R.g. 14907/2015

Ud. 6.10.2015 –  P.P.  –  Pubbl. 16.02.2016 – Racc. Gen. 2948/2016  –  Rel. Di Iasi

Disciplinare magistrati – ritardo nel deposito di sentenze civili – sanzione della censura – ricorso (r.g.  n. 14907/15)

SU accolgono nei limiti e nei termini di cui in motivazione il secondo motivo, rigettano il primo e dichiarano assorbito il terzo, cassano e rinviano. SU rilevavo che il compito del giudice disciplinare deve essere grave, consapevole, attento e meticoloso, per valutare in concreto se i ritardi contestati possano essere effettivamente conseguenza di una scelta organizzativa consapevole, progettata, discussa, attuata anche in considerazione delle eventuali peculiarità del ruolo e caratteristiche del contenzioso, idonea a produrre effetti positivi sulla durata dei processi e sulla diminuzione delle pendenze e non piuttosto una “scusa” per tentare di giustificare in extremis  ritardi gravi e reiterati da parte di un magistrato che, ad esempio, non abbia neppure la compiuta conoscenza della composizione del proprio ruolo ovvero non abbia neppure assunto in decisione un numero di processi pari alla media dei colleghi di sezione nel medesimo arco temporale. SU precisano altresì che è onere del magistrato che intenda giustificare i gravi e reiterati ritardi contestatigli sulla base di una scelta organizzativa intesa ad una più funzionale e proficua gestione del ruolo fornire al giudice disciplinare tutti gli elementi per valutare la fondatezza e serietà della giustificazione addotta.

R.g. 22205/2015

Ud. 9.02.2016  –  P.U.  –  Pubbl. 26.02.2016 – Racc. Gen. 3800/2016  –  Rel. Giancola 

disciplinare magistrati – ritardo nel deposito di sentenze penali – sanzione della censura – cassazione con rinvio – nuovo esame – censura – ricorso (RGN 22205 del 2015).

SU rigettano il ricorso. SU confermano la valutazione della Sezione disciplinare, la quale aveva osservato che il rilevante numero dei ritardi e la loro specifica entità erano circostanze che, unitariamente considerate, non consentivano di ricondurre al solo carico di lavoro, pur notevolissimo, la causa della condotta illecita contestata e, dunque, di eliderne il disvalore disciplinare e da rendere ingiustificata l’inflitta sanzione, peraltro contenuta nel minimo edittale.

R.g. 23820/2015

Ud. 9.02.2016 – P.U.  –  Pubbl. 25.03.2016 – Racc. Gen. 6021/2016  –  Rel. Iacobellis

disciplinare magistrati – ritardo nel deposito di sentenze civili – sanzione della censura – ricorso (RGN 23820 del 2015)

SU rigettano il ricorso. I ritardi nel deposito dei provvedimenti, quando per la reiterazione e l’entità superino ogni limite di tollerabilità e ragionevolezza, integrano gli estremi dell’illecito disciplinare di cui all’art. 2, comma 1, lettera q), del d.lgs. 24 febbraio 2006, n. 109, costituendo palese violazione del dovere fondamentale di diligenza del magistrato, e ciò anche nei casi di accertata laboriosità dello stesso e di sussistenza di ragioni personali estranee all’ambiente di lavoro che abbiano influito sulla sua attività, le quali non possono risolversi in un ostacolo al buon funzionamento del servizio giustizia e lasciano aperte, ove il magistrato non sia in grado di svolgere il proprio lavoro in condizioni di apprezzabile serenità ed efficienza, le vie consentite dall’ordinamento giudiziario per potersi assentare temporaneamente dal servizio, quali congedi straordinari e aspettative per motivi familiari.

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Proposta di legge C. 2738 (S. 1070 Senatori Buemi ed altri)Disciplina della responsabilità civile dei magistrati

1. Premessa: il panorama storico e costituzionale

Il tema della responsabilità civile dei magistrati affonda le sue radici in quello più ampio dei rapporti fra il potere pubblico e i cittadini. L‟immunità completa dello Stato e dei suoi funzionari evoca storicamente un‟idea ottocentesca, coerente col principio di autorità che caratterizzava nei secoli scorsi il rapporto Stato / suddito. Secondo tale impostazione, il privilegio dell‟immunità assoluta dei magistrati trovava il suo contrappeso in un‟impostazione rigida del rapporto Stato / magistrato, che vedeva quest‟ultimo, non diversamente dalla classe dei funzionari, sottoposto a una disciplina e ad un sistema di controlli – informati a un modello sostanzialmente gerarchico – che privilegiavano la responsabilità interna di natura disciplinare, rispetto a quella esterna nei riguardi del cittadino-suddito. Su tale base era impostata la disciplina dell’art. 783 del codice di procedura civile del 1865, che, in sostanza, limitava la responsabilità civile del giudice alle ipotesi di “dolo, frode o concussione” e “denegata giustizia”.Tale modello si conservò pressoché inalterato fino ai primi anni del “900, quando ebbe inizio quel processo di maturazione politica e culturale destinato a portare, con la Costituzione repubblicana, da un lato alla piena affermazione dei princìpi di indipendenza e autonomia della magistratura, dall‟altro all‟accoglimento, nell‟ordinamento positivo, del principio (già prima di allora elaborato da dottrina e giurisprudenza) che riconosceva nel precetto del “neminem laedere” il fondamento della responsabilità dell’ente pubblico (si veda su tale ricostruzione storica Corte cost. n. 18/1989).L’art. 28 della Costituzione, dunque, afferma la regola (come si dirà, pacificamente applicabile anche ai magistrati) che “i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici“. Così, la precedente impostazione ne risulta ribaltata e trova riconoscimento il principio di responsabilità, che – come ripetutamente ricordato nel corso dei lavori dell‟Assemblea Costituente – informa di sé la nascente democrazia repubblicana. La nuova prospettiva costituzionale, tuttavia, non escludeva affatto la legittimità dei limiti alla responsabilità, ma ne individuava il fondamento non più in un obsoleto modello autoritario ma in altri princìpi, anch‟essi di rango costituzionale e coessenziali al corretto esercizio delle diverse funzioni statuali.Il codice di procedura civile del 1940, agli artt. 56, 57 e 74, aveva subordinato l‟azione di responsabilità civile nei confronti dei magistrati all‟autorizzazione del Ministro e ne aveva individuato l‟ambito, limitandolo alle condotte dolose, all‟omissione e al ritardo, in sostanziale continuità col precedente codice del 1865:Art. 55. Responsabilità civile del giudice.Il giudice è civilmente responsabile soltanto:1) quando nell’esercizio delle sue funzioni è imputabile di dolo, frode;2) quando senza giusto motivo rifiuta, omette o ritarda di provvedere sulle domande o istanze delle parti e, in generale, di compiere un atto del suo ministero.Le ipotesi previste nel numero 2 possono aversi per avverate solo quando la parte ha depositato in cancelleria istanza al giudice per ottenere il provvedimento o l’atto, e sono decorsi inutilmente dieci giorni dal deposito.Art. 56. Autorizzazione.La domanda per la dichiarazione di responsabilità del giudice non può essere proposta senza l’autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia.A richiesta della parte autorizzata la Corte di cassazione designa, con decreto emesso in camera di consiglio, il giudice che deve pronunciare sulla domanda.Le disposizioni del presente articolo e del precedente non si applicano in caso di costituzione di parte civile nel processo penale o di azione civile in seguito a condanna penale.Art. 74. Responsabilità del pubblico ministero.Le norme sulla responsabilità del giudice e sull’esercizio dell’azione relativa si applicano anche ai magistrati del pubblico ministero che intervengono nel processo civile, quando nell’esercizio delle loro funzioni sono imputabili di dolo, frode o concussione.
 
Di tali disposizioni, poi abrogate per effetto del referendum popolare svoltosi nel novembre 1987, la Corte costituzionale aveva avuto occasione di occuparsi con la sentenza n. 2 del 1968. Nel dichiararne la compatibilità con l‟art. 28 Cost., la Corte ha affermato i seguenti princìpi:5- l‟art. 28 Cost. si applica anche ai magistrati oltre che ai funzionari amministrativi;- la norma costituzionale, per effetto del rinvio alle leggi ordinarie, non esclude che la responsabilità sia disciplinata variamente per categorie o per situazioni;- la singolarità della funzione giurisdizionale, la natura dei provvedimenti giudiziali, la stessa posizione super partes del magistrato, se non sono tali da legittimare una negazione totale della sua responsabilità, ne suggeriscono però condizioni e limiti;- in virtù della previsione espressa contenuta nell’art. 28 della Costituzione, va riconosciuta la responsabilità dello Stato per quegli stessi atti e omissioni di cui risponde il giudice nell’esercizio del suo ministero; quanto alle altre violazioni, se il diritto al risarcimento nei riguardi dello Stato non trova garanzia nel precetto costituzionale, tuttavia niente impedisce di trarlo eventualmente da norme o da princìpi contenuti in leggi ordinarie.
 In occasione del giudizio di ammissibilità della richiesta di referendum popolare per l‟abrogazione degli artt. 55, 56 e 74 del codice di procedura civile, con la sentenza n. 26 del 1987 la Corte costituzionale, nel ribadire quanto già affermato nel 1968, ha ulteriormente precisato che “la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati, specie in considerazione dei disposti costituzionali appositamente dettati per la Magistratura (artt. 101 e 113), a tutela della sua indipendenza e dell’autonomia delle sue funzioni.
 Il vuoto normativo prodottosi per effetto del referendum abrogativo rese necessario l‟intervento del legislatore, onde prevenire quelle “situazioni normative non conformi alla Costituzione”, che la stessa sentenza n. 26 del 1987 aveva evocato. Fu così che si giunse all‟approvazione della legge 13 aprile 1988, n. 117 (c.d. legge Vassalli, dal nome di Giuliano Vassalli, all‟epoca ministro della Giustizia). Tale provvedimento, del quale si dirà più diffusamente al paragrafo che segue, estendeva la responsabilità civile dei magistrati alla colpa grave, della quale tipizzava la casistica. Tale estensione trovava già il suo parallelo, con riguardo ai funzionari amministrativi dello Stato, nell‟art. 23 DPR 10 gennaio 1957 n. 3; da tale disciplina però, attesa la specificità della funzione giudiziaria, la nuova legge per il resto si differenziava, assumendo caratteri peculiari. Fra l‟altro, veniva introdotto il sistema dell‟azione indiretta: il privato (salvo il caso dei danni derivanti da reato, per i quali è consentita l‟azione diretta) può agire soltanto nei confronti dello Stato, che, in caso di condanna, si rivale sul magistrato. In tal modo, lungi dal “tradire” il risultato referendario (come spesso frettolosamente e superficialmente si ripete), la legge operava quel bilanciamento fra principio di responsabilità e princìpi di indipendenza e imparzialità della giurisdizione, che la Corte costituzionale aveva già ripetutamente evocato.Nel mutato quadro normativo, la Corte si occupava nuovamente del tema della responsabilità civile dei magistrati con le sentenze n. 18 del 1989 e n. 468 del 1990.La prima pronuncia affronta numerose questioni di legittimità, tutte sollevate in riferimento alla nuova legge. In particolare, la Corte, con tale importante e complessa sentenza, nel richiamare e ribadire i princìpi già affermati con le sentenze del 1968 e del 1987, si sofferma anzitutto sul profilo della compatibilità fra la scelta operata dalla legge Vassalli e il principio di imparzialità della magistratura. Ebbene, “la limitatezza e tassatività delle fattispecie in cui è ipotizzabile una colpa grave del giudice, rapportate a “negligenza inescusabile” in ordine a violazioni di legge o accertamenti di fatto, ovvero all’emissione di provvedimenti restrittivi della libertà fuori dei casi consentiti dalla legge o senza motivazione; la specifica e circostanziata delimitazione della responsabilità per diniego di giustizia” e ancora la previsione che “l’autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l’imparziale interpretazione delle norme di diritto” non può dar luogo a responsabilità del giudice, a giudizio della Corte mettono al riparo il giudice da ogni turbamento della serenità e imparzialità del giudizio. In più, si osserva che “la previsione del giudizio di ammissibilità della domanda (art. 5 l. cit.) garantisce adeguatamente il giudice dalla proposizione di azioni “manifestamente infondate”, che possano turbarne la serenità, impedendo, al tempo stesso, di creare con malizia i presupposti per l’astensione e la ricusazione.”
 
Con la sentenza n. 468 del 1990 la Corte costituzionale, nell‟affrontare una questione di diritto transitorio, si sofferma di nuovo e diffusamente sul tema del filtro di ammissibilità dell‟azione civile di responsabilità, affermandone la copertura costituzionale. In particolare, la Consulta ricordava come essa avesse già “riconosciuto il rilievo costituzionale di un meccanismo di “filtro” della domanda giudiziale, diretta a far valere la responsabilità civile del giudice, perché un controllo preliminare della non manifesta infondatezza della domanda, portando ad escludere azioni temerarie e intimidatorie, garantisce la protezione dei valori di indipendenza e di autonomia della funzione giurisdizionale, sanciti negli artt. da 101 a 113 della Costituzione nel più ampio quadro di quelle “condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati” che “la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono”(v. sentenze n. 2 del 1968 e n. 26 del 1987). Tale filtro, nell’ordinamento introdotto nel 1940, era rappresentato dall’autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia, che si configurava come condizione di proponibilità della domanda per la dichiarazione di responsabilità del giudice, ex art. 56, primo comma, del codice di procedura civile”. Ne seguiva che “la mancata previsione nel contesto dell’art. 19 della legge n. 117 del 1988, di una norma a tutela dei valori di cui agli artt. 101 a 113 della Carta costituzionale determina vulnus – prima ancora che dei suddetti parametri – del principio dinon irragionevolezza implicato dall’art. 3 della Costituzione”. La Corte concludeva quindi nel senso dell‟illegittimità dell‟art. 19, “nella parte in cui, quanto ai giudizi di responsabilità civile dei magistrati, relativamente a fatti anteriori al 16 aprile 1988, e proposti successivamente al 7 aprile 1988, non prevede che il Tribunale competente verifichi con rito camerale la non manifesta infondatezza della domanda ai fini della sua ammissibilità”.

2. La legge 13 aprile 1988, n. 117: quadro normativo e opinioni critiche
 

Il sistema delineato dalla legge Vassalli è così ricostruito, in sintesi, nella sentenza Corte cost. n. 18/1989:”Il legislatore, restringendo l’ambito della responsabilità diretta dei magistrati nei limiti consentiti dalla disposizione dell’art. 28 della Costituzione, ha previsto che essi rispondano direttamente nella sola ipotesi di danni derivanti da fatti costituenti reato, commessi nell’esercizio delle loro funzioni (art. 13, primo comma). Nelle altre ipotesi in cui è prevista la risarcibilità dei danni (art. 2 e 3) derivanti dall’esercizio delle funzioni giudiziarie, il danneggiato può agire solo verso lo Stato, al quale è poi attribuita una limitata azione di rivalsa (artt. 7 e 8).Le ipotesi in cui è ammessa l’azione contro lo Stato – e quindi la rivalsa contro il magistrato – sono tassativamente determinate dagli artt. 2 e 3 della legge. A norma dell’art. 2 “chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni, ovvero per diniego di giustizia, può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale”. Secondo l’espressa – e tassativa – statuizione dell’articolo: “costituiscono colpa grave:a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;b) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;d) l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione”. L’articolo precisa che “non può dare luogo a responsabilità l’attività d’interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”.L’altra tassativa ipotesi in cui è ammessa l’azione di responsabilità è costituita dal “diniego di giustizia”, regolato dall’art. 3, a norma del quale “costituisce diniego di giustizia il rifiuto, l’omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria”. Tale termine può essere prorogato, con decreto motivato, dal capo dell’ufficio, mentre è ridotto a cinque giorni, ed è improrogabile, in tema di libertà personale dell’imputato.L’azione contro lo Stato, nei casi previsti dall’art. 2, può essere esercitata (art. 4) soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari d’impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, o quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell’ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno. L’azione può comunque essere esercitata decorsi tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno se in tale termine non si è concluso il grado del procedimento nell’ambito del quale il fatto si è verificato.In ogni caso l’azione va esercitata, a pena di decadenza, nel termine di due anni ed è previsto un giudizio preliminare di ammissibilità della stessa, inteso (art. 5) a verificare che siano rispettati “i termini o i presupposti di cui gli artt. 2, 3 e 4” e che non sussista la manifesta infondatezza della domanda.L’art. 7 dispone che, entro un anno dall’avvenuto risarcimento, lo Stato esercita l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato. La misura della rivalsa (art. 8), esclusi i casi di responsabilità del magistrato per dolo, non può superare una somma “pari al terzo di un’annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l’azione di risarcimento è proposta, anche se dal fatto è derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità”. L’esecuzione della rivalsa, quando viene effettuata mediante trattenuta sullo stipendio, non può comportare complessivamente il pagamento di rate mensili in misura superiore al quinto dello stipendio netto.L‟impalcatura della legge, in breve, si regge su alcuni capisaldi, di seguito sommariamente descritti:1) l‟azione di risarcimento è consentita solo per i casi di dolo, colpa grave (in casi tassativamente indicati, con il limite della negligenza inescusabile) e denegata giustizia;2) sono fatte salve l‟interpretazione di norme di diritto e la valutazione del fatto e delle prove;3) l‟azione, di regola, è consentita solo con riferimento a provvedimenti irrevocabili;4) la domanda è soggetta a un filtro, affidato al tribunale, che, in camera di consiglio, ne valuta l‟ammissibilità formale e la non manifesta infondatezza;5) l‟azione (salvo i casi di danni prodotti da reato) può essere esercitata solo verso lo Stato, al quale è poi riconosciuta, in caso di condanna, una limitata azione di rivalsa nei confronti del magistrato.Con tale sistema si è voluto garantire anzitutto il principio di indipendenza e imparzialità della giurisdizione, evitando le interferenze che un‟azione civile diretta e incontrollata potrebbe produrre sul giudizio e le improprie strumentalizzazioni derivanti da azioni di natura puramente ritorsiva o esercitate in funzione di rimedio processuale. In tal modo, si mirava a salvaguardare la serenità del giudizio dagli effetti distorsivi di impieghi impropri dell‟azione di responsabilità e dalle conseguenze di azioni, pur fondate, esercitate però a fronte di un‟attività delicata e intrinsecamente complessa.La disciplina della responsabilità “per categorie e situazioni” (secondo il dettato della Corte costituzionale), in deroga alla normativa ordinaria che si ricava dal codice civile (artt. 2043 ss.), non costituisce un‟eccezione ritagliata in via esclusiva per la funzione giudiziaria. Nel panorama dell‟impiego pubblico va ricordato, oltre al già citato art. 23 del DPR n. 3 del 1957, che limita la responsabilità dei pubblici impiegati verso i terzi ai soli casi di dolo e colpa grave, l‟art. 61 della legge 11 luglio 1980, n.312, che limita la responsabilità del personale docente e non docente degli istituti scolastici per i danni arrecati all’Amministrazione in connessione a comportamenti degli alunni, ai soli casi di dolo o colpa grave nell’esercizio della vigilanza. Quanto alle attività professionali, va richiamata la norma generale di cui all‟art. 2236 c.c., secondo la quale “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave“. Quanto ai medici, l‟art. 3 DL 13 settembre 2012, n. 158, se da un lato richiama espressamente l‟articolo 2043 del codice civile, dall‟altro però dispone che il giudice tenga conto, “anche nella determinazione del danno“, del rispetto delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, rispetto che, anche in caso di colpa lieve, esclude ogni responsabilità in sede penale.
 La nuova legge n.117, benché fondata su una solida lettura degli artt. 28, 101 e 104 della Costituzione e sui princìpi elaborati dal giudice delle leggi, non ha evitato il nuovo accendersi del dibattito sulla responsabilità civile dei magistrati, che ha assunto anzi nuovi e più acuti toni polemici, spesso in corrispondenza con l‟evidenza pubblica delle iniziative giudiziarie. Un dibattito che il più delle volte mira a trasformare un istituto (la responsabilità civile) che ha funzione tipicamente risarcitoria dei danni cagionati da condotte dolose o colpose, in qualcosa d‟altro: di volta in volta, in meccanismo di verifica della qualità del giudizio e della professionalità dei magistrati; in cura taumaturgica delle disfunzioni del servizio giustizia e in rimedio improprio agli eventuali errori del processo; in strumento di equilibrio dei rapporti fra politica e magistratura; in mezzo di compensazione della discrezionalità propria della funzione giudiziaria; in istituto con funzione preventivo-punitiva, volto a conformare, condizionandolo, l‟agire del magistrato. In qualcosa, cioè, che la responsabilità civile non è e non deve essere, salvo il pericolo di produrre un grave squilibrio del sistema, che un impiego atipico dello strumento risarcitorio rischia di provocare.Basta considerare, per averne conferma, i vari disegni di riforma della legge Vassalli avanzati nel corso del tempo, i quali, proponendosi ora di scardinare il carattere indiretto dell‟azione di responsabilità, ora di circoscrivere il principio di salvaguardia dell‟interpretazione della legge e della valutazione del fatto e delle prove, ora di ampliare i limiti di esercizio dell‟azione, appaiono ignari del quadro costituzionale, degli insegnamenti che si ricavano dalle sentenze della Consulta e dei modelli suggeriti, come si vedrà, dalle esperienze straniere e dal diritto internazionale e sovranazionale.La critica più ricorrente rivolta alla legge n.117 consiste nella scarsità di azioni di rivalsa esercitate dallo Stato negli oltre venticinque anni di vigenza; la causa viene generalmente attribuita da un lato al filtro di ammissibilità, del quale, secondo l‟opinione diffusa, si sarebbe abusato, dall‟altro all‟ampiezza della salvaguardia con cui la legge tutela l‟interpretazione del diritto e la valutazione del fatto e delle prove. Tali critiche, in realtà, appaiono più suggestive che fondate. Esse, infatti, non considerano da un lato le caratteristiche proprie dell‟azione civile, dall‟altro i dati offerti dalla casistica giudiziaria.Quanto al primo aspetto, va considerato il carattere casuale e incontrollato dell‟azione civile, il cui esercizio è rimesso alla libera iniziativa della parte privata. E‟ proprio tale arbitrarietà che – in aggiunta alla funzione tipica della responsabilità civile, che, come si diceva, è risarcitoria e non sanzionatoria – rende tale strumento del tutto inidoneo a svolgere una qualsivoglia affidabile funzione di controllo sulla qualità dell‟esercizio della funzione giudiziaria. Per rendersene conto, basta considerare il confronto statistico col severo sistema di giustizia disciplinare, il cui innesco è affidato non solo e non tanto agli esposti dei privati ma piuttosto a controlli e a ispezioni periodiche e che vede un alto numero di condanne, nella misura – è bene ricordarlo, fra le più alte in Europa – di varie decine ogni anno.

