Rassegna Corte Costituzionale settore penale ottobre-dicembre 2015

di Maria Meloni

Rel. n. III/103/2015                                                                Roma 7 marzo 2016

RASSEGNA DELLE PRONUNCE DELLA CORTE COSTITUZIONALE

IN MATERIA PENALE

  (OTTOBRE – DICEMBRE 2015)

SOMMARIO: Parte I. Diritto penale sostanziale. -1.1. Concorso formale e reato continuato. Aumento di pena per i recidivi reiterati (art. 81, comma 4, cod. pen.).: inammissibilità della questione  (sent. n. 241 del 2015). -1.2.Non punibilità per fatti commessi a danno di congiunti (art. 649, comma 1, cod. pen.): inammissibilità della questione  (sent. n. 223 del 2015)Parte II. Legislazione penale complementare.– 2.1. Reati tributari.Omesso versamento delle ritenute, ex art. 10 bis d. lgs.vo n. 274 del 2000e soglia di punibilità:restituzione degli atti al giudice a quo (ord. n. 256 del 2015).- 2.2. Omessa corresponsione dell’assegno divorzile e regime di procedibilità:non fondatezza della questione (sent. n. 220 del 2015). -2.3 .Procreazione medicalmente assistita: reato di selezione preimpianto: illegittimità costituzionale; reato di soppressione degli embrioni: infondatezza della questione  (sent. n. 229 del 2015). – 2.4. Reati del codice della strada. 2.4.1. Guida in stato di ebbrezza, raddoppio della durata della sospensione della patente in caso di veicolo appartenente a terzo estraneo, omessa previsione di riduzione della durata della sospensione per lo svolgimento di lavoro di pubblica utilità in misura eguale al proprietario del veicolo:non fondatezza della questione  (sent. n. 198 del 2015).- 2.4.2 .Revoca della patente nei confronti di soggetti condannati per reati in materia di stupefacenti con sentenza di patteggiamento divenuta definitiva prima dell’entrata in vigore della norma censurata: manifesta inammissibilità della questione  (ord. n. 212 del 2015). –Parte III. Diritto processuale penale. -3.1. Subordinazione del patteggiamento alla previa estinzione dei debiti tributari: restituzione degli atti al giudice a quo  (ord. n. 225 del 2015).- 3.2. Sospensione del procedimento con messa alla prova, inapplicabilità dell’istituto all’imputato il cui dibattimento sia già aperto al momento della sua entrata in vigore, con legge n. 67 del 2014: non fondatezza della questione  (sent. n. 240 del 2015).

PARTE I: DIRITTO PENALE SOSTANZIALE

1.1. Concorso formale e reato continuato. Aumento di pena per i recidivi reiterati (art. 81, comma 4, Cost.): inammissibilità della questione (sent. n. 241 del 2015). La Corte costituzionale, con la sentenza n.241, depositata il 26 novembre 2015, dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 81, comma 4, cod. pen., aggiunto dall’art. 5 della legge n. 251 del 2005, sollevata in riferimento agli art. 3 e 27, comma 3, Cost..

Secondo il giudice a quo la norma censurata, con particolare riguardo “ai casi nei quali la pena per il reato satellite debba determinarsi inderogabilmente nel massimo edittale”, comportando un aumento obbligato e predeterminato della pena per il reato satellite, viola gli art. 3 e 27, comma 3, Cost., sub specie di contrasto, rispettivamente, con il principio di uguaglianza/ragionevolezza e di proporzionalità e funzione rieducativa della pena.

La Corte costituzionale dichiara inammissibile la questione per una duplice ragione.

Anzitutto, per insufficiente descrizione della fattispecie. Il giudice remittente non specifica se, nel giudizio a quo, la recidiva reiterata era stata già applicata con una precedente sentenza, anteriore alla commissione dei reati per i quali si procede. Specificazione essenziale ai fini della rilevanza della questione. Secondo la più recente e prevalente giurisprudenza di legittimità, infatti, ai fini dell’operatività del limite minimo dell’aumento di pena, previsto dall’art. 81, comma 4, cod. pen., è necessario che la recidiva reiterata sia stata applicata con una sentenza definitiva, precedente alla commissione dei reati in concorso formale o avvinti dal vincolo della continuazione. Con la conseguenza che, in assenza di detto presupposto temporale e giuridico, la disciplina di cui all’art. 81, comma 4, cod. pen. non è applicabile e la relativa questione non è rilevante. D’altro canto, qualora detta condizione non ricorra ed il remittente abbia, comunque, ritenuto applicabile, in virtù di diversa interpretazione, la norma impugnata, avrebbe dovuto fornirne una plausibile motivazione. Egli ha, invece, eluso la questione relativa al momento di applicazione della recidiva reiterata, impedendo così alla Corte di verificare la rilevanza della questione, che è, pertanto, inammissibile.

