Rassegna su: Le novità giurisprudenziali in materia di processo civile di primo grado nel 2016

di Gianluigi Morlini

Anche nel 2016 la febbre del grande ammalato, cioè il processo civile, è continuata a calare, pur se la guarigione non è certo ancora raggiunta. Il Ministero della Giustizia ha infatti con enfasi annunciato che al termine del primo semestre del 2016 le pendenze complessive dell’intero settore civilistico sono scese sotto i quattro milioni di cause a 3.886.285, ed addirittura a un milione e mezzo con riferimento al civile ordinario, rispetto ai quasi sei milioni del 2009, con un decremento del 10% anche rispetto a dodici mesi prima; e che la durata media degli affari civili di primo grado è oramai di un anno, più precisamente di 367 giorni rispetto ai 547 del 2012, pur se i tempi si definizione del contenzioso restano sempre profondamente disomogenei nelle varie realtà territoriali, variando tra 118 e 1193 giorni a seconda dei Tribunali. I numeri sono ancora insopportabilmente alti, ma il miglioramento è evidente; e tanto più tale miglioramento va apprezzato se si tiene conto che esso è stato raggiunto in una situazione di drammatica scopertura dell’organico magistratuale ed amministrativo. Quanto alla cura, anche per il futuro la medicina è sempre la stessa: riforme processuali, tendenzialmente a costo zero, sempre preannunciate come risolutive, pur se normalmente non accompagnate dai necessari investimenti, e, comunque, spesso disorganiche. Così, dopo i D.L. n. 132/2014 e n. 83/2015, anche nel 2016 il Governo ha promosso l’ennesima riforma del rito processualcivilistico, con il disegno di legge n. 2953, che recependo i lavori della cosiddetta Commissione Berruti mira a riscrivere nuovamente le fondamenta (anche) del processo di primo grado ed è già stato approvato da un ramo del Parlamento. In questo contesto, parecchi sono poi stati gli arresti giurisprudenziali delle Magistrature Superiori che meritano di essere segnalati, pur se all’evidenza l’elencazione non può che essere parziale e soggettiva. Innanzitutto, di rilievo sono almeno tre pronunce delle Sezioni Unite nell’ultimo trimestre del 2015 e che hanno trovato una vasta eco nelle riviste dell’anno successivo. In particolare, con una prima pronuncia, resa ex art. 374, comma 2, c.p.c., su questione di massima di particolare importanza, la Suprema Corte ha chiarito che l’impugnazione del garante riguardo al rapporto principale, è idonea ad investire il giudice dell’impugnazione anche a favore del garantito, attesa la struttura necessaria del litisconsorzio sul piano processuale e considerato che è stato lo stesso garantito a realizzare l’estensione soggettiva della legittimazione sul rapporto principale (Cass., S.U., 4/12/2015, n. 24707, in Giur. It., 2016, 3, 580, con note di Carratta e Consolo). Da una seconda angolazione e componendo un contrasto giurisprudenziale, si è poi statuito che la regola della scissione degli effetti della notificazione per il notificante e per il destinatario, sancita dalla giurisprudenza costituzionale con riguardo agli atti processuali, si estende anche agli effetti sostanziali dei primi ove il diritto non possa farsi valere se non con un atto processuale, sicché, in tal caso, la prescrizione è interrotta dall’atto di esercizio del diritto, ovvero dalla consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario per la notifica, mentre in ogni altra ipotesi tale effetto si produce solo dal momento in cui l’atto perviene all’indirizzo del destinatario (Cass., Sez. Un., 9/12/2015, n. 24822, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2016, 5, 1, 749, con nota di Giordano). Da un terzo punto di vista e sempre risolvendo un contrasto, in tema di responsabilità medica per nascita indesiderata, è stato affermato che la madre è onerata dalla prova controfattuale della volontà abortiva, ma può assolvere l’onere mediante presunzioni semplici; e che il nato con disabilità non è legittimato ad agire per il danno da ‘vita ingiusta’, poiché l’ordinamento ignora il ‘diritto a non nascere se non sano’ (Cass., S.U., 22/12/2015, n. 25767, in Foro It., 2016, 2, 1, 506, con nota di Bona: il persistente contrasto all’interno dello stesso Supremo Collegio è acclarato dal fatto che l’estensore è diverso dal relatore). Molteplici sono poi le sentenze, sempre per la composizione dei contrasti, rese dalla Cassazione a Sezioni Unite nel 2016. Una delle più note è la n. 2951, con la quale si è ritenuto che: a) la carenza di titolarità, attiva o passiva, del rapporto controverso è rilevabile d’ufficio dal giudice se risultante dagli atti di causa; b) la titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio, è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicché spetta all’attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione