Relazione introduttiva di Rossella Marro al 3° Congresso di Unità per la Costituzione

Benvenuti al terzo congresso di Unità per la Costituzione, un nuovo inizio.

Prima della relazione introduttiva del congresso, affidatami in qualità di presidente del gruppo di Unità per la Costituzione e, peraltro, alla scadenza di un mandato che per me è stato tanto impegnativo quanto entusiasmante, consentimenti di porgere a tutti gli intervenuti il saluto, non rituale ma sentito, del gruppo di Unicost. E’ doveroso per me rivolgere poi una serie di ringraziamenti. Ringrazio gli illustri relatori della tavola rotonda, il presidente emerito, Giovanni Canzio, i professori, Giovanna de Minico e Giuseppe Campanelli, il direttore del centro studi Nino Abbate, Antonio Balsamo, la collega, sostituto procuratore generale, Cristina Marzagalli, e Giulia Merlo, volto noto degli eventi di Unicost, nel ruolo di moderatrice. Ringrazio ancora i politici, i giornalisti, gli avvocati e i colleghi che parteciperanno al dibattito congressuale, che sono sicura sarà ispiratore per tutti noi e consentirà al gruppo che rappresento di elaborare una produttiva mozione congressuale. Un particolare, caloroso ed affettuoso ringraziamento devo al comitato organizzatore dell’evento, nelle persone di Valentina Ricchezza, instancabile segretaria del centro studi, Chiara Salamone e Carla Di Filippo, della direzione nazionale, Piero Indinnimeo della segreteria distrettuale di Salerno, che hanno compiuto un lavoro davvero enorme.

La mia breve introduzione al tema congressuale non ha la pretesa di usurpare il ruolo dei relatori, ma solo per fornire un contributo al dibattito che sono certa sarà ampio e costruttivo. Non affronterò il tema del merito delle riforme ma cercherò di evidenziare, in modo certamente non esaustivo, lo spirito che anima le stesse e le ragioni di fondo della opposizione della magistratura.

Il tema congressuale non è nuovo. Se si scorrono i documenti presenti negli archivi dell’ANM, vediamo che gli esponenti dell’associazionismo giudiziario da almeno cinquanta anni denunciano come la magistratura sia esposta a subire le conseguenze delle tensioni, degli scontri, delle lacerazioni innescate dei conflitti che è chiamata a dirimere.

In quei documenti, che rappresentano un materiale prezioso cui attingere per riflessioni non solo storiche ma anzi fortemente attuali anche oggi, si denunciano i tentativi di ridimensionamento dell’autonomia ed indipendenza della magistratura da parte di proposte di riforme costituzionali e di riforme ordinarie che si sono succedute fin dagli anni 80, ossia dall’epoca immediatamente successiva a quella in cui possiamo dire è stata attuata la trama ordinamentale disegnata dalla Costituzione, con la cancellazione  di ogni tentazione gerarchica e l’affermazione del principio di indipendenza e autonomia quale garanzia del principio di eguaglianza di tutti i cittadini. Basti pensare alle leggi Breganze e Breganzone che abolirono tra il 1966 ed il 1973 la progressione di carriera per concorso, stabilendo quella per anzianità con una valutazione del Csm. Superare questa idea di carriera ha attuato il principio che in magistratura ci si distingue solo per diversità di funzioni e che il magistrato è tale con la stessa dignità, quale che sia la sua collocazione negli uffici: l’idea, cioè, di una magistratura diffusa e di pari dignità, non più distinta tra alta e bassa. 

Non dimentichiamo mai che i valori della giurisdizione sono scritti nella formulazione attuale della Costituzione o da essa si desumono: autonomia e indipendenza del magistrato, sua soggezione soltanto alla legge, inamovibilità (a garanzia dell’indipendenza), pari dignità delle funzioni, terzietà e quindi imparzialità. Sono valori chiari, espressione di un ordinamento democratico retto dal principio di legalità, senza il quale non può esserci Stato di diritto.

Ed in questo percorso di attuazione dei principi costituzionali, non dimentichiamo neanche questo, un contributo fondamentale è stato fornito proprio dalla magistratura e, in particolare, dalla magistratura associata, che ha promosso il percorso di acquisizione di consapevolezza della Magistratura, con un associazionismo impegnato e pieno di fermenti, caratterizzato anche da forti scontri ideologici, ma sempre all’interno di un quadro di valori costituzionali di riferimento condivisi.

