Relazione Massimario del 16.3.2017 su “Misure di prevenzione: pericolosità sociale qualificata”

di Debora Tripiccione

Rel. n. 23/17

Roma, 16 marzo 2017

Recenti orientamenti IN TEMA DI attualità della pericolosità SOCIALE “QUALIFICATA” e possibili ricadute sulla disciplina delle  misure di prevenzione della sentenza CEDU De Tommaso c. Italia

OGGETTO:   618023-SICUREZZA PUBBLICA – MISURE DI PREVENZIONE – APPARTENENTI AD ASSOCIAZIONI MAFIOSE– Pericolosità – Attualità – Presunzione – Sussistenza – Condizioni –  Orientamento  di giurisprudenza.

RIF. NORM.:D.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, artt. 1, 4 e 6.

1. Il tema dell’attualità della pericolosità sociale dell’indiziato di appartenenza ad una associazione di stampo mafioso ha visto emergere negli ultimi anni differenti opzioni ermeneutiche nella giurisprudenza di legittimità. Un primo orientamento, affermatosi sin dalla vigenza della l. 31 maggio 1965, n. 575 ed oggi di gran lunga maggioritario, partendo dalla fenomenologia delle organizzazioni di stampo mafioso e, in particolare, dalla stabilità dello stesso vincolo associativo, ritiene tale requisito implicito nell’accertata appartenenza alla consorteria. Si sono, tuttavia, registrati numerosi arresti che, pur condividendo tale impostazione metodologica, se ne sono discostati nel caso in cui sia decorso del tempo tra la manifestazione del quadro indiziario ed il giudizio di prevenzione. L’adesione all’una o all’altra opzione ermeneutica presenta dei notevoli risvolti pratici, soprattutto sul piano delle metodiche di indagine e degli elementi informativi da sottoporre al giudice della prevenzione. Scopo della presente relazione è quello di offrire una riflessione ragionata su tali orientamenti ermeneutici e sui loro possibili sviluppi anche alla luce dei principi recentemente affermati dalla sentenza della Grande Camera della Corte Edu nel caso De Tommaso c. Italia che, sebbene relativa alla misura della sorveglianza speciale applicata in una fattispecie di pericolosità “semplice” ai sensi della l. 1423/1956, ha espresso una posizione particolarmente critica verso il sistema italiano della prevenzione.

2. Secondo l’orientamento maggioritario, una volta che risulti adeguatamente dimostrata l’appartenenza del proposto ad un’associazione di stampo mafioso, non è necessaria alcuna particolare motivazione sull’attualità della pericolosità <<che discende dalla nota, stabile e pervasiva capacità criminale delle organizzazioni mafiose>>  (Sez. 6, n. 8106 del 21 gennaio 2016, Pierro, Rv. 266155). Tale presunzione di attualità della pericolosità resiste anche nel caso in cui intercorra un lasso di tempo tra la formulazione del giudizio di prevenzione e l’epoca dell’accertamento in sede penale o, comunque, della manifestazione degli indizi dell’adesione del proposto al sodalizio mafioso, salvo che emergano elementi dai quali desumere il suo recesso dall’associazione. Si afferma, infatti, che <<l’appartenenza all’associazione di tipo mafioso implica di per sé una latente e permanente pericolosità sociale del soggetto>> che può essere esclusa solo ove sia acquisita la prova del recesso del proposto da quella organizzazione o della disintegrazione della stessa (Sez. 5, n. 32353 del 16 maggio 2014, Grillone, Rv. 260483. In senso conforme: Sez. 6, n. 52775 del 10/11/2016, Failace,  Rv. 268622; Sez. 6, n. 8106 del 21 gennaio 2016, Pierro, Rv. 266155; Sez. V, n. 43490 del 18 marzo 2015, Nirta, Rv. 264927; Sez. 2, n. 24782 del 9 marzo 2015, Pesce, Rv. 264367; Sez. 6, n. 41977 del 1 ottobre 2014, Cennamo, Rv. 260437; Sez. 5, n. 17067 del 10 gennaio 2014, Prano, Rv. 262849; Sez. 2, n. 29478 del 5 luglio 2013, Badalamenti, Rv. 256178; Sez. 5, n. 3538 del 22 marzo 2013, Zagaria, Rv. 258658; Sez. 2, n. 3809 del 15 gennaio 2013, Castello, Rv. 254512). In particolare, si è affermato che, qualora la misura di prevenzione riguardi una persona indiziata dei reati di cui all’art. 4, d.lgs. n. 159 del 2011, la verifica dell’attualità della pericolosità<<piuttosto che sull’esame degli indicatori della stessa in positivo, richiede il superamento degli eventuali elementi negativi, emersi o allegati, dai quali risulti che il proposto sia non più pericoloso>>.