da parte del convenuto; c) le contestazioni, da parte del convenuto, della titolarità del rapporto controverso dedotte dall’attore, hanno natura di mere difese, proponibili in ogni fase del giudizio, senza che l’eventuale contumacia o tardiva costituzione assuma valore di non contestazione o alteri la ripartizione degli oneri probatori, ferme le eventuali preclusioni maturate per l’allegazione e la prova di fatti impeditivi, modificativi od estintivi della titolarità del diritto non rilevabili dagli atti (Cass., S.U., 16/2/2016, n. 2951, in Guida al Diritto, 2016, 11, 51, annotata da Sacchettini). Con una seconda pronuncia e sempre componendo un contrasto, la Corte ha chiarito che la procura alle liti conferita in termini ampi e comprensivi (nella specie, “con ogni facoltà “) è idonea ad attribuire al difensore il potere di esperire tutte le necessarie iniziative per la tutela dell’interesse della parte assistita, ivi inclusa la chiamata del terzo a garanzia cd. impropria (Cass., S.U., 14/3/2016, n. 4909, in Guida al Diritto, 2016, 17, 32, annotata da Sacchettini). Con una terza pronuncia nuovamente a composizione di contrasto, si è statuito che in caso di notifica di atti processuali non andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante, questi, appreso dell’esito negativo, per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria deve riattivare il processo notificatorio con immediatezza e svolgere con tempestività gli atti necessari al suo completamento, ossia senza superare il limite di tempo pari alla metà dei termini indicati dall’art. 325 c.p.c., salvo circostanze eccezionali di cui sia data prova rigorosa (Cass., S.U., 15/7/2016, n. 14594). Con una quarta pronuncia di composizione del contrasto, la Cassazione ha poi ritenuto che: a) la mancanza del potere di rappresentanza, essendo una delle condizioni di esistenza del potere di azione, giustifica il rilievo officioso in sede di legittimità, anche se non vi sia stata contestazione nei gradi di merito; b) è possibile la sanatoria del difetto di rappresentanza, senza che operino le ordinarie preclusioni istruttorie; c) qualora sorga in sede di legittimità la contestazione esplicita del potere rappresentativo del soggetto che ha agito in giudizio, o stia resistendo, la prova documentale della sussistenza della legittimazione processuale può essere fornita anche in questa sede ai sensi dell’art. 372 c.p.c. (Cass., S.U., 4/3/2016, n. 4248, in Corr. Giur., 2016, 5, 688, annotata da Negri). Con una quinta pronuncia (Cass.. S.U., 22/9/2016, n. 18569), sempre finalizzata a risolvere il contrasto, sul rapporto tra data di deposito e di pubblicazione della sentenza e sulla conseguente decorrenza del termine per impugnare, si è ritenuto che deposito e pubblicazione coincidono e si realizzano nel momento in cui si ha l’inserimento della sentenza nell’elenco cronologico con attribuzione del numero identificativo e conseguente possibilità per gli interessati di venirne a conoscenza e richiederne copia: da tale momento la sentenza esiste e comincia a decorrere il termine lungo per l’impugnazione. Muovendo all’esame delle pronunce rese a sezioni semplici, vanno innanzitutto segnalati gli arresti in materia di processo telematico, laddove si è sancito che sono validi gli atti introduttivi depositati in via telematica tra il 30/6/2014 ed il 27/6/2015, cioè nel vigore della disciplina di cui all’art. 16 bis D.L. n. 179/2012 e sino all’entrata in vigore del D.L. n. 83/2015; e che basta la ricevuta di consegna del gestore di e-mail certificata del Ministero a dimostrare la presa di contatto (cfr. Cass. 12/5/2016, n. 9772, resa ex art. 363 comma 3, esprimendo un principio di diritto nell’interesse della legge, a seguito di declaratoria di inammissibilità del ricorso). Inoltre, anche per la notifica telematica vigono i principi generali di cui all’art. 156, comma 3, c.p.c., relativi al raggiungimento dello scopo, ciò che esclude la nullità nel caso la notifica sia comunque giunta a conoscenza del destinatario (Cass., S.U., 18/4/2016, n. 7665, resa a sezioni unite perché in materia di giurisdizione). Di assoluto rilievo è poi la parte motiva della sentenza, ove si ribadisce che, alla stregua dei principi generali e secondo la più recente giurisprudenza, la lesione delle norme processuali non è invocabile in sé e per sé, ma solo se alla violazione è connesso un effettivo pregiudizio, ciò che deve essere ricavato dai princìpi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire: infatti, le norme processuali non tutelano in sé l’interesse all’astratta regolarità dell’attività processuale, ma assicurano piuttosto l’eliminazione di un pregiudizio concretamente subìto dal diritto di difesa della parte in dipendenza dell’error in procedendo; e pertanto, la denuncia del vizio deve