Relazione dott. Gambardella su “Ruolo del PM nei reati di violenza domestica”

1.    Premessa.

Buongiorno a tutti, anzitutto lasciatemi dire che per me è una enorme emozione intervenire dinanzi ad un uditorio così qualificato. Cercherò di annoiarvi il meno possibile. Il mio intervento non sarà propriamente una relazione, bensì il frutto di riflessioni maturate nel corso dei tre anni in cui mi sono occupato di fasce deboli alla Procura di Foggia. Riflessioni che, in realtà, sono iniziate ben 5 anni fa, quando il magistrato, il grande magistrato della Procura di Napoli con il quale ho svolto il periodo di uditorato, mi disse con aria seria “la prima cosa che devi sapere Marco è che il P.M. di fasce deboli non è un P.M. normale”.

In quel tempo, ed anche oggi, sentivo che sarebbe già stato difficile diventare un P.M. normale, figuriamoci anormale. Nel tempo però ho compreso cosa intendesse dire il mio affidatario e l’intervento di oggi sarà una sorta di elogio alla anormalità.

Il ruolo del magistrato del Pubblico Ministero in tema di violenza domestica è caratterizzato in effetti da diverse specificità, tali da rendere l’esercizio concreto dell’attività giurisdizionale, sia investigativa che processuale, assolutamente peculiare.

Il titolo dell’intervento impone di dovere rispondere ad una domanda: “Qual è il ruolo del P.M., ordinario e minorile, in tema di violenza domestica?”.

La risposta a tale quesito, a mio avviso, deve oggi prendere le mosse dalla nota decisione della Corte Europa dei Diritti dell’Uomo, nel famoso caso Talpis c. lo Stato Italiano. Appare opportuno analizzare, sia pur sinteticamente, la sentenza Talpis, in quanto anche da essa è scaturita la Delibera del Csm del 9 maggio 2018, inerente alla Risoluzione sulle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi ai reati di violenza domestica e di genere.

Con la sentenza Talpis, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato lo Stato Italiano per violazione degli artt. 2 (Diritto alla Vita), 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e 14 (divieto di discriminazione) CEDU, a seguito di ricorso da parte di una cittadina moldava, vittima di gravi reati commessi ai suoi danni da parte del coniuge Andrei Talpis.

In particolare, i fatti che hanno generato dapprima il procedimento penale presso la competente A.G. italiana e, successivamente, il ricorso alla CEDU, iniziarono nel giugno nel 2012 e terminarono tragicamente nel novembre 2013, allorquando il Talpis uccise il figlio della persona offesa e accoltellò reiteratamente la donna.

La serie di condotte delittuose poste in essere dal Talpis e culminate nel duplice fatto di sangue, possono così essere sintetizzate:

  • Nel giugno 2012, la persona offesa riferì alle Forze dell’Ordine di essere stata malmenata dal Talpis, soggetto dedito all’abuso di sostanze alcoliche. In quella occasione, le FF.OO. non raccolsero la denuncia, limitandosi a constatare le lesioni occorse alla p.o. e lo stato di ubriachezza del Talpis;
  • Nell’agosto 2012, la persona offesa riferì alle Forze dell’Ordine di essere stata costretta dal Talpis, dietro minaccia di un coltello, ad avere rapporti sessuali con lui ed i suoi amici, anche in tal caso riportando lesioni personali. Tali fatti portarono all’emissione di una sanzione pecuniaria per il Talpis, per il porto illegale del coltello “nonostante la donna avesse riferito di essere stata minacciata a più riprese con messaggi telefonici”;
  • Nel settembre 2012, la persona offesa sporse formale querela per lesioni e maltrattamenti, chiedendo protezione alle Autorità;
  • In data 4 aprile 2013 (sette mesi dopo rispetto alla data di presentazione della querela), la persona offesa venne escussa a s.i.t. dalla Procura della Repubblica di Udine, dichiarando espressamente che “quanto da lei dichiarato in querela era stato erroneamente interpretato“. Tornerò dopo su questa ritrattazione.  La Procura di Udine, pertanto, chiese ed ottenne l’archiviazione del procedimento (presumibilmente, ai sensi dell’art. 125 disp. att. c.p.p.);
  • Nell’ottobre 2013 si verificò un nuovo episodio di lesioni personali, per il quale il Talpis venne condannato al pagamento di una pena pecuniaria;
  • Nel novembre 2013,si verificò l’ennesimo e maggiormente grave episodio di violenza: la donna contattò la Polizia per nuovi maltrattamenti ed il Talpis venne trasportato in ospedale in stato di intossicazione da sostanze alcoliche. Appena dimesso dall’ospedale, il Talpis tornò a casa, ove uccise il figlio della persona offesa e la accoltellò ripetutamente.