3. Il filtro di ammissibilità dell’azione (art. 5) nella casistica giurisprudenziale

Un esame sistematico della casistica giurisprudenziale è ostacolato dall‟assenza di rilevazioni statistiche complete. Un esame condotto dalla Commissione di studio di diritto civile dell‟ANM su alcuni dei principali Tribunali italiani (Milano, Brescia, Firenze, Perugia, Roma, Napoli, Catanzaro, Catania) ha rivelato dati che smentiscono alcune delle opinioni più diffuse. Il numero complessivo delle azioni civili è risultato piuttosto basso, anche se in crescita progressiva. Inoltre, le dichiarazioni di inammissibilità pronunciate ai sensi dell‟art. 5 delle legge sono risultate percentualmente inferiori alle attese. In particolare, presso il tribunale di Milano, le azioni di responsabilità incardinate sono state all‟incirca una o due all‟anno. Lo stesso vale per il tribunale di Firenze, dove, dal 2001 ad oggi, le cause aventi ad oggetto la responsabilità civile dei magistrati sono state in numero di dieci, con una declaratoria di inammissibilità appena del 20% sul totale dell‟intero contenzioso. Ne consegue che la maggior parte delle azioni, nel tribunale fiorentino, è stata definita all‟esito del giudizio pieno. Nell‟ambito delle azioni proposte, quelle che non hanno superato il filtro preliminare di ammissibilità si sono rivelate all‟origine palesemente infondate o pretestuose.Analoghe considerazioni valgono per il tribunale di Roma, nel quale, negli ultimi dieci anni, sono state iscritte circa diciassette azioni di responsabilità civile, delle quali nove dichiarate inammissibili e otto ammissibili.Ancora, va notato come, dai dati più recenti, si può rilevare una certa inversione di tendenza: ad esempio, l‟anno 2008, con 109 provvedimenti, fa totalizzare più di tutti i procedimenti dei cinque anni precedenti.1Dalla lettura dei decreti emessi sul territorio nazionale si rileva che le azioni intraprese evidenziano, in modo chiaro, la pretestuosità delle doglianze: nella gran parte dei casi, si tratta di azioni intentate dalla parte scontenta dell‟esito del giudizio, con il fine di intraprendere nuove strade risarcitorie o di recuperare in altro modo gli esiti di un giudizio non favorevole. Il dato che conferma tale circostanza è quello relativo ad un numero elevato di azioni intraprese senza nemmeno attendere il normale esito dei giudizi di impugnazione.La raccolta e l‟analisi di numerosi decreti ex art. 5 legge n.117/1988 ha consentito di verificare che i giudici hanno correttamente impostato e definito l‟istituto del filtro, applicato in casi in cui le domande di responsabilità civile si sono rivelate prive dei requisiti minimi di ammissibilità previsti dalla legge. Ad esempio, l‟esame dei decreti emessi nell‟ultimo decennio dal tribunale di Roma – dove esiste una sezione specializzata (la seconda) per esaminare le controversie relative ai rapporti con la pubblica amministrazione – ha dimostrato come le pronunce di inammissibilità siano fondate sulla carenza assoluta dei presupposti di ammissibilità, riassumibili in tre grandi tipologie:
 1. Inammissibilità per mancato esperimento dei mezzi di impugnazione o di opposizione nelle procedure esecutive.
 Numerosa è la casistica delle azioni intentate nella mancanza dei requisiti indicati dall‟art. 4, comma 2, della legge n. 117/1988 secondo il quale “l’azione di risarcimento del danno contro lo Stato può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell’ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno”. Si è potuta constatare l‟esistenza di numerose azioni incardinate in violazione del principio sopra menzionato, con utilizzazione dell‟azione di responsabilità quale alternativa ai normali rimedi endoprocessuali di tipo impugnatorio ed oppositorio, con conseguente intralciamento all‟ordinato svolgimento del processo.
 2. Inammissibilità per avvenuta proposizione della domanda oltre il termine stabilito dalla legge a pena di decadenza.

Molte azioni risultano esercitate successivamente allo scadere del termine biennale decorrente dalla pronuncia definitiva o ad essa assimilabile. In tali casi, il decreto di inammissibilità giunge all‟esito di una semplice constatazione preliminare, la quale evita così il prolungamento di giudizi privi dei necessari requisiti temporali.
 3. Inammissibilità dell‟azione proposta nei confronti di soggetti non legittimati.
Talune azioni risultano esercitate nei confronti di soggetti non legittimati: ad esempio, azioni incardinate nei confronti del Ministero della Giustizia o del Ministero della Difesa, con conseguente inammissibilità della domanda. Invero, l‟azione risarcitoria nei confronti dello Stato è soggetta al disposto dell‟art. 4, comma 1, la cui previsione indica, quale soggetto da evocare in giudizio, il Presidente del Consiglio dei Ministri, rendendo palese l‟inammissibilità di tutte le domande proposte nei confronti di diversi soggetti istituzionali. Anche in tale ipotesi, il giudizio di inammissibilità è piuttosto elementare e consiste nella verifica preliminare in ordine al legittimo esercizio dell‟azione. La sottoposizione di tali casi al giudizio a cognizione piena determinerebbe un inutile allungamento dei tempi procedurali, per tutte le ipotesi da rimettere al filtro preliminare, quale utile scrematura iniziale sulla legittimazione dei soggetti evocati in giudizio.
 A tali situazioni di carenza formale dei requisiti di ammissibilità della domanda, si aggiungono i casi di manifesta infondatezza. Anzitutto, talune decisioni hanno rilevato l‟inammissibilità ai sensi dell‟art. 2, comma 2, della legge n.117/1988, in applicazione della c.d. “clausola di salvaguardia” (“nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”). Tale ultima previsione tuttavia, come motivato nella gran parte dei decreti esaminati, non potrà spingersi fino a rendere del tutto franca l‟attività interpretativa-valutativa, dovendosi invece ritenere che tale attività di interpretazione e valutazione trovi il suo limite innanzitutto “nella grave violazione di legge, determinata da negligenza inescusabile”.
 
In altri casi, l‟azione di responsabilità risulta impiegata in funzione di ulteriore, anomalo, grado di giudizio. Merita di essere segnalato un filone di controversie di grande attualità riguardante i magistrati della Suprema Corte di Cassazione per l‟eventualità del c.d. “errore revocatorio” con l‟introduzione, di fatto, di un quarto grado di giudizio nell‟ambito di decisioni che abbiano già esaurito il normale iter processuale e siano state impugnate per revocazione. Tali azioni, per la gran parte, si sono rivelate prive di ammissibilità, giacché il ricorso per revocazione non costituiva altro che una ipotesi di ricorso fondato sui motivi già vagliati dalla Corte con la decisione impugnata.
 Ancora, altro filone di attualità è quello volto ad esperire preventivamente il ricorso ex art. 111 comma 7 Cost. avverso le decisioni della Suprema Corte, salvo poi introdurre l‟azione di responsabilità civile avverso la relativa decisione di inammissibilità del ricorso straordinario. In tali giudizi l‟inammissibilità, rilevata sulla base della manifesta infondatezza, consente di evitare un ulteriore appesantimento del contenzioso generato dalla creazione di gradi successivi alla decisione della Suprema Corte, al fine di rivederne il convincimento attraverso strade processuali alternative.
 Dalla lettura dei decreti di inammissibilità (con la casistica varia sopra enunciata in dettaglio) si rileva l‟ampia motivazione e la completezza delle argomentazioni a fronte di azioni quasi sempre pretestuose; si evince altresì che il giudizio preliminare di ammissibilità da parte di una sezione specializzata si rivela una scelta opportuna, giacché consente una scrematura ragionata e competente delle domande, con prosecuzione dei soli giudizi nei quali non vi siano palesi ragioni di inammissibilità.
 Tale esame ha poi consentito di riscontrare un numero ben significativo di decreti di ammissibilità, con la prosecuzione del processo dinanzi al giudice istruttore e con la trasmissione di copia degli atti agli organi titolari dell‟azione disciplinare.Per quanto concerne le violazioni del diritto comunitario (di cui si dirà al paragrafo che segue), è interessante segnalare come la giurisprudenza abbia immediatamente recepito le decisioni della Corte di Giustizia UE, inquadrando le violazioni del diritto comunitario all‟interno del procedimento delineato dalla legge n.117/1988. In particolare, dalla lettura di tali decisioni si ricava che la violazione manifesta del diritto comunitario (evocata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia) è stata ricondotta alle ipotesi di “colpa grave” ovvero alla “grave violazione di legge, determinata da negligenza inescusabile”, sul presupposto che l‟attività interpretativa giudiziale che si ponga in palese violazione dei canoni segnati dalla Corte di Giustizia è parimenti assoggettata al sindacato ed alla connessa eventuale responsabilità, con ciò evitando ogni antinomia tra il diritto interno ed il diritto dell‟Unione (cfr. ex plurimis decreti tribunale Roma, seconda sezione civile, 18.2.2013 e 19.11.2012). Ne segue che una tale interpretazione della legge n.117/1988, orientata sulla base del diritto comunitario, ha consentito di emettere un significativo numero di decreti di ammissibilità riguardanti per l‟appunto la violazione manifesta delle norme di diritto dell‟Unione.Siffatta interpretazione ha consentito di rispettare il principio di “effettività” della tutela, più volte richiamato dalla giurisprudenza comunitaria, facendo sì che il sindacato in ordine all‟ammissibilità della domanda si configuri come strumento “a maglie larghe” destinato, come tale, a precludere l‟accesso alla tutela delle sole azioni proposte fuori dai termini e dai presupposti di legge o a prima vista infondate, e cioè proposte per ipotesi in cui la denunciata violazione assuma i caratteri della pretestuosità. La valutazione in ordine all‟ammissibilità è stata condotta con un giudizio basato sull‟evidenza procedurale e documentale ed è stata seguita la buona regola di dichiarare ammissibile la domanda e di consentirne l‟esame nelle forme della cognizione piena, ogni qual volta si sia ravvisata una situazione di incertezza o di poca evidenza documentale e probatoria.Ancora, si deve notare come nel giudizio preliminare di ammissibilità non sia stata effettuata alcuna attività di tipo istruttorio. Tale prassi – anche secondo la dottrina prevalente – si rivela corretta ed adeguata, giacché è evidente che quanta più attività istruttoria si consente nell‟ambito del “filtro”, tanto più si estende l‟area della manifesta infondatezza.In conclusione, lo strumento del filtro preliminare di ammissibilità e la relativa giurisprudenza formatasi in materia hanno dato buona prova in termini di effettività della tutela, assolvendo ampiamente alla funzione di sbarramento per quelle sole azioni prive dei requisiti di ammissibilità o comunque a colpo d‟occhio manifestamente infondate. L‟esame dei decreti emessi all‟esito del vaglio preliminare di ammissibilità consente dunque di smentire superficiali vulgate e di formulare un giudizio favorevole sull‟attività svolta in applicazione dell‟art. 5 legge n.117/1988, il quale appresta uno sbarramento preliminare, che riveste una rilevante funzione di tutela anche per gli interessi dello Stato.

4. Il panorama internazionale: gli ordinamenti esteri e i princìpi del diritto internazionale e sovranazionale


 
L‟analisi del diritto comparato consente di verificare come negli altri ordinamenti europei sia ben tutelata la funzione giurisdizionale, sottratta al rischio di azioni intimidatorie o strumentali, senza frapporre anomale commistioni tra profili meramente riparatori e profili sanzionatori-disciplinari.Negli ordinamenti stranieri, al pari dell‟Italia, l‟accertamento della responsabilità civile del magistrato è un fatto eccezionale e rari sono i casi in cui il magistrato è stato sottoposto al giudizio di responsabilità; ciò evidenzia, ancor più, come le limitazioni siano insite nella peculiarità della funzione giurisdizionale.Si pensi alla legge fondamentale tedesca (Grundgesetz – CG), che, all‟art. 34, prevede la responsabilità dello Stato (Federazione o Land) in caso di violazione dei doveri della funzione da parte di un giudice2. La responsabilità, prevista dall‟art. 839 del codice civile (Bugerliches Gesetzbuch – BGB), è dunque indiretta e rispetto ad essa opera il criterio di imputazione allo Stato, stabilito dall‟art. 34 CG.Un meccanismo analogo opera in Francia, dove la peculiarità della funzione giurisdizionale ha da sempre imposto una cautela speciale nella previsione della responsabilità di coloro che la esercitano. In tale Stato viene avvertita fortemente l‟esigenza di preservare i magistrati dal moltiplicarsi delle azioni legali di risarcimento da parte di soggetti insoddisfatti delle decisioni giudiziarie.Nel Regno Unito, pur gravando sui magistrati una generale responsabilità per il loro operato, ciò tuttavia non comporta una indifferenziata applicazione delle norme comuni in materia di responsabilità per fatto illecito. Vige infatti, in tale paese, il principio dell‟esonero dalla responsabilità civile del magistrato per gli atti compiuti nell‟esercizio delle sue funzioni (principio radicato nei sistemi di common law), tradizionalmente inteso come presidio a tutela dell‟indipendenza della magistratura nel suo complesso (cfr. precedente giurisprudenziale rilevante Sirros v Moore)3.Un principio analogo di esclusione della responsabilità civile dei magistrati trova applicazione negli altri paesi di common law: Stati Uniti, Canada, Irlanda, Cipro.Per limitarsi al panorama europeo, altri ordinamenti prevedono la responsabilità soltanto dello Stato, con esclusione della rivalsa (Paesi Bassi); altri consentono la rivalsa ma solo in caso di condotta dolosa (Belgio, Portogallo).Il quadro internazionale, come si vede, è piuttosto variegato e spesso caratterizzato da soluzioni ben più restrittive rispetto a quella individuata dalla legge Vassalli, la quale si pone dunque fra le legislazioni che con maggiorelarghezza ammettono la responsabilità personale dei magistrati. Ne consegue che, anche in una prospettiva di diritto comparato, non è corretto impostare il dibattito esclusivamente sulla ristrettezza dei casi di responsabilità accertati e definiti nella vigenza della legge Vassalli; dunque, l‟impropria equazione tra la scarsità dei casi di riconosciuta responsabilità (scarsità che, come si è detto, non costituisce un‟eccezione italiana) e la presunta inadeguatezza della legge di responsabilità non costituisce una buona base di partenza per verificare le possibili ipotesi di modifica legislativa.
 Il tema della responsabilità civile dei magistrati è stato affrontato perfino in sede O.N.U., la cui Assemblea generale, con una risoluzione adottata il 29 novembre 1985, ha affermato il principio secondo il quale i giudici devono godere d’immunità personale dalle azioni civili di risarcimento dei danni patrimoniali derivanti da atti impropri od omissioni nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali. Benché tale risoluzione non costituisca in sé fonte di diritto (come ricordato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 18 del 1989), tuttavia il principio in essa affermato si inserisce in un insieme di enunciazioni dirette a garantire l’indipendenza della magistratura e definisce così un quadro che, pur in assenza di forza cogente, legittima sul piano internazionale la previsione di limitazioni e cautele, che delimitino la responsabilità dei magistrati in sede civile.Assai significativo, anche alla luce del dibattito sviluppatosi in Italia e di certe proposte reiterate di riforma della legge n.117, dirette a mettere in discussione il carattere indiretto dell‟azione e il principio di salvaguardia dell‟interpretazione, è quanto affermato in seno al Consiglio d’Europa, con la raccomandazione del Comitato dei Ministri agli Stati membri sui giudici n. 12 del 2010, adottata dal Comitato dei Ministri il 17 novembre 2010. Tale documento, ai paragrafi 66 e 67, esclude che l‟interpretazione della legge, l‟apprezzamento dei fatti o la valutazione delle prove possa fondare responsabilità disciplinare o civile, tranne che nei casi di dolo e colpa grave e consente che soltanto lo Stato, ove abbia dovuto concedere una riparazione, possa richiedere l‟accertamento di una responsabilità civile del giudice attraverso un‟azione innanzi ad un tribunale. Ancora, nel successivo paragrafo 70, si esclude che i giudici possano essere personalmente responsabili se una decisione è riformata in tutto o in parte a seguito di impugnazione.E‟ però da alcune sentenze della Corte di giustizia dell‟Unione Europea che ha tratto occasione e nuovo vigore il progetto di riforma della legge n.117. La Corte, con le sentenze 13 giugno 2006 in causa n. 173/03, Traghetti del mediterraneo, 30 settembre 2003, in causa n. 224/01, Köbler e 24 novembre 2011, Commissione c. Italia, in causa 379/10, ha affermato il principio che, qualora lo Stato – con leggi o con sentenze – violi il diritto comunitario, deve risarcire i danni che ne siano derivati ai soggetti lesi, a tutela della prevalenza del diritto dell’Unione.
 In particolare, con la sentenza Köbler, la Corte ha affermato che “il principio secondo cui gli Stati membri sono obbligati a riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario che sono loro imputabili si applica anche allorché la violazione di cui trattasi deriva da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado, sempreché la norma di diritto comunitario violata sia preordinata ad attribuire diritti ai singoli, la violazione sia sufficientemente caratterizzata e sussista un nesso causale diretto tra questa violazione e il danno subito dalle parti lese. Al fine di determinare se la violazione sia sufficientemente caratterizzata allorché deriva da una tale decisione, il giudice nazionale competente deve, tenuto conto della specificità della funzione giurisdizionale, accertare se tale violazione presenti un carattere manifesto.
 Va sottolineato come la Corte abbia riconosciuto come la responsabilità dello Stato sussiste solo nel caso, definito “eccezionale”, in cui il giudice abbia violato in maniera manifesta il diritto vigente. Ha aggiunto, inoltre, che “il giudice nazionale investito di una domanda di risarcimento dei danni deve tenere conto di tutti gli elementi che caratterizzano la controversia sottoposta al suo sindacato. Fra tali elementi compaiono in particolare il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere intenzionale della violazione, la scusabilità o l’inescusabilità dell’errore di diritto, la posizione adottata eventualmente da un’istituzione comunitaria nonché la mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, terzo comma, CE.”
 
Ancora, è assai significativo il fatto che la Corte europea, a fronte dell‟argomento critico che l’accettazione di una responsabilità dello Stato per atti giurisdizionali sarebbe tale da far sorgere il rischio di mettere in discussione l‟indipendenza del potere giudiziario, ha osservato che “il principio di responsabilità di cui trattasi riguarda non la responsabilità personale del giudice, ma quella dello Stato. Ora, non sembra che la possibilità che sussista, a talune condizioni, la responsabilità dello Stato per decisioni giurisdizionali incompatibili con il diritto comunitario comporti rischi particolari di rimettere in discussione l’indipendenza di un organo giurisdizionale di ultimo grado.”
 
Gli stessi princìpi sono richiamati nella sentenza Traghetti del Mediterraneo, che fa espresso richiamo, fra l‟altro, ai punti 53-55 della sentenza Köbler.Con la più recente sentenza 24 novembre 2011, Commissione c. Italia, in causa 379/10, basata sui medesimi princìpi di diritto richiamati nella precedenti pronunce, la Corte ha fondato la condanna dell‟Italia sul presupposto che,18“indipendentemente dalla questione se la nozione di «colpa grave», ai sensi della legge n. 117/88 (…) possa essere effettivamente interpretata, nell’ipotesi di violazione del diritto dell’Unione da parte di un organo giurisdizionale di ultimo grado dello Stato membro convenuto, in termini tali da corrispondere al requisito di «violazione manifesta del diritto vigente» fissato dalla giurisprudenza della Corte, si deve rilevare che la Repubblica italiana non ha richiamato, in ogni caso, nessuna giurisprudenza che, in detta ipotesi, vada in tal senso e non ha quindi fornito la prova richiesta quanto al fatto che l’interpretazione dell’art. 2, commi 1 e 3, di tale legge accolta dai giudici italiani sia conforme alla giurisprudenza della Corte.”
 
