Relazione su “Revoca sentenza per abolizione di reato”

di Vittorio Pazienza

Rel. n. 43/16

Roma, 21 luglio 2016

Risoluzione di contrasto: Sezioni Unite, 29 ottobre 2015, dep.23 giugno 2016, n.26259, Mraidi.

OGGETTO:  657023 – ESECUZIONE – GIUDICE DELL’ESECUZIONE – REVOCA DELLA SENTENZA PER ABOLIZIONE DEL REATO – Art. 673 cod. proc. pen. – Ambito applicativo – Sentenza di condanna successiva all’entrata in vigore di una legge abrogativa del reato – Revocabilità della sentenza –Contrasto di giurisprudenza.

RIF. NORM: Cost., artt. 3, 24, 25, 27, 111; CEDU, art. 7; Cod. pen., art. 2; Cod. proc. pen., art. 673; disp. prel. cod. civ., art. 15; T.U. Imm., art. 6; l. 15 luglio 2009, n. 94, art 1.

1. Le Sezioni Unite, con sentenza pronunciata alla camera di consiglio del 29 ottobre 2015 e dep. il 23 giugno 2016, n. 26259, Mraidi, hanno enunciato il principio di diritto così massimato:

“Il giudice dell’esecuzione può revocare, ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen., una sentenza di condanna pronunciata dopo l’entrata in vigore della legge che ha abrogato la norma incriminatrice, allorché l’evenienza di “abolitio criminis” non sia stata rilevata dal giudice della cognizione. (In motivazione, la S.C. ha precisato che la revocabilità della sentenza deve invece essere esclusa nella diversa ipotesi in cui, in assenza di interventi del legislatore, si verifichi un mutamento dell’interpretazione giurisprudenziale di una disposizione rimasta invariata, in quanto tale mutamento – anche se sancito dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione – non determina alcun effetto abrogativo della disposizione interpretata).”

 (Rv. 266872).

La questione controversa sottoposta dalla Prima Sezione al giudizio delle Sezioni Unite, con ordinanza n. 24399 del 27/03/2015, era la seguente: “Se è consentito al giudice dell’esecuzione revocare, ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen., una sentenza di condanna pronunciata dopo l’entrata in vigore di una legge che ha abrogato la fattispecie incriminatrice allorchè detta legge non è stata oggetto di esame da parte del giudice della cognizione”.

2. Le Sezioni Unite hanno anzitutto ripercorso l’evoluzione normativa e giurisprudenziale concernente la fattispecie incriminatrice per la quale era stata emessa la sentenza di condanna a carico del MRAIDI, oggetto dell’istanza di revoca (art. 6 T.U. Imm., il quale punisce lo straniero che, a richiesta di ufficiali e agenti di P.S., non ottempera, senza giustificato motivo, all’ordine di esibire i propri documenti).

Si è in particolare evidenziato che, nel testo vigente fino al 2009, l’art. 6 prendeva in considerazione, quale oggetto dell’ordine di esibizione, «il passaporto o altro documento di identificazione, ovvero il permesso o la carta di soggiorno»: ciò aveva indotto le Sezioni Unite a ritenere che soggetto attivo del reato potesse essere sia lo straniero in posizione regolare che quello irregolarmente soggiornante, essendo anche da quest’ultimo esigibile l’esibizione del passaporto o di altro documento identificativo (Sez. U, n. 45801 del 29/10/2013, Meski, Rv. 226102).

È stato quindi ricordato che la legge 15 luglio 2009, n. 94 ha modificato l’art. 6, sostituendo tra l’altro la disgiuntiva «ovvero» con la congiunzione «e» (rendendo quindi punibile l’inottemperanza all’ordine di esibizione «del passaporto o altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato»). Le incertezze interpretative conseguenti alla novella sono state superate da un ulteriore intervento del Supremo Consesso, secondo il quale soggetto attivo del reato può ormai essere il solo straniero in posizione regolare, essendo necessaria – dopo la citata modifica della norma incriminatrice intervenuta nel 2009 – la concorrente esibizione dei documenti di identificazione unitamente a quelli attestanti la regolarità del soggiorno: adempimento, quest’ultimo, esigibile dai soli stranieri non clandestini, con conseguente abolitio criminis limitatamente agli stranieri irregolari (Sez. U, n. 16453 del 24/02/2011, Alacev).