3. La Sesta sezione penale, con decisione assunta in data 11 novembre 2016, n. 51666, Rindone, Rv. 268087, ha, invece,  affermato che <<la presunzione di attualità della pericolosità sociale non è assoluta ed è destinata ad attenuarsi, facendo risorgere la necessità di una puntuale motivazione sul punto, nel caso in cui gli elementi rivelatori dell’inserimento del proposto nel sodalizio siano lontani nel tempo rispetto al momento del giudizio. Nella specie, è stata ritenuta viziata la valutazione di attualità della pericolosità sociale, fondata su una condanna per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. e su un procedimento penale specifico, relativi a fatti risalenti fino a sette anni prima l’emissione del decreto applicativo della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, successivamente ai quali non era stato acquisito nessun ulteriore elemento rivelatore dell’attualità dell’appartenenza del proposto al sodalizio>>.

La sentenza ha affrontato il tema della pericolosità qualificata anche con riferimento alla confisca di prevenzione. E’ stato, infatti, annullato con rinvio  il decreto della Corte d’Appello sul punto relativo alla confisca di due terreni acquistati dal ricorrente rispettivamente negli anni 1996 e 1992, nonchè di un fabbricato ivi realizzato nel 1995. Richiamando il principio di diritto affermato da Sez. U, n. 4880 del 26/06/2014, Spinelli, Rv. 262605, la Corte ha ritenuto che lo iato temporale intercorrente tra l’epoca dell’acquisto degli immobili e l’accertamento dell’appartenenza del proposto ad un’associazione di tipo mafioso (riferito ad una condotta perdurante dal 2000 al 2007), pur non implicando di per sé l’esclusione della pericolosità qualificata in epoca antecedente il 2000 (ciò, soprattutto, in considerazione del ruolo di vertice attribuito al proposto in una conversazione telefonica), richiedeva un’apposita verifica relativa alla riconducibilità degli acquisti ad un periodo in cui sussisteva una situazione di pericolosità.

Questa sentenza si inserisce nell’ambito di un significativo filone giurisprudenziale che, pur ammettendo la configurabilità di una  presunzione di attualità della pericolosità sociale conseguente alla  accertata appartenenza del proposto ad un’associazione di tipo mafioso, ritiene che, nel caso in cui gli elementi rivelatori del suo inserimento nell’organizzazione criminale siano risalenti nel tempo, si determina un’attenuazione di tale presunzione che fa risorgere la necessità di una puntuale motivazione sulla persistenza della pericolosità al momento della formulazione del giudizio di prevenzione (Sez. 6, n. 52607 del 30/11/2016, Emma; Sez. 5, n. 1831 del 17 dicembre 2015, Mannina, Rv. 265863; Sez. 2, n. 39057 del 3 giugno 2014, Gambino, Rv. 260781; Sez. 1, n. 17932 del 10/03/2010, De Carlo, Rv. 247053; Sez. 1, n. 20948 del 7 maggio 2008, Longo, Rv. 240422; Sez. 5, n. 34150 del 22 settembre 2006, Commisso, Rv. 235203; Sez. 1, n. 44151 del 5 novembre 2003, Gulletta, Rv. 226608).

La soluzione offerta trova fondamento sia nel dato testuale dell’art. 6, comma 1, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, che nei principi costituzionali. Sotto il primo profilo, osserva il Collegio, l’art. 6, comma 1, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159,  impone un apprezzamento della pericolosità per la sicurezza pubblica per tutte le categorie  di soggetti cui possono essere applicate le misure di prevenzione personale, senza distinguere tra indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso e soggetti sussumibili nelle altre classi previste dall’art. 4 del d.lgs. n. 159 del 2011. Il giudice, pertanto, deve dare conto dell’esistenza dell’attualità della pericolosità, senza presumerla sulla base di un postulato di principio che renderebbe la motivazione meramente apparente. La Corte ha, inoltre, considerato la giurisprudenza della Corte Costituzionale e, in particolare, la sentenza n. 291 del 2013 con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 15 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, <<nella parte in cui non prevede che, nel caso in cui l’esecuzione di una misura di prevenzione personale resti sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della persona ad essa sottoposta, l’organo che ha adottato il provvedimento di applicazione debba valutare, anche d’ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell’interessato nel momento dell’esecuzione della misura>>. Nel percorso motivazionale della decisione, emessa nell’ambito di un procedimento relativo a persona indiziata di appartenenza ad un’associazione di tipo mafioso, il Giudice delle leggi ha, infatti, affermato che <<il decorso di un lungo lasso di tempo incrementa la possibilità che intervengano modifiche dell’atteggiamento del soggetto nei confronti dei valori della convivenza civile>>, soprattutto nel caso in cui sia stato sottoposto ad un trattamento specificamente volto alla sua risocializzazione, ed ha, pertanto, stigmatizzato la necessità  della persistenza della pericolosità sociale tanto al momento della decisione che al momento della esecuzione della misura di prevenzione personale. Secondo la sentenza Rindone, da tale decisione emerge, dunque,<<l’esigenza, costituzionalmente rilevante, di evitare presunzioni assolute di attualità della pericolosità e di attribuire, a questi fini, specifica attenzione al fattore tempo, anche a prescindere da eventuali periodi di detenzione sofferti dall’interessato>>.

