sarebbe sostenibile ma che, unito alla mole dell’arretrato già formatasi, risulta sproporzionato rispetto alla capacità di definizione che può assicurare il nostro sistema con i suoi giudici civili.

Conseguentemente, o si interviene riducendo drasticamente la domanda (ad esempio tramite la leva fiscale, e quindi attraverso un consistente aumento dell’importo del contributo unificato, o tramite forme di degiurisdizionalizzazione, come si è di recente fatto con l’intervento normativo sulla negoziazione assistita) o si aumenta la quantità delle cause in uscita.

Essendo una pura scelta politica quella di intervenire riducendo la domanda gravante sul sistema giustizia, ciò che va qui evidenziato è che risulta assolutamente necessario adottare possibili misure di natura processuale che possano aumentare il numero di definizioni senza aumentare il numero di sentenze emesse (il che, infatti, rischierebbe di compromettere ulteriormente la qualità del servizio reso dagli Uffici giudiziari).

A questo proposito va assolutamente valorizzato l’istituto della proposta conciliativa del giudice disciplinato dall’art. 185 bis c.p.c.

Invero, la percentuale di accettazione delle proposte conciliative formulate dal giudice risulta, pur in assenza di strumenti di rilevazione statistica, particolarmente elevata, e ciò (è giusto riconoscerlo) anche perché le parti individuano nella proposta del giudice una qualche anticipazione della decisione finale e temono, quindi, le ripercussioni sulle spese di lite dovute al regime di cui all’art. 91 c.p.c. Molte persone, poi, sono propense ad accettare le proposte conciliativeexart. 185bisc.p.c. in quanto provenienti non dalla controparte ma da un soggetto terzo ed imparziale come il giudice. Peraltro, tramite la proposta conciliativa formulata dal giudice l’avvocato può riuscire a far chiudere alcuni contenziosi di difficile soluzione e con riferimento ai quali non era possibile trovare l’accordo tra i legali delle parti senza che uno di essi sembrasse agli occhi del cliente meno pronto a difenderne gli interessi. Ancora, si osservi che con la proposta conciliativa l’avvocato viene a perdere, a livello di onorari, soltanto i compensi per la fase conclusiva, mentre spettano quelli per le altre fasi. La proposta conciliativa non penalizza, quindi, il lavoro degli avvocati e consente, invece, alle parti di non affrontare fasi istruttorie, consulenze, gradi di appello e di non protrarre un conflitto spesso logorante sotto il profilo psicologico.

Tuttavia, attenendosi al dato letterale dell’art. 185 bis c.p.c. il potere del giudice di formulare la proposta in questione trova un evidente limite temporale. La norma prevede, infatti, che “il giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione, formula alle parti ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa”.

L’inciso normativo “sino a quando è esaurita l’istruzione” indica, quindi, come limite temporale per la formulazione della proposta conciliativa, quello della fase istruttoria. Alla base di quest’impostazione legislativa sta sicuramente la considerazione per cui, dovendo la proposta essere congegnata in termini sufficientemente specifici e dettagliati, in una fase processuale in cui è già chiusa l’attività istruttoria al giudice non resta che rimettere le parti alla decisione, posto che, altrimenti, si rischierebbe anticipare il contenuto della probabile decisione finale.

In realtà, lo spettro della ricusazione del giudice nei casi in cui egli abbia, anche se solo in via prognostica, anticipato l’esito della decisione costituisce un’idea errata se si prendono in considerazione altre ipotesi in cui il giudice anticipa la decisione: quelle cautelari, le inibitorie processuali ed i filtri impugnatori. Per non parlare del semplice provvedimento di ammissione dei mezzi di prova o dell’ordinanza che decide sulla provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo o sull’emissione dell’ordinanza provvisoria di rilascio del bene concesso in locazione.

Correttamente, quindi, l’art. 185 bis c.p.c. esclude che la proposta conciliativa possa essere causa di ricusazione.