Ma la questione è inammissibile anche per erroneità del presupposto interpretativo del giudice a quo, il quale ritiene che, in base alla norma impugnata, si sarebbe dovuto applicare, a titolo di aumento per la continuazione, il massimo edittale (nella specie quello allora vigente per il reato previsto dall’art. 4 della legge n. 110 del 1975). La Corte costituzionale evidenzia che l’art. 81, comma 4, cod. pen. – nel disporre che per i recidivi reiterati l’aumento di pena per il reato satellite non possa essere inferiore ad un terzo della sanzione applicata per il reato più grave – fa, comunque, salvi i limiti indicati dal precedente comma 3, vale a dire che, nei casi di reato continuato e di concorso formale, la pena risultante dal cumulo giuridico non può, comunque, essere superiore a quella che, in concreto, il giudice avrebbe inflitto in caso di cumulo materiale. Non senza precisare significativamente che la pena applicabile in caso di cumulo materiale, ex art. 81, comma 3, cod. pen., è la pena che il giudice ritiene adeguata alla fattispecie concreta, e non certo quella massima edittale, come invece ritenuto erroneamente dal giudice a quo.

1.2. Non punibilità per fatti commessi a danno di congiunti (art. 649, comma 1, cod. pen.): inammissibilità della questione (sent. n. 223 del 2015). La Corte costituzionale, con la sentenza n. 223 del 2015, depositata il 5 novembre 2015, dichiara l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 649, comma 1, cod. pen., sollevata in riferimento agli art. 3, commi 1 e 2, e 24, comma 1, Cost..

La norma censurata esclude la punibilità dei congiunti della persona offesa in taluni reati contro il patrimonio. Secondo il giudice a quo essa contrasta con gli art. 3, commi 1 e 2, e 24, comma 1, Cost.; con l’art. 3, comma 1, perché la non punibilità dei congiunti dell’offeso comporta un trattamento ingiustificatamente più favorevole rispetto a quello riservato a soggetti che pongano in essere identica condotta e siano però privi di un’analoga relazione familiare con vittima; con l’art. 3, comma 2, per l’ostacolo posto a “soggetti deboli”, all’esercizio del diritto ad ottenere tutela giudiziale nei confronti dei congiunti, alla pari rispetto a ogni altro consociato; con l’art. 24, comma 1, per la compressione del diritto della persona offesa di agire in giudizio a tutela dei propri diritti.

La Corte dichiara inammissibile la questione, per plurime ragioni. Anzitutto, per il carattere apodittico e generico delle censure, le quali non spiegano in che senso i familiari delle vittime del reato siano necessariamente da considerare “soggetti deboli”. Nemmeno spiegano perché la compressione della tutela penale debba necessariamente tradursi nella generalizzata eliminazione della tutela giurisdizionale per le persone offese, e perché essa debba essere sempre garantita in sede penale e non possa, comunque, ricevere tutela almeno in sede civile. Sono, pertanto, carenti le censure svolte in riferimento agli art. 3, comma 2 e 24, comma 1, Cost.. La Corte, invece, esclude – disattendendo un’eccezione dell’Avvocatura dello Stato – che la questione sia inammissibile perché preordinata ad ottenere una pronuncia con effetti in malam partem. Richiamando la propria giurisprudenza in tema di sindacato  costituzionale sulle norme penali di favore, nel cui ambito rientra la norma censurata,  la Corte precisa che l’eventuale accoglimento della questione non incide sulla riserva di legge, in quanto l’effetto in malam partem non dipende dall’introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di quelle esistenti ad opera della Corte ma dall’automatica espansione della norma comune dettata dal legislatore al caso oggetto della disciplina derogatoria.