4. Nell’ambito della giurisprudenza più esigente nella valutazione dell’attualità della pericolosità sociale, si segnala un orientamento particolarmente rigoroso che, in linea con la giurisprudenza della Corte Costituzionale sopra citata, esclude l’ammissibilità di una presunzione di pericolosità derivante esclusivamente dall’esito di un precedente procedimento penale e, specie nei casi in cui sia decorso un  apprezzabile intervallo di tempo tra i fatti oggetto del procedimento penale e la formulazione del giudizio di prevenzione, richiede al giudice una verifica in concreto dell’attualità della pericolosità sociale, ritenendo insufficiente, ai fini dell’applicazione della misura di prevenzione personale, la sua iscrizione in una delle categoria criminologiche previste dall’art. 4, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (Sez. 6, n. 5267 del 14/01/2016, Grande Aracri, Rv. 266184; Sez: 6, n. 50128 del 11/11/2016, Aguì, Rv. 261215; Sez. 1, n. 23641 del 11/02/2014, Mondini, Rv. 260104;  Sez. 5, n. 2922 del 06/11/2013, Belcastro, Rv. 257938 con riferimento ad una associazione finalizzata al commercio di sostanze stupefacenti). In particolare, la sentenza Mondini, pur ammettendo la possibilità che l’esito dell’accertamento in sede penale possa riflettersi sulla formulazione della prognosi di pericolosità, ha affermato che, anche nel caso di accertata appartenenza del proposto ad un’associazione di tipo mafioso, qualora sia decorso un apprezzabile lasso di tempo  tra tale accertamento e il momento della formulazione del giudizio di prevenzione, il giudice della prevenzione ha l’obbligo <<di considerare e valutare, in assenza di altri sintomi, se la condotta antisociale sia in concreto riproducibile dal proposto>>. In tal caso, la sentenza, individua tre indicatori su cui fondare la prognosi di pericolosità: <<a) il livello di coinvolgimento del proposto nelle pregresse attività del gruppo criminoso, essendo ben diversa la potenzialità criminale espressa da un soggetto  di ‘vertice’ rispetto a quella di chi ha poso in essere condotte di mero ausilio operativo o di episodica contiguità finalistica; b) la tendenza del gruppo di riferimento a mantenere intatta la sua capacità operativa nonostante le mutevoli composizioni soggettive correlate ad azioni repressive dell’autorità giudiziaria, posto che solo in detta ipotesi può ragionevolmente ipotizzarsi una nuova ‘attrazione’ del soggetto nel circuito relazionale illecito; c) l’avvenuta o meno manifestazione, in tale intervallo temporale, da parte del proposto di comportamenti denotanti l’abbandono delle logiche criminali in precedenza condivise>>.

La rilevanza di tali indici è stata successivamente ribadita da Sez. 6, n. 5267 del 14/01/2016, Grande Aracri, Rv. 266184, che ha valorizzato anche la mancanza di prove della cessazione del gruppo associativo e l’assenza di comportamenti del proposto sintomatici del suo recesso dal sodalizio (In senso conforme, con riferimento agli indici rivelatori dell’attualità della pericolosità sociale, Sez. 6, n. 52607 del 30 novembre 2016, Emma). In un precedente arresto (Sez. 1, n. 44327 del 18/07/2013, Gabriele, Rv. 257637) è stata, invece, esclusa la valenza indiziaria della mancanza di una scelta di collaborazione con la giustizia, ritenuta  non dirimente al fine di escludere il cambiamento della scelta di vita del proposto e di affermare l’attualità della sua pericolosità sociale.

5. La sentenza Rindone è stata letta come portatrice di un mutamento di giurisprudenza in tema di valutazione dell’attualità della pericolosità sociale tanto che, con nota del 6/02/2017, il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Catania, ha chiesto che tale argomento fosse affrontato nella prossima riunione dei Procuratori Generali ai sensi dell’art. 6 d.lgs. 106/2006. Ciò anche ai fini di una opportuna modifica dei protocolli di indagine sino ad oggi adottati.

Le due tematiche affrontate dalla sentenza Rindone, sono state oggetto di  separato esame da parte della Procura Generale presso la Corte di cassazione.  Quanto alle misure di prevenzione personale, è stata, infatti, condivisa la soluzione adottata dalla sentenza. Osserva, infatti, la Procura, richiamandosi alla requisitoria presentata in occasione di tale processo, che nel caso in cui le manifestazioni sintomatiche dell’appartenenza/intraneità del proposto al sodalizio criminale siano distanti nel tempo, il ricorso al meccanismo presuntivo proposto dall’opzione ermeneutica maggioritaria verrebbe a snaturare scopi e funzioni dello stesso sistema della prevenzione, esponendolo anche a possibili interventi censori della Corte Edu.

