Ragionevole durata e buone prassi in materia di procedure fallimentari

di Ester Difrancesco

Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nel 2009 ha adottato una risoluzione interinale riguardante l’eccessiva durata delle procedure giudiziarie in Italia, osservando chela riforma del 2006, in materia di procedure fallimentari, ne ha agevolato l’accelerazione e ridotto il numero. Ha altresì esortato le autorità italiane a garantire l’accelerazione dei procedimenti fallimentari, mediante l’adozione di apposite misure volte alla celere definizione anche di quelli ai quali non si applica la riforma.

Con nota del 27 ottobre 2011, così, il Ministero della Giustizia, Dipartimento per gli Affari di Giustizia, ha chiesto a tutti i Presidenti di sezione fallimentare dei Tribunali italiani di comunicare con urgenza “gli accorgimenti e le eventuali migliori buone prassi adottate al fine di assicurare la celerità delle procedure fallimentari pendenti”.

Ed invero la disciplina dettata dalla Legge Pinto in materia di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo trova applicazione anche alle procedure fallimentari, atteso che la nozione di procedimento di cui all’art. 6 par. 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo,secondo l’interpretazione fornitane anche dalla Corte di Strasburgo, si riferisce anche ai procedimenti esecutivi ed in via generale a tutti i processi che appartengono alla giurisdizione e che sono condotti sotto la direzione e la vigilanza di un giudice, a garanzia della legittimità del loro svolgimento.

L’eccessiva durata delle procedure fallimentari è stata spesso portata all’attenzione della CEDU, che ha rilevato, fra le altre, la violazione del diritto ad un equo processo,sotto il profilo della ragionevole durata.

Con provvedimento del 18/12/2007 (BERTOLINI contro ITALIA) la stessa Corte ha rilevato che il protrarsi delle procedure in questione è sovente imputabile a carenze proprie del sistema legislativo italiano in materia di fallimenti.

La peculiare natura delle procedure concorsuali impone di pensare al carattere della ragionevole durata tenendo conto di tutta una serie di circostanze ed in particolare dei profili attinenti alla complessità della procedura ed al comportamento delle parti.

La Corte di Cassazione con sentenza n. 2195 del 28.01.2009 ha osservato “[…] come non possa meccanicamente estendersi alle procedure concorsuali, ed in particolare al fallimento, il termine ragionevole di durata enucleato per un processo civile ordinario. E ciò, perché la sua natura concorsuale lo rende suscettibile di accogliere una pluralità di domande di ammissione al passivo, passibile di ulteriore incremento per effetto di eventuali ricorsi per insinuazione tardiva, opposizioni allo stato passivo, ed anche azioni civili ordinarie, derivate o no dal fallimento (azioni revocatorie, risoluzione contrattuali, ecc.). In sostanza, il fallimento è, esso stesso, un contenitore di processi: non assimilabile, in quanto tale, al paradigma del processo di cognizione, né a quello esecutivo individuale, presupposti dall’art. 6, par. 1, della Convenzione, nel diritto vivente dell’interpretazione giurisprudenziale consolidata. Ne consegue che la sua durata ragionevole è strettamente correlata a variabili, incidenti sulla complessità, estranee al processo ordinario, inclusa la maggiore o minore difficoltà di liquidazione dei cespiti patrimoniali.

La durata ragionevole stimata in tre anni può essere quindi tenuta ferma solo nel caso di fallimento con unico creditore, o comunque con ceto creditorio limitato, senza profili contenziosi traducentisi in processi autonomi […]”.

