Proposte e riflessioni per il tempo della “nuova” normalità

di Giovanni D’Angelo

Sembrano passati anni, e sono invece trascorse solo settimane, da quando si contendeva, anche minacciando la crisi di governo, sugli effetti del blocco della prescrizione, nefasti, secondo i contrari al regime introdotto,  per la stessa democrazia del Paese, e anche su quelli della nuova disciplina delle intercettazioni.

Nessuno rimpiange, è ovvio, dibattiti spesso sproporzionati, per contenuti e toni, rispetto all’effettiva materia del contendere, ma non va nascosto il rischio che la tragica contingenza dell’epidemia dal coronavirus non solo possa spegnere i riflettori sull’analisi delle disfunzioni percepite e rilevate nella gestione del servizio giudiziario,  ma possa silenziare in termini definitivi il dibattito sulla crisi dello Stato di diritto, creando assuefazione ad una concezione meramente pragmatica delle norme e del loro utilizzo.

Occorre avere consapevolezza che la stasi della vita in comune di una nazione,  che è la necessità cogente di questo momento,  richiede la presenza, effettiva e percepita, dello Stato, pur con modalità adeguate alle dimensioni tragiche della contingenza (che si stanno sperimentando con buoni risultati), e non può divenire anche la stasi del pensiero, della riflessione sulle tante criticità che connotano il circuito delle istituzioni e quella giudiziaria, in particolare.  

Avvocati, giuristi, magistrati e l’intera intellettualità del Paese debbono averne consapevolezza, sentendosi chiamati a svolgere, fin d’ora, un ruolo importante nell’analisi della realtà del “come eravamo”,  perché ciò è necessario alla migliore costruzione del “come saremo”.

Il compito non è facile, anche perché l’incertezza del fattore tempo, che è cruciale per la soluzione dell’equazione che ha come incognita il futuro, rende tutto più complicato oltre che angoscioso.

Occorre, però, farsene carico con un rinnovato spirito di comunità e col senso di responsabilità richiesto dalla gravità del momento, quella che propizia, come insegna la Storia, condotte col più alto indice di dignità e anche coi vertici dell’eroismo.

L’Associazione Nazionale Magistrati, ad esempio, che l’anno scorso ha vissuto uno dei momenti più bui della sua storia ultracentenaria, può trovare, in questa tragica contingenza, l’occasione per un suo rilancio facendo sentire la sua presenza, col sostegno ai tanti magistrati impegnati sul campo (si pensi, solo per citarne alcuni, scusandosi coi tanti altri dimenticati, all’impegno dei giudici che svolgono funzioni di sorveglianza nelle carceri) e con l’analisi e la proposta in ordine al momento presente e a quello che verrà col ritorno alla normalità, quello particolarmente impegnativo della “composizione” giudiziaria della copiosissima legislazione d’emergenza.

Realtà in cui il compito dei magistrati sarà molto arduo, tenuto conto di ciò che si sta manifestando, per effetto della straordinarietà del momento, e cioè disordine nella gerarchia delle fonti delle norme e anche nel contenuto delle medesime.

Per non dire del prevedibile alto indice d’illegalità, inevitabilmente conseguente alle notevoli dimensioni della crisi socioeconomica che verrà.

La comunicazione, è banale rilevarlo, ha un ruolo essenziale nelle gestione di questa contingenza inedita.

Si va scoprendo che l’appello alla solidarietà,  su cui si è puntato col primo propagarsi del contagio e a sostegno delle prime regole restrittive delle libertà di locomozione e riunione, a cui la comunità nazionale ha aderito, salvo poche eccezioni, con senso di responsabilità, pur indispensabile, non è sufficiente.

Questa contingenza, infatti, che è una guerra “disarmata” non meno crudele di quella combattuta con le armi, chiama in causa gli inderogabili doveri di solidarietà sanciti dall’art. 2 della Costituzione; e va anche svelando, giorno dopo giorno, quanto e quale sia il contributo civico al pulsare del cuore della comunità nazionale.

Il monito “tutti a casa”, rassicurante strumento di protezione della collettività, è stato ed è sostenuto dal dovere di solidarietà; ma ha anche consentito di scoprire, o di percepire meglio, che questa stasi protettiva è resa possibile da un “movimento” che ne è lo strumento virtuoso di sostegno.

Oltre all’opera benemerita dei medici e del personale sanitario, c’è il lavoro che assicura il funzionamento della macchina dello Stato e di tutta la filiera di produzione di beni e servizi essenziali, molti dei quali sfuggono ad una superficiale percezione collettiva.

Si scopre così una nuova dimensione del lavoro come fondamento della Repubblica, non più o non solo come affermazione della dignità della persona ma come valore che sostiene la comunità nazionale.

E questa consapevolezza si sta accompagnando al provvidenziale utilizzo dei nuovi strumenti di comunicazione che consentono il lavoro a distanza.

Lavoro e salute emergono, dunque, in questa fase come congiunte architravi della comunità nazionale, non solo cioè come elementi essenziali della sfera giuridica individuale ma come dati valoriali che danno un  sostegno insostituibile alla collettività sociale e al “motore” delle istituzioni.

La consapevolezza che se ne sta avendo in questi giorni va comunicata e diffusa, e soprattutto non va obliata quando tornerà il tempo della “nuova” normalità. Ed è augurabile che a questa consapevolezza si accompagni la convinzione che questi due valori sociali, il lavoro e la salute, hanno bisogno di un territorio che al meglio ne assicuri e se possibile ne amplifichi la sfera e che meglio li protegga. L’ambiente e la sua tutela sono perciò il seme della pianta del futuro, il fondamento primario della globalizzazione che verrà. Sul cui orizzonte e su quello di un nuovo spazio giuridico europeo si misurerà l’impegno dei magistrati italiani a sostegno della legalità e della democrazia costituzionale.