E, quindi, se le tensioni hanno animato i rapporti tra magistratura e politica fin dagli anni ’80, si impone una prima necessaria considerazione. La tensione tra l’ordine giudiziario, che esercita il controllo di legalità diffuso, ed il potere politico è un fatto connaturale al principio di separazione dei poterei e, più in generale, ai sistemi democratici. Non dobbiamo meravigliarci e, del resto, come ho detto, questa tensione permane da anni nel nostro Paese. E anzi dobbiamo compiacerci che essa sia presente – entro limiti di continenza, ovviamente – perché è sintomo che ci troviamo in uno Stato di diritto ed in un paese democratico. Se un giorno queste tensioni non saranno più registrate vorrà dire che qualcosa non ha funzionato.

Un altro aspetto del malessere che attraversa il rapporto tra magistratura e politica dipende dalla valenza politica che viene talvolta attribuita ai provvedimenti giudiziari di un certo rilievo, come se il loro metro di valutazione fosse da ricercare non nelle leggi o nei principi generali del nostro ordinamento giuridico, bensì convinzioni politiche più o meno contingenti. Anche questo tema è attuale da diversi decenni! Ci sarebbe da dire “nulla di nuovo sotto il sole”, ma non è proprio così perché molto diverso è il contesto generale attuale rispetto a quello degli anni ‘80.

Sia ben chiaro, il magistrato non è chiamato a combattere fenomeni, non è portatore di “fini politici”, perché la individuazione dei fini spetta solo alla politica, ma è tenuto a rendere giustizia nel rispetto delle regole. Ma è qua che viene il difficile, perché l’interpretazione delle norme non è estranea alle scelte di valore e all’interprete spetta il gravoso compito di interpretare la legge nell’ambito del più ampio contesto dei principi costituzionali ed europei. L’attività di interpretazione intesa come contemperamento di interessi diversi è del resto riconosciuta dalla stessa Corte Costituzionale che a partire dalla nota decisione 85/2013 (il caso riguardava alcune misure sullo stabilimento Ilva di Taranto e la necessità di trovare un equilibrio tra diritto alla salute, diritto al lavoro, diritto ad un ambiente pulito e valore economico della produzione) ha affermato che “nessun diritto è tiranno”. Ogni diritto, compresi quelli costituzionali, deve essere bilanciato con diritti e principi concorrenti, in quanto nessuna costituzione esistente stabilisce una gerarchia definita di diritti e principi. Si tratta di un’operazione, quella interpretativa, quindi, tutt’altro che semplice e sicuramente non meccanica, rispetto alla quale il giudice fa ricorso ai principi e alle carte fondamentali, anche internazionali, avendo come faro assoluto il principio di eguaglianza sostanziale che illumina tutto il percorso.

Nessuno mette in dubbio che sia legittimo criticare i provvedimenti giudiziari, ma sempre più spesso si assiste ad un’attività di attacco diretto alle persone dei magistrati per l’attività di interpretazione costituzionalmente orientata, come se l’attività di interpretazione della legge nell’ambito del più ampio contesto dei principi costituzionali ed europei fosse da bollare come attività eversiva e non come espressione dei più alti principi di una democrazia matura. Si avverte disagio dinanzi ad una attività che quotidianamente tutti i magistrati compiono ma che, evidentemente, balza agli onori della cronaca solo quando investa determinati settori della vita del Paese.

L’attacco cui assistiamo, anche attraverso iniziative disciplinari ministeriali o dichiarazioni scomposte, è al cuore del lavoro del giudice, l’interpretazione della legge, e per tale via diventa un attacco alla giurisdizione e dunque al sistema di tutela dei diritti dei cittadini. Ciò che viene invocata non è la figura di un magistrato imparziale e che appaia tale, ma la figura di un magistrato allineato a quello che potremmo definire lo SPIRITO POLITICO DEL TEMPO.

Ciò che viene minacciata per tale strada è la stessa separazione dei poteri.

Operare deliberatamente per minare la fiducia dei cittadini nei magistrati mette in crisi uno dei fondamenti della convivenza civile. Tutto ciò è avvenuto e continua ad avvenire; noi non cessiamo di auspicare, nell’interesse generale, che si verifichi un mutamento.

Poi c’è il lungo ed estenuante elenco di riforme mancate, di riforme sbagliate, di interventi organizzativi attesi e non realizzati, di mezzi e di strutture non forniti, il dramma di dover affrontare nelle attuali condizioni gli immani problemi posti da fenomeni sempre più vasti e articolati di criminalità organizzata, l’amara consapevolezza che, nonostante gli sforzi profusi, l’istituzione giudiziaria non riesce a rispondere adeguatamente alla domanda di giustizia che viene dai cittadini.