Il Talpis sarà poi condannato nel gennaio 2015 per omicidio, tentato omicidio e maltrattamenti.

Ebbene, la Corte EDU ha evidenziato come le Autorità Italiane (e in particolare l’A.G.) non abbiano correttamente valutato i rischi nel caso di specie ed abbiano escusso a s.i.t. con ritardo la persona offesa (sette mesi dopo rispetto alla presentazione della querela), omettendo peraltro di adottare provvedimenti idonei a tutelare l’incolumità della vittima. Interessante il passaggio in cui la Corte evidenzia la natura della persona offesa quale “soggetto vulnerabile” (nozione recepita dal c.p.p.) e qualifichi le violenze domestiche quali “trattamenti degradanti”, al contrasto dei quali sussistono obblighi positivi per gli Stati, di protezione delle vittime.

In sostanza, la Corte EDU censura lo Stato Italiano per una riscontrata inerzia e lentezza nel procedere a tutela della vittima.

Come dicevo, a seguito della sentenza Talpis (che ha generato anche un acceso dibattito pubblico) e, in generale, del drammatico aumento di casi di violenza di genere e violenza contro le donne, il Plenum del Csm ha redatto una risoluzione relativa all’organizzazione degli Uffici di Procura, finalizzata all’efficace contrasto ai reati di violenza di genere e domestica.

L’analisi della risoluzione del Csm, nonché della recente legislazione nazionale ed internazionale, consente a mio avviso di declinare il ruolo del P.M. in tema di violenza domestica in tre finalità sostanziali:

  • Repressione dei reati commessi;
  • Prevenzione e tutela delle vittime (ed è questa una delle specificità di cui parlavo);
  • Assunzione del ruolo di interlocutore stabile e qualificato con altri soggetti (istituzionali e non), le cui attività o funzioni risultano indispensabili ai fini di una corretta ed efficace risposta alle istanze di tutela delle vittime (ulteriore specificità).

Specularmente alle tre finalità perseguite dal P.M. in tema di violenza domestica, tre appaiono essere i piani di intervento, che devono essere oggetto di analisi nel mio intervento:

  • Il ruolo dell’Ufficio di Procura e, quindi, i criteri organizzativi più adatti al perseguimento delle finalità poc’anzi esposte;
  • Il ruolo del singolo magistrato del Pubblico Ministero e le peculiarità che ne caratterizzano l’attività quotidiana rispetto a colleghi che si occupano di altri reati;
  • Il dialogo e la collaborazione tra il P.M. ordinario, il P.M. minorile ed altri soggetti, istituzionali, privati o facenti parti del c.d. terzo settore. 

A ciascuno dei tre piano di intervento, compatibilmente alle esigenze temporali, dedicherò qualche riflessione.

2.    L’organizzazione degli Uffici di Procura: analisi della Risoluzione del Csm del 9 maggio 2018.

Nell’elaborare le linee guida in tema di organizzazione degli Uffici di Procura e le buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza domestica, il Csm muove dalla essenziale premessa in base alla quale il fenomeno di cui trattasi interseca una molteplicità di piani (culturale, sociologico, delle politiche assistenziali, repressivo) e, pertanto, una risposta efficace da parte dello Stato, specie in ottica preventiva, richiede misure multisettoriali in assenza delle quali l’indispensabile intervento giurisdizionale potrebbe risultare sostanzialmente vano.

Tale premessa è assolutamente condivisibile, ove si pensi che gli strumenti processuali tipici attraverso i quali l’A.G. può fornire protezione si riducono al contenimento del rischio recidiva e, quindi, sostanzialmente alle misure cautelari. A questo si aggiunga il fatto che, come è noto, i termini di durata delle relative misure cautelari, ai sensi degli artt. 303 e ss. c.p.p., sono piuttosto brevi, con conseguente possibile inefficacia degli strumenti di tutela. E si aggiunga ancora che, 9 volte su 10, i processi inerenti a reati di violenza domestica si concludono con condanne a pena sospesa, con conseguente revoca delle misure cautelari ed esposizione della vittima a ripercussioni e violenze.