Quanto, invece, al rapporto tra “pericolosità qualificata” e misure di prevenzione patrimoniale, ad avviso della Procura Generale, la sentenza Rindone si presta ad una duplice interpretazione in senso, ora difforme,  ora conforme, alle linee guida tracciate da Sez. U, n. 4880 del 26/06/2014, Spinelli, Rv. 262605. Tale pronuncia, infatti, nel delineare una sorta di doppio binario tra pericolosità generica e pericolosità qualificata, ha affermato che la pericolosità sociale, oltre ad essere presupposto ineludibile della confisca di prevenzione, è anche “misura temporale” del suo ambito applicativo; tuttavia, con riferimento alla c.d. pericolosità qualificata, il giudice deve accertare se questa investa, come ordinariamente accade, l’intero percorso esistenziale del proposto, o se sia individuabile un momento iniziale ed un termine finale della pericolosità sociale, al fine di stabilire se siano suscettibili di ablazione tutti i beni riconducibili al proposto ovvero soltanto quelli ricadenti nel periodo temporale individuato.

Ciò premesso, ad avviso della Procura Generale, la sentenza Rindone potrebbe essere interpretata nel senso che, anche nei casi di accertata appartenenza associativa protratta per un lungo periodo di tempo, è, comunque, necessario verificare se i beni sono stati acquistati nell’arco temporale in cui si è manifestata la pericolosità. Di contro, secondo una diversa interpretazione conforme ai principi affermati dalle Sezioni Unite, la sentenza si sarebbe limitata a richiedere che nel giudizio di rinvio si accerti se la pericolosità qualificata ha investito l’intero percorso esistenziale del proposto ovvero un determinato periodo di tempo di cui siano individuabili un termine iniziale ed un termine finale.

6. Va, infine, segnalato che in un recente arresto della Grande Camera della Corte EDU del 23/02/2017, relativo al caso De Tommaso c. Italia (allo stato disponibile nei soli testi in lingua francese e inglese), la Corte ha affermato principi che potrebbero avere rilevanza sul tema oggetto della presenza relazione.

La Corte EDU è stata, infatti, investita della questione relativa alla conformità della misura di prevenzione della sorveglianza speciale (nella fattispecie con obbligo di soggiorno) applicata ai sensi della l. 1423/1956, in vigore all’epoca dei fatti, agli artt. 5, 6 e 13 della CEDU, nonché all’art. 2, Protocollo n. 4 addizionale alla CEDU.  Il caso esaminato, sebbene relativo alla fattispecie della c.d. pericolosità semplice, presenta delle analogie con quello affrontato dalla sentenza Rindone.

Il ricorrente, infatti, era stato sottoposto alla misura di prevenzione con decreto emesso nell’aprile del 2008 sulla base di due precedenti condanne per contrabbando e traffico di sostanze stupefacenti, risalenti  a cinque anni prima  (in relazione alle quali aveva scontato una pena detentiva di quattro anni di reclusione dal luglio del 2002 al dicembre del 2005), delle sue frequentazioni malavitose e della mancanza di una stabile occupazione lavorativa. Erano state, inoltre, considerate due violazioni dell’avviso orale che, solo in sede di appello, si accertava commesse da un omonimo del ricorrente. Tale decreto veniva successivamente revocato nel 2009 dalla Corte di Appello che, in considerazione di tale errore di persona, dell’attività lavorativa svolta dal ricorrente sin dal 2005 e del fatto che lo stesso, dopo avere scontato la pena, non aveva commesso ulteriori reati, aveva escluso il requisito dell’attualità della pericolosità sociale.

La Corte Edu ha riconosciuto che vi era stata una violazione sia dell’art. 2, Prot. n. 4 CEDU, che dell’art. 6 CEDU, avuto riguardo allo svolgimento del processo in assenza di pubbliche udienze (questione ormai superata alla luce dell’art. 7, d.lgs. 159/2011), escludendo, invece, la violazione delle altre norme convenzionali.

In particolare, per quanto interessa ai fini della presente relazione, la Corte, dopo un esame della giurisprudenza della Corte Costituzionale e di due soli arresti della Corte di cassazione (Sez. U, n. 10281 del 25/10/2007,  Gallo, Rv. 238658 e Sez. 1, n. 23641 del 11/02/2014, Mondini, Rv. 260104), nonché del quadro normativo di riferimento, ha escluso, sia pure non all’unanimità, l’applicabilità dell’art. 5 CEDU, circoscritto ai soli casi di privazione della libertà[1]. Ad avviso dei Giudici di Strasburgo, l’applicazione della misura di prevenzione personale comporta, invece, una restrizione della libertà di circolazione e di movimento, tutelata dall’art. 2, Prot. 4 alla CEDU.

Ciò premesso, la Corte EDU ha ribadito il principio di diritto già affermato in precedenza[2] in ordine ai tre presupposti che legittimano una misura restrittiva di tale libertà: la sua conformità alla legge, la necessità di assicurare la tutela di uno degli interessi elencati dall’art. 2, comma 3, Prot. n. 4 e la realizzazione di un giusto equilibrio tra l’interesse pubblico e i diritti dell’individuo.   