Alla già attualmente prevista impossibilità di ricusazione del giudice andrebbe quindi aggiunto -per valorizzare ulteriormente l’istituto in questione – l’ampliamento della possibilità di ricorso alla proposta conciliativa prevedendo il possibile ricorso alla stessa non “alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione” ma “alla prima udienza, ovvero sino a quando la causa è posta in decisione”.

Anzi, sarebbe ancor più opportuno prevedere la tendenziale obbligatorietà (e non la facoltatività) della formulazione della proposta conciliativa, anche al momento della precisazione delle conclusioni (o comunque prima della decisione) di ogni giudizio, compresi quelli pendenti (e a tale obbligatorietà andrebbe accompagnata una sanzione processuale visto che spesso il giudice civile italiano non applica con rigore le prescrizioni processuali sfornite di conseguenze processuali, come accade in relazione all’istituto del calendario del processo o a numerosi termini processuali).

Se, infatti, si considera che all’incirca il 90% del contenzioso giudiziario italiano pende in primo grado e che solo una minima parte delle sentenze di primo grado (meno del 15%) viene impugnata, si comprende bene come l’elevatissimo tasso percentuale di accettazione delle proposte conciliative (pure messo in evidenza dal disegno di legge) renderebbe possibile ottenere l’obiettivo di non far andare in decisione moltissime cause.

Oggi, ogni giudice italiano deve motivare tutte le sue 150-200 sentenze annuali anche se il 90% circa non verranno impugnate.

È per questo che da diverse parti è stata proposta la soluzione della c.d. “motivazione a richiesta”. Tale soluzione viene osteggiata da molti in quanto è la nostra Carta costituzionale a richiedere la motivazione della sentenza. Ora, lasciando stare la fondatezza o meno di tale obiezione (forse non così pertinente se si considera che anche il principio del contraddittorio è costituzionalizzato e non per questo è contrario a Costituzione il procedimento volto all’emanazione del decreto ingiuntivo, in cui il contraddittorio è solo eventuale e subordinato alla proposizione di un’opposizione), resta comunque il fatto che, formulata la proposta conciliativa prima della fase decisoria, in molti casi questa verrà accettata, con la conseguenza che il giudice si troverà a dover porre in decisione (motivando le relative sentenze) soltanto quelle cause in cui non sia stata accettata la proposta conciliativa, e cioè di fatto solo quelle cause in cui le parti non si accontentino della soluzione indicata nella proposta conciliativa, che essi ben sanno essere molto probabilmente analoga a quello che sarà il dispositivo della sentenza.

In altri termini, rendere la proposta conciliativa tendenzialmente obbligatoria prima della fase decisoria comporterebbe la genesi dell’effetto virtuoso di consentire un aumento esponenziale del numero delle definizioni delle cause (per abbandono della stessa dopo la proposta conciliativa o per stipula del verbale di conciliazione giudiziale o per cessazione della materia del contendere per accettazione della proposta conciliativa) senza compromettere la qualità delle decisioni tramite un aumento del numero delle sentenze di merito da scrivere.

Si otterrebbe lo stesso effetto benefico dell’introduzione della “motivazione a richiesta” senza però prevedere la stessa.

Certo, la proposta conciliativa si adatta bene soprattutto ai processi su diritti disponibili e comporta comunque la necessità di una decisione giudiziaria nelle cause sui diritti indisponibili (si pensi ai procedimenti in materia di famiglia). Si potrebbe, dunque, anche modellare una norma che tenga conto dell’evoluzione delle prassi negli uffici giudiziari introducendo, espressamente, l’istituto delle conclusioni congiunte.