Il Csm peraltro evidenzia come non di rado i reati di violenza domestica non vengano nemmeno denunciati dalle vittima, con conseguente necessità (attesa la procedibilità d’ufficio delle ipotesi di reato di cui agli artt. 572 c.p. o di lesioni personali aggravate) di predisporre piano di intervento finalizzati a fare emergere forme sommerse di violenza ed a correttamente valutare i rischi, anche in ottica probatoria. Inoltre (e questa è un’altra peculiarità del P.M. che si occupa delle c.d. fasce deboli) il Csm evidenzia come tale settore imponga che il magistrato sia in possesso di competenze specialistiche che vadano oltre la sfera prettamente giuridica, in particolare necessarie per saggiare l’attendibilità della persona offesa e per valutare correttamente i rischi e le fonti di prova. E’ evidente che tali competenze devono essere riversate anche sulla P.G., diretta dal Pubblico Ministero.

Il primo criterio organizzativo elaborato dal Csm è pertanto quello della specializzazione dei magistrati che si occupano di “fasce deboli” e la creazione di pool specializzati nei settori di interesse. Nella formazione dei pool, il Csm evidenzia la necessità di valutare le specifiche attitudini dei sostituti e le proprie doti personali, rimarcando le necessità di interloquire con soggetti vulnerabili, di cui spesso è arduo valutarne l’attendibilità.

Un secondo criterio organizzativo contenuto nella Risoluzione è inerente alle tipologie di reato rientranti nella sfera della violenza domestica. In particolare, il Consiglio Superiore suggerisce l’opportunità di effettuare una estensione dei reati tipicamente rientranti in tale sfera (quali atti persecutori e maltrattamenti contro famigliari conviventi), sollecitando di attribuire alla competenza dei gruppi specializzati in c.d. fasce deboli anche le ipotesi di cui agli artt. 570, 570 bis, 388 co. 2, 591, 414 bis c.p., oltre ai reati contro la libertà sessuali e quelli inerenti alla interruzione di gravidanza. Interessante notare come il Consiglio suggerisca di attribuire alla competenza specialistica anche ipotesi di reati spia (quali minacce e lesioni personali), qualora commessi in ambito domestico. Ulteriore sollecito riguarda l’opportunità di coassegnare i procedimenti di competenza della DDA  (es. riduzione in schiavitù, traffico di organi, tratta di persona) ai magistrati appartenenti al gruppo fasce deboli, in considerazione delle loro attitudine ed esperienza nell’ascolto e nella valutazione delle dichiarazioni rese dalla p.o.

Ulteriore criterio organizzativo elaborato dal Csm riguarda la priorità di trattazione dei procedimenti inerenti ai reati di violenza domestica e di genere, in considerazione delle inequivocabili indicazioni in tal senso da parte (come si è detto) della Corte EDU, nonché della legislazione sopranazionale e nazionale (con particolare riferimento all’art. 132 bis disp. att. c.p.p.). Interessante notare come il Consiglio solleciti di prevedere nel novero dei reati a trattazione prioritaria anche ipotesi di reato ritenute meno gravi, quali la minaccia aggravata o la violazione degli obblighi di assistenza familiare, reati questi ritenuti dal Consiglio (e dalla Convenzione di Istanbul sul contrasto alla violenza di genere e domestica) espressivi di “violenza economica”, costituente a sua volta declinazione della violenza di genere e familiare.

A tal proposito appare interessante dal punto interpretativo stabilire se a tali fattispecie espressive di una violenza economica possano applicarsi alcune disposizioni del codice di rito, quale ad esempio il co. 3 bis dell’art. 408 c.p.p., inerente all’avviso alla persona offesa di delitti commessi con violenza alla persona.

In tema di buone prassi, inoltre, il Consiglio sollecita l’adozione di intese tra Uffici requirenti e giudicanti per la fissazione e trattazione dei procedimenti, raccomandando peraltro di valorizzare l’utilizzo dello strumento dell’incidente probatorio, al fine di evitare la vittimizzazione secondaria della vittima ed acquisirne le dichiarazioni in tempi rapidi. Ci tornerò in seguito.

Favore viene espresso dal Consiglio anche in ordine alla “personalizzazione del fascicolo” avente ad oggetto reati di violenza domestica: segno evidente della necessità di garantire la specializzazione (e le peculiarità) del P.M. anche in fase dibattimentale. A tal proposito il Consiglio superiore della Magistratura, anche in ossequio alla previsione di cui all’art. 3 della nuova Circolare in materia di organizzazione degli uffici requirenti, ha raccomandato che, nella formazione dei calendari di udienza, vi sia una collaborazione tra i dirigenti degli uffici giudicanti e requirenti, finalizzata (anche) a garantire la personalizzazione del fascicolo.