La questione centrale è, tuttavia, rappresentata dal lamentato vulnus dell’art. 3, comma 1, Cost.. La Corte ne esclude la violazione con un ragionamento articolato in cui evidenzia la necessità di valutare la disposizione censurata, in punto di ragionevolezza, alla stregua dell’attuale realtà sociale, nella quale alla tradizionale comunanza di interessi, sul piano dei rapporti patrimoniali, si affianca e si sostituisce, in molti casi, la reciproca autonomia dei componenti il nucleo familiare. Ciò premesso, in sequenza la Corte rileva: a) che il fondamento di ogni deroga al principio di uguaglianza deve essere misurato, in termini di razionalità, con riguardo alle condizioni di fatto e di diritto nelle quali la deroga è chiamata ad operare; b) che tali condizioni sono sottoposte a costante evoluzione, cosicché la ragionevolezza della soluzione derogatoria adottata dal legislatore può essere posta in discussione anche secondo un criterio di anacronismo; c) che, pertanto, la Corte può intervenire nei casi in cui sia manifestamente irragionevole, alla luce della mutata realtà sociale, “l’inopportuno trascinamento nel tempo di discipline maturate in un determinato contesto”. Pur tuttavia, nella fattispecie in scrutinio, nemmeno la constatazione di effetti manifestamente non ragionevoli, sul piano dell’uguaglianza tra cittadini innanzi alla legge penale, è sufficiente a superare il vaglio di ammissibilità. Manca, infatti, una soluzione a rime obbligate, essendo prospettabili una molteplicità di alternative costituzionalmente compatibili, idonee ad evitare che prevalga sempre e comunque l’impunità per determinate figure parentali. La conclusione è, pertanto, un monito al legislatore, al quale spetta l’aggiornamento della disciplina dei reati contro il patrimonio commessi in ambito familiare, trattandosi di scelte di politica criminale.

PARTE II: LEGISLAZIONE PENALE COMPLEMENTARE

2.1. Reati tributari. Omesso versamento delle ritenute, ex art. 10 bis d. lgs.vo n. 274 del 2000, e soglia di punibilità: restituzione degli atti al giudice a quo(ord. n. 256 del 2015). La Corte costituzionale, con ordinanza n. 256 del 2015, depositata il 3 dicembre 2015, ordina la restituzione ai giudici remittenti degli atti relativi alle  questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, aggiunto dall’art. 1, comma 414, della l. n. 311 del 2004, sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui, relativamente ai fatti commessi sino al 17 dicembre 2011, punisce il reato di omesso versamento di ritenute risultante dalla certificazione rilasciata ai sostituti per un ammontare superiore a 50.000 euro per ciascun periodo di imposta, anziché a 103.291,38 euro. La Corte rileva che, successivamente alle ordinanze di rimessione, è intervenuto il d.lgs. n. 158 del 2015 che ha modificato anche la norma censurata, innalzando la soglia di punibilità dell’illecito in questione dai precedenti 50.000 euro a 150.000 euro per ciascun periodo di imposta, con conseguente necessità di nuova valutazione in ordine alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza delle questioni sollevate alla luce del mutato quadro normativo.

2.2. Omessa corresponsione dell’assegno divorzile e regime di procedibilità: non fondatezza della questione (sent. n. 220 del 2015). La Corte costituzionale, con la sentenza n. 220 del 2015, depositata il 5 novembre 2015, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970 nella parte in cui – nel disporre che al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione dell’assegno dovuto a titolo di contributo al mantenimento di un figlio minore, si applicano le pene previste dall’art. 570 cod. pen. – non stabilisce per tale reato la procedibilità a querela. Secondo il giudicea quola norma censurata viola l’art. 3 Cost. determinando irragionevoli disparità di trattamento di situazioni analoghe, specificamente con riguardo ai reati di cui agli artt. 388, comma 2, cod. pen. (mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice), 6 l. n. 154 del 2001 (inosservanza degli ordini di protezione contro gli abusi familiari) e 570 cod. pen. (violazione degli obblighi di assistenza familiare), evocati quali tertia comparationis.