Si è infine chiarito che tale nuovo assetto ha determinato un ulteriore contrasto interpretativo, concernente la possibilità o meno di revocare, ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen., le sentenze di condanna emesse, nei confronti degli stranieri irregolari, per le condotte di inottemperanza poste in essere dopo la novella: ciò che si era verificato nella fattispecie in esame, in cui il MRAIDI era stato condannato, con rito abbreviato, con sentenza in data 11/06/2010 (irrev. il 24/09/2010) dal G.i.p. del Tribunale di Bergamo, per una violazione dell’art. 6 posta in essere il 28/05/2010. La possibilità di revoca, sollecitata con istanza  al G. E. dal P.M. presso il Tribunale di Bergamo, era stata negata dal Tribunale con un’ordinanza di rigetto impugnata dal predetto P.M. con ricorso per cassazione, oggetto dell’odierna rimessione al Supremo Consesso.

Le Sezioni Unite hanno peraltro inteso immediatamente evidenziare (pag. 14) che la soluzione di tale contrasto presenta implicazioni sistematiche che vanno al di là della specifica questione relativa alla portata applicativa dell’art. 6, coinvolgendo in generale «i problematici rapporti tra l’esigenza di stabilità del giudicato – la cui intangibilità è stata “intaccata” da recenti pronunce giurisprudenziali delle Sezioni Unite, intervenute tuttavia solo sul piano del trattamento sanzionatorio – e dall’altra parte la tutela dei principi, costituzionalmente rilevanti (artt. 3 e 25 Cost.), della parità del trattamento punitivo e della legalità della pena».

3. Nell’illustrare gli orientamenti in contrasto, le Sezioni Unite hanno rilevato che, secondo un primo indirizzo, l’applicabilità dell’art. 673 cod. proc. pen. doveva essere radicalmente esclusa, in quanto si era in presenza non già di un’innovazione legislativa con effetti abrogativi o di una declaratoria di illegittimità costituzionale (ovvero dei presupposti codificati per un intervento ex art. 673), ma di una «abrogazione implicita derivante da un mutamento giurisprudenziale che non può costituire ius superveniens anche se conseguente a pronuncia delle Sezioni Unite» (Sez. 1, n. 34154 del 04/07/2014, Torpano; Sez. 1, n. 34153 del 04/07/2014, Angelo Gomes). In tale prospettiva, si è da un lato escluso che un orientamento giurisprudenziale, per quanto autorevolmente espresso dalle Sezioni Unite, possa avere la stessa efficacia delle ipotesi prese in considerazione dall’art. 673 cod. proc. pen., se non altro perché privo di vincolatività per le decisioni future concernenti fattispecie analoghe; dall’altro, si è posto in evidenza che all’errata interpretazione del giudice (anche in caso di modifiche legislative) può porsi rimedio solo con gli ordinari mezzi di impugnazione della sentenza, e non in sede esecutiva con la revoca ex art. 673, «in quanto detto istituto si applica solo se l’abrogazione della norma incriminatrice (o la dichiarazione di incostituzionalità della stessa) interviene dopo la decisione del giudice» (in senso analogo, fra le altre, Sez. 1, n. 42594 del 25/09/2013, Mlaouhi).

4. La mancata inclusione del mutamento giurisprudenziale (sancito dalle Sezioni Unite) tra le cause di revoca della sentenza irrevocabile di condanna, ai sensi dell’art. 673, ha peraltro determinato la proposizione – in una procedura incidentale esecutiva per vicenda identica a quella del MRAIDI – di una questione di legittimità costituzionale del predetto articolo (Trib. Torino, ord. 27/06/2011, Diop): questione ritenuta dalla Consulta ammissibile, ma infondata, con una pronuncia (sent. n. 230 del 2012) di grande rilievo sistematico, dalla quale sono stati ricavati argomenti a sostegno dell’impostazione poc’anzi ricordata (cfr.supra, § 3), come diffusamente sottolineato dal Supremo Consesso.