accompagnarsi alla deduzione delle facoltà difensive che sarebbero state esercitate in mancanza della violazione processuale. Ne consegue che è inammissibile l’eccezione con la quale si lamenti un mero vizio procedimentale, senza prospettare anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato una lesione del diritto di difesa o possa comportare pregiudizio per la decisione finale (cfr. la citata Cass., S.U., 18/4/2016, n. 7665; negli stessi termini anche Cass., 22/2/2016, n. 3432, che precisa altresì come non sussista un obbligo per il giudice di sollecitare la previa instaurazione del contraddittorio quando la questione rilevata d’ufficio sia di mero diritto). Il medesimo principio della nullità correlata solo al reale pregiudizio è poi stato applicato anche in tema di scelta del modello decisorio, chiarendo che l’adozione della trattazione scritta, in luogo di quella mista richiesta dalla parte, non è causa di nullità della sentenza per violazione del principio del contraddittorio o di difesa, salvo che la parte dimostri una lesione concreta mediante l’indicazione degli aspetti che la discussione orale le avrebbe consentito di evidenziare ed approfondire, ad integrazione dei precedenti atti difensivi (Cass., 14/1/2016, n. 464). Parimenti, la mancata concessione dei termini di cui all’art. 183 c.p.c. non determina un vizio processuale e la conseguente nullità della sentenza, se non nei casi in cui sia conseguita in concreto una lesione del diritto di difesa della parte istante, la quale, a pena di inammissibilità dell’eccezione per difetto di interesse, deve allegare il pregiudizio derivato specificando come avrebbe modificato il thema decidendum o quali prove avrebbe dedotto; e comunque, la stessa concessione dei termini ex art. 183 comma 6 c.p.c. nemmeno è obbligatoria, pur a fronte di richiesta delle parti, ben potendo il Giudice fissare direttamente udienza di precisazione delle conclusioni ex art. 80-bis disp. att. c.p.c., evitando l’appendice scritta, ad esempio nei casi di sussistenza di questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, ovvero laddove la decisione sia immediatamente possibile in base alle allegazioni delle parti (Cass., 11/3/2016, n. 4767). Ugualmente, non è nulla la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte, di altri atti processuali o di provvedimenti giudiziari, senza niente aggiungervi, qualora le ragioni della decisione risultino in modo chiaro: infatti, tale tecnica di redazione non può ritenersi di per sé sintomatica di un difetto d’imparzialità del giudice, al quale non è imposta l’originalità né dei contenuti, né delle modalità espositive (Cass., 14/6/2016, n. 12142). Ben lontano dall’idea di processo telematico, e connesso invece all’era oramai un po’ romantica nella quale le sentenze si scrivevano a mano, è il caso analizzato da Cass., 10/3/2016, n. 4683, relativo ad una decisione graficamente non intellegibile: la Corte ha così statuito che la motivazione della sentenza è mancante non solo quando sia stata materialmente omessa o quando il testo scritto a mano sia assolutamente indecifrabile, ma anche quando la scarsa leggibilità renda necessario un processo interpretativo del testo con esito incerto. Interessante è la decisione con la quale viene evidenziato che una sentenza d’appello la quale, riformando quella di primo grado, faccia perciò stesso sorgere il diritto alla restituzione degli importi pagati in esecuzione di questa, non costituisce titolo esecutivo se non contenga una espressa statuizione di condanna in tal senso: pertanto, il solvens, al fine di munirsene, può attivare un autonomo giudizio, se non ha proposto la sua domanda in sede di gravame (cfr. Cass., 23/2/2016, n. 12387, che ribadisce il principio in precedenza esplicitato da Cass. n. 8/6/2012, n. 9287). Sempre in ambito processuale, si è poi puntualizzato che nei rapporti tra giudizio ordinario ed arbitrale non è applicabile l’articolo 295 c.p.c., e pertanto non è dato al giudice ordinario sospendere il processo dinanzi a lui instaurato per pregiudizialità di una lite pendente dinanzi agli arbitri (Cass., 19/1/2016, n. 783); e si è ribadito che il principio di non contestazione ex art. 115 c.p.c. opera non solo nei confronti del convenuto, ma anche nei confronti dell’attore, onerando quest’ultimo di prendere posizione sulle circostanze fattuali dedotte dal convenuto (Cass., 3/5/2016, n. 8647). Circa le spese di lite, va segnalato che le controversie per i compensi di avvocato, previste dell’art. 28 della L. n. 794 del 1942, come modificato dall’art. 34 del D.Lgs. 150 del 2011, vanno trattate nelle forme del rito sommario, previsto dall’art. 14 del citato decreto, anche nell’ipotesi che la domanda riguardi l’an della pretesa (Cass. 29/2/2016, n. 4002). Quanto alla condanna ex art. 96 comma 3 