Nella successiva valutazione relativa alla ricorrenza di tali presupposti nel caso concreto, la Corte EDU, pur prendendo atto dei propri precedente arresti in cui era stata riconosciuta la conformità alla legge delle misure di prevenzione emesse sulla base della l. 1423/56, è pervenuta ad una conclusione diametralmente opposta, escludendo il fondamento legale della misura di prevenzione applicata al ricorrente[3].

Tale conclusione muove dalla  considerazione dei principi costantemente affermati dalla Corte EDU  sul significato dell’espressione “in conformità alla legge” e sul concetto stesso di legge. In primo luogo, la Corte ha più volte ribadito che tale conformità non si riferisce solo al fondamento legale della misura, ma anche alla qualità della legge in questione che deve essere accessibile alle persone interessate e prevedibile quanto ai suoi effetti. In particolare, la qualificazione di una norma come “legge” necessita di una  formulazione con sufficiente precisione, in modo da consentire ai cittadini di regolare la propria condotta e di prevedere, se necessario con adeguati  avvisi, in misura ragionevole, le conseguenze  che possono derivare da una determinata condotta. La Corte ha, infine,  ribadito che, ai fini della prevedibilità, è necessario che la legge preveda degli strumenti di protezione contro le interferenze arbitrarie delle autorità pubbliche ed indichi, in caso di conferimento di un potere discrezionale, lo scopo e le modalità di esercizio di  tale discrezionalità.

Alla luce di tale cornice interpretativa, la Corte ha ritenuto che nel caso in esame la misura di prevenzione applicata al ricorrente non era conforme alla legge, in quanto la disciplina del 1956, posta a suo fondamento, era accessibile, ma non prevedibile. Contrariamente a precedenti arresti[4], la Corte ha, infatti, affermato che la l. 1423/1956 non indicava con sufficiente chiarezza lo scopo e le modalità di esercizio dell’ampio  potere discrezionale conferito al giudice nazionale, nè era formulata con sufficiente precisione per fornire protezione contro le interferenze arbitrarie e per consentire al ricorrente di adeguare la sua condotta e prevedere con un sufficiente grado di certezza l’imposizione della misura di prevenzione. Tale conclusione trova, nel ragionamento della Corte, una conferma proprio nel decreto applicativo della misura di prevenzione in cui, lungi dall’attribuire al ricorrente uno specifico comportamento o una condotta criminale, la pericolosità attuale è stata affermata sulla base di “tendenze criminali attive” desunte dalla mancanza di una stabile attività lavorativa e da uno stile di vita caratterizzato da frequentazioni malavitose e dalla commissione di reati.

La Corte ha, inoltre, rilevato che tale lacuna normativa non è superabile alla luce della giurisprudenza della Corte Costituzionale che, pur avendo dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, n. 3, l. 27 dicembre 1956, n. 1423 (con riferimento alla categoria dei proclivi a delinquere), ha ritenuto sufficientemente determinate le altre categorie previste dalla legge, limitandosi a ribadire  la necessità di una verifica di concrete condotte sintomatiche della reale pericolosità del soggetto.

Pertanto, ad avviso della Corte Edu, né la legge né la Corte Costituzionale hanno chiaramente individuato gli elementi fattuali o gli specifici tipi di comportamento che vanno presi in considerazione per affermare la pericolosità sociale di un individuo e che potrebbero comportare l’applicazione di una misura di prevenzione.

Pur prendendo atto della successiva sentenza interpretativa della Corte Cost. 281/2010, i giudici di Strasburgo hanno anche censurato l’indeterminatezza del contenuto della misura di prevenzione, interamente rimesso alla discrezionalità del giudice, avuto riguardo soprattutto agli obblighi di vivere onestamente, di rispettare le leggi (tutte in generale e non solo quelle penali), di non partecipare a pubbliche riunioni (senza alcuna delimitazione spaziale o temporale) e di non dare adito a sospetti. Per tale ragione la Corte ha affermato che la legge 1423/1956 è stata formulata in termini vaghi, in quanto né i destinatari (art. 1) né il contenuto delle misure di prevenzione (artt. 3 e 5) sono stati definiti con sufficiente precisione e chiarezza e, pertanto, poiché tale legge non rispetta il requisito di prevedibilità, le restrizioni alla libertà di movimento imposte a ricorrente non hanno avuto una base legale.

7. La sentenza De Tommaso c. Italia, pur riguardando una fattispecie di pericolosità semplice ritenuta in relazione alla l. 1423/56, merita un’attenta valutazione con riferimento sia alla novità del principio relativo alla non prevedibilità della legge in questione, sia, più in generale, al dibattito, emergente dalle opinioni concorrenti e dissenzienti allegate alla pronuncia, sul sistema italiano della prevenzione.