Anche la Corte costituzionale, infatti, ha escluso che – per condotte poste in essere dopo le modifiche apportate nel 2009 all’art. 6 T.U. Imm. – possa conferirsi rilievo alla successione tra vecchio e nuovo testo della predetta norma incriminatrice «come fenomeno idoneo a produrre gli effetti di cui all’art. 2, secondo comma, cod. pen., al quale la disposizione processuale dell’art. 673 è, per questo verso, correlata»: essendo in altri termini necessario, per produrre tali effetti, una «legge posteriore» al fatto irrevocabilmente giudicato. Pertanto, la questione proposta dal remittente – che aveva anch’egli ravvisato «una successione nel tempo non già di leggi, ma di diverse interpretazioni giurisprudenziali», ed aveva perciò sollecitato una sentenza additiva, volta ad implementare in questo senso la portata dell’art. 673 – è stata ritenuta «non implausibile», e perciò idonea a superare il preliminare vaglio di ammissibilità.

Tuttavia, la Consulta ha dichiarato l’infondatezza della predetta questione, sotto tutti i profili denunciati: in particolare, la violazione dell’art. 117 Cost. in relazione all’art. 7 CEDU (non avendo la Corte di Strasburgo mai riferito il principio della retroattività della lex mitior ai mutamenti giurisprudenziali, presi invece in considerazione solo in malam partem e ritenuti in contrasto con l’art. 7 per la violazione del diverso principio dell’irretroattività della legge penale sfavorevole); la violazione del principio di ragionevolezza ex art. art. 3 Cost. (attese le connotazioni solo tendenziali della funzione nomofilattica svolta dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, aventi efficacia non cogente ma essenzialmente persuasiva). Per altro verso, l’equiparazione di una successione di interpretazioni giurisprudenziali ad un atto normativo con effetti abrogativi, auspicata dal rimettente, è stata dalla Consulta esclusa non solo per il principio di riserva di legge in materia penale, ma anche per quello di separazione dei poteri, che vuole il giudice soggetto soltanto alla legge (art. 101 Cost.): né varrebbe replicare che, nel caso di specie, la nuova interpretazione giurisprudenziale ha ritenuto configurabile una abolitio, in quanto «al pari della creazione delle norme, e delle norme penali in specie, anche la loro abrogazione – totale o parziale – non può infatti dipendere, nel disegno costituzionale, da regole giurisprudenziali, ma soltanto da un atto di volontà del legislatore(eius abrogare cuius est condere)»

5. Le Sezioni Unite hanno quindi dato conto del contrario orientamento della giurisprudenza di legittimità, che ha ritenuto pienamente applicabile l’art. 673 cod. proc. pen. in fattispecie analoghe a quella relativa al MRAIDI: un orientamento ripetutamente espresso dalla Suprema Corte, sia in epoca anteriore (Sez. 1, n. 25040 del 11/01/2012, Eddamir; Sez. 1, n. 35851 del 09/02/2012 ) sia in epoca posteriore (Sez. 1, n. 13621 del 15/01/2014, Chen; Sez. 1, n. 12982 del 29/01/2014, Jankovic) alla sentenza n. 230 della Corte costituzionale.

Secondo questo indirizzo, assume una decisiva rilevanza, per la revocabilità ex art. 673 delle sentenze di condanna, il fatto che, in relazione alla portata applicativa dell’art. 6 T.U. Imm., si è effettivamente verificata un’abolitio criminis  parziale per via legislativa (ovvero a seguito dell’entrata in vigore della l. n. 94 del 2009: cfr.supra, § 2), della quale può ed anzi deve tenersi conto anche in sede esecutiva: in tale ottica, infatti, l’intervento delle Sezioni Unite del 2011, con la sentenza Alacev, aveva in realtà semplicemente dato atto dell’effetto abrogativo conseguito alla successione di leggi.

Da ciò consegue, nella prospettiva in esame, l’applicabilità dell’art. 673 cod. proc. pen. – per abolizione del reato e non per mero mutamento giurisprudenziale – e la conseguente revocabilità delle condanne pronunciate per violazione dell’art. 6 nei confronti degli stranieri irregolari,«indipendentemente dal tempo della sentenza di condanna, se emessa prima o dopo l’abrogazione stessa, poiché esprime l’interesse superiore dell’ordinamento a che nessuno risulti condannato per un reato non (più) previsto come tale dalla legge, anche nel caso di giudicato formatosi successivamente al tempo dell’intervenuta abrogazione» (Sez. 1, n. 1611 del 02/12/2014, dep. 2015, Santiago Peralta, Rv. 261984).