Criteri organizzativi sono indicati dalla Risoluzione anche con riferimento ai rapporti tra l’Ufficio di Procura e la Polizia Giudiziaria. Anche in quest’ottica, il Consiglio sollecita la formazione e specializzazione degli Ufficiali di P.G. appartenenti a ciascuna forza di polizia ed un immediato raccordo tra P.G. e P.M., in attuazione sia delle disposizioni di recente introduzione (384 bis c.p.p. in materia di misure pre cautelari, nonché le disposizioni relative all’ascolto della vittima: 351 co. 1 ter c.p.p., 362 e 391 bis c.p.p.), ma soprattutto per garantire una corretta qualificazione della condotta e la gestione delle acquisizioni probatorie rilevanti, nonché dei provvedimenti pre cautelari o comunque di protezione della vittima. Si pensi ad esempio alla possibilità di trasferire le persone offese in comunità protette.

Si consideri che tale interlocuzione appare tanto più indispensabile, in considerazione della disposizione di cui al co. 1 ter dell’art. 351 c.p.p., ult. parte, introdotta nel 2015 e che vieta di ascoltare plurime volte la persona offesa particolarmente vulnerabile (quale è tipicamente la vittima di reati di violenza domestica), ove non sia assolutamente necessario. Appare evidente come risulti opportuna una interlocuzione immediata tra P.G. operante e P.M., al fine di concordare le domande da rivolgere alla p.o. e rendere le dichiarazioni della stessa quanto più complete possibile.

A tal proposito, il Consiglio suggerisce (ove possibile in ragione delle dimensioni dell’Ufficio) di prevedere un “turno violenza”, con reperibilità dei magistrati appartenenti al gruppo specializzato. Nelle Procure di dimensioni ridotte, in ogni caso, il Csm sollecita l’immediato intervento del magistrato specializzato nei reati di violenza domestica e di genere, con conseguente espletamento da parte del P.M. di turno esterno esclusivamente degli atti urgenti, coordinandosi sin da subito (ove possibile) con il collega che diventerà assegnatario del fascicolo.

Infine, ulteriore indicazioni emergono con riferimento all’attività informativa a favore delle persone vittime di violenza ed i rapporti con i mezzi di informazione.

In particolare, il Consiglio stimola gli Uffici di Procura a promuovere una azione di informazione in ordine agli strumenti di tutela ed ai diritti della persona offesa, al fine di promuovere l’emersione di fenomeni che spesso restano confinati tra le mura domestiche. Pertanto, a prescindere dagli avvisi di cui all’art. 90 bis c.p.p., la Risoluzione suggerisce di pubblicare vademecum (ad esempio sul sito istituzionale della Procura) rivolti alle vittime di violenza, utili ad orientarle nella scelta di sporgere denuncia. Ulteriore metodo utile è quello di prevedere contatti idonei in ottica di protezione, quali recapiti di Enti e Centri Anti Violenza.

In ordine ai rapporti con i media, anche per evitare indebite diffusioni di dati anche imbarazzanti inerenti alla vittima, il Consiglio segnala di porre attenzione alla comunicazione mediatica, al fine di tutelare la dignità della vittima.

3.    Il ruolo del singolo sostituto e gli strumenti a disposizione.

Le peculiarità che caratterizzano l’attività investigativa e processuale svolta dal P.M. specializzato in reati di violenza domestica discendono dalla consapevolezza che detti fenomeni criminali cagionano spesso alle vittime traumi di natura psicologica, che assumono un rilievo non soltanto in un’ottica di protezione, ma soprattutto nell’ambito dello svolgimento delle attività di indagine e, in particolare, dell’acquisizione delle dichiarazioni delle persone offese, di frequente uniche testimoni dei fatti delittuosi per cui si procede.

Nel corso dei tre anni in cui mi sono occupato di fasce deboli, ho constatato come il P.M. che si occupa di tali reati sia una sorta di equilibrista, muovendosi su un filo sottile ed oscillando tra l’esigenza di tutelare la vittima, carpirne la fiducia ed acquisirne le dichiarazioni; la necessità di ricordarsi che il P.M. non è un mero accusatore, bensì il primo presidio di garanzia dell’indagato.

Non a caso con D.Lvo 212/2015, che ha introdotto nel codice di procedura penale norme in materia di diritti, di assistenza e di protezione delle vittime di reato, il Legislatore ha integrato le disposizioni di cui agli artt. 351 co. 1 ter, 362 co. 1 bis e 391 bis co. 5 bis c.p.p., disciplinando espressamente le modalità di ascolto dei minori e delle persone offese anche maggiorenni, in condizioni di particolare vulnerabilità (quali risultano essere, tipicamente, le vittime di reati di violenza domestica o di genere).