Indipendentemente dall‟effetto che può avere avuto la scelta, da parte dell‟Italia, di una opinabile linea difensiva (come osservato nella relazione illustrativa al disegno di legge S. 1070), è comunque lecito credere che, probabilmente, diversa sarebbe stata la decisione della Corte alla luce del recente indirizzo giurisprudenziale, ricordato al paragrafo precedente, che, riconducendo alle ipotesi di “colpa grave” ovvero alla “grave violazione di legge, determinata da negligenza inescusabile” la violazione manifesta del diritto comunitario (evocata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia UE), ha adattato la legge sulla responsabilità civile alla normativa dell‟Unione Europea, ha colmato il presunto vuoto normativo per la violazione manifesta del diritto comunitario e ha così mirato a prevenire ogni antinomia fra diritto interno e diritto dell‟Unione.Nel prendere atto, comunque, della situazione prodottasi per effetto della giurisprudenza della Corte europea, vanno sottolineati i seguenti princìpi, ricavabili dalle sentenze citate:- la Corte UE considera esclusivamente la responsabilità dello Stato, espressamente escludendo ogni necessaria parificazione fra responsabilità dello Stato e responsabilità del magistrato;- la responsabilità è valutata con riguardo esclusivo al diritto comunitario, disinteressandosi la Corte dei profili derivanti da eventuali violazioni del diritto nazionale;- la responsabilità dello Stato è configurabile solo nel caso eccezionale di violazione manifesta del diritto comunitario derivante da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado;- tale responsabilità deve tenere conto di tutti gli elementi che caratterizzano la controversia, ed in particolare del grado di chiarezza e di precisione della norma violata, del carattere intenzionale della violazione, della scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto, della posizione adottata eventualmente da un’istituzione comunitaria nonché della mancata osservanza dell‟obbligo di rinvio pregiudiziale.

5. La proposta di riforma della legge n. 117/1988

Le sentenze della Corte UE hanno offerto, come si diceva, l‟occasione e lo stimolo per una profonda riforma della legge n.117, ben oltre i limiti resi necessari da quelle sentenze.La proposta di legge in esame lascia inalterata l‟impalcatura della legge Vassalli, ed in particolare l‟esclusione di ogni azione diretta contro il magistrato (eccezion fatta per i danni da reato) e la previsione di un‟azione contro lo Stato, con litisconsorzio facoltativo del magistrato e rivalsa contro quest‟ultimo in caso di condanna, ma opera, per il resto, profonde modifiche dell‟impianto. Le principali possono così riassumersi:- viene operata la separazione fra l‟ambito della responsabilità dello Stato e quello della responsabilità del magistrato;- i casi di responsabilità dello Stato vengono modificati e resi più ampi, con l‟introduzione, fra l‟altro, dell‟ipotesi del travisamento del fatto o delle prove;- viene integralmente eliminato il filtro di ammissibilità dell‟azione, con l‟abrogazione dell‟art. 5 della legge;- vengono estesi i limiti della rivalsa.Conviene procedere a un esame distinto di tali aspetti.

5.1 Responsabilità dello Stato e responsabilità del magistrato

Come già si è osservato, la giurisprudenza costituzionale, se da un lato, ai sensi dell‟art. 28 Cost., riconosce copertura costituzionale alla responsabilità dello Stato e degli enti pubblici nei soli limiti in cui la responsabilità è individuata in capo ai funzionari e ai dipendenti pubblici, dall‟altro, però, non esclude affatto che una più estesa responsabilità dell‟ente sia ricavata eventualmente da norme o da princìpi contenuti in leggi ordinarie. La legge Vassalli, peraltro, con riguardo ai danni prodotti per dolo, colpa grave o denegata giustizia nell‟esercizio della funzione giudiziaria, ha realizzato una perfetta simmetria fra i due ambiti di responsabilità, mantenendo la responsabilità dello Stato nel perimetro segnato dall‟art. 2 e consentendo l‟azione di rivalsa, con l‟art. 7, in tutti i casi di intervenuta condanna dello Stato.Tale scelta è stata messa espressamente in discussione dalla già citata giurisprudenza della Corte UE, la quale definisce la responsabilità dello Stato in riferimento alla violazione manifesta del diritto comunitario ma, per il resto, si disinteressa sostanzialmente del profilo concernente la responsabilità personale del magistrato ed anzi evoca espressamente la possibilità di un regime differenziato di responsabilità, a salvaguardia dell‟indipendenza della giurisdizione.Il disegno di legge in esame, nel recepire (e nell‟estendere) il principio affermato con le citate sentenze della Corte del Lussemburgo (come meglio si dirà al paragrafo che segue), sottrae all‟art. 2 della legge il requisito della “negligenza inescusabile”, che trasferisce nella previsione dell‟art. 7, come ulteriore specificazione della colpa grave e condizione necessaria per l‟esercizio dell‟azione di rivalsa, una volta che sia intervenuta l‟eventuale condanna dello Stato. Tale soluzione, ancorché non l‟unica possibile e probabile fonte, in futuro, di tensioni nell‟individuazione dei limiti delle rispettive responsabilità, si mantiene comunque entro il quadro disegnato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte europea. Va ribadito, peraltro, come il riferimento alla “negligenza inescusabile” quale condizione necessaria della responsabilità personale, sia irrinunciabile. In caso contrario, rischierebbe di prodursi, nei fatti, una sorta di responsabilità oggettiva, ove concorrano a produrre il danno le disagevoli condizioni di lavoro, il carico in eccesso e, in generale, le disfunzioni del servizio giustizia, dei cui effetti sull‟esercizio in concreto della giurisdizione i magistrati devono essere tenuti indenni, allorché se ne valuti la personale responsabilità.

5.2 Le ipotesi di responsabilità e il travisamento del fatto e delle prove

La modifica dell‟art. 2 della legge n.117 costituisce uno degli interventi più rilevanti e, prevedibilmente, di maggiore impatto. In breve, il disegno di legge:- estende l‟ambito della risarcibilità alla generalità dei danni non patrimoniali, il cui ristoro è attualmente previsto per i soli casi di privazione della libertà personale;- recepisce, al comma 3, la nozione di violazione manifesta del diritto, che applica indifferentemente al diritto dell‟Unione europea e alla legge nazionale;- definisce, nel comma 3 bis, i parametri dei quali occorre tenere conto ai fini della valutazione circa la sussistenza o meno della predetta violazione manifesta, riproducendo pressoché testualmente le indicazioni fornite dalla Corte UE, già ricordate al paragrafo che precede (“grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonché dell’inescusabilità e della gravità dell’inosservanza (…) mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonché del contrasto dell’atto o del provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea”);- introduce, al comma 3, la nuova ipotesi di responsabilità costituita dal “travisamento del fatto o delle prove”;- estende i casi di risarcimento ai provvedimenti cautelari di natura reale;- nel conservare la clausola di salvaguardia dell‟interpretazione di norme di diritto e della valutazione del fatto e delle prove, fa però salvi “i commi 3 e 3-bis ed i casi di dolo”.
 
Se, come si è detto, la giurisprudenza europea non considera affatto la responsabilità del magistrato ma unicamente quella dello Stato, a maggior ragione le sentenze della Corte UE non possono essere invocate a fondamento di una riforma che modifica anche l‟ambito della responsabilità personale.Parimenti, anche l‟estensione al diritto interno della nozione di “violazione manifesta” costituisce uno sviluppo non necessitato della giurisprudenza della Corte UE. Nonostante che il parallelismo fra diritto comunitario e legge nazionale si fondi su argomenti fortemente suggestivi e trovi diffuso sostegno in dottrina, va però considerato che gli istituti e gli argomenti accolti nelle sentenze della Corte di giustizia presentano caratteri peculiari, fondati su una prospettiva sovranazionale, che si confronta con ordinamenti per tradizione e per contenuti spesso assai diversi fra loro, con un quadro costituzionale europeo non perfettamente simmetrico, nella materia, rispetto a quello nazionale, con un diritto dell‟Unione in larga parte di elaborazione giurisprudenziale. Dunque, l‟innesto, sulla legislazione nazionale, di princìpi elaborati con riguardo al panorama comunitario appare frettoloso e fonte potenziale di tensioni. Ne è prova l‟operazione di riduzione della nozione di “colpa grave” a quella di “violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea”, secondo la quale la colpa può sussistere, per di più nella sua forma “grave”, anche in assenza di “negligenza inescusabile”, la quale, come si è visto, si trasforma in condizione necessaria per la rivalsa.
 Ben sarebbe preferibile conservare l‟impianto attuale della legge Vassalli quanto alla normativa interna, limitando il recepimento della giurisprudenza europea alla sola violazione manifesta del diritto comunitario, prevedendo, solo in tal caso, il disallineamento fra responsabilità dello Stato e responsabilità del magistrato e richiedendo, per quest‟ultima, il requisito ulteriore della negligenza inescusabile.
Ancor più inquietante è la novità costituita dalla nuova ipotesi del “travisamento del fatto o delle prove”. Secondo l‟accezione comune, il concetto di travisamento evoca quello della falsificazione, dell‟alterazione grave, dello stravolgimento. In realtà, il travisamento è categoria processuale di elaborazione giurisprudenziale, ricavata in riferimento ai vizi della motivazione previsti dall‟art. 606 comma 1 lett. e) del codice di procedura penale e al giudizio di revocazione previsto dall‟art. 395 del codice di procedura civile. L‟introduzione del travisamento come ipotesi nuova e ulteriore di cui all‟art. 2 comma 3 della legge n.117, rischia dunque di provocare il trasferimento di una categoria giuridica dall‟ambito del processo a quello della responsabilità, con evidente confusione fra gli stessi ed ogni prevedibile effetto distorsivo e di possibile uso strumentale dell‟azione civile. Ancor più, il travisamento del fatto e delle prove coinvolge aspetti tipici dell‟attività valutativa, cioè proprio di quella attività che il comma 2 dovrebbe salvaguardare.
A tale riguardo, va anche considerata in termini fortemente critici la deroga introdotta dal disegno in esame in tale secondo comma, che fa salvi i casi di dolo e i commi 3 e 3 bis dello stesso articolo 2. Posto che la funzione giudiziaria ha contenuto fortemente e tipicamente valutativo, le attività di interpretazione e di valutazione non possono tollerare limitazioni che discendano da una contaminazione con profili di carattere soggettivo (dolo e colpa grave): infatti, ove si realizzino letture manifestamente abnormi del dato normativo o macroscopici ed evidenti stravolgimenti di quello fattuale, allora non ricorrerà più un‟attività definibile come interpretazione o valutazione. Inoltre, la circostanza che proprio nel comma 3 (in favore del quale opera la citata deroga) sia collocata la nuova ipotesi del travisamento spalanca prospettive allarmanti in ordine al rapporto che verrebbe a delinearsi fra la nozione di travisamento e la clausola di salvaguardia, con rischi di indebolimento di quest‟ultima e di travaso della nozione di travisamento in quelle di interpretazione e valutazione.
Occorre ricordare nuovamente quanto affermava il giudice delle leggi con la sentenza n. 18 del 1989, per cui la garanzia costituzionale dell‟indipendenza del magistrato è diretta a tutelare anzitutto “l’autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l’imparziale interpretazione delle norme di diritto. Tale attività non può dar luogo a responsabilità del giudice (art. 2, n. 2 l. n. 117 cit.) ed il legislatore ha ampliato la sfera d’irresponsabilità, fino al punto in cui l’esercizio della giurisdizione, in difformità da doveri fondamentali, non si traduca in violazione inescusabile della legge o in ignoranza inescusabile dei fatti di causa, la cui esistenza non è controversa”. L‟eventualità che l‟azione civile possa operare sul giudice come stimolo verso scelte interpretative accomodanti e decisioni meno rischiose in relazione agli interessi in causa, con ricadute negative sull‟imparzialità, è, secondo la Corte, impedita in radice proprio dalla previsione dell’art. 2, comma secondo, della legge n. 117, che “esclude espressamente che possa dar luogo a responsabilità l’attività d’interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove.” Tali parole rendono chiara, oltre ogni dubbio, la centralità che, ai fini della tutela dell‟indipendenza e dell‟imparzialità della giurisdizione, assume la salvaguardia della valutazione del fatto e delle prove, alla pari dell‟interpretazione del diritto.
 A tale riguardo va sottolineato come l‟attività interpretativa costituisca il cuore stesso della giurisdizione, nel rifiuto della “concezione che pretende di ridurre l’interpretazione ad una attività puramente formalistica indifferente al contenuto e all’incidenza concreta della norma nella vita del paese”. In tal senso conclude la mozione finale approvata all‟esito del XII Congresso ANM di Gardone, tenutosi nel settembre 1965, nella quale si sottolinea altresì che “il giudice, all’opposto, deve essere consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione”. Tali affermazioni appaiono tanto più vere oggi, alla luce della molteplicità dei livelli costituzionali e di un‟accresciuta complessità della legislazione. Pertanto, deve esprimersi forte contrarietà a quelle proposte (peraltro non accolte nel disegno in esame), che vorrebbero irrigidire i limiti dell‟interpretazione, con l‟effetto, piuttosto che di assicurare la certezza del diritto, di promuovere il conformismo interpretativo.
 In conclusione, la legittimità della nuova ipotesi di travisamento potrebbe ammettersi solo ove essa fosse affidata a un‟interpretazione di tipo restrittivo e costituzionalmente orientato, che ne proponesse una lettura in termini sostanzialmente non molto diversi dalla “affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento” o dalla “negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento”, ipotesi già previste dal vigente art. 3 comma 2 lettere b) e c) della legge e lasciate intatte dal disegno in esame. Ogni diversa lettura, che pretendesse di cogliere il “travisamento” mediante un procedimento argomentativo o una qualche indagine men che superficiale condotta sul provvedimento giudiziario, dovrebbe reputarsi incostituzionale. Dunque, meglio sarebbe cassare del tutto il richiamo al “travisamento” o, quanto meno, chiarire espressamente che l‟unico “travisamento” rilevante ai fini della responsabilità civile è quello macroscopico, evidente, che non richiede alcun approfondimento di carattere interpretativo o valutativo.

5.3 L’abolizione del filtro previsto dal vigente art. 5 della legge n. 117/1988

Il disegno di legge prevede l‟abolizione del filtro di ammissibilità della domanda, la quale, in conseguenza, determina l‟instaurarsi del giudizio, in assenza di qualsiasi vaglio preventivo o condizione di proponibilità e senza che tale abolizione sia compensata da meccanismi sanzionatori diretti a disincentivare azioni di responsabilità strumentali, ritorsive o intimidatorie, diversi dallo strumento ordinariamente previsto per la lite temeraria.Al precedente paragrafo 1 si è già evidenziato come la Consulta, con le sentenze n. 18 del 1989 e n. 468 del 1990, abbia affermato la rilevanza costituzionale di un meccanismo diretto a filtrare la domanda giudiziale, ” perché un controllo preliminare della non manifesta infondatezza della domanda, portando ad escludere azioni temerarie e intimidatorie, garantisce la protezione dei valori di indipendenza e di autonomia della funzione giurisdizionale” (sent. n. 468/1990). Può dunque seriamente dubitarsi della conformità alla Costituzione dell‟eliminazione integrale di un tale controllo, il quale “garantisce adeguatamente il giudice dalla proposizione di azioni “manifestamente infondate”, che possano turbarne la serenità, impedendo, al tempo stesso, di creare con malizia i presupposti per l’astensione e la ricusazione.” (sent. n. 18/1989).
 Oltre a questi profili di legittimità, l‟abolizione integrale del filtro si presta, sotto altro aspetto, a seri rilievi di ragionevolezza.Anzitutto, tale scelta, come si osservava, nasce dall‟opinione diffusa che di tale filtro si sia abusato, così bloccando sul nascere la gran parte delle azioni di responsabilità. Tale pregiudizio non soltanto è smentito dall‟esame della casistica giurisprudenziale (come già ampiamente dimostrato al paragrafo 3) ma appare anche contrario al buon senso logico: non si comprende, infatti, perché mai dovrebbero trovare accoglimento, all‟esito di una cognizione piena, domande oggi ritenute prive dei requisiti minimi di ammissibilità. L‟abolizione del filtro spalancherà le porte del giudizio, invece, non soltanto alle domande manifestamente infondate ma perfino a quelle sfornite dei requisiti formali minimi (termine di decadenza, esaurimento dei rimedi processuali, legittimazione passiva, ecc.).
 Si aggiunga che tale abolizione va anche in palese controtendenza rispetto alla scelta legislativa di diffondere e ampliare sempre più le soluzioni deflative che mirano a prevenire l‟inutile proliferazione delle liti (si pensi al recente DL n. 132/2014) e che si aggiungono ai casi particolari, già previsti dalla legge, di delibazione preliminare dell‟ammissibilità della domanda. Quella scelta appare tanto meno comprensibile, in una materia in cui il pericolo di azioni pretestuose è elevato, posto che la funzione giudiziaria opera in genere su situazioni litigiose, in cui la parte soccombente finisce non di rado col trasferire sul magistrato quella litigiosità. Né va trascurato il fatto che il condizionamento sull‟imparzialità della giurisdizione può essere prodotto dall‟azione in se stessa, ancorché indiretta e infondata (ma che, comunque, già porrebbe il magistrato di fronte alla scelta se intervenire o meno nel giudizio), piuttosto che dal suo esito, anche a causa degli effetti processuali di incompatibilità che potrebbe generare; un‟azione che diverrebbe strumento di forte pressione nelle mani della parte più dotata di risorse e più disposta a concepire i tribunali come arene di uno scontro all‟ultimo sangue, piuttosto che come luogo di giustizia e di composizione delle liti nel processo e col processo. Né potrà mai alcuna assicurazione professionale restituire al magistrato la serenità necessaria per essere realmente libero e indipendente.L‟eliminazione del filtro di ammissibilità della domanda risulta ancora più inopportuna alla luce dell‟art. 4 commi 2 e 3 della legge. Tale disposizione, infatti, consente che l‟azione sia esercitata non solo all‟esito del giudicato ma anche avverso provvedimenti cautelari e sommari, quando non ne sia più possibile la modifica o la revoca, ed anche quando siano decorsi tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno, se in tale termine non si è concluso il grado del procedimento nell’ambito del quale il fatto stesso si è verificato: dunque nel corso del procedimento medesimo, con ogni prevedibile, conseguente effetto processuale, in termini di incompatibilità e di turbamento della serenità del giudizio.In conclusione, sarebbe conforme ai princìpi costituzionali e alle esigenze di speditezza mantenere lo strumento del filtro di ammissibilità, quanto meno per i casi di carenza dei requisiti formali della domanda e delle situazioni di più vistosa infondatezza, rimettendo ogni altra valutazione alla fase di cognizione piena.

5.4 Il giudizio di rivalsa e i suoi limiti

Il disegno di legge amplia i termini del giudizio di rivalsa (da un anno a due) e ne esplicita il carattere obbligatorio. Opportunamente, per le sole condotte colpose, viene mantenuto il tetto massimo alla rivalsa, posto che la sua eliminazione, aprendo le porte a pregiudizi patrimoniali personali anche ingenti – a fronte della complessità delle questioni trattate e dell‟entità rilevante dei carichi di lavoro gravanti sui magistrati – avrebbe costituito una fonte di forte condizionamento e turbamento personale. Il tetto viene però elevato da un terzo alla metà di una annualità dello stipendio e le trattenute portate dalla misura ordinaria massima di un quinto a quella di un terzo dello stipendio netto. Si segnalano tali interventi, come sintomatici di una impostazione riformatrice ispirata a una generale severità.

