Rel. Massimario (F. Costantini) n. 17/16 su: “Reviviscenza dell’originario trattamento sanzionatorio più favorevole per le droghe cc.dd. leggere”

Rel. 17/16

Roma, 8 marzo 2016

Orientamento di giurisprudenza

OGGETTO: 623001 STUPEFACENTI – IN GENERE -Droghe cosiddette “leggere” – Sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 – Reviviscenza dell’originario trattamento sanzionatorio più favorevole – Condanna in primo grado alla pena minima edittale precedentemente vigente – Giudice di appello o del rinvio – Rimodulazione della pena –  Applicazione dei nuovi minimi edittali – Necessità –Orientamento di giurisprudenza.

RIF. NORM.:art. 73, comma 4, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309; artt. 2 e 133 cod. pen.

La IV Sezione penale, con decisione assunta alla pubblica udienza del 06 ottobre 2015   n. 46973,Mentonis, Rv. 265209, ha affermato il principio di diritto così massimato:

“In tema di stupefacenti, il principio dell’applicazione della disciplina più favorevole determinatasi per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, con riferimento al trattamento sanzionatorio relativo ai delitti previsti dall’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, in relazione alle cosiddette “droghe leggere”, non impone al giudice di appello o del rinvio di rimodulare la sanzione adeguandosi ai criteri in precedenza utilizzati dal giudice di merito, potendo egli rideterminarla nell’ambito della nuova cornice edittale, con il solo limite costituito dal divieto di sovvertire il giudizio di disvalore espresso dal precedente giudice. (Fattispecie in cui la Corte, rilevato che, nessuno dei precedenti giudici di merito aveva espresso alcuna valutazione di scarsa offensività della condotta, pur risultando determinata la pena nell’allora vigente minimo edittale, ha ritenuto legittima la decisione del giudice del rinvio che aveva rideterminato la pena discostandosi dal minimo senza tuttavia attestarsi nel massimo edittale)”.

Nell’affermare tale principio la Corte ha affrontato la questione relativa ai criteri che il giudice di appello o del rinvio devono seguire nel rideterminare la pena applicata con sentenze di condanna non ancora divenute irrevocabili, in ordine ai delitti previsti dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, in relazione alle droghe c.d. leggere, in conseguenza della reviviscenza, a seguito della sentenza n. 32, del 12 febbraio 2014 della Corte costituzionale, della previgente e più favorevole disciplina prevista in tema di stupefacenti.

Con la citata sentenza n. 32 del 2014 è stata, infatti, dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies del d.l. n. 272 del 2005 – inseriti nella legge di conversione n. 49 del 2006 – con conseguente eliminazione ex tunc dell’intera riforma del 2006, che aveva modificato il d.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, sopprimendo ogni distinzione fondata sulla natura delle sostanze droganti ed estendendo anche ai reati concernenti le c.d. “droghe leggere” la pena della reclusione da sei a venti anni e la multa da euro 26.000 a euro 260.000.

L’intervento censorio del giudice delle leggi ha determinato la reviviscenza dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 nella originaria formulazione di cui all’art. 14 della legge 26 giugno 1990, n. 162 che, per le droghe leggere, prevedeva al comma 4 una pena detentiva da due a sei anni di reclusione e la multa da euro 5.164 a euro 77.468., nettamente inferiore a quella introdotta dall’art. 73 riformato dalla normativa dichiarata costituzionalmente illegittima.

Giova premettere che già nel corso del 2015 le Sezioni unite sono intervenute proprio al fine di risolvere distinte questioni interpretative, ma direttamente connesse con quella oggi in esame, che si sono poste proprio in ordine al trattamento sanzionatorio da applicare ai reati relativi a sostanze stupefacenti a seguito della suddetta dichiarazione di illegittimità costituzionale.  