Tali disposizioni prevedono che l’ascolto debba svolgersi con l’ausilio di un esperto in psicologia o psichiatria, nominato dal P.M. Va segnalato che la Giurisprudenza di legittimità non ha ritenuto che sussista un obbligo in tal senso.

La stessa Risoluzione del Csm valorizza tali previsioni, valutando positivamente le soluzioni organizzative adottate da alcuni Uffici di Procura, in ordine alla istituzione di turni di reperibilità degli esperti in psicologia, al fine di garantire celermente l’escussione delle vittime di reato in caso di urgenza.

L’acquisizione tempestiva delle dichiarazioni del minore e della persona offesa adulta particolarmente vulnerabile, secondo le procedure previste dalla normativa e comunque più adeguate al caso di specie (ausilio del consulente e modalità protette) può (ed in alcuni casi deve) essere documentata attraverso la videoregistrazione dell’atto istruttorio, in modo tale di soddisfare esigenze investigative urgenti, scongiurare il rischio di vittimizzazione secondaria della persona offesa ed acquisire elementi per le valutazioni cautelari.

A tal proposito, va evidenziato come la prova dichiarativa cristallizzata con tali adeguate procedure, espressamente richiamate dall’art. 35 della Convenzione di Lanzarote (Convenzione in cui si auspica che “le registrazioni possano essere accettate come prova durante il procedimento penale“), è resa normativamente possibile dal disposto di cui all’art. 134 co. 4 c.p.p., come integrato dal D.Lvo. 212/2015, che prevede la registrazione audio video delle dichiarazioni rese dalla persona offesa particolarmente vulnerabile, anche in mancanza del requisito della assoluta indispensabilità.

La ratio della norma è quella di garantire l’immediatezza, consentendo l’osservazione diretta del teste, e la valutazione postuma delle modalità di espletamento dell’atto o comunque delle circostanze rilevanti al fine di valutare l’attendibilità della p.o.

E’ evidente infatti come le dichiarazioni della p.o., nei reati di violenza domestica o di genere, costituisca in molti casi la “prova regina” o comunque l’unico dato probatorio su cui fondare l’eventuale responsabilità dell’imputato.

La delicatezza del ruolo del P.M. di fasce deboli è proprio questa: valutare le dichiarazioni della persona offesa, vagliarne l’attendibilità (anche in mancanza di ulteriori elementi probatori a riscontro) e ponderare le scelte, garantendo sia protezione alla vera vittima che i diritti dell’indagato, atteso che non di rado (e chi si occupa quotidianamente di questi reati lo sa bene) si verificano casi di accuse strumentali da parte di presunte vittime, con conseguenti danni irreparabili per i soggetti coinvolti nelle indagini.

In tal senso, oltre alle particolari doti richieste nell’ascolto delle persone offese (ascolto che andrebbe delegato alla P.G. solo in pochi casi), il P.M. di fasce deboli deve essere dotato di un particolare intuito nella valutazione del rischio e, conseguentemente, delle determinazioni in ordine all’adozione di misure cautelari, misure di sicurezza provvisorie, altri provvedimenti di protezione (quali ad esempio gli ordini di protezione del giudice civile o l’allocazione della vittima presso strutture protette), ovvero al fine di determinare la P.G. nell’adozione di misure pre cautelari di sua competenza (che, per prassi, vengono “richieste” al P.M. di turno esterno).

In tema di escussione delle persone offese, il Pubblico Ministero di “fasce deboli” ascolta e domanda. Ed il domandare ed ascoltare risulta dai verbali.

Nei verbali redatti dal PM delle dichiarazioni delle pp.oo. o di quelle informate sui fatti ci sono le domande e le risposte; come ci chiede il codice all’art. 136 c.p.p..

Perché l’abbreviazione “ADR” ha un senso solo se la risposta deve essere netta: “la macchina dei rapinatori era nera”. Quando l’informazione che cerchi non è di questo tipo l’ADR non ti fa capire e non ti fa conoscere.

Ed il PM di fasce deboli deve conoscere per capire!

Il PM di fasce deboli dovrebbe avere anche la misura organizzativa della tecnologia.

Con l’espressione “dando preliminarmente atto della sussistenza di una contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione e di ausiliari tecnici, visto l’art. 140, comma 1°, c.p.p. dispone che il presente verbale sia redatto in forma riassuntiva”, penso che, dato l’attuale stato della comune monomania a registrare di tutto con i cellulari, corriamo il rischio di una accusa di falso ideologico.