6. Conclusioni

La disciplina della responsabilità civile dei magistrati non può che fondarsi su un equilibrio fra la necessità di garantire ristoro ai soggetti lesi dall‟attività gravemente negligente dei magistrati e la necessità di preservare l‟esercizio dell‟attività giurisdizionale da ogni indebito condizionamento esterno. La previsione di un meccanismo risarcitorio per i danni cagionati dal magistrato nell‟esercizio delle funzioni che fosse configurabile in termini di libera azionabilità da parte di ogni cittadino non soddisfatto dell‟esito processuale, comporterebbe una sicura vulnerabilità dell‟intero sistema giudiziario, che verrebbe ad essere inutilmente appesantito da controversie risarcitorie rivelatesi, nella maggior parte dei casi, strumentali e pretestuose, tali da minare la terzietà, l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati e, quindi, il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.Ogni disegno di riforma dovrebbe dunque sottrarsi al fascino di slogan suggestivi quanto fuorvianti quali “chi sbaglia paga” o “lo vuole l‟Europa”, che forse producono effetto sull’opinione pubblica ma, in realtà, nascondono le gravi distorsioni che discendono – come già osservato al paragrafo 2 – da un impiego improprio e atipico dell‟azione di responsabilità civile e fanno dimenticare che la normativa in materia, con i limiti che essa prevede, è posta a protezione di valori fondamentali dei cittadini e non a tutela dei magistrati. Il punto di equilibrio tra le diverse esigenze è stato trovato, in esecuzione dell’esito del referendum popolare del 1987, nella legge 18 aprile 1988 n. 117 («Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati»), la quale non ritaglia, per i magistrati, una posizione di privilegio ma adatta alle specificità della funzione giudiziaria regole (la limitazione della responsabilità ai casi di dolo e di colpa grave), che valgono per le altre categorie di dipendenti pubblici, ad esse aggiungendo il divieto di azione diretta, a tutela dei princìpi di indipendenza e imparzialità della giurisdizione, in un sistema complessivo che la Consulta ha giudicato coerente con i princìpi della Carta costituzionale.Ogni intervento di riforma, dunque, non può sottrarsi al rispetto di quei princìpi. In tal senso, il disegno di legge in esame non si sottrae a forti critiche, come sopra diffusamente illustrato, con riguardo, anzitutto, alla nuova ipotesi del travisamento del fatto e delle prove e all‟eliminazione di ogni filtro di ammissibilità della domanda, neanche temperata da soluzioni alternative, idonee a scoraggiare iniziative pretestuose e strumentali.

Responsabilità dello Stato e responsabilità del magistrato

Come già si è osservato, la giurisprudenza costituzionale, se da un lato, ai sensi dell‟art. 28 Cost., riconosce copertura costituzionale alla responsabilità dello Stato e degli enti pubblici nei soli limiti in cui la responsabilità è individuata in capo ai funzionari e ai dipendenti pubblici, dall‟altro, però, non esclude affatto che una più estesa responsabilità dell‟ente sia ricavata eventualmente da norme o da princìpi contenuti in leggi ordinarie. La legge Vassalli, peraltro, con riguardo ai danni prodotti per dolo, colpa grave o denegata giustizia nell‟esercizio della funzione giudiziaria, ha realizzato una perfetta simmetria fra i due ambiti di responsabilità, mantenendo la responsabilità dello Stato nel perimetro segnato dall‟art. 2 e consentendo l‟azione di rivalsa, con l‟art. 7, in tutti i casi di intervenuta condanna dello Stato.Tale scelta è stata messa espressamente in discussione dalla già citata giurisprudenza della Corte UE, la quale definisce la responsabilità dello Stato in riferimento alla violazione manifesta del diritto comunitario ma, per il resto, si disinteressa sostanzialmente del profilo concernente la responsabilità personale del magistrato ed anzi evoca espressamente la possibilità di un regime differenziato di responsabilità, a salvaguardia dell‟indipendenza della giurisdizione.Il disegno di legge in esame, nel recepire (e nell‟estendere) il principio affermato con le citate sentenze della Corte del Lussemburgo (come meglio si dirà al paragrafo che segue), sottrae all‟art. 2 della legge il requisito della “negligenza inescusabile”, che trasferisce nella previsione dell‟art. 7, come ulteriore specificazione della colpa grave e condizione necessaria per l‟esercizio dell‟azione di rivalsa, una volta che sia intervenuta l‟eventuale condanna dello Stato. Tale soluzione, ancorché non l‟unica possibile e probabile fonte, in futuro, di tensioni nell‟individuazione dei limiti delle rispettive responsabilità, si mantiene comunque entro il quadro disegnato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte europea. Va ribadito, peraltro, come il riferimento alla “negligenza inescusabile” quale condizione necessaria della responsabilità personale, sia irrinunciabile. In caso contrario, rischierebbe di prodursi, nei fatti, una sorta di responsabilità oggettiva, ove concorrano a produrre il danno le disagevoli condizioni di lavoro, il carico in eccesso e, in generale, le disfunzioni del servizio giustizia, dei cui effetti sull‟esercizio in concreto della giurisdizione i magistrati devono essere tenuti indenni, allorché se ne valuti la personale responsabilità.


5.2 Le ipotesi di responsabilità e il travisamento del fatto e delle prove

La modifica dell‟art. 2 della legge n.117 costituisce uno degli interventi più rilevanti e, prevedibilmente, di maggiore impatto. In breve, il disegno di legge:- estende l‟ambito della risarcibilità alla generalità dei danni non patrimoniali, il cui ristoro è attualmente previsto per i soli casi di privazione della libertà personale;- recepisce, al comma 3, la nozione di violazione manifesta del diritto, che applica indifferentemente al diritto dell‟Unione europea e alla legge nazionale;- definisce, nel comma 3 bis, i parametri dei quali occorre tenere conto ai fini della valutazione circa la sussistenza o meno della predetta violazione manifesta, riproducendo pressoché testualmente le indicazioni fornite dalla Corte UE, già ricordate al paragrafo che precede (“grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonché dell’inescusabilità e della gravità dell’inosservanza (…) mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonché del contrasto dell’atto o del provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea”);- introduce, al comma 3, la nuova ipotesi di responsabilità costituita dal “travisamento del fatto o delle prove”;- estende i casi di risarcimento ai provvedimenti cautelari di natura reale;- nel conservare la clausola di salvaguardia dell‟interpretazione di norme di diritto e della valutazione del fatto e delle prove, fa però salvi “i commi 3 e 3-bis ed i casi di dolo”.
 
Se, come si è detto, la giurisprudenza europea non considera affatto la responsabilità del magistrato ma unicamente quella dello Stato, a maggior ragione le sentenze della Corte UE non possono essere invocate a fondamento di una riforma che modifica anche l‟ambito della responsabilità personale.Parimenti, anche l‟estensione al diritto interno della nozione di “violazione manifesta” costituisce uno sviluppo non necessitato della giurisprudenza della Corte UE. Nonostante che il parallelismo fra diritto comunitario e legge nazionale si fondi su argomenti fortemente suggestivi e trovi diffuso sostegno in dottrina, va però considerato che gli istituti e gli argomenti accolti nelle sentenze della Corte di giustizia presentano caratteri peculiari, fondati su una prospettiva sovranazionale, che si confronta con ordinamenti per tradizione e per contenuti spesso assai diversi fra loro, con un quadro costituzionale europeo non perfettamente simmetrico, nella materia, rispetto a quello nazionale, con un diritto dell‟Unione in larga parte di elaborazione giurisprudenziale. Dunque, l‟innesto, sulla legislazione nazionale, di princìpi elaborati con riguardo al panorama comunitario appare frettoloso e fonte potenziale di tensioni. Ne è prova l‟operazione di riduzione della nozione di “colpa grave” a quella di “violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea”, secondo la quale la colpa può sussistere, per di più nella sua forma “grave”, anche in assenza di “negligenza inescusabile”, la quale, come si è visto, si trasforma in condizione necessaria per la rivalsa.
 Ben sarebbe preferibile conservare l‟impianto attuale della legge Vassalli quanto alla normativa interna, limitando il recepimento della giurisprudenza europea alla sola violazione manifesta del diritto comunitario, prevedendo, solo in tal caso, il disallineamento fra responsabilità dello Stato e responsabilità del magistrato e richiedendo, per quest‟ultima, il requisito ulteriore della negligenza inescusabile.
Ancor più inquietante è la novità costituita dalla nuova ipotesi del “travisamento del fatto o delle prove”. Secondo l‟accezione comune, il concetto di travisamento evoca quello della falsificazione, dell‟alterazione grave, dello stravolgimento. In realtà, il travisamento è categoria processuale di elaborazione giurisprudenziale, ricavata in riferimento ai vizi della motivazione previsti dall‟art. 606 comma 1 lett. e) del codice di procedura penale e al giudizio di revocazione previsto dall‟art. 395 del codice di procedura civile. L‟introduzione del travisamento come ipotesi nuova e ulteriore di cui all‟art. 2 comma 3 della legge n.117, rischia dunque di provocare il trasferimento di una categoria giuridica dall‟ambito del processo a quello della responsabilità, con evidente confusione fra gli stessi ed ogni prevedibile effetto distorsivo e di possibile uso strumentale dell‟azione civile. Ancor più, il travisamento del fatto e delle prove coinvolge aspetti tipici dell‟attività valutativa, cioè proprio di quella attività che il comma 2 dovrebbe salvaguardare.
A tale riguardo, va anche considerata in termini fortemente critici la deroga introdotta dal disegno in esame in tale secondo comma, che fa salvi i casi di dolo e i commi 3 e 3 bis dello stesso articolo 2. Posto che la funzione giudiziaria ha contenuto fortemente e tipicamente valutativo, le attività di interpretazione e di valutazione non possono tollerare limitazioni che discendano da una contaminazione con profili di carattere soggettivo (dolo e colpa grave): infatti, ove si realizzino letture manifestamente abnormi del dato normativo o macroscopici ed evidenti stravolgimenti di quello fattuale, allora non ricorrerà più un‟attività definibile come interpretazione o valutazione. Inoltre, la circostanza che proprio nel comma 3 (in favore del quale opera la citata deroga) sia collocata la nuova ipotesi del travisamento spalanca prospettive allarmanti in ordine al rapporto che verrebbe a delinearsi fra la nozione di travisamento e la clausola di salvaguardia, con rischi di indebolimento di quest‟ultima e di travaso della nozione di travisamento in quelle di interpretazione e valutazione.
Occorre ricordare nuovamente quanto affermava il giudice delle leggi con la sentenza n. 18 del 1989, per cui la garanzia costituzionale dell‟indipendenza del magistrato è diretta a tutelare anzitutto “l’autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l’imparziale interpretazione delle norme di diritto. Tale attività non può dar luogo a responsabilità del giudice (art. 2, n. 2 l. n. 117 cit.) ed il legislatore ha ampliato la sfera d’irresponsabilità, fino al punto in cui l’esercizio della giurisdizione, in difformità da doveri fondamentali, non si traduca in violazione inescusabile della legge o in ignoranza inescusabile dei fatti di causa, la cui esistenza non è controversa”. L‟eventualità che l‟azione civile possa operare sul giudice come stimolo verso scelte interpretative accomodanti e decisioni meno rischiose in relazione agli interessi in causa, con ricadute negative sull‟imparzialità, è, secondo la Corte, impedita in radice proprio dalla previsione dell’art. 2, comma secondo, della legge n. 117, che “esclude espressamente che possa dar luogo a responsabilità l’attività d’interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove.” Tali parole rendono chiara, oltre ogni dubbio, la centralità che, ai fini della tutela dell‟indipendenza e dell‟imparzialità della giurisdizione, assume la salvaguardia della valutazione del fatto e delle prove, alla pari dell‟interpretazione del diritto.
 A tale riguardo va sottolineato come l‟attività interpretativa costituisca il cuore stesso della giurisdizione, nel rifiuto della “concezione che pretende di ridurre l’interpretazione ad una attività puramente formalistica indifferente al contenuto e all’incidenza concreta della norma nella vita del paese”. In tal senso conclude la mozione finale approvata all‟esito del XII Congresso ANM di Gardone, tenutosi nel settembre 1965, nella quale si sottolinea altresì che “il giudice, all’opposto, deve essere consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione”. Tali affermazioni appaiono tanto più vere oggi, alla luce della molteplicità dei livelli costituzionali e di un‟accresciuta complessità della legislazione. Pertanto, deve esprimersi forte contrarietà a quelle proposte (peraltro non accolte nel disegno in esame), che vorrebbero irrigidire i limiti dell‟interpretazione, con l‟effetto, piuttosto che di assicurare la certezza del diritto, di promuovere il conformismo interpretativo.
 In conclusione, la legittimità della nuova ipotesi di travisamento potrebbe ammettersi solo ove essa fosse affidata a un‟interpretazione di tipo restrittivo e costituzionalmente orientato, che ne proponesse una lettura in termini sostanzialmente non molto diversi dalla “affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento” o dalla “negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento”, ipotesi già previste dal vigente art. 3 comma 2 lettere b) e c) della legge e lasciate intatte dal disegno in esame. Ogni diversa lettura, che pretendesse di cogliere il “travisamento” mediante un procedimento argomentativo o una qualche indagine men che superficiale condotta sul provvedimento giudiziario, dovrebbe reputarsi incostituzionale. Dunque, meglio sarebbe cassare del tutto il richiamo al “travisamento” o, quanto meno, chiarire espressamente che l‟unico “travisamento” rilevante ai fini della responsabilità civile è quello macroscopico, evidente, che non richiede alcun approfondimento di carattere interpretativo o valutativo.

5.3 L’abolizione del filtro previsto dal vigente art. 5 della legge n. 117/1988

Il disegno di legge prevede l‟abolizione del filtro di ammissibilità della domanda, la quale, in conseguenza, determina l‟instaurarsi del giudizio, in assenza di qualsiasi vaglio preventivo o condizione di proponibilità e senza che tale abolizione sia compensata da meccanismi sanzionatori diretti a disincentivare azioni di responsabilità strumentali, ritorsive o intimidatorie, diversi dallo strumento ordinariamente previsto per la lite temeraria.Al precedente paragrafo 1 si è già evidenziato come la Consulta, con le sentenze n. 18 del 1989 e n. 468 del 1990, abbia affermato la rilevanza costituzionale di un meccanismo diretto a filtrare la domanda giudiziale, ” perché un controllo preliminare della non manifesta infondatezza della domanda, portando ad escludere azioni temerarie e intimidatorie, garantisce la protezione dei valori di indipendenza e di autonomia della funzione giurisdizionale” (sent. n. 468/1990). Può dunque seriamente dubitarsi della conformità alla Costituzione dell‟eliminazione integrale di un tale controllo, il quale “garantisce adeguatamente il giudice dalla proposizione di azioni “manifestamente infondate”, che possano turbarne la serenità, impedendo, al tempo stesso, di creare con malizia i presupposti per l’astensione e la ricusazione.” (sent. n. 18/1989).
 Oltre a questi profili di legittimità, l‟abolizione integrale del filtro si presta, sotto altro aspetto, a seri rilievi di ragionevolezza.Anzitutto, tale scelta, come si osservava, nasce dall‟opinione diffusa che di tale filtro si sia abusato, così bloccando sul nascere la gran parte delle azioni di responsabilità. Tale pregiudizio non soltanto è smentito dall‟esame della casistica giurisprudenziale (come già ampiamente dimostrato al paragrafo 3) ma appare anche contrario al buon senso logico: non si comprende, infatti, perché mai dovrebbero trovare accoglimento, all‟esito di una cognizione piena, domande oggi ritenute prive dei requisiti minimi di ammissibilità. L‟abolizione del filtro spalancherà le porte del giudizio, invece, non soltanto alle domande manifestamente infondate ma perfino a quelle sfornite dei requisiti formali minimi (termine di decadenza, esaurimento dei rimedi processuali, legittimazione passiva, ecc.).
 Si aggiunga che tale abolizione va anche in palese controtendenza rispetto alla scelta legislativa di diffondere e ampliare sempre più le soluzioni deflative che mirano a prevenire l‟inutile proliferazione delle liti (si pensi al recente DL n. 132/2014) e che si aggiungono ai casi particolari, già previsti dalla legge, di delibazione preliminare dell‟ammissibilità della domanda. Quella scelta appare tanto meno comprensibile, in una materia in cui il pericolo di azioni pretestuose è elevato, posto che la funzione giudiziaria opera in genere su situazioni litigiose, in cui la parte soccombente finisce non di rado col trasferire sul magistrato quella litigiosità. Né va trascurato il fatto che il condizionamento sull‟imparzialità della giurisdizione può essere prodotto dall‟azione in se stessa, ancorché indiretta e infondata (ma che, comunque, già porrebbe il magistrato di fronte alla scelta se intervenire o meno nel giudizio), piuttosto che dal suo esito, anche a causa degli effetti processuali di incompatibilità che potrebbe generare; un‟azione che diverrebbe strumento di forte pressione nelle mani della parte più dotata di risorse e più disposta a concepire i tribunali come arene di uno scontro all‟ultimo sangue, piuttosto che come luogo di giustizia e di composizione delle liti nel processo e col processo. Né potrà mai alcuna assicurazione professionale restituire al magistrato la serenità necessaria per essere realmente libero e indipendente.L‟eliminazione del filtro di ammissibilità della domanda risulta ancora più inopportuna alla luce dell‟art. 4 commi 2 e 3 della legge. Tale disposizione, infatti, consente che l‟azione sia esercitata non solo all‟esito del giudicato ma anche avverso provvedimenti cautelari e sommari, quando non ne sia più possibile la modifica o la revoca, ed anche quando siano decorsi tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno, se in tale termine non si è concluso il grado del procedimento nell’ambito del quale il fatto stesso si è verificato: dunque nel corso del procedimento medesimo, con ogni prevedibile, conseguente effetto processuale, in termini di incompatibilità e di turbamento della serenità del giudizio.In conclusione, sarebbe conforme ai princìpi costituzionali e alle esigenze di speditezza mantenere lo strumento del filtro di ammissibilità, quanto meno per i casi di carenza dei requisiti formali della domanda e delle situazioni di più vistosa infondatezza, rimettendo ogni altra valutazione alla fase di cognizione piena.

5.4 Il giudizio di rivalsa e i suoi limiti

Il disegno di legge amplia i termini del giudizio di rivalsa (da un anno a due) e ne esplicita il carattere obbligatorio. Opportunamente, per le sole condotte colpose, viene mantenuto il tetto massimo alla rivalsa, posto che la sua eliminazione, aprendo le porte a pregiudizi patrimoniali personali anche ingenti – a fronte della complessità delle questioni trattate e dell‟entità rilevante dei carichi di lavoro gravanti sui magistrati – avrebbe costituito una fonte di forte condizionamento e turbamento personale. Il tetto viene però elevato da un terzo alla metà di una annualità dello stipendio e le trattenute portate dalla misura ordinaria massima di un quinto a quella di un terzo dello stipendio netto. Si segnalano tali interventi, come sintomatici di una impostazione riformatrice ispirata a una generale severità.


6. Conclusioni

La disciplina della responsabilità civile dei magistrati non può che fondarsi su un equilibrio fra la necessità di garantire ristoro ai soggetti lesi dall‟attività gravemente negligente dei magistrati e la necessità di preservare l‟esercizio dell‟attività giurisdizionale da ogni indebito condizionamento esterno. La previsione di un meccanismo risarcitorio per i danni cagionati dal magistrato nell‟esercizio delle funzioni che fosse configurabile in termini di libera azionabilità da parte di ogni cittadino non soddisfatto dell‟esito processuale, comporterebbe una sicura vulnerabilità dell‟intero sistema giudiziario, che verrebbe ad essere inutilmente appesantito da controversie risarcitorie rivelatesi, nella maggior parte dei casi, strumentali e pretestuose, tali da minare la terzietà, l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati e, quindi, il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.Ogni disegno di riforma dovrebbe dunque sottrarsi al fascino di slogan suggestivi quanto fuorvianti quali “chi sbaglia paga” o “lo vuole l‟Europa”, che forse producono effetto sull’opinione pubblica ma, in realtà, nascondono le gravi distorsioni che discendono – come già osservato al paragrafo 2 – da un impiego improprio e atipico dell‟azione di responsabilità civile e fanno dimenticare che la normativa in materia, con i limiti che essa prevede, è posta a protezione di valori fondamentali dei cittadini e non a tutela dei magistrati. Il punto di equilibrio tra le diverse esigenze è stato trovato, in esecuzione dell’esito del referendum popolare del 1987, nella legge 18 aprile 1988 n. 117 («Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati»), la quale non ritaglia, per i magistrati, una posizione di privilegio ma adatta alle specificità della funzione giudiziaria regole (la limitazione della responsabilità ai casi di dolo e di colpa grave), che valgono per le altre categorie di dipendenti pubblici, ad esse aggiungendo il divieto di azione diretta, a tutela dei princìpi di indipendenza e imparzialità della giurisdizione, in un sistema complessivo che la Consulta ha giudicato coerente con i princìpi della Carta costituzionale.Ogni intervento di riforma, dunque, non può sottrarsi al rispetto di quei princìpi. In tal senso, il disegno di legge in esame non si sottrae a forti critiche, come sopra diffusamente illustrato, con riguardo, anzitutto, alla nuova ipotesi del travisamento del fatto e delle prove e all‟eliminazione di ogni filtro di ammissibilità della domanda, neanche temperata da soluzioni alternative, idonee a scoraggiare iniziative pretestuose e strumentali.

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(di Andrea Penta)

  1. Premessa: una riforma necessaria?

Nell’analizzare le modifiche apportate dalla legge 27 febbraio 2015, n. 18 (intitolata “Disciplina della responsabilità civile dei magistrati”, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 52 del 4.3.2015 ed entrata in vigore del provvedimento il 19.03.2015), alla legge 13 aprile 1988, n. 177 (meglio nota come “Legge Vassalli”), non può non prendersi le mosse da una considerazione di carattere preliminare: la responsabilità civile dei magistrati costituisce uno dei campi elettivi maggiormente sensibili sui quali si scontrano, da un lato, le logiche corporative, tese a difendere lostatus quo, e, dall’altro lato, le tendenze punitive, dirette a minare i principi di autonomia e di indipendenza della magistratura.