Non può, infatti, trascurarsi che, benchè tale pronuncia rappresenti un significativo mutamento della precedente giurisprudenza della Corte EDU, la stessa proviene dalla Grande Camera. E’, dunque, prevedibile che, nonostante le opinioni dissenzienti di alcuni Giudici, i futuri ricorsi contro la Stato italiano  aventi un analogo oggetto saranno definiti dalle sezioni semplici in termini conformi alla decisione della Grande Camera.

Per quanto attiene, invece, alle ricadute di tale pronuncia sull’attività giurisdizionale nazionale, come ribadito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 49/2015, il giudice comune è tenuto ad uniformarsi alla giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente, ovvero, secondo le spiegazioni all’art. 8 del prot. 14 alla CEDU, a quella giurisprudenza uniformemente applicata  dalla Corte EDU, specialmente se sulla questione di principio si è pronunciata la Grande Camera. La Corte Costituzionale  ha, inoltre, individuato degli indici idonei a orientare il giudice nazionale nel percorso di discernimento volto ad individuare se una certa interpretazione delle disposizioni della CEDU sia o meno espressione di un orientamento consolidato, ovvero: la creatività del principio affermato rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo o di contrasto rispetto ad altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti specie se corroborate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promani da una Sezione semplice ovvero abbia ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che nel caso di specie il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento nazionale, estendendo criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti. Ad avviso della Corte Costituzionale, dunque, solo dinanzi ad un “diritto consolidato”, o ad una “sentenza pilota” (dovendosi considerare tale  la pronuncia che accerta una violazione sistemica di un diritto convenzionale da parte dello Stato in conseguenza di un difetto strutturale del suo ordinamento giuridico[5]), il giudice italiano sarà, dunque,  tenuto a risolvere in via ermeneutica eventuali contrasti rispetto ad una legge interna ovvero a ricorrere all’incidente di legittimità costituzionale.  

Ciò premesso, con la sentenza De Tommaso la Grande Camera della Corte Edu non si è limitata ad affermare la violazione delle norme convenzionali determinata dall’applicazione della misura di prevenzione personale al ricorrente, ma, quasi alla stregua di una”sentenza pilota”,ha riconosciuto unvulnusdi tassatività nella legge 1423/1956 (oggi, in parte, trasfusa nel d.lgs. 159/2011), sia con riferimento ai comportamenti  sulla cui base affermare la pericolosità sociale del soggetto che in relazione al contenuto delle prescrizioni imposte con la misura di prevenzione.

Ferma restando la necessità di osservare il successivo evolversi della giurisprudenza europea sul punto[6], può, tuttavia, apparire opportuno interrogarsi sui possibili effetti della sentenza De Tommaso con riferimento alle due fattispecie di pericolosità contemplate dalla legge.

Quanto alla pericolosità generica, le categorie previste dalla l. 1423/56, sono state, in parte, assorbite e, in parte, sostituite da quelle previste dall’art. 1 d.lgs. 159/2011 (richiamato dal successivo art. 4), ma non contengono, secondo quanto richiesto dalla Corte EDU, una precisa descrizione dei comportamenti su cui si fonda il giudizio di pericolosità. Le categorie contemplate all’art.1, lett. a) e b), d.lgs. 159/2011, inoltre, si riferiscono genericamente ai soggetti abitualmente dediti a traffici delittuosi ovvero che vivono con i proventi di attività delittuose, senza alcuna specificazione dei reati da considerare nel giudizio prognostico. Analogo difetto di tassatività può essere riscontrato con riferimento al  contenuto delle prescrizioni previsto dall’art. 8, d.lgs. 159/2011  in termini sostanzialmente sovrapponibili a quelli previsti dall’art. 5 l. 1423/1956 (escluse le prescrizioni, ormai eliminate, di non trattenersi abitualmente nelle osterie e nelle bettole).

Tali carenze sistemiche potrebbero indurre ad ipotizzare, in  alternativa all’adozione di soluzioni ermeneutiche particolarmente rigorose in punto di valutazione della pericolosità sociale, l’opportunità di sollevare una questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, lett. a) e b) e 8, comma 3 e ss., d.lgs. 159/2011 per contrasto con l’art. 117 Cost. in relazione all’art. 2, Prot. 4 CEDU[7] ovvero di un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per la loro corretta interpretazione alla luce degli artt. 6 e 45 della Carta di Nizza[8].

Nella giurisprudenza sia di merito che di legittimità si registrano già alcuni provvedimenti, frutto delle prime riflessioni sulle ricadute della sentenza De Tommaso nel sistema interno della prevenzione.