c.p.c., Cass. 8/3/2016, n. 12413, opportunamente ribadisce che trattasi di “sanzione processuale che prescinde del tutto dall’esistenza di danni risarcibili”; e che “presuppone l’accertamento della malafede o colpa grave della parte soccombente, non solo perché la relativa previsione è inserita nella disciplina della responsabilità aggravata, ma anche perché agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela infondata non è condotta di per sé rimproverabile” (principio, quest’ultimo, affermato per la prima volta da Cass, 30/11/2012, n. 21570, e poi sempre confermato: cfr. da ultimo Cass., 22/2/2016, n. 3376 e Cass., 6/7/2016, n. 19285). Inoltre, ribadendo un principio pacifico, si è confermato che l’Ufficio del Pubblico Ministero non può sostenere l’onere delle spese del giudizio nell’ipotesi di soccombenza, e neppure può essere destinatario di una pronuncia attributiva della rifusione delle spese quando risulti soccombente uno dei suoi contraddittori (Cass. 22/6/2016, n. 12962). Interessanti sono poi due pronunce che si occupano di responsabilità di avvocati e magistrati: per un verso, l’avvocato ha l’obbligo di non consigliare azioni inutilmente gravose e di informare il cliente su caratteristiche e possibili esiti della controversia, sussistendo il dovere di dissuadere il cliente da azioni che siano manifestamente prive di fondamento (Cass., 12/5/2016, n. 9695); per altro verso ed in materia di responsabilità civile dei magistrati, la sopravvenuta abrogazione dell’art. 5 della L. n. 117/1988 – ad opera dell’art. 3, comma 2, della legge 27 febbraio 2015, n. 18 – non esplica efficacia retroattiva, sicché l’ammissibilità della domanda di risarcimento danni cagionati nell’esercizio di funzioni giudiziarie, proposta sotto il vigore della norma abrogata, deve essere delibata alla stregua della disciplina previgente (Cass., 15/12/2015, n. 25216). Numerose sono poi state le pronunce di rilievo emesse dalla Corte Costituzionale. Sempre in materia di articolo 96 comma 3 c.p.c., si è rimarcata la “funzione sanzionatoria” della norma nei confronti di quanti “abusando del proprio diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, contribuendo così ad aggravare il volume, già di per sé notoriamente eccessivo, del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti” con “offesa arrecata alla giurisdizione”; e si è rigettata la questione di legittimità costituzionale della norna nella parte in cui pone la sanzione a favore della controparte e non dello Stato, essendo ciò spiegabile con l’obiettivo di assicurare una maggiore effettività, e quindi più incisiva efficacia deterrente, allo strumento deflattivo della condanna, sul presupposto che la parte vittoriosa possa più agevolmente di un soggetto pubblico provvedere alla riscossione (C. cost., 23/6/2016, n. 152). Importante è l’arresto con il quale sono stati disattesi i dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115/2002, relativo al raddoppio del contributo unificato in caso di esito negativo dell’appello: si è infatti ritenuto che la norma risponda alla ragionevole ratio di scoraggiare le impugnazioni dilatorie o pretestuose, ed è posta a parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle limitate risorse a sua disposizione (C. cost., 30/5/2016, n. 120). Con interpretativa di rigetto è stato poi chiarito che, a seguito della riformulazione dell’articolo 170 D.P.R. n. 115/2002 da parte del D.Lgs. n. 150/2011, ed essendo stato abrogato il pregresso termine di 20 giorni per l’opposizione al decreto di liquidazione del compenso del CTU, il termine per l’impugnazione deve ritenersi di trenta giorni, in armonia con quanto disposto in via generale dall’art. 702 quater c.p.c. in tema di rito sommario di cognizione, e cioè del rito applicabile (cfr. C. cost., 6/4/2016, n. 106). Di estremo interesse è poi la pronuncia con la quale sono stati disattesi i dubbi di legittimità costituzionale relativamente alla negoziazione assistita obbligatoria quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale ex art. 3 comma 1 D.L. n. 132/2014, convertito in L. n. 162/2014: la tutela garantita dall’art. 24 Cost. non comporta infatti l’assoluta immediatezza dell’esperibilità del diritto di azione, e la brevità del termine entro cui la negoziazione va esperita non vanifica tale tutela, tanto più che il costo risulta nettamente inferiore a quello che l’interessato ha la possibilità di risparmiare evitando il giudizio. Vi è quindi un ragionevole bilanciamento tra l’esigenza di tutela del danneggiato e quella, di interesse generale che il differimento dell’accesso alla giurisdizione intende perseguire, di contenimento del contenzioso finalizzato a garantire la ragionevole durata delle liti, oggettivamente pregiudicata dal volume eccessivo delle stesse (C. cost., 22/6/2016, n. 162).