Il tentativo di questo breve scritto è quello di porre in rilievo, con la massima trasparenza ed equidistanza possibile, i fattori di rischio che si annidano dietro il testo normativo, ma anche i falsi timori che talvolta seguono una lettura superficiale dello stesso. Ovviamente, l’angolo prospettico dal quale le considerazioni verranno espresse sarà solo quello de iure condito, e non anche de iure condendo. Si prescinderà, pertanto, da una cronistoria degli eventi che hanno preceduto l’approvazione della riforma, da pur possibili profili di illegittimità costituzionale della stessa (ai quali si dedicherà un separato approfondimento tematico) e da un’analisi comparativistica con gli ordinamenti degli altri Stati europei.

L’articolo 1 della legge di riforma individua la finalità dell’intervento normativo nellaintentio legis”di rendere effettiva la disciplina che regola la  responsabilità  civile dello Stato e dei magistrati, anche alla luce dell’appartenenza dell’Italia all’Unione europea”. Da ciò consegue che si parte da due presupposti che, come si vedrà sin da subìto, sono, rispettivamente, infondati (almeno parzialmente) ed errati: a) la non effettività della tutela sinora garantita ai cittadini in caso di responsabilità ascrivibili ai magistrati; b) l’origine del ricorso alla decretazione d’urgenza, identificata nelle pressioni esercitate dall’Unione europea sullo Stato italiano.

Venendo all’analisi del primo profilo, non è revocabile in dubbio (in quanto sono i dati statistici obiettivi che lo confermano che il meccanismo finora disciplinato dall’art. 5 (abrogato dal recentissimo intervento e che prevedeva il cd. filtro sull’ammissibilità della domanda risarcitoria) avesse ridotto in maniera significativa le domande portate all’attenzione della fase a cognizione piena. Di fatto, la delibazione preliminare, riguardando anche i presupposti dell’azione di cui agli artt. 2, 3 e 4 l. n. 117/1988, aveva finito per costituire una sorta di valutazione anticipata del merito della causa. Tuttavia, come sottolineato anche dal CSM nel parere del 29 ottobre 2014 sul disegno di legge governativo, l’eliminazione completa del filtro finirà per aumentare sensibilmente il numero delle controversie, anche manifestamente infondate, portate all’attenzione del giudizio di merito, che si andranno a sommare al contenzioso civile pendente presso gli uffici giudiziari. Senza tralasciare che, dal punto di vista del cittadino che assume di essere stato leso, è del tutto indifferente (salvo motivazioni vendicative) avere, come interlocutore in giudizio, lo Stato, piuttosto che il magistrato responsabile.

In ordine al secondo aspetto, in termini di primo approccio al problema, è vero che la Corte di Giustizia, con la nota sentenza n. 173 del 13 giugno 2006 (causa 173/03, Soc. traghetti del Mediterraneo c. Gov. Italia, in Foro it., 2006, IV, 417, con note di Scoditti, Palmieri, Giovannetti), ha affermato la contrarietà al diritto comunitario di una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario posta in essere da un organo giurisdizionale di ultimo grado tramite un’interpretazione delle norme giuridiche o una valutazione dei fatti e delle prove, ma è altrettanto vero che non si è mai operato alcun riferimento alla responsabilità dei singoli magistrati, non è stata giammai richiamata la violazione anche delle norme interne e si è sempre escluso qualsivoglia addebito imputabile anche agli organi dei precedenti gradi di giudizio.

A conferma di quale fosse il reale obiettivo perseguito dall’Unione europea, successivamente, con la sentenza n. 379 del 24 novembre 2011 (Corte Giust. Ue, 24 novembre 2011, causa 379/10, Commiss. Ue c. Gov. Italia, in Foro it., 2012, IV, 13, con nota di Scoditti), la stessa Corte di Giustizia ha dichiarato che l’Italia, escludendo qualsiasi responsabilità “dello Stato” per i danni arrecati ai singoli dalla violazione “del diritto comunitario” che sia derivata dall’interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione di fatti e prove effettuate “da un organo giurisdizionale di ultimo grado” e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge 13 aprile 1988, n. 117, è venuta meno agli obblighi imposti dal principio generale di responsabilità “degli Stati membri” per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri “organi giurisdizionali di ultimo grado”.

Ed è su queste basi che la Commissione, a fronte del persistente inadempimento del nostro legislatore, aveva avviato il 26 settembre 2013 nei confronti dell’Italia una nuova procedura di infrazione, ex artt. 258 e 260, par. 2, del Trattato dell’Unione Europea (per non conformità al diritto dell’Unione della legge n. 117/1988, contestando all’Italia di non aver adottato alcuna iniziativa volta ad adempiere alle prescrizioni contenute nella sentenza della Corte del 24 novembre 2011), per cui, in caso di mancata approvazione in tempi brevi di un’adeguata novella, si sarebbe corso il rischio dell’irrogazione di una sanzione pecuniaria.

Del resto, le pressioni esercitate dall’Unione sugli Stati membri (e, in particolare, su quello italiano) si giustificano sulla base della considerazione per cui la libertà interpretativa e valutativa del giudice è vista come un pericolo all’unitarietà dell’ordinamento e alla funzione di nomofilachia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Per tale ragione si è imposto ai giudici comuni degli Stati membri una forte limitazione del potere interpretativo, nonché di tener conto della “posizione adottata eventualmente da un’istituzione comunitaria” o, addirittura, di decidere in ossequio alle determinazioni di istituzioni comunitarie (cfr. § 53-56 CGCE, 30 settembre 2003, causa C-224/01 – Gerard Koebler c. Repubblica d’Austria).

La stessa Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 2010 ha precisato che «soltanto lo Stato, ove abbia dovuto concedere una riparazione, può richiedere l’accertamento di una responsabilità civile del giudice attraverso un’azione innanzi ad un Tribunale» (punto 67) e che «i giudici non devono essere personalmente responsabili se una decisione è riformata in tutto o in parte a seguito di impugnazione» (punto 70).
 

 2. L’articolo 2 della legge n. 18/2015. Il danno da ingiusta detenzione.

Venendo all’analisi delle singole disposizioni, l’articolo 2 della legge n. 18/2015 ha apportato le seguenti modificazioni all’articolo  2  della  legge  n. 117/1988:

    a) al comma 1, ha soppresso le  parole:  «che  derivino  da  privazione  della libertà personale»;

    b) ha sostituito i commi 2 e 3, aggiungendo altresì il comma 3bis.

All’esito dell’intervento normativo, il testo dell’articolo 2 della citata  legge n. 117/1988 si presenta all’attualità nei seguenti termini:

«Art. 2.Responsabilità per dolo o colpa grave. – 1. Chi  ha  subito  un  danno  ingiusto  per  effetto  di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal  magistrato  con  dolo  o  colpa  grave nell’esercizio delle sue funzioni  ovvero  per  diniego  di giustizia può  agire  contro  lo  Stato  per  ottenere  il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di  quelli  non patrimoniali.

2.Fatti salvi i commi 3 e 3-bis ed  i  casi  di  dolo, nell’esercizio delle  funzioni  giudiziarie  non  può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto ne’ quella di  valutazione  del  fatto  e delle prove.

3.Costituisce colpa  grave  la violazione manifesta della legge nonchè del  diritto  dell’Unione  europea,  il travisamento del fatto o delle prove, ovvero l’affermazione di un fatto la cui esistenza e’ incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un  fatto  la cui esistenza risulta incontrastabilmente  dagli  atti  del procedimento, ovvero l’emissione di   un   provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.

3-bis.Fermo restando il  giudizio  di  responsabilità contabile di cui al decreto-legge 23 ottobre 1996, n.  543, convertito, con  modificazioni,  dalla  legge  20  dicembre 1996, n. 639, ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge nonche’ del diritto dell’Unione europea si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e  precisione  delle  norme  violate nonche’ dell’inescusabilità e della gravità dell’inosservanza. In caso di violazione  manifesta  del diritto dell’Unione europea si deve tener conto anche della mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai  sensi dell’articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonche’ del  contrasto dell’atto  o  del   provvedimento  con  l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea.».

Da una rapida lettura del testo si evince che le principali novità introdotte si sostanziano nell’aver: a) eliminato la limitazione della possibilità di chiedere ed ottenere il risarcimento ai soli casi di danni che derivino dalla privazione della libertà personale (laddove ora la previsione della risarcibilità del danno non patrimoniale è estesa a tutte le ipotesi di danno ingiusto); b) soppresso la previsione che escludeva, sempre e comunque, che nell’esercizio delle funzioni giudiziarie potesse dar luogo a responsabilità l’attività di  interpretazione  di norme di diritto o quella  di  valutazione  del  fatto  e delle prove (clausola cd. di salvaguardia); c) allargato i casi in cui è configurabile la colpa grave; d) individuato i parametri sulla cui base è possibile procedere alla determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge, nonche’ del diritto dell’Unione europea; e) esteso, con riguardo all’ipotesi di emissione di un provvedimento cautelare emesso fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione, l’ambito di applicazione anche ai provvedimenti cautelari reali, in aggiunta a quelli personali.

Avuto particolare riguardo ai casi che integrano gli estremi della colpa grave, si notano ictu oculi, sulla base di un semplice confronto sinottico, le seguenti differenze sostanziali rispetto al passato: 1) al di là della inosservanza del diritto dell’Unione europea, non è più richiesta la “grave” violazione della legge interna, essendo reputata sufficiente quella “manifesta”, a prescindere dall’elemento soggettivo della negligenza inescusabile; 2) viene introdotta ex novo l’ipotesi del travisamento del fatto o delle prove; 3) anche quanto al cd. errore revocatorio si prescinde dalla negligenza inescusabile; 4) viene ampliata (rispetto alla preesistente misura personale) alla misura reale la responsabilità per emissione di un provvedimento cautelare fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.

Con riferimento alla fattispecie rappresentata dalla emissione di una misura cautelare personale illegittima, occorre domandarsi se nella stessa sia o meno ricompreso il danno cd. da ingiusta detenzione, in quanto si tende a sostenere che in quest’ultimo caso la riparazione dell’errore giudiziario costituisce il corrispettivo di un pregiudizio che deriva da una condotta conforme all’ordinamento, ma produttiva di un danno. Se da un lato la costruzione della riparazione come risarcimento dei danni condurrebbe alla conseguenza di lasciare fuori dal paradigma applicativo degli artt. 314 e 643 c.p.p. tutte le ipotesi di errore dovute al caso fortuito (indipendenti, cioè, dal dolo o dalla colpa del giudice), posto che l’imputabilità soggettiva della lesione è un elemento essenziale per la configurabilità dell’illecito civile, dall’altro lato, l’istituto riparatorio non sembra riconducibiletout court nell’alveo dell’indennizzo, in quanto il sacrificio del diritto del singolo (sotto forma di privazione della libertà personale) non sempre risulta determinato da un atto legittimo della pubblica autorità, posto che la fattispecie generatrice ex art. 314, comma 2, c.p.p. sottende, al contrario, una custodia cautelare disposta o mantenuta in forza di un titolo illegittimo, per carenza dei presupposti applicativi ex artt. 273 e 280 c.p.p.

A tal ultimo proposito, è opportuno evidenziare che non è, invece, configurabile alcuna ipotesi risarcitoria in relazione alla cd. “ingiusta imputazione”, ossia all’imputazione rivelatasi infondata a seguito di sentenza di assoluzione o di archiviazione (così Cassazione penale, sez. III, 17.01.2008, n. 11251), esulando essa dalle ipotesi normativamente previste dall’ordinamento vigente (insuscettibili di analogia, attesa la natura eccezionale delle fattispecie risarcitorie in esse contemplate), che ammette la riparazione del danno, patrimoniale e non, unicamente nei casi di: a) custodia cautelare ingiusta (art. 314 c.p.p.); b) irragionevole durata del processo (l. 24 marzo 2001, n. 89, cd. Legge Pinto); c) condanna ingiusta accertata in sede di revisione, cd. “errore giudiziario” (art. 643 c.p.p.). Proprio mentre infiammava il dibattito politico-giudiziario in riferimento alla allora imminente approvazione parlamentare della legge di riforma della disciplina relativa alla responsabilità civile dei magistrati, la Suprema Corte, enunciando espressamente il principio di diritto, aveva specificato che, allo stato attuale della legislazione vigente, deve ritenersi prevalente l’esigenza, di rilevante pregnanza pubblicistica, di garantire il più possibile -reprimendone comunque gli abusi, purché manifesti e conclamati, come pure garantendo adeguate ed efficaci reazioni endoprocessuali agli interessati- l’indipendenza diffusa del singolo pubblico ministero nell’attività di avvio, impostazione e finalizzazione dibattimentale dell’azione penale tutte le volte che si ravvisino elementi non avulsi dal contesto fattuale: e tanto all’evidente fine di salvaguardare l’effettiva obbligatorietà dell’azione penale, oggetto di precisa scelta della Costituzione.

La situazione nel nostro paese è, invero, aggravata, per quanto concerne il settore penale, dalla obbligatorietà dell’azione penale. Negli Stati Uniti, il procuratore ha la facoltà di scegliere i casi da perseguire, per cui può scartare quelli il cui esito gli appare incerto. In questo modo si rischiano meno errori giudiziari, ma le vittime dei casi che la Procura decide di non perseguire restano senza giustizia. In Italia, poiché la Procura che abbia notizia di un reato deve agire comunque, i magistrati sono più esposti: può capitare che le prove inizialmente indicanti un certo quadro dei fatti vengano ribaltate da altre prove acquisite dopo o dalla confutazione di quelle precedenti. Inoltre, i magistrati devono avvalersi di altre istituzioni (forze dell’ordine, polizia scientifica, medicina legale, assistenti sociali…) per fare le indagini e di periti per le valutazioni nei campi per i quali non hanno competenza (come chirurgia, ingegneria, chimica, balistica, contabilità, etc.). Il giudice emette, quindi, la sentenza anche in base alla combinazione delle perizie e valutazioni di altri funzionari e professionisti.

Premesso che costituisce “colpa grave” del magistrato la emissione di provvedimento concernente la libertà della persona “fuori dei casi consentiti dalla legge”, si discute se rientri in tale ambito il caso della mancata ricerca, da parte del pubblico ministero, di elementi di non colpevolezza in favore della persona sottoposta alle indagini, ai sensi dell’art. 358 c.p.p.

 3.     La violazione manifesta di legge: quando è configurabile?

Nell’analizzare la prima modifica riportata sub 1) nel paragrafo che precede, è a ritenersi che vi sia stato in tal guisa un ampliamento dell’ambito astratto di responsabilità. Del resto, la locuzione “violazione manifesta della legge”è all’evidenza assai generica ed indefinita e potrebbe condurre, se non rettamente intesa, ad una dilatazione dell’istituto tale da ricomprendere nel suo ambito applicativo anche condotte connotate da colpa lieve, interpretazioni non conformi ai precedenti, ovvero casi di mera responsabilità oggettiva.

E’ vero che, nel comma 3bis, vi è un richiamo espresso alla “gravità dell’inosservanza” quanto ai parametri da tener presente ai fini della configurabilità della violazione manifesta, ma è altrettanto vero che ciò non vale anche per il travisamento del fatto o delle prove e per l’errore revocatorio e che, in ogni caso, la eventuale non gravità della violazione è un indice di cui occorre tener conto della valutazione complessiva, ma non esclude di per sé l’illecito.

In precedenza, invece, la risarcibilità del danno cagionato dal magistrato postulava che la violazione della legge fosse ascrivibile a negligenza « inescusabile » e, quindi, esigeva un quid pluris rispetto alla negligenza (recte, rispetto alla colpa grave delineata dall’art. 2236 c.c.), richiedendo che essa si presentasse come non spiegabile, senza agganci con le particolarità della vicenda atti a rendere comprensibile (anche se non giustificato) l’errore del giudice.

In particolare, i presupposti della responsabilità dello Stato per grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile nell’esercizio delle funzioni giudiziarie dovevano ritenersi sussistenti allorquando nel corso dell’attività giurisdizionale si fosse concretizzata una violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma stessa ovvero una lettura di essa in termini contrastanti con ogni criterio logico o l’adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore o la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo o, ancora, lo sconfinamento dell’interpretazione nel diritto libero.

Tuttavia, occorre altresì tener presente che la Corte assume quale criteri rivelatori “il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere intenzionale della violazione, la scusabilità o l’inescusabilità dell’errore di diritto, la posizione adottata eventualmente da un’istituzione comunitaria nonché la mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, terzo comma, CE”. Detti parametri non vengono definiti nella loro dimensione, per così dire, “quantitativa”, non essendo specificato, ad esempio, “quanto” la norma europea debba essere “chiara e precisa” affinché la relativa violazione da parte del magistrato non possa che determinare una necessaria responsabilità dello Stato. Per realizzare una “violazione manifesta”, dunque, il giudice dovrà incorrere in un errore interpretativo o valutativo (quest’ultimo in materia di valutazione dei fatti o della prova) che, tenuto conto del “grado di chiarezza e di precisione della norma violata”, anche alla luce della “posizione adottata eventualmente da un’istituzione comunitaria” debba considerarsi assolutamente “inescusabile”.

La differenza sostanziale rispetto al passato comunque resta: prima, infatti, vigeva il principio secondo cui l’interpretazione di una norma non era mai sanzionabile se restava nell’arco dei suoi possibili significati, con riferimento all’elemento lessicale ed a quello logico, con la conseguenza che il testo prima vigente fondava le forme di tutela del cittadino danneggiato sulle ipotesi in cui il magistrato avesse proceduto al di fuori dei possibili significati della disposizione come formulata dal legislatore.

In base all’attuale formulazione, dovrebbe privilegiarsi il criterio contenuto nell’art. 12 delle disposizioni sulle leggi in generale, pur tenendo presente che la disposizione menzionata, laddove stabilisce che nell’applicare la legge non si può attribuire alla stessa altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dall’intenzione del legislatore, non privilegia il criterio interpretativo letterale, poiché evidenzia, con il riferimento “all’intenzione del legislatore”, un essenziale riferimento alla coerenza della norma e del sistema; di conseguenza il dualismo, presente nell’art. 12, tra lettera “significato proprio delle parole secondo la connessione di esse” e spirito o ratio“intenzione del legislatore”, va risolto con la svalutazione del primo criterio, rilevandosi inadeguata la stessa idea di interpretazione puramente letterale.

Dovrebbe ancora oggi restare nell’area dell’esenzione da responsabilità la lettura della legge secondo uno dei significati possibili, sia pure il meno probabile e convincente, quando dell’opzione interpretativa seguita si dia conto e ragione nella motivazione (Cassazione civile, sez. I, 20/09/2001, n. 11859). Inoltre, va, in proposito, ricordato che dinanzi a due possibili interpretazioni alternative della norma processuale, ciascuna compatibile con la lettera della legge, le ragioni di economico funzionamento del sistema giudiziario devono indurre l’interprete a preferire quella consolidatasi nel tempo, a meno che il mutamento dell’ambiente processuale o l’emersione di valori prima trascurati non ne giustifichino l’abbandono e consentano, pertanto, l’adozione dell’esegesi da ultimo formatasi (Cassazione civile, sez. un., 18/05/2011, n. 10864).

Non appare condivisibile quell’indirizzo della Corte di cassazione secondo il quale l’attività del giudice «si sostanzia in opera creativa della volontà della legge nel caso concreto» (così ad esempio le decisioni nn. 11091 del 2003, 1136 del 2007 e 24763 del 2099), per cui, in definitiva, non vi sarebbe differenza tra giudice e legislatore. Con la conseguenza che il giudice non incorrerebbe mai, per definizione, in un “eccesso di potere giurisdizionale” (consistente nella manifesta alterazione del significato di una disposizione); e, quindi, la Corte di cassazione non potrebbe mai sindacare quelle che sono audaci invenzioni, non interpretazioni.

La violazione manifesta della legge interna non dovrebbe rappresentare una species  all’interno del genus  “interpretazione di norme di diritto”, per quanto tra il secondo ed il terzo comma venga operata una sorta di parallelismo. Ma è anche vero che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa. In particolare, la violazione di norme di diritto sostanziale, ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., si riferisce al tipico error in iudicando, che riguarda: a) l’erronea individuazione della norma applicabile alla fattispecie (Cass. n. 11504/1991); b) l’erronea interpretazione della norma (Cass. nn. 11310/1999 e 3507/1999); c) l’erronea qualificazione giuridica della fattispecie (il cd. errore di sussunzione, che si manifesta anche nell’applicazione della norma ad una fattispecie da essa non regolata; Cass. Sez. Un. n. 5/2001, Cass. n. 12644/1998). Lo stesso è rilevabile solo se è causale, ossia se produce l’ingiustizia della sentenza in quanto ha determinato una statuizione erronea ed ingiusta nel dispositivo.

In ogni caso, anche il dissenso dall’interpretazione di una norma di legge, propugnata dalle sezioni unite della Corte di cassazione, non determina la responsabilità civile per colpa grave del magistrato di merito dissenziente ove sia motivato in diritto (Cassazione civile, sez. I, 30/07/1999, n. 8260), pur in assenza dell’opportuno richiamo alle pronunzie disattese, in quanto esso è comunque espressione dell’attività di interpretazione delle norme riservata al magistrato. In quest’ottica, ancora oggi non può ritenersi che il giudice sia obbligato a decidere conformemente all’interpretazione già effettuata precedentemente dallo stesso o da altro giudice in relazione ad un’altra controversia (Cassazione civile, sez. III, 31/05/2006, n. 13000).