Ma il PM di fasce deboli nella maggior parte dei casi registra. Anche con mezzi propri.

E non perché è maniacale o per evitare l’accusa di falso ideologico. Ma perché sa che in un futuro dibattimento       in casi di difformità della testimonianza dalle pregresse dichiarazioni, espressioni quali “mi sono espressa male, … io non ho detto così … sono stati i Carabinieri a scrivere, ero arrabbiata” sono all’ordine del giorno.

Particolare rilevanza assume nei procedimenti relativi a reati di violenza domestica e di genere lo strumento dell’incidente probatorio, rilevanza ampiamente valorizzata dal Csm nella richiamata risoluzione di maggio, nonché dello stesso Legislatore. Infatti, come è noto, Il D.Lvo 212/2015 ha modificato il co. 1 bis dell’art. 392, prevedendo la possibilità di richiedere l’incidente probatorio finalizzato all’assunzione delle dichiarazioni della persona offesa minorenne o in condizioni di particolare vulnerabilità, anche al di fuori delle ipotesi di cui al comma 1.

Appare del tutto evidente la scelta di favore da parte del Legislatore in ordine all’utilizzo di tale strumento nell’ambito dei procedimenti aventi ad oggetto reati di violenza domestica o di genere, utilizzo necessario per acquisire subito dichiarazioni utilizzabili in dibattimento (tutelando in tal modo la persona offesa da possibili minacce finalizzate ad indurla a ritrattare le accuse), nonché come si è detto per evitare la vittimizzazione secondaria della vittima.

Nella prassi quotidiana, i P.M. che si occupano di fasce deboli ricorrono ampiamente allo strumento dell’incidente probatorio, partecipando alle relative udienze e fornendo anche al Giudice un essenziale apporto, atteso che non di rado lo stesso magistrato ha già provveduto personalmente all’ascolto della vittima, con conseguente conoscenza di dati utili al migliore svolgimento dell’attività istruttoria.

Connessa alla rilevanza che assume l’istituto dell’incidente probatorio nei procedimenti penali iscritti per reati di violenza domestica o di genere appare la tematica dei rapporti tra provvedimenti cautelari ed assunzione della prova dichiarativa ex artt. 392 e ss. c.p.p.

In primo luogo, va evidenziato come nell’ambito dei procedimenti aventi ad oggetto condotte di violenza domestica o di genere, si ricorre ampiamente alle misure cautelari di cui agli artt. 282 bis (allontanamento dalla casa familiare) e 282 ter (divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa) c.p.p., con conseguente applicabilità del disposto di cui all’art. 282 quater c.p.p., inerente agli obblighi di comunicazione di tali provvedimenti cautelari a numerosi soggetti: Autorità di Pubblica Sicurezza (anche ai fini dell’adozione di provvedimenti in materia di armi), parte offesa, servizi sociali presenti sul territorio.

Giova evidenziare come l’art. 282 bis c.p.p. sia stato inserito nel Codice con L. n. 154/2001, recante misure contro la violenza nelle relazioni familiari e contempli, oltre alle disposizioni di natura squisitamente cautelare, la possibilità di ingiungere all’indagato il pagamento di un assegno periodico a fare delle persone conviventi. La possibilità di disporre nell’interesse della persona offesa misure patrimoniali di natura provvisoria è prevista anche dal co. 2 bis dell’art. 291 c.p.p., in tema di declaratoria di incompetenza da parte del Giudice al quale il P.M. abbia chiesto l’applicazione di una misura cautelare.

La lettura unitaria delle richiamate disposizioni cautelari, introdotte dal Legislatore proprio per aumentare gli strumenti di contrasto alla violenza domestica o di genere (l’art. 282 ter c.p.p. è stato introdotto con d.l. 11/2009, “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche’ in tema di atti persecutori”), conferma quanto si è già evidenziato, in ordine alla necessità che le azioni di contrasto alla violenza domestica e di genere operino su più fronti: cautelare, civilistico, comunicativo, di pubblica sicurezza, di servizi socio assistenziali (e su questo tornerò di qui a breve).

Come infatti evidenziato anche dal Consiglio Superiore della Magistratura, una efficace azione di contrasto alla violenza domestica e di genere, pur non potendo prescindere dall’azione giudiziaria, deve necessariamente declinarsi in diversi piani, in ciascuno dei quali, comunque, il P.M. assume un ruolo centrale.