Ed ancora la Suprema Corte ha fatto riferimento alla peculiare complessità delle procedure fallimentari, osservando che: In tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo, non essendo possibile predeterminare astrattamente la ragionevole durata del fallimento, il giudizio in ordine alla violazione del relativo termine richiede un adattamento dei criteri previsti dalla legge 24 marzo 2001, n. 89, e quindi un esame delle singole fasi e dei subprocedimenti in cui la procedura si è in concreto articolata, onde appurare se le corrispondenti attività siano state svolte senza inutili dilazioni o abbiano registrato periodi di stallo non determinati da esigenze ben specifiche e concrete, finalizzate al miglior soddisfacimento dei creditori concorsuali. A tal fine, occorre tener conto innanzitutto del numero dei soggetti falliti, della quantità dei creditori concorsuali, delle questioni indotte dalla verifica dei crediti, delle controversie giudiziarie innestatesi nel fallimento, dell’entità del patrimonio da liquidare e della consistenza delle operazioni di riparto. Secondariamente, chi ritiene che il notevole protrarsi della procedura sia dipeso dalla condotta dei suoi organi ne deve provare l’inerzia ingiustificata o la neghittosità nello svolgimento delle varie attività di rispettiva pertinenza, o nel seguire i processi che si siano innestati nel tronco della procedura (si veda sul punto Cass., 02.04.2008, n. 8497).

Più di recente la Corte di Cassazione, sempre in tema di ragionevole durata del processo, ha previsto che “La ragionevole durata delle procedure fallimentari può essere stimata in cinque anni per quelle di media complessità, elevabile fino a sette anni allorquando il procedimento si presenti notevolmente complesso; ipotesi, questa, ravvisabile in presenza di un numero elevato di creditori, di una particolare natura o situazione giuridica dei beni da liquidare (partecipazioni societarie, beni indivisi ecc.), della proliferazione di giudizi connessi alla procedura, ma autonomi e quindi a loro volta di durata condizionata alla complessità del caso, oppure della pluralità delle procedure concorsuali interdipendenti”(così Cass., 19.05.2015, n. 10233).

La Corte di Cassazione, individuando in sette anni il termine di ragionevole durata entro il quale la procedura fallimentare andrebbe definita, qualora non emergano elementi a conforto della particolare semplicità della stessa, ha altresì specificato che siffatta durata settennale può giustificarsi in considerazione della ragionevole durata di sei anni per i tre gradi di giudizio dei procedimenti incidentali nascenti dal fallimento, nonché di un ulteriore termine di un anno necessario per il riparto dell’attivo.

La non assimilabilità del procedimento fallimentare ad un ordinario processo di cognizione ovvero ad un processo esecutivo individuale, per le caratteristiche enucleate dalla Suprema Corte, ne rende imprevedibile e, spesso, lunga la durata.

I criteri elaborati per i giudizi ordinari di cognizione o per il processo di esecuzione singolare non possono, evidentemente, estendersi alla procedura fallimentare.

Per tale ragione è necessaria l’adozione di misure finalizzate ad assicurare non solo l’efficacia ma altresì la celerità delle procedure in questione, atteso che non può essere sottovalutata la portata del danno erariale che potrebbe essere arrecato da una negligente gestione delle stesse.

Ciò premesso verranno indicate di seguito, a titolo meramente esemplificativo e senza alcuna pretesa di completezza, alcune delle buone prassi adottate dai Tribunali ovvero taluni suggerimenti relativi alla gestione delle procedure fallimentari, e dei momenti salienti delle stesse, finalizzati a ridurne i tempi di chiusura e garantirne uno svolgimento celere ed efficiente.

Moltissimi Tribunali, infatti, si sono dotati di linee guida con le quali hanno dettato una serie di buone prassi secondo criteri chiari ed uniformi.

Nell’ambito di siffatte linee guida, di particolare importanza è la verifica della correttezza e della puntualità degli adempimenti del curatore a partire dal momento dell’accettazione dell’incarico da parte di quest’ultimo.