6. Dopo aver richiamato il dibattito sviluppatosi “parallelamente” in dottrina (anche in ordine alla possibilità di individuare soluzioni alternative all’art. 673, per porre rimedio alla sostanziale iniquità di una condanna intervenuta dopo la parziale abolitiio), il Supremo Consesso ha evidenziato che l’ordinanza di rimessione ha assunto una posizione “intermedia”, avendo valorizzato un recente arresto delle stesse Sezioni Unite, che ha ammesso l’emendabilità in executivis di una pena accessoria illegalmente applicata dal giudice della cognizione, salvo che questi sia incorso in un «errore valutativo», al quale «non può che porsi rimedio con gli ordinari mezzi di impugnazione» (Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, Basile, Rv. 262327).

È stata infatti prospettata, dal Collegio rimettente, la possibilità di revocare la sentenza ai sensi dell’art. 673 nelle ipotesi in cui il giudice della cognizione sia incorso in un mero «errore percettivo», omettendo di rilevare l’abolitio criminis derivante da una modifica legislativa: una soluzione già accolta in giurisprudenza da una risalente pronuncia concernente altro titolo di reato (Sez. 1, n. 1036 del 13/02/2001, Affuso), ma avversata da una parte della dottrina, da un lato perché l’efficacia del giudicato penale copre sia le questioni dedotte in sede di cognizione, sia quelle non dedotte ma deducibili; dall’altro per la difficoltà di accertare in concreto – specie dinanzi a sentenze sinteticamente motivate – se il giudice abbia omesso di prendere in considerazione la novella legislativa, ignorandola, ovvero se abbia anche solo implicitamente respinto l’interpretazione volta a conferirle una portata abrogatrice.

7. In tale problematico contesto, le Sezioni Unite hanno ritenuto di aderire alla soluzione “intermedia” prospettata dall’ordinanza di rimessione (cfr. supra, § 6), all’esito di un articolato percorso argomentativo imperniato sia sulla valutazione dei principi espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 230, sia sull’incidenza dell’abolitio criminis nei casi di abrogazione tacita anteriore alla condanna, sia, infine, sull’individuazione dei poteri del giudice dell’esecuzione, qualora il fenomeno abolitivo sia stato ignorato in sede di cognizione.

7.1. Sotto il primo profilo, il Supremo Consesso ha manifestato una piena condivisione dei principi affermati dalla Consulta in tema di riconducibilità del fenomeno abrogativo alla sola successione nel tempo di atti normativi, e della conseguente impossibilità di ipotizzare – anche in forza dei principi di legalità formale e di riserva di legge (cfr. supra, § 4) – l’abrogazione di una legge in conseguenza di un mutamento giurisprudenziale: evidenziando peraltro che tali principi erano stati enunciati dalla Corte costituzionale muovendo dalla premessa concettuale posta dal giudice rimettente, secondo cui, nella fattispecie concreta, si era appunto in presenza di una mera successione di interpretazioni giurisprudenziali. In realtà, invece, la sentenza Alacev aveva avuto per le Sezioni Unite – come del resto espressamente affermato da numerose pronunce delle Sezioni semplici – una funzione meramente ricognitiva dell’intervenuto effetto abrogativo parziale dell’art. 6 T.U. Imm., determinato esclusivamente dall’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009: risultando peraltro«fisiologico», specie in caso di ripetuti interventi del legislatore, il fatto che l’effetto abrogativo venga riconosciuto in giurisprudenza all’esito di un’evoluzione interpretativa connotata da interpretazioni contrastanti.

A diverse conclusioni, per le Sezioni Unite, si sarebbe giunti se, in assenza di interventi normativi, si fossero susseguite interpretazioni diverse dello stesso testo legislativo, perché «il precetto fondamentale della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101 Cost.) impedisce di attribuire all’interpretazione della giurisprudenza il valore di fonte del diritto».