È vero che oggi la giustizia non risponde ai bisogni e alle aspettative. Ma ciò non è dovuto di certo ai principi costituzionali, bensì all’inadeguatezza degli interventi normativi strutturali e alla sproporzione tra gli innumerevoli compiti, anche di supplenza, da cui viene gravata la giurisdizione e le risorse che vengono destinate alla giustizia.

A fronte dell’allarmante crescita della criminalità organizzata, orami diffusa su tutto il territorio nazionale ed infiltrata nei gangli economici e politici del Paese, e alla diffusione dei fenomeni di corruzione della vita politica e amministrativa, reati che richiedono la massima attenzione della politica ed il massimo impegno della magistratura, assistiamo al permanere di un’enorme massa di disposizioni penali che sopravvivono nonostante la loro inutilità, inadeguatezza ed inefficacia. Si celebrano migliaia di processi per reati di minima rilevanza e, addirittura, si introducono sempre nuovi reati, spesso sintomo di disagio sociale. La magistratura diventa l’anello terminale su cui scaricare una serie indefinita di inefficienze amministrative. Oggi è più forte che mai la tentazione di trasferire tutto, o comunque troppo, sulla magistratura. Non è più soltanto questione di supplenza, cioè di necessità di occupare spazi che altri poteri avrebbero dovuto gestire, quella c’è tutta, basti pensare, non solo, ai temi eticamente sensibili, ma anche al riordino della disciplina in materia di licenziamenti, settori rispetto ai quali, nonostante la sollecitazione della Corte Costituzionale, non si legifera. Si tratta di addossare sulla magistratura gran parte delle inefficienze amministrative. Dinanzi ad un fenomeno non si prova neanche ad intervenire in via preventiva, con strumenti di tutela sociale o con controlli di natura amministrativi, si lascia che tutto diventi patologia e, in particolare, patologia penalmente rilevante.   

Queste scelte di politica criminale aggravano ancora di più la già critica situazione carceraria. Il tema del carcere non è solo legato alla insufficienza delle strutture, insufficienza fisiologica in considerazione dell’aumento della popolazione carceraria legata all’aumento della popolazione del paese negli ultimi 50 anni anche per effetto dei fenomeni di immigrazione. Esso è legato anche a scelte di politica criminale, fortemente accentuate negli ultimi anni, che hanno visto interventi con i quali sono stati introdotti nuovi reati, sono state aumentate le pene di quelli esistenti, e sono state previste nuove condizioni ostative per l’accesso alle misure alternative al carcere. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Le ultime rilevazioni, parliamo di aprile 2025, danno una popolazione carceraria pari a 62.445 a fronte di 51.292 posti disponibili. I minori ristretti negli istituti loro dedicati sono aumentati di oltre il 50% dal 2023 ad oggi, mettendo in crisi tutto il sistema della giustizia minorile. L’attuale situazione, oltre ad essere contraria ai principi di civiltà, pregiudica evidentemente l’attuazione del principio di rieducazione della pena, previsto dall’art. 27 della Costituzione, ed aggrava di conseguenza il rischio concreto di recidiva nel reato, a danno non solo del singolo ma di tutta la collettività.

C’è da dire – è veniamo alla situazione di contesto – che questa forte spinta al ridimensionamento del ruolo e della funzione della giurisdizione ed all’aggravamento delle cause di inefficienza del sistema giudiziario, coglie la magistratura in una fase di debolezza. Una debolezza determinata da carichi di lavoro ingovernabili e crescenti e da carenze di persone e mezzi che danno luogo ad una situazione di obiettiva, anche se in gran parte incolpevole, inefficienza del sistema. Carico di lavoro che, in ogni caso, non ha scoraggiato i magistrati italiani dal raccogliere la sfida degli obiettivi del PNRR, con risultati ragguardevoli riconosciuti dallo stesso ministro Nordio, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario a Napoli. Hanno concorso, senza dubbio, all’attuale situazione di crisi l’opera di delegittimazione della magistratura portata avanti da diversi decenni, unitamente, non lo nascondiamo, a responsabilità interne, per non essere stati in grado di resistere alle sirene del clientelismo e dei rapporti insani con centri di potere.

Non vi è dubbio che anche la magistratura associata stia attraversando una fase di crisi propria di tutti i corpi intermedi del nostro paese.