Infine, sarebbe necessario prevedere, nell’ottica di conferire una maggiore possibilità di accettazione delle proposte conciliative e di scoraggiare condotte meramente dilatorie delle parti, la possibilità per il giudice di ricorrere alla responsabilità aggravataexart. 96, comma 3, c.p.c. in caso di mancata accettazione della proposta conciliativa senza giustificato motivo. Chiaramente, la sussistenza o meno di tale giustificato motivo verrà valutata in sentenza. Ciò che importa è che le parti sappiano che esse debbono prendere in alta considerazione la proposta che il giudice formula per definire la causa in modo concordato e devono eventualmente ben spiegare il motivo per cui non intendono chiudere la controversia alle condizioni suggerite dal giudice e vogliono che il giudizio prosegua nelle sue successive fasi e nei suoi possibili, ulteriori gradi.

In conclusione, l’art. 185 bis c.p.c. andrebbe quindi così riformulato: “Nelle cause non contumaciali il giudice, nel momento processuale da lui ritenuto maggiormente opportuno e comunque prima di invitare le parti a precisare le conclusioni o prima della decisione, deve formulare alle parti, a pena di nullità della sentenza, salvo che ciò non sia assolutamente escluso dalla natura del giudizio, una proposta conciliativa anche tenendo conto del possibile esito della lite. Ove il procedimento abbia ad oggetto diritti non disponibili, se le parti accettano la proposta conciliativa, il giudice le invita a precisare le medesime conclusioni. La mancata accettazione della proposta conciliativa senza giustificato motivo potrà essere valutata dal giudice ai fini della condanna di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c.”.

Sempre all’art. 185 bis c.p.c. si dovrebbe alla fine aggiungere: “Le proposte conciliative e le mediazioni disposte dal giudice che portano alla definizione della causa hanno il medesimo valore statistico delle sentenze e degli agli altri provvedimenti che definiscono il giudizio (come quello di cui all’art. 702 bis c.p.c. o le ordinanze di incompetenza) ai fini della valutazione della produttività del giudice”. In altri termini, occorre prevedere l’equiparazione, ai fini della valutazione della produttività del giudice civile, dell’accettazione della proposta conciliativa alla sentenza. È, infatti, solo attribuendo valore statistico alle proposte conciliative accettate che può compiersi un’effettiva valorizzazione dell’istituto della proposta conciliativa.

Infine – considerato l’elevatissimo tasso di accettazione di proposte conciliative che si riscontra nelle cause in materia familiare (separazioni e divorzi in particolar modo) in conseguenza del fatto che in esse il giudice istruttore formula la proposta basandosi spesso sia su un provvedimento provvisorio ed urgente che le parti hanno già accolto e metabolizzato sia su una qualche regolamentazione di fatto già concretamente applicata, che non soddisfa pienamente ciascuno dei due litiganti ma che costituisce una buona base su cui lavorare per costruire una soluzione conciliativa – sarebbe bene che molte di queste cause (che costituiscono un’enorme fetta del contezioso giudiziario nazionale) non arrivassero davanti al giudice ma trovassero una loro disciplina pattizia. Per far questo si potrebbero sfruttare i positivi risultati (in termini di accordi stipulati) ottenuti dai mediatori familiari, che con pazienza e nel giro di qualche incontro riescono frequentemente a far conciliare gli ex componenti della coppia, ottenendo anche importantissimi effetti benefici in termini di riduzione della conflittualità tra le parti e di aumento della serenità dei minori coinvolti nella vicenda. Ora, poiché le cause di diritto di famiglia rientrano sempre nel contenzioso civile puro, basterebbe incrementare i casi di mediazione civile obbligatoria introducendo nel comma 1 bisdell’art. 5 del d.lgs. 28 del 2010 dopo le parole “bancari e finanziari” le seguenti parole: “separazione personale dei coniugi, scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio, modifiche delle condizioni di separazione o divorzio, affidamento e mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio, alimenti tra ex conviventi di fatto”.    

DA: “RACCOLTA PROPOSTE DI RIFORMA NORMATIVA PRESENTATE IN OCCASIONE DEL CONVEGNO “IL GOVERNO DEL PROCESSO: AVVOCATURA E MAGISTRATURA A CONFRONTO” TENUTOSI A MILANO IL 27 GIUGNO 2016″