7.2. Il Supremo Consesso ha perciò escluso che possano esservi ostacoli all’applicazione dell’art. 673 cod. proc. pen., in fattispecie analoghe a quale quella concernente il MRAIDI, quanto meno nelle ipotesi in cui il giudice della cognizione abbia omesso di prendere in considerazione l’eventualità dell’abolitio criminis: e ciò in quanto, da un lato, la formulazione letterale del predetto articolo non prevede limitazioni ai poteri di accertamento e di valutazione del giudice dell’esecuzione (a differenza di quanto previsto dall’art. 671 cod. proc. pen. in tema di continuazione e dall’art. 675 in tema di falsità di documenti). D’altro lato, l’espressione «abrogazione della norma incriminatrice», contenuta nell’art. 673, deve ritenersi comprensiva anche dell’abrogazione tacita, ed il giudice dell’esecuzione deve poter verificare – quale garante della legalità penale – se sia stato rispettato il principio nullum crimen, nulla poena sine lege.

Del resto, l’applicazione di tale principio non può per le Sezioni Unite essere condizionata da limiti cronologici, nel senso che «se l’art. 2, secondo comma, cod. pen. prevede che nessuno possa essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato (e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali), ancor più va tutelata la posizione di colui che sia stato condannato per un fatto che già al momento della commissione non era reato per essere precedentemente intervenuta l’abolitio criminis». In tale prospettiva, che riconduce quindi nell’alveo dell’art. 673 anche le ipotesi di violazione del primo comma dell’art. 2 cod. pen. (e dell’art. 25, secondo comma, Cost.), le Sezioni Unite hanno richiamato adesivamente le pronunce che avevano ritenuto irrilevante sia il tempo in cui si verifica l’abrogazione legislativa sia l’anteriorità o meno di quest’ultima rispetto alla condanna, «avendo l’ordinamento privilegiato il principio fondamentale secondo il quale nessuna sanzione può essere eseguita in relazione ad una condotta per la quale è stata esclusa la rilevanza penale, anche nel caso in cui si sia formato un giudicato contrario successivamente al tempo dell’intervenuta abrogazione».

7.3. Quanto poi alle definizione degli spazi di intervento del giudice dell’esecuzione, rispetto al principio dell’intangibilità del giudicato, le Sezioni Unite hanno diffusamente richiamato, anzitutto, i principi espressi dalla sentenza n. 210 del 2013 della Corte costituzionale, secondo cui l’ordinamento nazionale «conosce ipotesi di flessione della intangibilità del giudicato» in alcune ipotesi in cui i valori di certezza del diritto e la stabilità nei rapporti giuridici sono ritenuti subvalenti rispetto alla tutela della libertà personale, se ristretta sulla base di una norma incriminatrice successivamente abrogata o modificata in favore del reo.

Sono stati quindi adeguatamente valorizzati i rilievi sistematici svolti da alcune recenti pronunce del medesimo Supremo Consesso in tema di legalità del trattamento sanzionatorio, volte a ridefinire i limiti dell’intangibilità del giudicato in alcune situazioni – sulle quali, evidentemente, non è qui possibile soffermarsi – qualora sia da considerare preminente la tutela dei diritti fondamentali del condannato.