Come dicevo, particolare delicatezza si riscontra nella gestione dello strumento dell’incidente probatorio, nei casi in cui il P.M. ritenga indispensabile richiedere l’emissione a carico dell’indagato di misure cautelari. Si registra la necessità di ponderare le esigenze di tutela della persona offesa (che deve essere garantita da possibili ripercussioni) e di garanzia dei soggetti sottoposti ad indagini preliminari e, pertanto, che si presumono innocenti.

Le peculiarità dei reati di violenza domestica e di genere impongono tuttavia, a mio avviso, che l’incidente probatorio venga richiesto successivamente alla eventuale adozione di provvedimenti cautelari, avendo cura tuttavia di accelerare i tempi della richiesta, anche in virtù della ridotta durata del termine di cui all’art. 303 c.p.p.

L’assunzione delle dichiarazioni della persona offesa in incidente probatorio e successivamente all’adozione di misure cautelari, consente di vagliare immediatamente e definitivamente la solidità del quadro probatorio, garantendo la persona offesa da possibili ritorsioni o minacce ed al contempo l’indagato, che avrà immediatamente la possibilità di esaminare la vittima ed eventualmente fornire una diversa ricostruzione dei fatti. Tale sequenza (iscrizione del fascicolo; attività investigativa espletate ove possibile personalmente dal P.M.; adozione di misure cautelari; incidente probatorio) ha peraltro il vantaggio di stimolare il ricorso a riti alternativi, con intuibili vantaggi processuali e repressivi.

Estremamente utile risulta anche il ricorso allo strumento di recente introduzione, in tema di sequestro conservativo. In particolare il Legislatore, con L.4/2018 ha introdotto un nuovo comma nel corpo dell’ art. 316 c.p.p., prevedendo quanto segue: 

Sequestro conservativo

  «1-bis. Quando procede per il delitto di omicidio  commesso  contro il coniuge, anche legalmente separato o  divorziato,  contro  l’altra parte dell’unione civile, anche se  l’unione  civile  e’  cessata,  o contro la persona che e’ o e’ stata legata da relazione  affettiva  e stabile convivenza, il pubblico ministero rileva la presenza di figli della   vittima   minorenni   o   maggiorenni   economicamente    non autosufficienti e, in ogni stato e grado del procedimento, chiede  il sequestro conservativo dei beni di cui al comma  1,  a  garanzia  del risarcimento dei danni civili subiti dai figli delle vittime».

Gli strumenti a disposizione del P.M., peraltro, non si limitano alla sfera penale, in quanto anche gli istituti civilistici risultano essenziali in un’ottica di globale protezione delle vittime dei reati di violenza domestica e di genere.

Si pensi in particolare agli istituti di cui agli artt. 330 co. 2 cod. civ.( Il giudice può pronunziare la decadenza dalla responsabilità genitoriale quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio. (3) In tale caso, per gravi motivi, il giudice può ordinare l’allontanamento del figlio dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore. (1)); e 333 cod. civ..

Rilevanti appaiono gli ordini di protezione previsti dagli artt. 342 bis e 342 ter cod. civ., introdotti nel codice civile dalla medesima Legge (la 154/2001) che ha previsto la misura cautelare di cui all’art. 282 bis c.p.p.

Art. 342-bis.
Ordini di protezione contro gli abusi familiari.

Quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente, il giudice, [qualora il fatto non costituisca reato perseguibile d’ufficio,] (1) su istanza di parte, può adottare con decreto uno o più dei provvedimenti di cui all’articolo 342-ter.

(1) Parole abrogate dalla Legge 6 novembre 2003, n. 304.

Art. 342-ter.
Contenuto degli ordini di protezione.

Con il decreto di cui all’articolo 342-bis il giudice ordina al coniuge o convivente, che ha tenuto la condotta pregiudizievole, la cessazione della stessa condotta e dispone l’allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente che ha tenuto la condotta pregiudizievole prescrivendogli altresì, ove occorra, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dall’istante, ed in particolare al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia d’origine, ovvero al domicilio di altri prossimi congiunti o di altre persone ed in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della coppia, salvo che questi non debba frequentare i medesimi luoghi per esigenze di lavoro.

Il giudice può disporre, altresì, ove occorra l’intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare, nonché delle associazioni che abbiano come fine statutario il sostegno e l’accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattamenti; il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto dei provvedimenti di cui al primo comma, rimangono prive di mezzi adeguati, fissando modalità e termini di versamento e prescrivendo, se del caso, che la somma sia versata direttamente all’avente diritto dal datore di lavoro dell’obbligato, detraendola dalla retribuzione allo stesso spettante.