La Corte costituzionale dichiara non fondata la questione. Principalmente, perché il raffronto tra fattispecie normative finalizzato a verificare la ragionevolezza delle scelte legislative deve avere ad oggetto fattispecie omogenee, risultando altrimenti improponibile la stessa comparazione. Mentre i tertia comparationis evocati dal giudice a quo presentano “elementi differenziali rispetto all’ipotesi regolata dalla norma censurata tali da impedire un loro utile raffronto … o, comunque, da non consentire di ritenere valicato il limite all’ampia discrezionalità di cui il legislatore fruisce nella materia considerata”. Secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, infatti, la scelta del regime di procedibilità dei reati è rimessa alla discrezionalità del legislatore ed è sindacabile in sede di legittimità costituzionale solo per vizio di manifesta irrazionalità. Con conseguente infondatezza della questione sollevata e contestuale monito al legislatore affinché ricomponga, sulla base di una ponderata valutazione degli interessi coinvolti, le disarmonie esistenti nel sistema delle incriminazioni relative ai rapporti familiari.

2.3. Procreazione medicalmente assistita: reato di selezione preimpianto: illegittimità costituzionale; reato di soppressione degli embrioni: infondatezza della questione(sent. n. 229 del 2015). –  La Corte costituzionale, con la sentenza n. 229 del 2015, depositata l’11 novembre del 2015, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, commi 3, lettera b), e 4 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui contempla come ipotesi di reato la condotta di selezione degli embrioni, anche nei casi in cui questa sia esclusivamente finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela della maternità e sulla interruzione della gravidanza) e accertate da apposite strutture pubbliche. Ha, inoltre, dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, commi 1 e 6, della l. n. 40 del 2004 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), sollevata – in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione ed all’art. 117, primo comma Cost. – in relazione all’art. 8 della CEDU.

Secondo il giudice a quo l’art. 13, commi 3, lett. b) e 4 della legge n. 40 del 2004 – vietando e penalmente sanzionando, in modo indiscriminato, ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni, senza escludere dalla fattispecie di reato l’ipotesi in cui la condotta dei sanitari sia finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna degli embrioni affetti da malattie genetiche – contrasta con gli artt. 3 e 32 della Costituzione, per violazione del principio di ragionevolezza e del diritto alla salute, tutelato dalla stessa “legge 40” anche nei confronti della coppia generatrice;  viola, altresì, l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU come interpretato nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, per la quale il diritto al rispetto della vita privata e familiare include il desiderio della coppia di generare un figlio non affetto da malattia genetica.   

Il giudice a quo sottopone al vaglio di costituzionalità anche il successivo art. 14, commi 1 e 6, della predetta legge n. 40 del 2004 – nella parte in cui parallelamente sanziona penalmente la condotta di soppressione degli embrioni, anche ove trattasi di embrioni soprannumerari risultati affetti da malattie genetiche a seguito di selezione finalizzata ad evitarne appunto l’impianto nell’utero della donna – ritenendolo in contrasto con l’art. 2 Cost., sotto il profilo della tutela del diritto all’autodeterminazione della coppia; con l’art. 3 Cost., per irragionevolezza e contraddittorietà rispetto al disposto dell’art. 6 della legge n. 194 del 1978, che consente agli operatori sanitari di praticare l’aborto terapeutico – anche oltre il termine di 90 giorni dall’inizio della gravidanza – in presenza di processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro; ed, infine, con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al medesimo parametro europeo come sopra evocato.

La Corte costituzionale ritiene fondata la prima questione, ponendosi in stretta continuità con la recente sentenza n. 96 del 2015, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 […], accertate da apposite strutture pubbliche. E ciò al fine esclusivo della previa individuazione, in funzione del successivo impianto nell’utero della donna, di embrioni cui non risulti trasmessa la malattia del genitore comportante il pericolo di rilevanti anomalie o malformazioni (se non la morte precoce) del nascituro, alla stregua del suddetto criterio normativo di gravità. La motivazione centrale dell’attuale declaratoria di illegittimità costituzionale consiste nell’assorbente considerazione che “quanto è divenuto … lecito, per effetto della suddetta pronunzia additiva, non può dunque – per il principio di non contraddizione − essere più attratto nella sfera del penalmente rilevante”. Alla base di entrambe le declaratorie di illegittimità costituzionale vi è fondamentalmente la considerazione che il nostro ordinamento regolamenta, con la l. n. 194 del 1978, l’interruzione di gravidanza, molto più invasiva e pericolosa per la salute della donna e comportante la soppressione del concepito, sicché non può ragionevolmente impedirsi l’accesso ad una diagnosi e selezione preimpianto utili a prevenire la trasmissione al nascituro di rilevanti malattie capaci di mettere a repentaglio la  salute psico-fisica della madre.