L’azione di responsabilità del magistrato per manifesta violazione di legge non può, comunque, costituire lo strumento per riaprire il dibattito sulla correttezza o meno dell’interpretazione adottata nel provvedimento posto a base della domanda respinta dal magistrato della cui responsabilità si discorre, in particolar modo quando il giudicante sia la Corte di cassazione, giudice di ultima istanza (Cassazione civile, sez. III, 05/02/2013, n. 2637).

Non è revocabile in dubbio, infine, che le valutazioni sull’operato di un magistrato non potranno non tenere in considerazione l’estrema “sciatteria” che caratterizza gli interventi normativi degli ultimi anni.

3.1.La violazione del diritto dell’Unione europea: il rinvio pregiudiziale.

Invertendo l’ordine logico delle questioni e soffermandosi sulla violazione del diritto dell’Unione europea, va rilevato che particolarmente rischiosa si profila la fattispecie del rinvio pregiudiziale. Secondo una giurisprudenza consolidata, l’articolo 267 TFUE conferisce ai giudici nazionali la più ampia facoltà di adire la Corte, qualora essi ritengano che una causa dinanzi ad essi pendente faccia sorgere questioni che richiedono un’interpretazione o un esame della validità delle disposizioni del diritto dell’Unione essenziali ai fini della soluzione della lite di cui sono investiti (sentenze del 27 giugno 1991, Mecanarte, C-348/89, Racc. pag. I-3277, punto 44, e del 5 ottobre 2010, Elchinov, C-173/09, Racc. pag. I-8889, punto 26). Il predetto articolo conferisce dunque ai giudici nazionali la facoltà – ed eventualmente impone loro l’obbligo – di effettuare un rinvio pregiudiziale qualora essi constatino, d’ufficio o su domanda di parte, che il merito della controversia implica la soluzione di una questione ricadente sotto le previsioni del primo comma dell’articolo sopra citato (sentenze del 10 luglio 1997, Palmisani, C-261/95, Racc. pag. I-4025, punto 20, e del 21 luglio 2011, Kelly, C-104/10, punto 61). Per tale motivo, il fatto che le parti del giudizio non abbiano prospettato, dinanzi al giudice, una problematica attinente al diritto dell’Unione non osta a che la Corte possa essere adita da detto giudice (sentenze del 16 giugno 1981, Salonia, 126/80, Racc. pag. 1563, punto 7, e dell’8 marzo 2012, Huet, C-251/11, punto 23). Infatti, il rinvio pregiudiziale si fonda su un dialogo tra giudici, il cui avvio dipende interamente dalla valutazione operata dal giudice nazionale in merito alla rilevanza ed alla necessità del rinvio stesso (sentenze del 16 dicembre 2008, Cartesio, C-210/06, Racc. pag. I-9641, punto 91, e del 9 novembre 2010, VB Pénzügyi Lízing, C-137/08, Racc. pag. I-10847, punto 29). E’ pur vero, però, che il giudice nazionale di ultima istanza non è soggetto all’obbligo di rimettere alla Corte di giustizia delle Comunità europee la questione di interpretazione di una norma comunitaria quando non la ritenga rilevante ai fini della decisione o quando ritenga di essere in presenza di unacte claireche, in ragione dell’esistenza di precedenti pronunce della Corte ovvero dell’evidenza dell’interpretazione, rende inutile (o non obbligato) il rinvio pregiudiziale (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 13/06/2012, n. 3474). Parimenti, l’obbligo di rimettere in via pregiudiziale le questioni relative all’interpretazione delle norme comunitarie alla Corte di giustizia non sussiste allorché il giudice nazionale abbia constatato che la questione non è pertinente, la disposizione comunitaria abbia già costituito oggetto di interpretazione e la corretta applicazione del diritto comunitario si imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi (Cassazione penale, sez. IV, 17/05/2012, n. 34753).

Sul tema, Corte Costituzionale, 30/03/2012, n. 75, sembra ormai aver fissato dei punti fermi, stabilendo che, rispetto al rinvio pregiudiziale d’interpretazione, ex art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, ai giudici nazionali comuni, alla Corte costituzionale e alla Corte di giustizia sono attribuiti i seguenti ruoli: a) i giudici nazionali, le cui decisioni sono impugnabili, hanno il compito di interpretare il diritto comunitario e, se hanno un dubbio sulla corretta interpretazione, hanno la facoltà e non l’obbligo di operare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per ottenerla e farne applicazione, se necessario a preferenza delle contrastanti norme nazionali; b) il giudice di ultima istanza, viceversa, ha l’obbligo di operare il rinvio, a meno che non si tratti di un’interpretazione consolidata e in termini o di una norma comunitaria che non lascia adito a dubbi interpretativi; c) la Corte costituzionale conserva la propria competenza ad interpretare il diritto comunitario quando non sia necessario il rinvio alla Corte di giustizia.

Dalle considerazioni che precedono deriva che, da un lato, i giudici nazionali saranno tenuti a conoscere con sempre maggiore dovizia di particolari la normativa comunitaria (soprattutto se confliggente con quella interna) e, dall’altro lato, i giudici della Suprema Corte si troveranno notevolmente esposti a profili di responsabilità per mancato rinvio pregiudiziale doveroso. Invero, in base al consolidato orientamento della Corte di Giustizia, tutti gli organi statali, ivi comprese le autorità amministrative e gli enti locali, sono tenuti a disapplicare la normativa nazionale contrastante con il diritto dell’Unione fornito di efficacia diretta, ovvero, ove possibile, ad interpretare la prima conformemente al secondo, adottando i provvedimenti necessari ad assicurare ed agevolare la piena efficacia di tale diritto, proprio al fine di non determinare una responsabilità dello Stato in tal senso.

3.2. Il travisamento del fatto o delle prove: alla ricerca di una precisa delimitazione degli ambiti.

In base alla precedente formulazione dell’art. 2, comma 2, della legge Vassalli, la clausola di salvaguardia (che escludeva che potesse dar luogo a responsabilità l’attività, oltre che di interpretazione di norme di diritto, di valutazione del fatto e della prova) non tollerava letture riduttive, perché era giustificata dal carattere fortemente valutativo dell’attività giudiziaria (connotata da scelte sovente basate su diversità di interpretazioni) ed attuava l’indipendenza del giudice e, con essa, del giudizio (Cassazione civile, sez. VI, 27/12/2012, n. 23979; in senso conforme cfr.: Cass. 27 novembre 2006, n. 25123; Cass. 31 maggio 2006, n. 13000).

Ad esempio, Cassazione n. 2201 del 12 marzo 1999, proprio partendo dal principio per cui non è sindacabile l’attività del giudice di valutazione della prova, ha escluso la responsabilità per aver agito con colpa grave di un p.m. e di un g.i.p., che avevano privato della libertà personale un individuo (successivamente prosciolto con formula ampia) affidandosi alla parola di un pentito, priva di adeguati supporti probatori.

Nell’attuale formulazione della norma si ritiene che integri gli estremi della colpa grave il “travisamento del fatto o delle prove”.

Una premessa è debita: non bisogna cadere nell’errore grave che molti commettono nel trattare congiuntamente (e, di fatto, nell’assimilare) questa ipotesi di colpa grave e l’errore di fatto (già analizzato in precedenza in nota), che legittima la revocazione della sentenza “quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita” sempre che il fatto “non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare” (art. 395, n. 4, c.p.c.). Diversamente opinando, non avrebbe avuto senso una previsione distinta, sia pure all’interno della stessa disposizione, delle due fattispecie. Il travisamento del fatto, invero, è diverso dall’errore di fatto vero e proprio, risolvendosi il primo nell’omesso esame di un fatto decisivo che mina alla base il sillogismo che conduce ad una decisione incoerente con le premesse; il secondo nella affermazione errata della esistenza/inesistenza di un fatto inesistente/esistente che, allo stesso modo, conduce ad un approdo incoerente con le premesse, quali avrebbero dovuto essere. Al contempo, sarebbe fallace inquadrare la nuova figura del travisamento nell’ambito del novellato art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c., che disciplina ora l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.

L’aspetto più preoccupante è che sembra che il legislatore abbia adottato una concezione oggettivizzata del vizio, senza, almeno apparentemente, assegnare rilievo al profilo soggettivo. In particolare, fino ad oggi, perché vi fosse la responsabilità dello Stato, era necessario che la condotta del magistrato, connotata da colpa grave, fosse qualificata da “negligenza inescusabile” (v. Cass., 7 novembre 2003, n. 16696). E così la colpa grave del magistrato era ravvisabile non (o, comunque, non solo) con riferimento alla diligenza impiegata nell’attività accertativa e valutativa dei fatti, ma all’assenza di tali attività, ovvero alla totale mancanza di analisi degli atti del procedimento, dai quali fosse risultata l’incontestabile sussistenza o insussistenza del fatto rispettivamente negato o affermato (Cass., 20 ottobre 2006, n. 22539). Tanto che la negligenza inescusabile implicava, secondo la giurisprudenza, la necessità di unquid pluris rispetto alla colpa grave delineata dall’art. 2236 cod. civ., nel senso che si esigeva che la colpa stessa si fosse presentata come “non spiegabile”, e cioè priva di agganci con le particolarità della vicenda, che avrebbero potuto rendere comprensibile, anche se non giustificato, l’errore del magistrato (v. Cass., 5 luglio 2007, n. 15227; conf. Id. 26 maggio 2011, n. 11593).

Al contrario, il novellato articolo 2 contiene indici rivelatori di tipo oggettivo, prescindendo, in virtù dell’eliminazione del riferimento alla “negligenza inescusabile”, da ogni indagine di tipo soggettivo in ordine all’operato dell’apparato statale.

A differenza della “violazione manifesta della legge e del diritto dell’Unione europea”, che mantiene, attraverso il riferimento alla rilevanza dell’inescusabilità della violazione, un aggancio a coefficienti di natura soggettiva, il “travisamento del fatto e delle prove” è bastevole, di per sé, ad integrare la colpa grave.

Non vi è dubbio che la colpa grave del magistrato sia (ora come allora) ravvisabile non con riferimento alla diligenza impiegata nell’attività accertativa e valutativa dei fatti, ma all’assenza di tali attività, ovvero alla totale mancanza di analisi degli atti del procedimento.

Occorre, però, domandarsi, in presenza di un’attività valutativa, quali siano i limiti superati i quali sia configurabile una responsabilità a carico del magistrato.

A tal fine occorre richiamare istituti di matrice penalistica, che, tuttavia, sono estensibili anche all’area civilistica. Invero, a seguito delle modifiche dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., ad opera dell’art. 8 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, è consentito dedurre con il ricorso per cassazione il vizio di “travisamento della prova”, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova obiettivamente ed incontestabilmente diverso da quello reale. Si ha travisamento della prova altresì qualora si utilizzi un’informazione inesistente ovvero venga omesso l’esame di elementi probatori offerti dalle parti.

In ambito penale, il travisamento della prova è il vizio costituito dall’avere il giudice di merito utilizzato per la decisione una prova inesistente (ad esempio, il teste indicato in sentenza non esiste) o un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello effettivo (ad esempio, nella ricognizione personale la persona ha indicato Tizio e non Caio, come è, invece, scritto nella sentenza).

In sede civilistica, si tende a ritenere che l’apprezzamento del giudice del merito, che abbia ritenuto pacifica e non contestata una circostanza di causa, qualora sia fondato sulla mera assunzione acritica di un fatto, possa configurare un travisamento (cfr., di recente, Sez. 2, sentenza n. 19921 del 14/11/2012, Rv. 624476).

Ovviamente, tale vizio è ravvisabile ed efficace solo se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio (cioè abbia il carattere della decisività nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a critica), rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale /probatorio, fermi restando il limite del devolutum in caso di cosiddetta “doppia conforme” e l’intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio. Peraltro, il vizio può essere dedotto, nel caso di cosiddetta “doppia conforme”, nell’ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice.

In adesione ai principi su enunciati, allora, l’asserito danneggiato dovrebbe: a) identificare specificamente l’atto processuale sul quale si fonda la doglianza; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta asseritamente incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza impugnata; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché dell’effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda tra i materiali probatori ritualmente acquisiti nel fascicolo del dibattimento; d) indicare le ragioni per cui l’atto invocato asseritamente inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato.

In particolare, per quanto riguarda l’esame delle prove testimoniali, va ineludibilmente evidenziato che il travisamento sia configurabile soltanto limitatamente all’attività preliminare della lettura delle deposizioni raccolte e della percezione del loro incontestabile significato letterale e logico da parte del giudice, e non pure in relazione all’attività successiva, consistente nella interpretazione e valutazione del loro contenuto.

Non vi è dubbio che non ricorra un errore denunciabile nella pronuncia di legittimità che, decidendo nel merito, abbia ritenuto non necessari ulteriori accertamenti di fatto, trattandosi, quand’anche risulti errata, di un errore di giudizio e non di un travisamento del fatto (Cassazione civile, sez. VI, 20/02/2014, n. 4118). Invero, non è sindacabile l’errore di giudizio, vale a dire la valutazione di dati giuridico-fattuali acquisiti attraverso la mediazione delle parti e l’interpretazione dei contenuti espositivi dei rispettivi atti del giudizio (Cassazione civile, sez. un., 28/05/2013, n. 13181).

Nell’attuale panorama normativo, il travisamento del fatto si risolve, dunque, in mancanza della motivazione, ovvero in un vizio logico così grave da rendere la motivazione apparente, e cioè solo quando la ricostruzione dei fatti, da un lato, sia insanabilmente in contrasto con la realtà indiscussa od almeno manifesta nel processo, e dall’altro lato, sia priva di qualsiasi giustificazione logica e lasci ritenere che il giudice ha deciso astraendo dalle risultanze di causa, oppure, per essere giustificata in modo gravemente contraddittorio, renda impossibile il controllo sul modo in cui il giudice ha esercitato i propri poteri. Tale vizio non può essere individuato attraverso la critica frammentaria di singoli punti della motivazione o con riferimento a singole risultanze isolatamente considerate, potendo essere affermato solo quando tutte le risultanze univocamente escludano o manifestino fatti ritenuti o rispettivamente negati dal giudice di merito.

In definitiva, occorre essere al cospetto di rilievi di macroscopica evidenza, che già in passato sarebbero stati censurabili, sussistendo il vizio nel caso di assunzione di una prova inesistente o quando il risultato probatorio sia diverso da quello reale in termini di “evidente incontestabilità”. Deve cioè trattarsi di una decisività ictu oculi evidente, dotata di quel carattere manifesto che impedisca che attraverso essa possa surrettiziamente essere sindacato il processo valutativo, appunto, del fatto e delle prove. E’ chiaro, quindi, che difficilmente saranno ascrivibili addebiti ad un magistrato quando abbia ricostruito il fatto in modo diverso da quello sostenuto dalle parti, ma basandosi sulle risultanze processuali e giustificando il suo convincimento con motivazione adeguata e logica.

Ed allora, in ambito civile, bisogna cum grano salis applicare l’art. 132, co. 2, n. 4), c.p.c. che, in tema di contenuto della sentenza, si accontenta di una “concisa esposizione della ragioni di fatto e di diritto della decisione” (cfr. altresì l’art. 118, co. 1, disp, att. c.p.c.). Così come occorre guardare con particolare attenzione la recente sentenza n. 642 del 16/01/2015, con la quale le Sezioni Unite, a definizione di una questione di massima, hanno escluso, nel processo civile (e in quello tributario), la nullità della sentenza la cui motivazione sia meramente riproduttiva di un atto di parte, purché le ragioni sulle quali la decisione si fondi siano attribuibili al giudicante e siano esposte in maniera chiara, univoca ed esaustiva, escludendo, in ogni caso, che un tale fatto integri un indice sintomatico di un difetto di imparzialità del giudice.

 4.   L’eliminazione del “filtro” di ammissibilità: i rischi cui si va incontro.

Sul piano procedurale, la novità di maggior spessore è rappresentata dall’eliminazione del cd. filtrodisciplinato dall’art. 5 (ora abrogato), il quale prevedeva la declaratoria di inammissibilità della domanda, oltre che quando non erano stati rispettati i termini o i presupposti di cui agli articoli 2, 3 e 4, quando la stessa si rivelava manifestamente infondata.

Il preliminare controllo di ammissibilità era finalizzato non già a costituire una posizione di privilegio per il magistrato, ma a tutelare i valori di indipendenza ed autonomia fissati dagli artt. 101 ss. Cost. (Cassazione civile, sez. I, 04/05/2005, n. 9288).

Rientrava nella fase di delibazione sull’ammissibilità dell’azione anche l’indagine sul carattere interpretativo della violazione di legge e sulla natura percettiva dell’errore di fatto che la parte prospettava come causativi di danno, in quanto le attività di interpretazione e di valutazione si ponevano come elementi definitori dell’illecito. Nella fase di ammissibilità dell’azione risarcitoria in dipendenza di responsabilità civile del magistrato, di cui all’art. 5 della legge n. 117 del 1988, la valutazione andava, peraltro, compiuta esclusivamente ex actis, essendo l’infondatezza ragione di inammissibilità della domanda quando fosse stata manifesta e, cioè, fosse emersa dagli atti senza necessità di indagini o accertamenti istruttori ulteriori (cfr. Cass. sentenze  nn. 9811 del  19 giugno 2003; 6697 e 6696 del  29 aprile 2003). In definitiva, il procedimento preliminare riguardante l’ammissibilità dell’azione risarcitoria rivestiva natura delibativa relativamente alla sussistenza degli elementi addotti a sostegno della contestazione (nel senso che, ove non fosse stata evidente la pretestuosità della relativa deduzione, rimaneva devoluta al successivo giudizio di merito l’approfondita valutazione della sua fondatezza), mentre aveva carattere di cognizione piena e definitiva in ordine alla configurabilità dei dati contestati, dei requisiti e delle condizioni cui la legge subordinava la suddetta responsabilità. Sicché l’attività cognitoria del giudice in sede di esame di ammissibilità comprendeva la verifica del carattere non interpretativo della lamentata violazione di legge da parte del magistrato del quale si richiedeva l’affermazione di responsabilità, atteso che, come si è visto, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non poteva dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto.

Secondo i primi commentatori, eliminando il filtro di ammissibilità della domanda risarcitoria, non si introduce l’azione diretta, ma si spalancano le porte alle azioni ritorsive, strumentali, prive dei requisiti minimi di sostanza o di forma, come dimostra l’esame dei casi in cui il filtro ha operato.

Se ciò è vero sul piano dell’azione disincentivante che esercitava, sia pure indirettamente, un controllo preventivo, è altrettanto vero che il rischio, da taluni ipotizzato, di un inevitabile riflesso sull’obbligo di astensione del magistrato non è, invece, configurabile.

A tal fine occorre prendere le mosse, in primo luogo, dall’attuale formulazione dell’art. 4, che, per quanto qui interessa, non è stato modificato. Invero, i commi 2 e 3, ora come allora, stabiliscono testualmente che: <<2.L’azione di risarcimento del danno contro lo  Stato puo’ essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i  mezzi  ordinari  di  impugnazione  o  gli  altri  rimedi previsti avverso i provvedimenti  cautelari  e  sommari,  e comunque quando non siano piu’ possibili la modifica  o  la revoca del provvedimento ovvero, se tali  rimedi  non  sono previsti, quando sia esaurito  il  grado  del  procedimento nell’ambito del quale si e’  verificato  il  fatto  che  ha cagionato il danno. La domanda deve essere proposta a  pena di decadenza entro tre anni che decorrono  dal  momento  in cui l’azione e’ esperibile.3.L’azione puo’ essere  esercitata  decorsi  tre  anni  dalla data del fatto che ha cagionato il danno  se  in  tal termine non  si  e’  concluso  il  grado  del  procedimento nell’ambito del quale il fatto stesso si e’ verificato.>>.

A norma dell’art. 4, comma 2, quindi, ancora oggi l’azione contro lo Stato per il risarcimento del danno cagionato dal magistrato nell’esercizio della funzione giudiziaria può essere esercitata soltanto dopo che siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari (onde evitare che l’azione risarcitoria diventi un’alternativa ai normali rimedi endoprocessuali, impugnatori o oppositori), e comunque, quando non sia più possibile la modifica o la revoca del provvedimento (Cass. 24 febbraio 1994, n. 1884). Dovendo colui che si assuma ingiustamente leso dal provvedimento del giudice preventivamente (ed inutilmente) percorrere le vie che la legge processuale predispone per rimuovere gli errori e le violazioni di legge in ipotesi realizzatesi, l’azione de qua dovrà dirsi inammissibile, ad esempio, tutte le volte in cui, a seguito della emanazione di un provvedimento di urgenza, e della conseguente instaurazione della fase di merito, le parti abbiano, poi, convenuto una soluzione extraprocessuale della lite, con ciò impedendo ogni possibilità di revisione o di revoca della decisione posta, poi, a base della richiesta risarcitoria (Cassazione civile, sez. I, 08/05/1998, n. 4682).