Con ordinanza del 14 marzo 2017 la Corte di Appello di Napoli, investita dell’impugnazione del decreto applicativo della misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno per il periodo di quattro anni  in relazione ad un soggetto portatore di pericolosità generica, nonchè della confisca di beni mobili ed immobili ai sensi dell’art. 2-ter l. 575/1965, ha ritenuto che, per effetto di quanto statuito dalla sentenza della Corte Edu, De Tommaso c. Italia, non è possibile adottare alcuna interpretazione degli artt. 1, 3 e 5 l. 1423/1956 convenzionalmente conforme, in quanto ciò comporterebbe <<una riformulazione complessiva delle disposizioni di legge in contestazione, riservata esclusivamente al Legislatore>>. Per tale ragione, la Corte di Appello ha sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 3 e 5 L. 1423/1956, dell’art. 19 l. 152/1975 e degli artt. 1, 4, comma 1, lett. c), 6 e 8 d. lgs. 159/2011 per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost. in relazione all’art. 2, Prot. 4 addizionale alla CEDU. La Corte ha ritenuto, inoltre, di estendere  la questione di legittimità costituzionale anche all’art. 19, l. 152/1975 che prevede  l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniale[9] di cui alla l. 576/1965 anche alle categorie di persone previste dall’art. 1, n. 1 e 2), l. 1423/1956, ritenendola in contrasto con gli artt. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 1, Prot. 1 addizionale alla CEDU, e 42 Cost.

Per quanto attiene, invece, alla genericità delle prescrizioni previste dall’art. 8 d.lgs. 159/2011 ed all’ampio potere discrezionale  conferito al giudice della prevenzione dal comma 5 di tale norma, si segnala che la questione relativa alla definizione della prescrizione di “vivere onestamente e rispettare la legge”, in relazione al reato di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. 159/2011, è stata recentemente assegnata alle Sezioni Unite proprio in considerazione del tenore della sentenza De Tommaso.

8. Per quanto attiene, invece, alle fattispecie di pericolosità qualificata, ferme restando le considerazioni sulla genericità delle prescrizioni di cui all’art. 8, d.lgs. 159/2011,  la legge sembra caratterizzarsi per una maggiore specificità sia in relazione alla tipologia di reati in relazione ai quali valutare la pericolosità (art. 4, n. 1, lett. a) e b), d.lgs. 159/2011) che alla necessaria sussistenza di indizi da cui desumere tale pericolosità. Manca, tuttavia, la descrizione dei comportamenti concreti che dovrebbero costituire il fondamento del giudizio di pericolosità[10]. Nonostante la maggiore tipizzazione delle categorie di pericolosità qualificata, permangono, dunque, anche nella nuova disciplina ampi margini di discrezionalità del giudice della prevenzione i cui confini, dinanzi alle scarne previsioni normative, sono affidati alla sapiente funzione nomofilattica della giurisprudenza di legittimità (in verità scarsamente analizzata dalla Corte Edu).

9. Nell’ottica di un proficuo dialogo tra le Corti, potrebbe, dunque, apparire utile un’adeguata riflessione sulla conformità ai principi esposti dalla Corte Edu delle soluzioni interpretative fondate su meccanismi presuntivi della pericolosità sociale qualificata. In tale prospettiva, l’opzione ermeneutica più restrittiva potrebbe offrire una lettura convenzionalmente conforme della disciplina in esame, idonea ad introdurre nel diritto vivente una forma di auto-limitazione e di  auto-determinazione dell’ambito di operatività del potere discrezionale concesso al giudice della prevenzione, tale da soddisfare, anche con riferimento alle ipotesi  di pericolosità qualificata, sia il requisito della necessarietà della misura in un ordine democratico[11], previsto dall’art. 2, comma 3, Prot. 4 alla CEDU[12], che quello di prevedibilità della legge che ne costituisce il fondamento.

Redattore: Debora Tripiccione

 Il vice direttore

Giorgio Fidelbo

[1] Sul punto vi sono state le opinioni dissenzienti dei Giudici Pinto De Albuqerque e Kuris sulla natura penale, anche alla stregua dei c.d. criteri Engel, delle misure di prevenzione personale, con conseguente applicabilità dell’art. 5 CEDU. In particolare, richiamando la sentenza della Corte EDU, Guzzardi c. Italia del 6/11/1980 (in cui fu riconosciuta la violazione dell’art. 5 CEDU), emessa prima che l’Italia ratificasse il Prot. n. 4 alla CEDU, è stata evidenziata l’analogia tra la condizione del Guzzardi (sottoposto alla misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno presso l’isola dell’Asinara) e quella del ricorrente che, pur non essendo stato costretto a vivere su un isola, ha subito un’analoga restrizione della sua libertà attraverso le prescrizioni imposte, avuto riguardo, soprattutto, a quella relativa agli orari di permanenza presso l’abitazione che la rendevano assimilabile alla misura degli arresti domiciliari. Logica conseguenza di tali considerazioni non è solo la riconosciuta violazione degli artt. 5 (che non consente alcuna restrizione della libertà personale allo scopo di prevenire la commissione di reati) e 6, §1 CEDU, ma, usando le parole del Giudice Pinto De Albuquerque, la totale incompatibilità con i principi di uno Stato democratico, oltre che con i diritti alla libertà, ad un equo processo nonché le altre fondamentali libertà come quella di riunione, delle misure di prevenzione personale, definite come “un reliquato superato di strutture giuridiche liberticide”.