Conclusivamente: l’art. 13, commi 3, lettera b), e 4, della legge n. 40 del 2004 viene dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui vieta, sanzionandola penalmente, la condotta selettiva del sanitario volta esclusivamente ad evitare il trasferimento nell’utero della donna di embrioni che, dalla diagnosi preimpianto, siano risultati affetti da malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge n. 194 del 1978, accertate da apposite strutture pubbliche.

La Corte costituzionale dichiara, invece, non fondata la seconda connessa questione  di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1 e 6, della legge n. 40 del 2004, il quale sanziona penalmente la condotta di soppressione degli embrioni, ancorché si tratti di embrioni che, in esito a diagnosi preimpianto, risultino affetti da grave malattia genetica. In continuità con la propria consolidata giurisprudenza, la Corte ribadisce che la discrezionalità legislativa in materia di individuazione delle condotte punibili può essere censurata, in sede di giudizio di costituzionalità, soltanto ove il suo esercizio ne rappresenti un uso distorto od arbitrario, così da confliggere in modo manifesto con il canone della ragionevolezza (ex plurimis sentenze n. 81 del 2014, n. 273 del 2010, n. 364 del 2004, ordinanze n. 249 del 2007, n. 110 del 2003, n. 144 del 2001). Ipotesi non sussistente nel caso oggetto di scrutinio, in quanto anche con riguardo a tali embrioni – la cui malformazione non ne giustifica, comunque, un trattamento deteriore rispetto a quello degli embrioni sani, creati in numero superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto – si prospetta l’esigenza di tutelarne la dignità, alla quale non può parimenti darsi, allo stato, altra risposta che quella della procedura di crioconservazione. La Corte, inoltre, precisa che la sentenza n. 151 del 2009 ha riconosciuto il fondamento costituzionale della tutela dell’embrione, riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost., ritenendola suscettibile di affievolimento, ma solo in caso di conflitto con altri interessi di pari rilievo costituzionale (come il diritto alla salute della donna) che, in termini di bilanciamento, risultino, in date situazioni, prevalenti. Nella fattispecie in scrutinio, il vulnus alla tutela della dignità dell’embrione, ancorché malato, quale deriverebbe dalla sua soppressione tamquam res, non trova però giustificazione, in termini di contrappeso, nella tutela di altro interesse antagonista. Il che conferma la non manifesta irragionevolezza della normativa incriminatrice denunciata, la quale neppure contrasta con l’asserito diritto di autodeterminazione o, con il richiamato parametro europeo, per l’assorbente ragione che il divieto di soppressione dell’embrione malformato non ne comporta l’impianto coattivo nell’utero della gestante.