In primo luogo, con la sentenza n. 33040, 26 febbraio 2015, Jazouli, Rv. 264205/264207, le Sezioni Unite hanno riconosciuto la illegalità della pena inflitta sulla base delle forbici sanzionatorie dichiarate incostituzionali, conseguentemente affermando che la pena eventualmente applicata con sentenza di patteggiamento deve essere rideterminata anche quando essa rientri nella nuova cornice edittale. Ad avviso della Corte, infatti, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità, “la valutazione di responsabilità del reo non risulta più misurata “legalmente”, perché la risposta punitiva è stata elaborata sulla base di un compasso sanzionatorio incostituzionale, così da risultare alterato lo stesso giudizio di gravità del reato ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen.” e “poiché la pena concretamente inflitta esprime la valutazione della responsabilità dell’imputato, essa non può considerarsi ancora legale quando sono venuti meno – per effetto di una pronuncia di incostituzionalità – i parametri edittali che hanno guidato e determinato la sua commisurazione”.

Nella medesima udienza, con la sentenza 26 febbraio 2015, n. 37107, Marcon, Rv. 264857/264859, le Sezioni unite hanno affermato il principio secondo cui la pena applicata su richiesta delle parti per i delitti previsti dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, in relazione alle droghe c.d. leggere, con pronuncia divenuta irrevocabile prima della sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014, deve essere necessariamente rideterminata in sede di esecuzione in quanto pena illegale e, in caso di mancato accordo tra le parti, il giudice dell’esecuzione provvede alla rideterminazione della pena in modo tale che le parti e il giudice possano riferirsi al diverso e più mite trattamento sanzionatorio risultante dal rivissuto art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, prima della modifica.

Per quanto riguarda poi, in particolare, i criteri attraverso cui il giudice dell’esecuzione deve procedere alla rideterminazione della pena in caso di mancato rinnovamento dell’accordo o qualora egli ritenga incongrua la pena rinegoziata, rispetto al fatto così come ritenuto in sede di cognizione, è utile segnalare, per quanto di rilievo in riferimento alla questione oggi in esame, che le Sezioni Unite, pur avendo escluso che la rideterminazione della pena da parte del giudice dell’esecuzione debba avvenire in base al criterio matematico – proporzionale, utilizzando i medesimi parametri applicati nell’originario accordo intervenuto tra le parti, hanno fornito ulteriori specifiche indicazioni circa le modalità di rimodulazione della pena.

Nella sentenza “Marcon” si precisa, infatti, che “il giudice dovrà invece procedere alla rideterminazione della pena utilizzando i criteri di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen., secondo i canoni dell’adeguatezza e della proporzionalità che tengano conto della nuova perimetrazione edittale. Questa operazione di “riqualificazione sanzionatoria” presuppone, ovviamente, che il giudice prescinda dalla volontà delle parti, tuttavia non potrà non considerare, nella sua autonoma rideterminazione, l’accordo sulla pena raggiunto dalle parti nella sentenza di patteggiamento, evitando cioè di eludere la finalità della richiesta che ha avviato l’incidente di esecuzione, che è quella di eliminare la pena illegale e di sostituirla con una che sia il risultato di una valutazione basata su criteri edittali costituzionali. In altri termini, se è vero che devono essere scartati criteri ispirati a irragionevoli automatismi, e che il giudice non è vincolato a rideterminare la pena partendo dal nuovo minimo edittale (due anni di reclusione ed euro 5.164) nei casi in cui la pena patteggiata originariamente partiva dal minimo edittale previsto dall’art. 73 d.P.R. 309 del 1990 come modificato dalla legge n. 49 del 2006 (sei anni ed euro 26.000), allo stesso modo deve escludersi che per lo stesso fatto, inquadrato nei nuovi limiti edittali scaturiti dalla dichiarazione di incostituzionalità, il giudice possa operare la rideterminazione partendo dalla stessa pena-base individuata in origine, troppo distanti essendo gli orizzonti delle comminatorie edittali previste dell’art. 73 cit. prima e dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, non potendosi considerare di massima gravità lo stesso fatto, per il quale, in precedenza, era stata applicata la pena base minima, se non a costo di realizzare una vera e propria elusione della modifica della pena illegale, che verrebbe di fatto confermata. La sensibile differenza delle cornici edittali impone risposte sanzionatorie differenti ed individualizzate.”