In quest’ottica, vanno richiamate le pronunce che ante riforma si erano occupate funditus della questione. Ad esempio, Cassazione civile, sez. I, 25/01/2002, n. 871, ha ritenuto inammissibile la domanda di risarcimento del danno conseguente all’inserimento di espressioni, ritenute ingiuriose, nella motivazione di una sentenza civile di primo grado, che sia stata proposta in pendenza del giudizio di appello avverso la detta sentenza. Alla stessa stregua è stata negata l’ammissibilità dell’azione in un caso in cui, lamentandosi la lesione del diritto di libertà personale, prodotta dal protrarsi dell’ingiusta detenzione, non era stata proposta istanza di riesame avverso l’ordinanza che aveva disposto la misura della custodia in carcere (Cassazione civile, sez. I, 03/12/2001, n. 15246; sulla stessa falsariga si è posta Cassazione, n. 11438, 12 ottobre 1999 in un caso in cui la parte civile di un processo penale per bancarotta aveva omesso di impugnare la sentenza assolutoria dì primo grado).

E’ chiaro che, quando l’azione risarcitoria sia fondata su di un provvedimento per il quale è previsto uno specifico rimedio, il termine ora triennale di decadenza (la cui inosservanza è rilevabile d’ufficio) di cui all’art. 4, comma 2, decorre dal momento in cui siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti, mentre il medesimo termine decorre dall’esaurimento del grado del procedimento nel cui ambito si è verificato il fatto dannoso solo quando nei confronti del provvedimento in questione non siano previsti rimedi di sorta.

Ma allora, se ciò è vero, non potrà neppure in astratto verificarsi, almeno di regola, il presupposto (esperimento dell’azione risarcitoria nel corso del giudizio) cui è subordinato l’obbligo di astensione del magistrato. Si vuole intendere che, di regola, quando l’azione de qua verrà proposta, il giudice o il p.m. che ha posto in essere un determinato atto giudiziario o una condotta  reputati lesivi si sarà già spogliato della potestas decidendi e, quindi, non ricorreranno i presupposti per una astensione, neppure facoltativa per gravi ragioni di convenienza.

Occorre, peraltro, dare atto dell’esistenza di alcuni casi particolari in cui l’azione in esame deve essere proposta anticipatamente, senza cioè attendere l’esito finale del giudizio.

Ad esempio, Cassazione civile, sez. III, 05/05/2011, n. 9910, ha stabilito che, per la richiesta di rinvio a giudizio da parte del p.m. e per il decreto di citazione emesso dal g.i.p., il termine biennale (ora, ripetesi, triennale) decorre dalla data della pronuncia della sentenza di primo grado e che, per l’atto di appello proposto dal p.m. avverso la sentenza di assoluzione, tale termine decorre dalla pronuncia della sentenza di appello. Ma anche in questo caso, poiché, per ipotesi, il p.m. ed il g.i.p. avrebbero esaurito già i loro poteri (rispettivamente, di iniziativa e decisori), l’eventuale instaurazione di un giudizio risarcitorio giammai potrebbe innescare un obbligo di astensione.

Ma allora, a ben vedere, l’unico caso in cui tale rischio potrebbe profilarsi è quello in cui nel termine di tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno non si sia concluso il grado del procedimento nell’ambito del quale il fatto stesso si è verificato; nella quale evenienza l’asserito danneggiato potrebbe (comma 3) esperire l’azione entro tre anni dal detto fatto. Quest’ultima, però, fermo restando che costituisce una mera facoltà per l’asserito danneggiato (non precludendogli successivamente di intentare l’azione nei termini prescritti), rappresenta un’ipotesi di scuola, perché, sia in sede civile che in quella penale, al di fuori di condotte ingiuriose o diffamatorie (che, integrando gli estremi di un vero e proprio reato, sono disciplinate a sé stante), il primo atto adottato, ad esempio, incorrendo in un travisamento dei fatti o delle prove o in un errore revocatorio, saranno la sentenza (di primo o di secondo grado), il decreto di rinvio a giudizio o la sentenza di non luogo a procedere (per il GUP), il decreto di archiviazione nel rispetto dei termini di durata massima delle indagini preliminari di cui all’art. 407 c.p.p. (per il GIP). Per quanto concerne il p.m., invece, deve tenersi conto dei termini di durata massima della custodia cautelare (non superiori ad un anno e sei mesi) fissati dall’art. 303 c.p.p. A tutto concedere, nell’ambito civile, per quanto concerne i provvedimenti cautelari a strumentalità rigorosa o per quelli possessori, potrebbe tabellarmente prevedersi, onde evitare qualsivoglia possibile pressione esercitata da una parte nei confronti del magistrato (nel senso di costringerlo ad astenersi, in quanto considerato sgradito), che il giudizio di merito o la prosecuzione ex art. 703 c.p.c. siano di competenza di un giudice (inteso come persona fisica) diverso da quello che ha adottato il provvedimento cautelare ante causam.Un particolare discorso merita, però, il caso in cui siano state adottate misure sulla libertà personale. Tendenzialmente, il termine decorre, nel caso in cui l’atto ritenuto fonte di responsabilità sia un’ordinanza di custodia cautelare, dalla data del deposito del provvedimento di annullamento dell’ordinanza stessa da parte della Corte di cassazione, potendosi, in quella data, legittimamente predicare tanto “l’esaurimento dei mezzi ordinari d’impugnazione”, quanto “l’immodificabilità ed irrevocabilità” con riguardo al provvedimento restrittivo emesso dal g.i.p. (Cassazione civile, sez. I, 04/01/2001, n. 76). In generale, in siffatta evenienza, l’azione risarcitoria è proponibile quando siano stati esperiti, ove previsti, tutti i rimedi processuali astrattamente idonei a provocarne la revoca o la modifica, ovvero quando la sua rimozione o modificazione non sia più, in ogni caso, 

giuridicamente possibile. In realtà, il problema dell’ammissibilità dell’azione alla stregua della norma in esame non è soltanto un problema di termini. L’impugnazione ordinaria o l’esperimento dei rimedi in materia di libertà o di cautela esprimono il rifiuto del provvedimento da parte del soggetto inciso e rendono possibile il controllo di legittimità dell’operato, che si assume affetto da dolo o colpa grave, del giudice. Il mancato esperimento del rimedio, ove previsto, sembra perciò porsi, nel sistema della legge n. 117 del 1988, come causa di inammissibilità (per carenza di interesse) dell’azione indipendentemente dal decorso del termine e, nell’ordine logico, prima della decadenza che da quel decorso deriverebbe.

E’ vero che (ed è questo, in realtà, l’unico vero rischio), se il presunto danno deriva da un provvedimento cautelare o reale, l’indagato potrà agire contro il magistrato che lo ha emesso, se alla scadenza dei tre anni dall’emissione del provvedimento cautelare (o, meglio, del rigetto della richiesta di revoca dello stesso, perché, altrimenti, si dovrebbe parlare di una mancanza di interesse) non si è concluso il grado del procedimento nell’ambito del quale il fatto stesso si è verificato. Ma è altrettanto vero che questa previsione era già contenuta nella legge Vassalli nella medesima formulazione e, quindi, ha trovato applicazione per circa 27 anni.

L’esaurimento del grado del procedimento – cui fa riferimento la norma – va inteso nel senso di definizione dell’oggetto di quest’ultimo con provvedimento non più modificabile; il che si verifica non soltanto nel caso di totale esaurimento del procedimento, ma anche in quello di esaurimento soltanto parziale, limitatamente alla parte dell’oggetto che viene definita (in quest’ottica, Cassazione civile, sez. I, 29/04/2003, n. 6696, ha ritenuto che costituisse esaurimento del grado del procedimento penale l’ordinanza – o decreto – di archiviazione parziale, poiché tale provvedimento presenta, per la parte dell’oggetto del procedimento penale che viene archiviata, caratteri di definitività e immodificabilità pari al provvedimento di archiviazione che definisce totalmente le indagini preliminari, potendo entrambi i provvedimenti essere superati solo mediante la riapertura delle indagini ai sensi dell’art. 414 c.p.p.).

Nella tabella sintetica che segue, si cercherà di riportare in modo, per quanto possibile, esaustivo, le varie ipotesi che in astratto, nell’ambito di un procedimento penale, potrebbero verificarsi, allo scopo di far comprendere che il rischio da molti paventato di una indiretta pressione ad astenersi esercitata sul magistrato è, in realtà, per lo più infondato.Giudice: fase delle indagini preliminari. — Fatti che potrebbero essere lesivi. —GIP: convalida misura cautelare personale o reale; convalida sequestro (probatorio o preventivo) ; convalida intercettazioni telefoniche . GUP — decreto che dispone il rinvio a giudizio. Giudice del dibattimento — oltre che la sentenza, il rigetto di una eventuale istanza di scarcerazione in corso di giudizio. Per quanto il grado di giudizio (che si conclude, di regola, con la sentenza) si possa definire anche oltre tre anni dal suo inizio (soprattutto nel caso di processi con pluralità di imputati o di capi di imputazione ), sarà estremamente difficile che da uno dei detti fatti (che rappresenta il dies a quo di decorrenza) possa trascorrere il termine triennale senza che venga definita la fase di rispettiva competenza. Da ciò consegue che, anche qualora venisse esperita l’azione risarcitoria nei confronti dello Stato, nessun riflesso vi sarebbe in negativo sul procedimento pendente, in quanto medio tempore la figura della persona fisica del magistrato sarebbe mutata.Ovviamente, l’ipotesi di cui sopra non può neppure configurarsi nei casi di giudizio direttissimo ed immediato, atteso che in tali evenienze il giudizio di primo grado senz’altro si concluderà prima di tre anni.Parimenti, non sembra neppure ipotizzabile una responsabilità per quegli atti che non devono essere motivati (decreti penali, decreti che dispongono il giudizio e decreto di giudizio immediato, in sede penale; decreto ingiuntivo, in ambito civile) o che non presuppongono necessariamente una motivazione (richiesta di rinvio a giudizio; decreto di citazione diretta).L’unica vera ipotesi possibile di ripercussione indiretta sull’andamento di un procedimento (nel senso di modifica dell’organo giudiziario che procede) riguarda il pubblico ministero, atteso che questi, di regola, segue la sua evoluzione dalla fase delle indagini fino al momento della sentenza di primo grado (laddove in appello gli subentra il Procuratore Generale). Tuttavia, a prescindere dal fatto che l’ufficio del magistrato del pubblico ministero ha carattere impersonale, è a dubitarsi che gli atti da lui compiuti possano determinare l’insorgenza di una responsabilità a suo carico. Invero, praticamente tutte le iniziative adottate necessitano di una convalida del giudice (di regola, il GIP), che, quindi, ne ratifica, se del caso, l’operato . In quest’ottica, una responsabilità (almeno esclusiva) in capo all’organo requirente potrebbe ipotizzarsi solo nel caso in cui abbia dolosamente occultato elementi probatori favorevoli all’indagato.Le considerazioni che precedono verrebbero meno qualora si ritenesse (come pure sembra possibile) che, per quanto concerne le misure cautelari penali (siano esse personali o reali), le fasi impugnatorie che possono succedersi (riesame o appello e ricorso per cassazione) rappresentino, in realtà, dei veri e propri gradi; ovviamente, tale impostazione non potrebbe reggersi nell’eventualità in cui si contemplassero le detti fasi (anziché nell’ambito di un subprocedimento) solo nel contesto del più ampio giudizio di merito.

Da non confondere con l’ipotesi analizzata (quella della colpa grave) è, come si è anticipato, quella della condotta dolosa che integri gli estremi di una fattispecie di reato. Invero, in tema di responsabilità civile del magistrato, l’art. 13 della legge n. 117 del 1988, nel prevedere l’azione diretta nei confronti del magistrato e dello Stato, quale responsabile civile, in caso di reati commessi dal magistrato medesimo nell’esercizio delle proprie funzioni, si pone su di un piano diverso da quello delle ipotesi di responsabilità contemplate dagli artt. 2 e seguenti della legge stessa e si riferisce a fattispecie che presentino – rispetto all’ipotesi di dolo di cui all’art. 2 – un ulteriore connotato, rappresentato dalla costituzione di parte civile nel processo penale eventualmente instaurato a carico del magistrato, ovvero da una sentenza penale di condanna del medesimo, passata in giudicato (cfr., di recente, Cassazione civile, sez. III, 3.1.2014). In definitiva, dunque, l’azione di responsabilità diretta verso il magistrato per fatti costituenti reato può essere esercitata in sede penale mediante costituzione di parte civile e direttamente in sede civile, dopo che sia intervenuta sentenza di condanna del magistrato passata in giudicato.

Vanno, sul tema, formulati due rilievi conclusivi. In primo luogo, Cassazione civile, sez. I, 24/12/2002, n. 18329, ha dichiarato manifestamente infondata la q.l.c. dell’art. 4, commi 2 e 3, nella parte in cui prevede il termine biennale (ora triennale) di decadenza dall’azione, sotto il profilo della disparità di trattamento rispetto all’ordinaria azione di responsabilità extracontrattuale, che è soggetta a termine di prescrizione quinquennale, perché nel caso dell’azione di cui alla legge citata il termine è di decadenza, non di prescrizione, e quindi risponde ad esigenze diverse da quelle tutelate con la disciplina di cui all’art. 2947 c.c. In secondo luogo, la sospensione feriale dei termini processuali, prevista dall’art. 1 legge n. 742 del 1969, non si applica al termine biennale (ora triennale) di proposizione dell’azione di risarcimento del danno derivante da responsabilità civile dei magistrati, previsto all’art. 4, in quanto l’ampiezza di tale termine porta ad escludere che l’inapplicabilità della sospensione feriale determini un effettivo nocumento alla tutelabilità della situazione giuridica sostanziale posta a base dell’azione (Cassazione civile, sez. III, 03/05/2011, n. 9681).

 5. L’intervento volontario del magistrato nel giudizio risarcitorio contro lo    Stato: una facoltà da non sfruttare.Non vi è dubbio che l’esigenza di garantire il ristoro patrimoniale degli errori giudiziari con la tutela dell’autonomia e dell’indipendenza del magistrato non sarebbe garantita dall’eventualità di citare direttamente in giudizio il magistrato, esponendolo al rischio di ritorsioni e di azioni intimidatorie tese a impedire il sereno svolgimento della funzione giudiziaria e l’introduzione, di fatto, di un ulteriore meccanismo di impugnazione diretto a contestare la decisione al di fuori delle forme previste (G.M. Flick, La responsabilità civile dei magistrati. Le proposte di modifica tra disinformazione e realtà, in <http://tinyurl.com/kqeojjx>). Tuttavia, un conto è prevedere l’azione diretta contro il magistrato (soluzione non passata nel corso dell’iterche ha condotto all’approvazione della legge di riforma), un altro è allargare i confini di configurabilità astratta delle ipotesi di responsabilità, estendendoli, in particolare, al profilo del travisamento dei fatti e delle prove.

Sul piano processuale, semmai, è bene che i magistrati sappiano che il loro eventuale intervento volontario nel giudizio intentato contro lo Stato renderebbe loro opponibile l’accertamento dei fatti compiuto nel detto giudizio.

Il presupposto di partenza è che il magistrato – che nel giudizio instaurato nei confronti dello Stato ha la veste di soggetto processuale solo eventuale – non può essere chiamato in causa, essendo unicamente legittimato (art. 6) a svolgere intervento adesivo dipendente a norma dell’art. 105, co. 2, c.p.c. e, in mancanza del suddetto intervento, non fa stato nel giudizio di rivalsa contro di lui la pronuncia di condanna, la quale, a sua volta, in nessun caso condiziona il procedimento disciplinare (Corte Costituzionale, 14/07/1999, n. 301). Invero, in caso di obbligazione solidale dal lato passivo, l’accertamento del debito nei riguardi di uno solo dei condebitori non richiede la necessaria partecipazione al giudizio anche dell’altro e non fa stato nei suoi confronti; ciò non impedisce, tuttavia, al debitore escusso (nel caso di specie, lo Stato) di agire in rivalsa verso il condebitore solidale (art. 1306, co. 1, c.c.), adducendo il fatto di aver dovuto soddisfare le ragioni del comune creditore, fermo restando che il convenuto in questo secondo giudizio è libero di proporre tutte le eccezioni idonee a paralizzare la pretesa dell’attore, anche in relazione a quanto già accertato nella precedente causa cui egli non ha partecipato (Cassazione civile, sez. I, 19/02/2003, n. 2469; conf. Cassazione civile 19 maggio 2008 n. 12691 sez. III). D’altra parte, l’esistenza di un vincolo di solidarietà passiva ai sensi dell’art. 2055 c.c. tra più convenuti in un giudizio di risarcimento dei danni non genera mai un litisconsorzio necessario, avendo il creditore titolo per valersi per l’intero nei confronti di ogni debitore, con conseguente possibilità di scissione del rapporto processuale che può utilmente svolgersi anche nei riguardi di uno solo dei coobbligati, per cui non è configurabile, sul piano processuale, inscindibilità delle cause in appello (con conseguente inapplicabilità dell’art. 331 c.p.c.) neppure nell’ipotesi in cui i convenuti si siano difesi in primo grado addossandosi reciprocamente la responsabilità esclusiva del sinistro (e, perciò, del danno; cfr. Cassazione civile, sez. III, 29/04/2006, n. 10042; conf. Cassazione civile 03 marzo 2010 n. 5067 sez. III).

E’, poi, passata inosservata una recente ordinanza della Cassazione a Sezioni Unite (n. 16628 del 22.7.2014), a tenore della quale la “causa pendente” tra ricusato e ricusante, ai sensi dell’art. 51, co. 1, n. 3), c.p.c., non può essere costituita dal giudizio di responsabilità di cui alla legge 13.4.1988, n. 117, che non è un giudizio nei confronti del magistrato, bensì nei confronti dello Stato.

Appare, pertanto, preferibile la scelta di non partecipare al giudizio risarcitorio pendente tra il cittadino e lo Stato, anche perché (come di vedrà) l’eventuale azione di rivalsa di quest’ultimo è soggetta a presupposti e condizioni più rigorosi.

Ciò non esclude che il magistrato incolpato possa fornire al Ministero tutti gli elementi a sua disposizione per consentire all’Avvocatura dello Stato una difesa adeguata nel giudizio che vede quest’ultimo coinvolto.

E’ chiaro, poi, che, qualora, invece, il magistrato preferisse intervenire nel giudizio intentato da un cittadino in danno dello Stato, sarebbe configurabile l’ipotesi di astensione obbligatoria prevista dall’art. 51, co. 1, n. 1), c.p.c.

A differenti conclusioni potrebbe pervenirsi solo nel caso in cui un litigante promuovesse azioni di responsabilità civili contro un magistrato non gradito, accusandolo della commissione di uno o più reati, atteso che tali pendenze andrebbero considerate quali presupposti di astensione e/o ricusazione del magistrato stesso ai sensi e per gli effetti dell’art. 51, co. 1, n. 3), c.p.c., con l’effetto di sottrarre alla controversia il suo giudice naturale.

 6. L’azione di rivalsa: ciò che non entra dalla porta entra dalla finestra.

Per quanto concerne l’azione di rivalsa, il primo comma dell’art. 7 stabilisce ora che: <<Il Presidente del  Consiglio dei ministri, entro due anni dal risarcimento avvenuto sulla base di titolo  giudiziale  o  di  titolo  stragiudiziale,  ha  l’obbligo  di esercitare l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato nel caso di diniego di  giustizia,  ovvero  nei  casi  in  cui  la  violazione manifesta della legge nonche’ del diritto dell’Unione europea ovvero il travisamento del fatto o delle prove, di cui all’articolo 2, commi 2,  3  e  3-bis,  sono  stati  determinati  da  dolo o negligenza inescusabile.>>.

Le principali novità che si colgono sono due: a) viene introdotta la obbligatorietà dell’esercizio dell’azione di rivalsa[1]; b) viene conferita in questa sede nuovamente valenza alla negligenza inescusabile, quale connotazione particolare che deve presentare, ai fini della rivalsa, la colpa grave.

Se avessero incontrato condivisione alcuni progetti di riforma che avevano ipotizzato una responsabilità solidale tra il magistrato e lo Stato, l’azione di quest’ultimo nei confronti dell’autore del danno non si sarebbe potuta più qualificare come di «rivalsa», bensì come azione di «regresso». A tal proposito, è opportuno ricordare, comunque, che l’art. 1306 c.c. si applica nei soli rapporti tra creditore e coobbligato solidale, e non ai rapporti di regresso tra i vari condebitori; ne consegue che, come già detto, il condebitore il quale, pagato il debito, agisca in regresso nei confronti dell’altro coobbligato, non può invocare nei confronti di questi il giudicato che lo abbia condannato al pagamento; né il coobbligato convenuto può a lui opporre altro e contrastante giudicato, col quale invece sia stata rigettata la pretesa creditoria nei suoi confronti (cfr., di recente, Cassazione civile, sez. III, 26/06/2013, n. 16117).