Egli deve con celerità curare gli adempimenti telematici previsti dalla legge e, nella prima fase successiva all’apertura della procedura, procedere con ordine nel seguente modo:

  • convocazione del fallito o del legale rappresentante della società fallita (si richiede sovente la redazione dettagliata di un verbale in ordine alle dichiarazioni rilasciate e ai documenti prodotti);
  • apposizione dei sigilli ex art. 84 L.F. con la redazione di un verbale e la realizzazione di fotografie dei beni (si appalesa necessaria l’adozione di appositi accorgimenti finalizzati alla conservazione dei beni, in relazione sia alla loro eventuale deperibilità che al rischio di furto o di incendio);
  • redazione dell’inventario ex art. 87 L.F.;
  • richiesta di accesso al servizio di “cassetto fiscale”;
  • acquisizione ed esame delle scritture contabili;
  • individuazione dei creditori e dei debitori;
  • accertamenti presso il PRA e conservatoria;
  • trascrizione della sentenza di fallimento ex art. 88 L.F. in presenza di beni immobili e beni mobili iscritti in pubblici registri;
  • predisposizione del libro giornale del fallimento ex art. 38 L.F., che deve essere vidimato da almeno un componente del comitato dei creditori, se costituito, trovando in caso contrario applicazione il principio di cui all’art. 41 comma 4 L.F.

Di fondamentale importanza è la cura del programma di liquidazione di cui all’art. 104 ter L.F., poiché esso costituisce lo strumento ideale per pianificare le modalità ed i termini previsti per la realizzazione dell’attivo. In questa sede il curatore deve indicare le eventuali azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie da esercitare, valutando con attenzione le iniziative giudiziarie il cui esito appia incerto o di dubbia o scarsa utilità per la procedura. Sempre in seno al programma di liquidazione deve specificare le condizioni di vendita dell’azienda o dei singoli beni, indicando il termine stimato per il completamento della liquidazione dell’attivo.

Mediante il rapporto riepilogativo periodico di cui all’art. 33 comma 5 L.F. il curatore, ogni sei mesi successivi alla presentazione della prima relazione, provvede ad indicare tutte le informazioni raccolte e a specificare i motivi che ostano alla chiusura della procedura (ad esempio l’esistenza di procedimenti pendenti e lo stato degli stessi, ovvero le attività di liquidazione dell’attivo ancora da espletare o in corso), sì da consentire una verifica dei tempi e dei modi di liquidazione previsti nel programma ex art. 104 ter L.F.

Altra incombenza a carico del curatore, da curare al fine di ottimizzare e velocizzare i tempi della procedura, riguarda la vigilanza che lo stesso dovrà esercitare sull’operato dei delegati e coadiutori di cui all’art. 32 L.F.

Alcuni Tribunali hanno previsto che questi ultimi siano scelti dal curatore tra i professionisti iscritti negli albi dei consulenti tecnici d’ufficio del Tribunale, e che ci si attenga ai limiti eventualmente previsti da quest’ultimo in relazione al numero degli incarichi da conferire.

Spetta al curatore controllare il corretto e tempestivo espletamento dei compiti demandati a coadiutori e delegati, nonché sollecitare lo svolgimento dell’incarico nel caso vi siano ritardi ovvero richiedere la sostituzione del professionista nominato nel caso di negligenza o lentezza ingiustificate.

Tra i criteri di cui il Tribunale tiene conto ai fini della liquidazione del compenso ai curatori o ai commissari vi è peraltro quello riguardante il profilo della celerità nella gestione della procedura e della sollecitudine con cui sono state condotte le relative operazioni.

Taluni Tribunali hanno, altresì, indicato specifiche buone prassi da seguire in relazione alle procedure fallimentari risalenti.

Così per le procedure ultraventennali è bene che i curatori forniscano al giudice delegato, con una certa periodicità (almeno ogni sei mesi), una relazione specifica che contenga informazioni sullo stato della procedura sotto il profilo della previsione dei tempi occorrenti per la chiusura della stessa, eventualmente contenente un vero e proprio “programma di chiusura”. In questo modo è possibile aggiornare costantemente il giudice delegato sulle cause ostative alla chiusura e concordare con quest’ultimo le iniziative da adottare al fine di definire celermente le questioni ancora aperte e pendenti.

Stesso onere è utile porre a carico del curatore con riferimento alle procedure fallimentari ultradecennali ed ultrasettennali, prevedendo apposito termine (eventualmente annuale) per il deposito del programma di chiusura sopraindicato.

Trattasi di obblighi informativi il cui assolvimento può contribuire a dare un efficace impulso alla contrazione dei tempi occorrenti alla chiusura delle procedure in questione.