Con la pronuncia oggi in esame, come sopra precisato, la Corte affronta la distinta, ma direttamente connessa, questione dei poteri del giudice di appello o di rinvio all’atto della rimodulazione del trattamento sanzionatorio inflitto da precedente sentenza di condanna, da ritenersi illegale a fronte dei mutati parametri normativi di riferimento conseguenti alla dichiarazione di illegittimità costituzionale.

Secondo un primo indirizzo, espresso da alcune sentenze in epoca immediatamente successiva all’intervento della Corte costituzionale ma antecedentemente alla richiamata sentenza delle Sezioni unite “Marcon”, qualora la sentenza di primo grado, emessa nella vigenza della normativa dichiarata incostituzionale, abbia determinato la pena nel minimo, il giudice sarà tenuto a rimodulare il trattamento sanzionatorio, rendendolo conforme ai nuovi e più favorevoli minimi edittali (Sez. VI, 20 marzo 2014, n. 15152, Murgeri,  Rv. 258748; Sez.  III, 16 aprile 2014, n. 31163, Grano, Rv. 260255; Sez. VI, 25 novembre 2014, n. 6067/15, Graviano, Rv. 262339).

In tali pronunce si precisa che, in sede di appello o di rinvio, il giudice, in linea generale, non è tenuto a mitigare la pena inflitta in primo grado, qualora essa rientri comunque nella “forbice edittale” della disciplina tornata in vigore ed egli la ritenga adeguata e proporzionata rispetto alla gravità della condotta criminosa dandone conto con logica e congrua motivazione. Dovendosi, pertanto, escludere che la conferma del trattamento sanzionatorio stabilito dal primo giudice possa dar vita a un indebito aggravamento della pena virtualmente lesivo del divieto di reformatio in peiusdi cui all’art. 597, comma 3 cod. proc. pen.

Ma ciò con esclusivo riferimento ai casi in cui il primo giudice non abbia ritenuto di definire lo specifico grado della cornice edittale mentre, nelle diverse ipotesi in cui, invece, il giudice di merito abbia, con espressa motivazione, ancorato la pena-base dei reati al minimo edittale delle fattispecie dichiarate incostituzionali, le pene così inflitte non possono più ritenersi legittime. “In tali casi, infatti, non può che trovare applicazione la più favorevole disciplina (previgente e) oggi nuovamente vigente risultante dalla descritta dinamica successoria delle norme incriminatrici. Ed è chiaro che in tali situazioni (e soltanto in esse) il giudice di appello è vincolato (a meno di convalidare un improprio incremento dell’afflittività sostanziale della sanzione) alla rimodulazione della pena, rendendola conforme ai nuovi più favorevoli minimi edittali” (cfr. Sez. VI, 20 marzo 2014, n. 15152, Murgeri,  Rv. 258748).

In epoca successiva si è, tuttavia, affermato un distinto orientamento interpretativo, secondo il quale la reviviscenza della disciplina dell’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, nel testo anteriore alle modifiche legislative successivamente dichiarate incostituzionali, non comporta che, nelle situazioni in cui la sentenza di primo grado abbia determinato la pena nella misura minima dell’editto allora vigente in relazione alle droghe cosiddette “leggere”, il giudice di appello – quale giudice di merito di secondo grado ovvero quale giudice di rinvio – sia vincolato a rimodulare la sanzione rendendola conforme ai nuovi e più favorevoli minimi edittali detentivi e pecuniari, potendo egli determinarla discrezionalmente nell’ambito della più lieve cornice edittale tornata in vigore, con il solo limite – nell’ipotesi di appello proposto dal solo imputato – del divieto di reformatio in peius (Sez. III, 24 aprile 2015, n. 33396, Calvigioni,  Rv. 264195; Sez. III, 30 aprile 2015, n. 23952, Di Pietro, Rv. 263849; Sez. VI, 16 giugno 2015, n. 25256, Scarallo, Rv. 265172).