2.4. Reati del codice della strada.

2.4.1. Guida in stato di ebbrezza, raddoppio della durata della sospensione della patente in caso di veicolo appartenente a terzo estraneo e omessa previsione di riduzione della durata della sospensione per lo svolgimento di lavoro di pubblica utilità in misura eguale al proprietario del veicolo: non fondatezza della questione(sent. n. 198 del 2015). La Corte costituzionale, con la sentenza n.198 del 2015, depositata il 9 ottobre 2015, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 186, comma 9-bis, quarto periodo, del d.lgs. n. 285 del 1992 (Nuovo codice della strada), sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.. Secondo il giudice a quo  la norma censurata, nella parte in cui non prevede, per il caso di svolgimento con esito positivo del lavoro di pubblica utilità, che la riduzione alla metà della sanzione accessoria della sospensione della patente – già irrogata, con la sentenza di condanna, in misura doppia per essere risultato il veicolo, condotto in stato di ebbrezza, appartenente a terzi estranei al reato – possa essere operata senza tener conto dell’indicato raddoppio, viola il principio di uguaglianza. Occorre rilevare che la norma censurata prevede, che, qualora non si sia verificato un incidente stradale, il giudice possa sostituire le sanzioni penali dell’ammenda e dell’arresto con la sanzione del lavoro di pubblica utilità di cui all’art. 54 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274. Occorre, altresì, considerare che l’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada, prevede per il reato di guida in stato di ebbrezza la sospensione della patente in misura doppia nel caso di conducente non proprietario del veicolo. Tuttavia, il giudice a quo non contesta il diverso trattamento sanzionatorio riservato alle due condotte poste in comparazione (la guida in stato di ebbrezza del conducente proprietario e non proprietario, cui si riferiscono, rispettivamente, la sospensione “semplice” e quella “raddoppiata”). Riconosce, anzi, esplicitamente la ragionevolezza della scelta legislativa di punire il conducente non proprietario con una sanzione sospensiva più lunga, non potendo egli essere colpito nel patrimonio con la confisca, e, difatti, non censura l’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada. Contesta piuttosto, sul piano comparativo, gli esiti finali determinati dalle diverse previsioni sanzionatorie descritte, laddove intervenga il peculiare meccanismo premiale introdotto dal legislatore al comma 9-bis dell’art. 186 del d.lgs. 285 del 1992, che è, del resto, la disposizione oggetto della questione di legittimità costituzionale. Nel senso che ne discenderebbe, a carico di soggetti responsabili del medesimo reato di guida in stato di ebbrezza, un diverso trattamento sanzionatorio, dipendente dalla sola circostanza che essi siano o non proprietari del veicolo condotto. Infatti, in caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità, la maggiore durata della sospensione della patente per i conducenti non proprietari non troverebbe più giustificazione nella mancata confisca del veicolo, giacché, proprio in virtù del menzionato svolgimento positivo, il giudice deve comunque disporre la revoca della confisca disposta in danno dei conducenti proprietari. Questi ultimi insomma, all’esito dell’esecuzione, si troverebbero ingiustamente favoriti, perché soggetti ad una sospensione della patente di guida non raddoppiata e, al tempo stesso, immuni da un provvedimento di ablazione patrimoniale. Con conseguente violazione dell’art. 3 Cost..

La Corte costituzionale evidenzia la ratio della disposizione censurata consistente nella necessità di prevenire e reprimere la prassi (che parrebbe essersi diffusa dopo l’introduzione della previsione della confisca obbligatoria del veicolo) del ricorso a vetture intestate ad altri per spostarsi pur dopo l’abuso di alcool, ovvero di abusare di alcool con minori remore perché alla guida di veicoli intestati a terzi. Rileva che, non operando, in caso di veicolo appartenente a terzi, la deterrenza derivante dal rischio di un grave danno patrimoniale, connesso appunto alla confisca del veicolo, non è implausibile che il legislatore abbia ritenuto di compensare la conseguente diminuzione di efficacia dissuasiva con l’aggravamento di una sanzione a sua volta temuta (e non suscettibile di sospensione condizionale), quale la sospensione del permesso di condurre. Precisa che nell’ambito della disciplina in esame, la sostituzione della pena detentiva e pecuniaria con quella del lavoro di pubblica utilità avvia una vera e propria procedura di tipo “premiale”. Infatti, il giudice nel caso di esito positivo della prestazione offerta dall’interessato, assume una serie di provvedimenti favorevoli al soggetto condannato, e, in particolare, dichiara estinto il reato, dispone la revoca della confisca del veicolo, se disposta, e dimezza la durata della sospensione della patente di guida. Aggiunge che, per costante giurisprudenza costituzionale, le determinazioni concernenti il complessivo trattamento sanzionatorio di qualunque reato, compreso quello qui in considerazione (guida in stato di ebbrezza), sono il frutto di apprezzamenti tipicamente politici, che si collocano, pertanto, su un terreno caratterizzato da ampia discrezionalità legislativa, «il cui esercizio è censurabile, sul piano della legittimità costituzionale, solo ove trasmodi nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, come avviene quando si sia di fronte a sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione» (sentenza n. 81 del 2014 e in precedenza, ex multis, sentenze n. 68 del 2012, n. 273 e n. 47 del 2010).

Orbene, svolta la comparazione nei termini proposti dal rimettente, tale manifesta irragionevolezza e tale arbitrio non sono affatto riscontrabili. Non lo sono nel diverso trattamento sanzionatorio “di partenza”, e non lo sono nemmeno all’esito del positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità.