In particolare, sono state richiamate: Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, Ercolano, Rv. 258650 (secondo cui, tra l’altro, la restrizione della libertà personale del condannato deve essere legittimata, durante l’intero arco della sua durata, da una legge conforme ai principi di cui agli artt. 13, secondo comma, e 25, secondo comma, Cost., e deve assolvere alla funzione rieducativa di cui all’art. 27 della Carta); Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260696 (che ha tra l’altro posto in evidenza il ridimensionamento, dopo l’entrata in vigore della Costituzione e poi del codice Vassalli, del «significato totalizzante attribuito all’intangibilità del giudicato quale espressione della tradizionale concezione autoritaria dello Stato», in favore di una valenza di garanzia individuale del giudicato penale che, «oltre a garantire la necessità di certezza e stabilità giuridica delle decisioni emesse secondo le regole del giusto processo, deriva soprattutto dall’esigenza di porre un limite all’intervento dello Stato nella sfera individuale e si esprime essenzialmente nel divieto di bis in idem»); Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, Basile, Rv. 262327 (secondo cui l’applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da parte del giudice dell’esecuzione può essere rilevata anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, purchè si tratti di pena determinata o determinabile per legge senza alcuna discrezionalità, e purchè «non derivi da errore valutativo del giudice della cognizione»); Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015, Marcon, Rv. 264857 (secondo cui, in caso di sopravvenuta illegittimità costituzionale di una norma diversa da quella incriminatrice ma incidente sul trattamento sanzionatorio, il giudice dell’esecuzione può rideterminare la pena applicata ex art. 444, con l’accordo delle parti o ai sensi degli artt. 132-133 cod. pen., ferma restando l’efficacia del giudicato quanto alla sussistenza del fatto, alla sua attribuibilità soggettiva e alla qualificazione giuridica); Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, Butera, Rv. 265108 (che ha ritenuto deducibile dinanzi al giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen., l’illegalità della pena derivante da palese errore giuridico o materiale da parte del giudice della cognizione, privo di argomentata valutazione, qualora la predetta illegalità non sia rilevabile d’ufficio in sede di legittimità per tardività del ricorso).

8. All’esito di tale complesso iter argomentativo, le Sezioni Unite hanno affermato, per un verso, che qualora il giudice della cognizione abbia pronunciato la condanna dopo l’intervento parzialmente abrogativo del legislatore, senza peraltro porsi il problema della effettiva applicabilità all’imputato della norma incriminatrice novellata (ipotesi ritenuta ricorrente nella specie, in cui la motivazione della condanna a carico del MRAIDI era rimasta del tutto silente circa l’eventuale abolitio criminis per effetto delle modifiche del 2009), si sia in presenza di un mero «errore percettivo», che consente la revoca ex art. 673 da parte del giudice dell’esecuzione. E ciò alla luce del principio affermato dalla richiamata sentenza n. 6240 del 2015, Basile (cfr.supra, § 7.3), la quale ha ritenuto che solo «quando il giudice della cognizione abbia espresso le sue valutazioni (a meno di errori macroscopici di calcolo o di applicazione di una pena avulsa dal sistema), non sia possibile rimettere in discussione il giudicato».

Per altro verso, il Supremo Consesso ha posto in evidenza anche le criticità di ordine sovranazionale correlate ad una sentenza di condanna emessa dopo l’abrogazione per via legislativa della norma incriminatrice, e perciò in violazione – oltre che degli artt. 1 e 2, primo comma, cod. pen., e 25, secondo comma, Cost. – del principio nullum crimen, nulla poena sine lege sancito (anche) dall’art. 7 CEDU. Sono state richiamate, infatti, alcune pronunce della Grande Camera della Corte di Strasburgo, che hanno affermato non solo che il predetto articolo richiede una base legale per poter infliggere una condanna e una pena, ma anche che «è compito della Corte EDU verificare che, nel momento in cui un imputato ha commesso l’atto che ha comportato l’esercizio dell’azione penale e la condanna, esistesse una disposizione di legge che rendeva l’atto punibile, e che la pena inflitta non eccedesse i limiti fissati da tale disposizione» (Corte EDU, G.C. 21/10/2013 Del Rio Prada c. Spagna, §§ 77-80; Corte EDU, G.C., 18/04/2015, Rohlena c. Repubblica Ceca, § 50).

Conclusivamente, le Sezioni Unite hanno osservato, a sostegno della soluzione prescelta, che «la tutela dei diritti costituzionalmente e convenzionalmente presidiati, quale il diritto fondamentale alla libertà personale e il principio di legalità, deve infatti prevalere sull’intangibilità del giudicato, come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 210 del 2013 e dalle Sezioni Unite a partire dalle sentenze Ercolano e Gatto, non potendo accettarsi “l’applicazione di una pena avulsa dal sistema” (Sez. U., Basile, più volte citata) come quella inflitta con una sentenza di condanna pronunciata per un fatto che, al momento della sua commissione, non aveva rilievo penale e per questo era da ritenersi illegale ab origine»

Redattore: Vittorio Pazienza

Giorgio Fidelbo

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