Secondo tale impostazione, il secondo giudice pur non potendo applicare una pena maggiore rispetto a quella già inflitta in primo grado senza violare il divieto di cui all’art. 597, comma 4 cod. proc. pen., non sarebbe, comunque, tenuto alla automatica applicazione del nuovo minimo edittale. 

In particolare nella sentenza, n. 23952/15 si richiama, a sostegno della soluzione prescelta, il decisum della citata pronuncia Sez. Un., 26 febbraio 2015, n. 37107, Marcon, Rv. 264857, di cui, tuttavia, all’epoca era nota la sola notizia di decisione, non essendo state ancora depositate le motivazioni.

Ad avviso del collegio, in particolare, il riferimento da parte delle Sezioni unite alla necessità che il giudice dell’esecuzione provveda alla rideterminazione della pena in base ai criteri di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen., sarebbe espressione della volontà “di rimettere tale valutazione nelle mani del giudice di merito, ma senza alcun vincolo derivantegli dalla pena precedentemente irrogata se non quello di un divieto di reformatio in peius nei limiti di cui all’art. 597 c.p.p., comma 3″ posto, altresì, che “diversamente opinando, se ne dovrebbe trarre il principio, assolutamente contrario ad ogni logica, che il giudice del gravame del merito dovesse essere vincolato alla valutazione operata dal giudice di primo grado quando il dato normativo che aveva di fronte era diverso”.

Anche la sentenza oggi in esame si inscrive in tale orientamento, escludendo la sussistenza di un automatico obbligo di trasposizione dei criteri utilizzati in base alla previgente normativa nel nuovo giudizio di determinazione della pena, da rimodularsi nell’ambito della nuova cornice edittale e secondo gli ordinari criteri di cui all’art. 133 cod. pen.

Ad avviso del Collegio, tuttavia, esiste un limite a tale potere, costituito dal divieto di sovvertire il giudizio di disvalore eventualmente espresso in precedenza, pertanto, ove il precedente giudice abbia ritenuto di applicare il minimo della pena “spiegando in modo logico e adeguato come la condotta dell’imputato non rivestisse alcun carattere di gravità per ragioni specificamente indicate in sentenza, non potrà il giudice di appello, o quello del rinvio, discostarsi significativamente dai limiti edittali minimi perché ciò è imposto non solo dal mutamento normativo ma dal precedente accertamento valutativo del giudice di merito; accertamento valutativo che realizza non più soltanto una spiegazione delle ragioni della decisione ma una vera e propria statuizione sulla minima offensività del fatto addebitato all’imputato.”

Conseguentemente, si precisa che “di questa minima offensività il giudice di appello o del rinvio deve tener conto nella nuova determinazione della pena; ciò non significa che debba applicare il minimo se il primo giudice su tale livello si era attestato. Ciò che non può mutare è la valutazione sulla gravità del reato formulata con l’utilizzazione dei criteri previsti dall’art. 133 c.p. con le conseguenze che ne derivano sulla determinazione della pena”.

Con riferimento, dunque, allo specifico caso esaminato, la Corte, ha ritenuto legittima la decisione del giudice del rinvio che aveva rideterminato la pena discostandosi dal minimo senza tuttavia attestarsi nel massimo edittale atteso che, nessuno dei precedenti giudici di merito aveva espresso alcuna valutazione di scarsa offensività della condotta, pur risultando determinata la pena nell’allora vigente minimo edittale.

Redattore: Francesca Costantini

Il vice direttore

Giorgio Fidelbo

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