Zygmunt Bauman (“Modernità liquida”, editori GLF, Laterza, 2011), nella sua analisi della società moderna, definisce la società “liquida” come caratterizzata da un’estrema instabilità e precarietà delle relazioni sociali, economiche e culturali. Questa liquidità si riflette anche nel “dissolvimento” dei corpi intermedi, ossia delle organizzazioni che tradizionalmente rappresentano gli interessi dei cittadini e delle comunità.  Ed invece il ruolo di mediazione dei corpi intermedi è fondamentale, in quanto proprio nella crisi dei corpi intermedi, che porta con sé la perdita di senso di appartenenza, contribuendo a un clima di insicurezza e di paura, si annida la crisi delle democrazie.

In questo contesto ora più che mai non vanno demonizzate le correnti della magistratura. Mi rivolgo soprattutto ai più giovani. Il ruolo della magistratura che si esprime attraverso i suoi corpi intermedi, è un ruolo fondamentale, e direi, in questo momento storico, cruciale. La narrazione dei gruppi associati della magistratura come il male assoluto è una narrazione errata e pericolosa.

La storia dell’Associazione Nazionale Magistrati è la storia della magistratura italiana e la magistratura è diventata migliore, davvero costituzionale, come la storia ci insegna, proprio grazie alle battaglie che negli anni sono state condotte dall’ANM.

Come molti di voi sanno, nell’anno 2020, vi è stata una grande attività di rinnovamento del gruppo di Unità per la Costituzione, che ha dato luogo ad una impegnativa e coinvolgente costituente e alla riscrittura delle regole interne, nel solco della continuità con la tradizione del gruppo e con il buono che quella tradizione rappresenta e con  lo sguardo rivolto al futuro, in un’ottica di rinnovamento morale e con una elaborazione culturale ambiziosa che si è tradotta  in una serie di iniziative associative e istituzionali. Tra queste cito la proposta del TU della dirigenza del gruppo consiliare di Unità per la Costituzione, espressione della volontà di abbandonare il facile e inefficace percorso del capro espiatorio, a fronte dei rischi di degenerazione, e di dare corso invece ad un percorso di trasparenza nella riscrittura delle regole di ingaggio per i nevralgici ruoli dirigenziali.

La realtà associativa in magistratura è in continuo movimento, e la magistratura è in grado, come ha dimostrato più volte, di trovare in sé gli anticorpi per reagire alle degenerazioni e di rinnovarsi nell’impegno per il bene comune.

E, come in passato, anche oggi la magistratura è impegnata nella denuncia dei rischi di riforme che minano l’assetto costituzionale dei rapporti tra i poteri dello Stato, come disegnato dai padri costituenti. 

A fronte dei gravi rischi che possono conseguire alla riforma costituzionale in corso di approvazione, la reazione della magistratura è stata forte e compatta, pur riemergendo in tutta la loro evidenza le diverse sensibilità culturali dei gruppi associativi. Lo sciopero del 27 febbraio 2025, indetto dal CDC dell’ANM, in attuazione del deliberato dell’Assemblea Generale dell’ANM del 15 dicembre 2024, ha ricevuto l’adesione dell’80% dei magistrati italiani, un risultato che è andato ben oltre le più rosee aspettative e che deve renderci orgogliosi del grado di sensibilità e consapevolezza dell’ordine giudiziario.

Siamo solo all’inizio e occorrerà l’impegno di tutti.

Abbiamo il dovere di spiegare ai cittadini che il drastico ridimensionamento del controllo giudiziario prima di ogni altra cosa colpisce l’effettività dei loro diritti. Qualche spiraglio si apre tra l’avvocatura, soprattutto per l’aspetto della riforma costituzionale relativa alla creazione di un Csm per i soli pubblici ministeri, disposizione che rischia di rafforzare in modo spropositato la funzione inquirente e di indebolire quella giudicante, ad onta dei proclami delle forze politiche che sostengono la riforma. L’avvocatura deve essere il nostro interlocutore principale. Abbandoniamo tutti le sterili contrapposizioni! La riforma è prossima all’approdo parlamentare e, verosimilmente, si giungerà al referendum. Non perdiamo la fiducia. Finora i cittadini italiani hanno sempre risposto quando sono state proposte modifiche costituzionali che incidevano fortemente sull’impianto fondamentale della nostra Carta costituzionale. Dobbiamo credere cha accadrà anche questa volta!

Con questo auspicio, dichiaro aperti i lavori del Congresso!

Rossella Marro

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