Con il medesimo decreto il giudice, nei casi di cui ai precedenti commi, stabilisce la durata dell’ordine di protezione, che decorre dal giorno dell’avvenuta esecuzione dello stesso. Questa non può essere superiore a un anno (1) a può essere prorogata, su istanza di parte, soltanto se ricorrano gravi motivi per il tempo strettamente necessario.

Con il medesimo decreto il giudice determina le modalità di attuazione. Ove sorgano difficoltà o contestazioni in ordine all’esecuzione, lo stesso giudice provvede con decreto ad emanare i provvedimenti più opportuni per l’attuazione, ivi compreso l’ausilio della forza pubblica e dell’ufficiale sanitario.

4.    Il dialogo e la collaborazione tra il P.M. ordinario, il P.M. minorile ed altri soggetti, istituzionali, privati o facenti parti del c.d. terzo settore.

Venendo infine alla analisi dell’ultimo dei tre piani di intervento che caratterizzano l’azione del P.M. di fasce deboli, come evidenziato all’inizio della presente relazione la indispensabile multisettorialità degli interventi finalizzati al contrasto alla violenza domestica impone al Magistrato del Pubblico Ministero di assumere un ruolo di stabile interlocutore istituzionale.

A tal proposito, il Csm ha elaborato buone prassi in materia di rapporti tra le Procure della Repubblica e le reti territoriali antiviolenza, i presidi sanitari, i servizi sociali e le altre A.G.

L’analisi complessive delle buone prassi illustrate dal Csm nella Risoluzione di maggio 2018 evidenzia la necessità di istituire protocolli ed accordi con i vari interlocutori, finalizzati a stimolare l’emersione di forme sommerse di violenza ed accompagnare le vittime nel percorso che sfocia nella scelta di sporgere querela e nei successivi drammatici passaggi processuali.

Interessanti risulta il passaggio in un cui il Consiglio evidenzia la sussistenza di una lacuna normativa in ordine alla interlocuzione tra le A.G. in tema di violenza domestica. Invero, come rileva il Consiglio, l’art. 609 decies c.p.p. individua l’interlocutore della Procura ordinaria nel Tribunale per i minorenni, il cui intervento richiederebbe, tuttavia, il necessario deposito, nel relativo fascicolo, degli atti di indagine dai quali emergono condotte illecite in danno dei minori. Pertanto, la soluzione del problema è di fatto affidata alla collaborazione spontanea tra magistrati e, in particolare, tra Procura ordinaria e minorile.

La comunicazione tra gli uffici si impone anche per coordinare la fase dell’esecuzione di misure cautelari disposte nei confronti dell’autore della violenza o dell’abuso e concordare un intervento concomitante dei servizi sociali per la presa in carico dei minori che erano affidati al soggetto attinto da misura cautelare.

Il coordinamento è indispensabile per evitare situazioni di abbandono e tutelare i superiori interessi dei minorenni.

Infine, una collaborazione tra gli Uffici si impone anche con riferimento alla pendenza di giudizi di separazione o divorzio tra i genitori, ove occorra adottare misure a tutela di un minore. Infatti, a fronte delle competenza concorrenti tra le diversi autorità giudiziarie civili e minorili e delle relative complesse questioni di competenza (si pensi alle problematiche interpretative scaturenti dall’art. 38 disp. att. codice civile, la cui analisi tuttavia necessiterebbe di un intervento a parte), si corre il rischio di una paralisi dell’attività, con conseguente esigenza di coordinamento istituzionalizzato e formalizzato.

Da ultimo, occorre sottolineare il ruolo di crescente rilevanza assunto negli ultimi anni dalla reti territoriali antiviolenza, ubicate nei diversi contesti territoriali ed impegnate nella prevenzione e nel contrasto della violenza di genere.

Utilissimo è il ruolo svolto dagli Enti facenti parti delle reti antiviolenza, in considerazione del fatto che si occupano (tra le altre cose) di individuare immediatamente strutture presso cui accogliere le vittime di violenza, nei casi in cui si imponga il loro urgente allontanamento.

Inoltre, tali Enti svolgono frequentemente una attività di supporto alle vittime, anche psicologico.

Appare del tutto evidente la rilevanza del raccordo tra P.M. e strutture territoriali, anche in ottica di concreta applicazione del disposto di cui all’art. 90 bis c.p.p., che alla lettera p) contempla un espresso riferimento a tali strutture.

In conclusione, si può affermare come il ruolo del P.M. c.d. di fasce deboli sia estremamente complesso e richieda (per essere svolto al meglio) doti che vadano oltre la professionalità strettamente giurisdizionale.