Ciò perché a seguito dell’esito positivo del lavoro di pubblica utilità, analoghi effetti premiali non possono che essere riferiti alle sanzioni di partenza, diverse per ragioni obiettivamente rilevanti. Al tempo stesso, una puntuale comparazione delle posizioni “finali” avrebbe richiesto un apprezzamento anche con riguardo agli effetti della confisca comunque disposta, in esito alla fase cognitiva, a carico del conducente proprietario, spesso accompagnata medio temporedall’indisponibilità del mezzo per effetto di sequestro.

In ogni caso, la pretesa per cui, pur essendo ragionevolmente sanzionati in misura differenziata nella fase cognitiva del processo, i soggetti in comparazione debbano uscire puniti “allo stesso modo” dalla fase esecutiva, presupporrebbe, sia pure a fini di omologazione, l’attribuzione di un diverso “peso”, a seconda dei casi, ad un identico fattore di premialità, cioè al buon comportamento tenuto nello svolgimento del lavoro di pubblica utilità. Sennonché, la riduzione premiale del trattamento sanzionatorio “trova giustificazione in una condotta diversa da quella illecita, e cioè, appunto, nella efficace e diligente prestazione di un servizio a favore della collettività”. Pertanto, l’eventuale accoglimento della pronuncia additiva richiesta comporterebbe un’ingiustificabile (e perciò irragionevole) differenziazione degli effetti della medesima condotta tenuta in fase esecutiva. In altri termini, il giudice a quo finisce per teorizzare il diritto ad un più marcato trattamento premiale del conducente non proprietario, rispetto a quello proprietario, pur nella perfetta identità dei comportamenti tenuti in chiave rieducativa.

In realtà, al medesimo comportamento non può che corrispondere l’identità del trattamento premiale, cioè la riduzione percentuale, in misura fissa, sulla pena irrogata, con effetti ovviamente diversi in termini assoluti, a seconda dei valori di partenza. Con conseguente infondatezza della questione sollevata.  

2.4.2. Revoca della patente nei confronti di soggetti condannati per reati in materia di stupefacenti con sentenza di patteggiamento divenuta definitiva prima dell’entrata in vigore della norma censurata: manifesta inammissibilità della questione(ord. n. 212 del 2015). La Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 212 del 2015, depositata il 29 ottobre 2015, dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 120 d. lgs.vo n. 285 del 1992 (Nuovo codice della strada), come sostituito dall’art. 3, comma 52, lett. a) della l. n. 94 del 2009, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.. Secondo il giudice remittente la norma censurata – nella parte in cui prevede la revoca della patente di guida nei confronti di soggetti condannati per reati in materia di stupefacenti (art. 73 e 74 del d.P.R. n. 309 del 1990) – viola gli art. 3 e 24 Cost.. La Corte costituzionale dichiara manifestamente inammissibile la questione, considerato che la sentenza n. 281 del 2013 ha già dichiarato costituzionalmente illegittima la norma censurata nella parte in cui si applica anche con riferimento a sentenze pronunciate, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., in epoca antecedente all’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009.

PARTE III. DIRITTO PROCESSUALE PENALE

3.1. Subordinazione del patteggiamento alla previa estinzione dei debiti tributari: restituzione degli atti al giudice a quo (ord. n. 225 del 2015).La Corte costituzionale, con ordinanza n.225 del 2015, depositata il 5 novembre 2015, ordina la restituzione degli atti relativi alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2-bis del d.lgs. n. 74 del 2000 (aggiunto dall’art. 2, comma 36-vicies semel, lett. m, del d.l. n. 138 del 2011, convertito con modificazioni, dalla l. n. 148 del 2011), impugnato in riferimento agli artt. 3, 10, 24, 77, 101, 104, 111, 112 e 113 Cost.. Secondo il giudice a quo la norma censurata stabilendo che, per i delitti di cui al medesimo decreto, le parti possono accedere al patteggiamento solo ove ricorra l’attenuante prevista dai precedenti commi 1 e 2, del predetto art. 13 e cioè solo se i debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei predetti delitti – comprensivi delle sanzioni amministrative, ancorché non applicabili all’imputato in forza del principio di specialità – siano stati estinti, mediante pagamento, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, viola gli artt. 3, 10, 24, 77, 101, 104, 111, 112 e 113 Cost.. La Corte rileva che, successivamente all’ordinanza di remissione, è intervenuto il d.lgs. n. 158 del 2015, che ha apportato un ampio complesso di modifiche al sistema sanzionatorio tributario, tanto penale che amministrativo ed, in particolare, che la disposizione limitativa dell’accesso al patteggiamento è stata trasferita nel comma 2 del nuovo art. 13 bis del d.lgs. n. 74 del 2000, aggiunto dall’art. 12 del d.lgs. n. 158 del 2015, la quale non è identica alla precedente, sottoposta a scrutinio, come non lo è la disciplina, da essa richiamata, della circostanza attenuante speciale del risarcimento del danno. Spetta, pertanto, al giudicea quoverificare se e in quale misura lo ius superveniens incida sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza della questione sollevata.