Il mancato adempimento di siffatti obblighi può essere valutato quale negligenza grave, da considerare ai fini dell’eventuale revoca dell’incarico conferito al curatore.

È chiaro che in relazione alle procedure risalenti, salvi i casi di gravissima negligenza dei professionisti nominati, l’eccessiva durata dipende essenzialmente dalla pendenza di cause civili o penali ovvero dalla difficoltà di liquidazione del patrimonio (specie di quello immobiliare).

Per evitare che la procedura si blocchi in dipendenza di tali criticità vanno adottate iniziative gestionali efficienti ed efficaci che siano guidate dalla prognosi sul risultato finale che deve essere raggiunto.

Così per esempio, senza alcuna pretesa di esaustività, con riferimento ai giudizi da intraprendere sarebbe auspicabile valutarne ex ante, già in sede di redazione del programma di liquidazione, l’eventuale esito infruttuoso o svantaggioso, al fine di evitare nel primo caso la loro instaurazione e di riflettere accuratamente nel secondo sull’utilità di essa.

La causa va considerata infruttuosa quando la pendenza del relativo procedimento, sia pure nell’ipotesi di esito favorevole della stessa, non porterà alcun vantaggio di tipo economico alla procedura (ad esempio per impossidenza del debitore).

Il giudizio può rivelarsi svantaggioso, invece, quando – anche nell’ipotesi di esito vittorioso e di fruttuoso ricavato – esso consentirà il pagamento dei creditori privilegiati in misura minimamente apprezzabile ovvero il soddisfacimento di una percentuale irrisoria in favore della massa dei creditori chirografari.

In tali ipotesi è bene valutare accuratamente se la pendenza del giudizio giustifichi il protrarsi della procedura.

A tal fine può essere previsto a carico del curatore l’obbligo di presentare anticipatamente al giudice delegato una bozza di progetto di riparto finale (ipotetico), così da valutare in anticipo l’utilità di intraprendere un tale giudizio in relazione all’entità delle somme che saranno ricavate (al netto dei costi da sostenere) ed ai soggetti beneficiari.

È opportuno, inoltre, che il curatore, in presenza di somme disponibili e secondo le regole dettate dall’art. 110 L.F., proceda secondo la periodicità indicata dalla suddetta disposizione (ogni quattro mesi a partire dalla data di deposito in cancelleria del decreto di esecutività dello stato passivo o nel diverso termine stabilito dal giudice delegato) a presentare un prospetto delle somme disponibili ed un progetto di ripartizione.

La periodicità sopra indicata è in qualche modo collegata alla periodicità delle udienze previste per la verifica dello stato passivo, così che si proceda ad un riparto ad ogni chiusura dello stato passivo.

L’effettuazione di riparti parziali consente di interrompere il decorso degli interessi riconosciuti sui crediti privilegiati ed incide sul diritto al risarcimento del danno da eccessiva durata del processo.

La possibilità di procedere a riparti parziali dell’attivo è condizionata dalla presenza di liquidità tali da rendere utile ed economica la distribuzione delle somme tra i creditori ammessi. Sarebbe in ogni caso utile che il curatore, anche in assenza di attivo da ripartire, presentasse ogni quattro mesi al giudice delegato un progetto in cui esporre la situazione delle disponibilità del fallimento e la previsione in ordine all’ulteriore realizzazione di attivo. In tal modo il giudice delegato potrebbe fissare un nuovo termine da rispettare per procedere alla ripartizione parziale dell’attivo.

In relazione alle difficoltà di liquidazione dei beni (specie di quelli immobili) facenti parte dell’attivo fallimentare, è opportuno che si proceda alla verifica delle reali possibilità di vendita dei beni in questione eventualmente attraverso un’attenta analisi della relazione fornita da un esperto sullo stato dell’immobile e le sue possibilità di vendita in sede fallimentare (ove necessaria).