[2] V. Corte Edu, Battista c. Italia del 02/12/2014; Corte Edu, Labita c. Italia del 06/04/2000; Corte Edu, Raimondo c. Italia del 22/02/1994.

[3] Come segnalato nell’opinione concorrente dei Giudici Raimondi, Villiger, Sikuta, Keller e Klolbro,  nei precedenti casi esaminati dalla Corte Edu (ex plurimis, Raimondo c. Italia del 22/02/1994, Labita c. Italia del 06/04/2000 e Monno c. Italia del 08/10/2013), non era mai stata considerata alcuna carenza del requisito di prevedibilità della l. 1423/1956. I Giudici sopra indicati hanno, pertanto, espressa un’opinione dissenziente al riguardo, sottolineando che, alla luce delle pronunce della Corte Costituzionale, con particolare riferimento alle sentenze 177/1980 e 282/2010, i destinatari delle misure di prevenzione ed il loro contenuto devono considerarsi determinati.

[4] V. Corte Edu, Labita c. Italia del 6/04/2000, § 195, in cui la Corte ha ritenuto legittimo “il fatto che delle misure di prevenzione e in particolare la sorveglianza speciale siano applicate nei confronti di individui sospettati di appartenere alla mafia anche prima della loro condanna poiché tendono ad impedire il compimento di atti criminali”; Corte Edu, Monno c. Italia del 08/10/2013.

[5] Art. 61, Reg. interno alla Corte EDU.

[6] V. A.M. Maugeri, Misure di prevenzione e fattispecie a pericolosità generica: la Corte Europea condanna l’Italia per la mancanza di qualità della “legge”, ma una rondine non fa primavera, in www.penalecontemporaneo.it.

[7] In tal senso, si veda: F. Viganò, La Corte di Strasburgo assesta un duro colpo alla disciplina italiana delle misure di prevenzione personali”  in www.penalecontemporaneo.it.

[8] In tal senso, si veda: L. Roccatagliata, Da Strasburgo: la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza viola la Convenzione EDU,in www.giurisprudenzapenale.com.

[9] V. V. A.M. Maugeri, cit. alla nota 7. L’A. afferma che la sentenza De Tommaso coinvolge anche le misure patrimoniali in quanto, pur essendo applicabili indipendentemente dalle personali e a prescindere dall’attualità della pericolosità sociale, esigono, in ogni caso l’accertamento della stessa pericolosità sociale, come previsto dall’art. 16 d.lgs. 159/2011. Per tale ragione, l’A. ipotizza la possibilità di sottoporre una nuova questione alla Corte Edu con riferimento all’art. 1, Prot. 1 CEDU poiché anche la restrizione del diritto di  proprietà  deve essere prevista da una legge che sia accessibile e prevedibile.

[11] Nell’opinione concorrente allegata alla sentenza De Tommaso, i Giudici Raimondi, Villiger, Sikuta, Keller e Klolbro  puntano l’accento sulla necessità di una motivazione, rilevante ed adeguata, in ordine alle condizioni che rendono una misura restrittiva della libertà di circolazione “necessaria in un ordine democratico”, requisito richiesto dall’art. 2, comma 3, Prot. 4 alla CEDU,  ovvero: la sua rispondenza ad un pressante bisogno sociale  e la proporzionalità della stessa allo scopo perseguito sia nel momento della sua imposizione che per tutta la sua durata. In considerazione di tali premesse, i Giudici hanno ritenuto che la misura applicata al ricorrente determinò una restrizione sproporzionata della sua libertà di circolazione a causa della mancanza nel decreto applicativo di un’adeguata motivazione in ordine alla sua pericolosità sociale. Ad avviso di tali Giudici, tale violazione fu ulteriormente aggravata dall’eccessiva lunghezza del procedimento dinanzi alla Corte di Appello, protrattosi ben oltre i trenta giorni previsti dalla legge  (6 mesi e 21 giorni).

[12] Si veda ad es. Corte Edu, Labita/Italia, in cui la Corte, pur riconoscendo che la misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno applicata nei confronti del ricorrente, indiziato di appartenenza ad un’associazione mafiosa,  perseguiva uno degli scopi previsti dall’art. 2, comma 3, Prot. 4, ha  ritenuto tale misura “non necessaria in un ordine democratico” in quanto era stata applicata successivamente al proscioglimento dell’imputato dal reato di cui all’art. 416 bis cod. pen. e  in assenza di elementi concreti in ordine alla sua  pericolosità, avendo il giudice della prevenzione considerato esclusivamente il rapporto di parentela della moglie del ricorrente  con il capo del clan principale ed il fatto che lo stesso non aveva “dimostrato di avere realmente cambiato il proprio stile di vita né di essersi realmente pentito”.