3.2. Sospensione del procedimento con messa alla prova, inapplicabilità dell’istituto all’imputato il cui dibattimento sia già aperto al momento della entrata in vigore della legge n. 67 del 2014: non fondatezza della questione (sent. n. 240 del 2015). La Corte costituzionale, con la sentenza n. 240 del 2015, depositata il 26 novembre 2015, dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464 bis, comma 2, cod. proc. pen., sollevate in riferimento agli artt.  3, 24, 111 e 117, comma 1, Cost, quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU. Secondo il giudice a quo la norma censurata nella parte in cui, in assenza di una disciplina transitoria, non prevede l’ammissione all’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova – introdotto dalla legge n. 67 del 2014 – degli imputati di processi pendenti in primo grado, nei quali la dichiarazione di apertura del dibattimento sia stata effettuata prima dell’entrata in vigore della nuova norma, contrasta con il principio di uguaglianza, il diritto di difesa e quello al giusto processo nonché con il principio di retroattività della legge più favorevole sancita dalla CEDU. La Corte costituzionale dichiara non fondate le questioni, ritenendo inapplicabile l’istituto della sospensione del procedimento penale con messa alla prova ai procedimenti che abbiano superato il limite posto dalla norma censurata, nei quali cioè sia già intervenuta la dichiarazione di apertura del dibattimento. Pertanto, ritiene legittima, sotto il profilo dell’art. 3 Cost., la scelta legislativa di parificare la disciplina del termine per la richiesta, senza distinguere tra processi nuovi o in corso, ma avendo riguardo allo stato del processo  e, da questo punto di vista, ha trattato in modo uguale situazioni processuali uguali. La Corte rileva che il termine entro il quale l’imputato può richiedere la sospensione del processo con messa alla prova è collegato alle caratteristiche e alle funzioni dell’istituto, che è alternativo al giudizio e a vocazione deflattiva. Ne evince che consentire, sia pure in via transitoria, la richiesta nel corso del dibattimento, anche dopo che il giudizio si è protratto nel tempo, significherebbe alterare il procedimento. Rileva che, d’altro canto, non averlo consentito non giustifica la censura ex art. 3 Cost.: la preclusione, oggetto di censura, dipende solo dal diverso stato dei processi e, d’altro canto, il legislatore gode di ampia discrezionalità nello stabilire la disciplina temporale di nuovi istituti processuali, sicché le relative scelte, ove non siano manifestamente irragionevoli, si sottraggono a censure di illegittimità costituzionale. Nessun contrasto sussiste, inoltre, con l’art. 7 CEDU, in quanto la preclusione censurata e i suoi effetti è conseguenza non della mancanza di retroattività della norma penale ma del normale regime temporale della norma processuale. In altri termini, la norma censurata, avendo natura processuale, è regolata dal principio tempus regit actume non dal principio di retroattività della lex mitior che, invece, riguarda esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena. Infine, giudica prive di fondamento le censure concernenti il diritto di difesa ed il giusto processo, in quanto sollevate sulla base dell’erroneo presupposto che nei processi in corso al momento della entrata in vigore della norma censurata dovrebbe riconoscersi all’imputato, quale espressione del diritto di difesa e del diritto a un giusto processo, la facoltà di scegliere il nuovo procedimento speciale, del quale è stata, invece, legittimamente esclusa l’applicabilità.

Redattore: Maria Meloni

Il vice direttore

Giorgio Fidelbo

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