Il comma 8 dell’art. 104 ter prevede che il curatore possa non acquisire all’attivo ovvero rinunciare alla liquidazione di uno o più beni, se l’attività di liquidazione appaia manifestamente non conveniente, previa necessaria autorizzazione del comitato dei creditori, o del giudice delegato in via sostitutiva.

Lo scopo della suddetta disposizione, ispirata a criteri di economicità e speditezza, è quello di evitare l’acquisizione di beni la cui liquidazione non appaia conveniente in ragione delle loro caratteristiche, collocazione, obsolescenza e situazione giuridica.

La valutazione va fatta anche tenendo conto dei costi che si dovrebbero affrontare per inventariare i beni e poi liquidarli, ed in particolare del rischio di produrre debiti in prededuzione per l’esigenza di provvedere al loro mantenimento ovvero per le imposte e tasse da pagare che potrebbero compromettere l’utilità complessiva del presumibile realizzo di vendita.

La puntuale applicazione della disposizione richiamata contribuisce certamente ad abbreviare i tempi di chiusura delle procedure fallimentari, evitando di tenere aperti per molti anni procedimenti il cui unico scopo sia concludere la vendita di immobili che si rivelano all’esito invendibili.

L’inutilità della liquidazione può rendersi evidente sin da subito, ovvero dopo l’inventariazione a seguito della stima dell’esperto nominato, ovvero ancora dopo l’esperimento di numerosi ed infruttuosi tentativi di vendita.

A seconda dei casi concreti, quindi, il curatore procederà a non acquisire il bene ovvero a rinunciare alla sua liquidazione.

Nel primo caso, quando il curatore procede alla non acquisizione, è opportuno che lo stesso eviti di procedere alla trascrizione in Conservatoria (per i beni immobili) o al P.R.A. (per i beni mobili registrati) della sentenza dichiarativa di fallimento, così da evitare inutili spese. La valutazione va fatta in tal caso già in sede di erezione dell’inventario.

Nel secondo caso il curatore rinuncia alla liquidazione di un bene di cui è già avvenuta l’inventariazione, e può chiedere l’autorizzazione al Comitato dei creditori prima della presentazione del programma di liquidazione, di cui il giudice delegato deve autorizzare l’esecuzione degli atti conformi, oppure provvedere ad una successiva integrazione del piano già approvato o formulare apposita istanza ad hoc.

La rinuncia immediata ha certamente il vantaggio di evitare i costi legati alla conservazione, alla manutenzione ed al deposito dei beni, nonché alla trascrizione, ma non è facile da compiere se non nel caso di beni di modestissimo valore (ad esempio veicoli da demolire). Nell’ipotesi di beni più complessi (così gli immobili o gli impianti industriali) è opportuno attendere almeno la relazione di stima del tecnico incaricato.

A titolo meramente esemplificativo possono riportarsi i casi più ricorrenti nella prassi:

  • automezzi obsoleti da rottamare;
  • piccole quote immobiliari, di cui anche i comproprietari non abbiano interesse all’acquisto;
  • immobili o impianti industriali che non risultino vendibili se non dopo costose opere di bonifica o sanatoria e messa a norma il cui costo sia superiore al valore di stima;
  • beni mobili o immobili che, dopo alcuni tentativi di vendita infruttuosi, rivelino (in ragione dei costi da sostenere) l’impossibilità o la scarsa probabilità di ottenere con il valore di realizzo un attivo che consenta un’utile distribuzione ai creditori.

Premesso quanto sopra, occorre tuttavia sottolineare che nell’interesse principalmente dei creditori, la complessa attività generata dalla procedura fallimentare deve essere svolta e gestita senza il rischio che l’interesse al rispetto della “ragionevole durata” del procedimento giustifichi o legittimi valutazioni giuridiche superficiali, per privilegiare soluzioni più celeri che andrebbero in danno della massa dei creditori.

Non può essere persa di vista, infatti, la finalità di realizzare il miglior soddisfacimento possibile della massa dei creditori concorsuali, nell’ottica del (non semplice) bilanciamento tra l’esigenza di garantire la ragionevole durata dei fallimenti e quella di assicurare una gestione accurata ed efficace delle procedure.