“Dolo” e “negligenza inescusabile” (rimanendo presupposti, in astratto necessari, per esercitare l’azione di rivalsa da parte dello Stato) segnano dunque, con l’esclusione dell’ipotesi di diniego di giustizia, il discrimine tra la responsabilità dello Stato – costruita, in coerenza con le statuizioni della Corte di Giustizia, secondo un’ottica eminentemente obiettiva – e quella del magistrato, saldamente ancorata a profili di attribuibilità psicologica. Deve, quindi, considerarsi pacifico che il magistrato – come nel sistema precedente – continuerà ad essere assoggettato alla rivalsa, peraltro per l’integralità del danno cagionato, qualora abbia agito con dolo, mentre l’esito positivo dell’azione di parziale recupero sarà altrimenti condizionato all’accertamento della “negligenza inescusabile”,  i cui lineamenti sono stati chiaramente descritti dalla giurisprudenza (v. Cass. 14.2.2010, n. 2107; Cass. 5.7.2007, n. 15227).

Con riferimento al promovimento dell’azione disciplinare da parte del Procuratore Generale della Cassazione per i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento, la norma sembra ribadire l’obbligatorietà dell’azione disciplinare, ovviamente nei soli casi in cui ricorra la violazione di una fattispecie disciplinare, mentre si può ritenere che non via sia alcun automatismo tra la conoscenza della Procura Generale  (ad esempio, a seguito di comunicazione da parte dello stesso ricorrente) del promovimento dell’azione di risarcimento e l’inizio del parallelo procedimento disciplinare, malgrado la norma sul punto nulla espliciti. La nuova legge ha modificato l’art. 9 (rubricato “Azione disciplinare”) sopprimendo le parole riguardanti il termine dei due mesi, sicchè resta ferma la previsione dell’obbligo di esercitare l’azione disciplinare per i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento (salvo che non sia stata già proposta), ma al di fuori di un termine predeterminato.

Resta accalorato che nessun condizionamento del giudizio disciplinare nei confronti del magistrato è legislativamente previsto quale conseguenza della pronuncia nel giudizio civile di danno, e ciò evidentemente anche nel caso in cui l’azione civile si sia conclusa con l’accertamento di un danno e la condanna dello Stato al risarcimento.

Infine, in nessun caso la transazione è opponibile al magistrato nel giudizio di rivalsa e nel giudizio disciplinare.

 7.  Conclusioni.

Non vi è dubbio che l’istituto della responsabilità civile non possa essere utilizzato per mettere pressione ai magistrati al fine di aumentare la diligenza del singolo e la qualità della giurisdizione. D’altronde la tutela del cittadino, sotto tale profilo, deve puntare su altri versanti. In particolare: a) sugli ordinari mezzi di impugnazione; b) sugli strumenti indennitari per inefficienze anche non ascrivibili a colpe del singolo; c) su misure ordinamentali, quali il rigore nel reclutamento, la formazione permanente che coltivi con la preparazione tecnica anche la responsabilità professionale e culturale del giudice, la serietà nelle valutazioni di professionalità, il sistema disciplinare efficiente in grado di sanzionare davvero le inescusabili negligenze dei singoli, attraverso il suo diverso complesso di regole, sostanziali e procedimentali, esattamente tipizzate dalla Costituzione e dalla legge ordinaria.

Non vi è parimenti dubbio che i magistrati non possano essere equiparatitout court a tutti gli altri pubblici impiegati, atteso che, a differenza di questi ultimi, sono gli unici che, nell’adottare un provvedimento, danno ragione ad una parte e torto ad un’altra, in tal guisa scontentando sempre una di esse. Il CSM nella delibera del 28 giugno ha evidenziato che «un rischio eccessivamente elevato di incorrere in responsabilità civile, diretta o indiretta, avrebbe un effetto distorsivo sull’operato dei magistrati, i quali potrebbero essere indotti, al fine di sottrarsi alla minaccia della responsabilità, ad adottare, tra più decisioni possibili, quella che consente di ridurre o eliminare il rischio di incorrere in responsabilità, piuttosto che quella maggiormente conforme a giustizia». Invero, <<il giudice potrebbe essere indotto, dal timore della responsabilità, a prendere la decisione che causa un danno alla parte che è nella condizione meno favorevole ad agire in giudizio per il risarcimento dei danni ovvero ad assumere una decisione che sia formalmente coerente con i precedenti orientamenti giurisprudenziali – dunque idonea a porlo al riparo da eventuali azioni risarcitorie – ma sostanzialmente non risponda alla domanda di giustizia della concreta vicenda esaminata>>. Da ultimo, il CSM ha sostenuto che la questione della responsabilità personale dei giudici é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri. Un giudizio analogo era stato espresso poco prima con riferimento al d.l. 13.9.2012, n. 158 (meglio noto come “decreto Balduzzi”), dettato in tema di responsabilità medica. Invero, in quell’occasione si era sostenuto che l’accento posto dal legislatore al rispetto delle linee guida (nel senso che l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene ad esse non risponde penalmente per colpa lieve) può facilmente indurre l’operatore sanitario a pratiche di “medicina difensiva” e, dunque, di prono, cieco (e magari inutile) ossequio ai protocolli, esclusivamente per limitare, in futuro, il riconoscimento di una pretesa risarcitoria; il tutto con un evidente aggravio di costi per la struttura pubblica.

La speranza è che i magistrati non si lascino coinvolgere in questa deriva legislativa, adottando decisioni pavide, accomodanti, conservatrici e meramente difensive, anziché continuare ad applicare il diritto secondo coscienza ed a contribuire, anche con soluzioni talvolta originali, al suo sviluppo al passo con l’evolversi dei tempi.  

Quante volte l’opera costruttiva della giurisprudenza di merito, consapevolmente dissonante rispetto a quelli che fino ad allora sembravano rappresentare orientamenti consolidati in seno alla Suprema Corte, ha avuto l’effetto di creare, attraverso una progressiva erosione, un varco all’interno del quale, poi, in un nuovo clima, gli stessi giudici di legittimità (per tendenza conservatori, data la funzione delicata nomofilattica loro assegnata) hanno inteso operare un revirement.

Non può tralasciarsi che le questioni connesse all’introduzione del processo civile telematico aggraveranno in quell’ambito i rischi cui è esposta la nostra categoria.

Non sempre conciliabili sono, poi, la quantità e la rapidità del prodotto giuridico che si pretende dai magistrati con l’enorme quantità cui tendenzialmente essi devono far fronte.

E’ chiaro che molto sarà affidato alla giurisprudenza che, soprattutto nella prima fase di approccio alle nuove questioni ed ai riformati parametri, si formerà a seguito dell’esercizio delle azioni risarcitorie. Da questo punto di vista, potrebbero rivelarsi opportuni dei corsi tematici di approfondimento, attraverso i quali far circolare il sapere giuridico.

Il rischio, è invece, che si verifichi, nei fatti, una sorta di responsabilità oggettiva, ove concorrano a produrre il danno le disagevoli condizioni di lavoro, il carico in eccesso e, in generale, le disfunzioni del servizio giustizia, dei cui effetti sull’esercizio in concreto della giurisdizione i magistrati devono essere tenuti indenni, allorché se ne valuti la personale responsabilità.

In questa fase di transizione i magistrati devono fare fronte comune e compatto, nella consapevolezza che ci si trova sulla stessa barca e che non è il momento per recedere dalle prerogative, anche costituzionali, di categoria e dai connotati, anche di tipo creativo, che fanno del nostro mestiere probabilmente uno tra i più affascinanti e coinvolgenti. Dopo un inevitabile iniziale sconforto di natura psicologica dovrà subentrare, in luogo della rassegnazione, una solidale capacità di reagire, nella speranza che le prime decisioni rese su fattispecie soggetteratione temporisalla nuova normativa avranno un’efficacia dissuasiva di pretestuose iniziative.

Non resta, allora, che fare tesoro delle parole del Presidente della Repubblica, nonchè Presidente del Csm, Sergio Mattarella al termine del discorso riservato ai 346 giovani magistrati tirocinanti convocati su al Colle: “Le recenti modifiche alla legge Vassalli andranno attentamente valutate alla luce degli effetti concreti dell’applicazione della nuova legge”

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Responsabilità civile dei magistrati: i primi chiarimenti dopo la riforma Cass. pen., sez. VI, sentenza 23 aprile 2015 n. 16924 (Pres. Agrò, rel. Citterio)

RESPONSABILITÀ CIVILE DEL MAGISTRATO – AZIONE PROMOSSA DALLA PARTE – MAGISTRATO DESTINATARIO DELL’AZIONE – ASSUNZIONE DELLA QUALITÀ DI DEBITORE – ESCLUSIONE (l. 117/1988 come modificata dalla l. 18 del 2015)

Il magistrato la cui condotta professionale sia stata oggetto di una domanda risarcitoria ex lege 117/1988 non assume mai la qualità di debitore di chi tale domanda abbia proposto. Ciò per l’assorbente ragione che la domanda (anche dopo la legge n. 18/2015) può essere proposta solo ed esclusivamente nei confronti dello Stato (salvi i casi di condotta penalmente rilevante, ex art. 13). Né la eventualità di una successiva rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato, nel caso in cui quell’originaria azione si sia conclusa con la condanna dell’Amministrazione, muta la conclusione, perché i presupposti e i contenuti dell’azione di rivalsa sono parzialmente diversi da quelli dell’azione diretta della parte privata nei confronti dello Stato (art. 7; artt. 2, 3). Il che tra l’altro impone di escludere che anche nel caso di intervento del magistrato nel processo civile che la parte promuove ex lege n. 117/1988 (art. 6), si instauri un rapporto diretto parte/magistrato che possa condurre alla qualificazione del secondo in termini di anche solo potenziale debitore della prima

Cass. pen., sez. VI, sentenza 23 aprile 2015 n. 16924 (Pres. Agrò, rel. Citterio)

RESPONSABILITÀ CIVILE DEL MAGISTRATO – AZIONE PROMOSSA DALLA PARTE – OBBLIGO DEL MAGISTRATO DI ASTENERSI – ESCLUSIONE (l. 117/1988 come modificata dalla l. 18 del 2015)

L’azione di risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie esercitata ai sensi della legge 117/1988 anche dopo le modifiche introdotte dalla legge 18/2015 non costituisce per sé ragione idonea e sufficiente ad imporre la sostituzione del singolo magistrato.

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ORGANIZZAZIONE DELL’UFFICIO E DIRIGENZA

Quale ruolo e responsabilità del dirigente per un’organizzazione dell’Ufficio che offra una previsione attendibile degli obiettivi fondata sulla reale analisi delle risorse, dei flussi e delle criticità di ogni singolo Ufficio?Quale coinvolgimento per i semidirettivi e per i coordinatori e quale modalità per garantire un’effettiva partecipazione di tutti i magistrati dell’Ufficio nella programmazione annuale e triennale?Il possibile ruolo del Consiglio Giudiziario (funzione di vigilanza sull’andamento degli Uffici e parere sulla programmazione annuale gestionale) e l’intervento preventivo della Commissione Flussi (analogamente a quanto previsto per progetti tabellari);Le modalità di organizzazione del lavoro per gli Uffici e i magistrati che svolgano pluralità di funzioni ovvero siano titolari di ruoli sovradimensionati: ufficio del processo tra calendarizzazione delle udienze, valorizzazione dei g.o.t. e tirocini; il rilievo delle c.d. best practices;Recupero della cultura tabellare come strumento di crescita professionale individuale e collettiva (gestione responsabile della mobilità, dando meno decisiva importanza alla specifica esperienza settoriale e tenendo conto della fisiologica crescita professionale magistrato e del necessario equilibrio di anzianità ed esperienze fra i settori e le sezioni e fra Uffici di diverse dimensioni);Quale ruolo del dirigente: burocrate, sovrano assoluto, cireneo o leader responsabile?

ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO DEL MAGISTRATO E CARICHI DI LAVORO ESIGIBILI

Quali strumenti gestionali di programmazione idonei a valorizzare l’esigenza di una programmazione realistica dello smaltimento che possa coniugare quantità e qualità della risposta giurisdizionale, coordinando incidenza ponderale dei procedimenti, tempi del processo e necessità di una decisione consapevole e di qualità?Quale valorizzazione della programmazione gestionale dei dirigenti giudiziari dall’entrata in vigore dell’art. 37 l. 111\2011 alla luce della triplice finalità di individuare (anche tramite la creazione di una banca dati) le migliori prassi già sperimentate dagli Uffici giudiziari italiani, di verificare quale tipo di programmazione sia stata effettuata e realizzata e di ripensare la produttività dei magistrati coniugando dignità della funzione, qualità giurisdizionale e produttività degli Uffici?

LE RESPONSABILITÀ DEI MAGISTRATI

Verso quale modello di governo della magistratura italiana andiamo?Quali sono gli effetti paralleli delle griglie di analisi della produttività e dei controlli di tipo statistico? Quali sono le prospettive della professionalità dei magistrati italiani in un sistema di controlli e responsabilità affidato ai numeri? Un’interpretazione convenzionalmente orientata della responsabilità disciplinare del magistrato: il rapporto tra ragionevole durata del processo e ritardo “ingiustificabile”.

VALUTAZIONE DI PROFESSIONALITA’, RESPONSABILITA’ DISCIPLINARE E CARICHI ESIGIBILI

Necessità di coordinare formalmente i carichi esigibili, che individuano la produttività annuale possibile per il futuro, alla disciplina della valutazione di professionalità; individuazione di correttivi per i casi di gestione di ruoli sovraccarichi o di pluralità di funzioni; refluenze sulla valutazione disciplinare in relazione alle fattispecie dei ritardi (art.2, lett. q, D.L.gs. 109/96) ovvero per il caso di contestazione ai sensi della lettera l) del medesimo articolo (mancanza motivazione).

LA NUOVA RESPONSABILITA’ CIVILE DEI MAGISTRATI

Quale monitoraggio dei concreti effetti della novella per formulare proposte concrete al fine di evitareche la sua applicazione comporti anche minimi rischi per il corretto esercizio della giurisdizione?Occorre monitorare le attività di indebita supplenza alle quali i Magistrati fanno quotidianamente fronte e che costituiscono indubbiamente un appesantimento non dovuto del già oneroso carico di lavoro, particolarmente rischioso alla luce dei nuovi parametri normativi di responsabilità civile?Occorre chiedere ai dirigenti che ridefiniscano gli obiettivi di produttività già indicati nei programmi di gestione?Qual è il rapporto tra responsabilità civile e carichi insostenibili?Secondo un’interpretazione sistematica coerente quando l’errore, anche grave, si è verificato in contesti in cui il singolo si è trovato a gestire carichi insostenibili ed esorbitanti rispetto a quelli individuati come esigibili, tale condizione può determinare necessariamente una concorrente responsabilità organizzativa dell’Amministrazione che agisce in sede di rivalsa?Europa e responsabilità civile dei magistrati: il mito e la realtà.I costi della responsabilità civile dei magistrati per il Paese: il caso delle sezioni misure di prevenzione.Responsabilità civile vs. responsabilità sociale dei magistrati.Il pensiero di Rosario Livatino.

Sommario: 1. La giurisprudenza della CGUE in tema di responsabilità dello Stato-giudice; 2. Gli orientamenti giurisprudenziali formatisi nel vigore della precedente formulazione della legge 117/88; 3. La responsabilità dei giudici nel Consiglio d’Europa; 4. La responsabilità del magistrato nei vari Paesi europei; 5. L’emendamento Pini; 6. Le nuove previsioni della legge 117/88; 7. Le parole di Rosario Livatino; 8. Le modifiche da apportare all’ordinamento italiano. Alcune necessarie soluzioni normative; 9. La soluzione interpretativa. Le nuove ipotesi di colpa grave; 10.Il filtro; 11. L’azione disciplinare; 12. Organizzazione del lavoro giudiziario e responsabilità civile dei magistrati.

1. La giurisprudenza della CGUE in tema di responsabilità dello Stato-giudice.

Poiché le modifiche apportate alla legge 117/88 sono state introdotte “al fine di rendere effettiva la disciplina che regola la responsabilità civile dello Stato e dei magistrati, anche alla luce dell’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea” (cfr. articolo 1 legge 18/15), viene spontaneo chiedersi se la nuova disciplina legislativa si rendesse effettivamente necessaria in conseguenza della giurisprudenza della Corte di giustizia (sentt. Kobler2003, Traghetti del Mediterraneo 2006 e Commissione europea c. Italia 2011) e, soprattutto, se essa soddisfi le condizioni richieste dalla medesima Corte europea o si riveli sotto questo profilo insufficiente.

In proposito è necessario fornire un quadro dei principi affermati dalle tre sentenze della giurisprudenza eurounitaria con le quali si è affermata anche la responsabilità dello Stato per attività giurisdizionale posta in essere in violazione del diritto dell’Unione.

Con la sentenza Köbler del 2003 la Corte di giustizia ha stabilito, infatti, che il principio per cui in capo agli Stati membri sussiste un obbligo risarcitorio in relazione ai danni subiti dai privati a causa delle violazioni del diritto eurounitario imputabili ai medesimi Stati si applica anche per le violazioni conseguenti ad una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado, sempre che sussistano i tre presupposti (più volte già citati nei precedenti capitoli) per la configurabilità dell’illecito eurounitario, ossia che la norma di diritto europeo violata sia preordinata ad attribuire diritti ai singoli, la violazione sia sufficientemente caratterizzata (spettando quindi al giudice l’accertamento, da compiere tenendo conto della specificità della funzione giurisdizionale, sul carattere manifesto o meno della violazione) e sussista inoltre un nesso causale diretto tra questa violazione e il danno subito dalle parti lese.

Ecco che si afferma, in modo innovativo, il principio della responsabilità dello Stato anche per atto (che violi in modo manifesto il diritto) di un organo giurisdizionale di ultima istanza.

In queste ipotesi si sarebbe in presenza di violazioni “nascoste” del diritto eurounitario: ad essere in contrasto con le norme europee non sarebbe, infatti, la norma interna in quanto tale, che, al contrario, sembrerebbe perfettamente in linea con le stesse, bensì l’interpretazione che ne viene data dai giudici nazionali.

Nel complesso panorama della responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione, la sentenza Köbler rappresenta, quindi, un ulteriore e fondamentale tassello di quel mosaico che la Corte di giustizia ha creato a partire dalla celebre sentenza Francovich.

La sentenza Köbler considera valevole anche per l’ordinamento europeo il principio, vigente nell’ordinamento giuridico internazionale, per cui lo Stato, responsabile in caso di violazione di un impegno internazionale, viene considerato nella sua unità, senza che rilevi se la violazione produttiva del danno sia imputabile al potere legislativo, giudiziario o esecutivo.

Lo Stato, si dice spesso, risponde con un volto solo.

Tutti gli organi dello Stato devono osservare le prescrizioni dettate dal diritto europeo e che sono idonee a disciplinare la situazione dei singoli.

Si è quindi ammesso che la responsabilità di uno Stato può discendere anche da comportamenti addebitabili al potere giudiziario essendo irrilevante il potere dello Stato cui sia imputabile l’illecito comunitario ed essendo tutti gli organi statali tenuti a rispettare le disposizioni europee.

È stato poi anche valorizzato l’argomento per il quale l’eventuale esclusione della responsabilità statale per le violazioni del diritto europeo poste in essere dal potere giudiziario menomerebbe l’efficacia delle norme europee pregiudicando la tutela delle posizioni giuridiche soggettive di matrice sovranazionale, con la conseguenza che «il diritto dei singoli al risarcimento dei danni causati da una decisione di un organo giurisdizionale supremo di uno Stato membro discende dai caratteri fondamentali e tipici del sistema comunitario» (punto 33 motivazione).

In particolare, in linea con la pronuncia H. Lomas, la Corte ha sottolineato che «in considerazione del ruolo essenziale svolto dal potere giudiziario nella tutela dei diritti che ai singoli derivano dalle norme comunitarie, la piena efficacia di queste ultime verrebbe rimessa in discussione e la tutela dei diritti che esse riconoscono sarebbe affievolita se fosse escluso che i singoli possano, a talune condizioni, ottenere un risarcimento allorché i loro diritti sono lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile a una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado di uno Stato membro. Occorre sottolineare a tale riguardo che un organo giurisdizionale di ultimo grado costituisce per definizione l’ultima istanza dinanzi alla quale i singoli possono far valere i diritti ad essi riconosciuti dal diritto comunitario. Poiché normalmente non può più costituire oggetto di riparazione una violazione di questi diritti in una decisione di un tale organo giurisdizionale che è divenuta definitiva, i singoli non possono essere privati della possibilità di far valere la responsabilità dello Stato al fine di ottenere in tal modo una tutela giuridica dei loro diritti. Del resto, in particolare, al fine di evitare che siano violati diritti conferiti ai singoli dal diritto comunitario, l’art. 234, terzo comma, CE prevede che un giudice avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno è tenuto a rivolgersi alla Corte».

Pertanto, secondo quanto si legge nella sentenza Köbler, dalle esigenze relative alla tutela dei diritti dei singoli che fanno valere il diritto comunitario deriva che essi devono avere la possibilità di ottenere dinanzi ai giudici nazionali lai giustizia, riparazione del danno originato dalla violazione di questi diritti in seguito a una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado.

È comunque ormai noto che le condizioni al ricorrere delle quali uno Stato membro è tenuto a risarcire, secondo la Corte d i danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili sono tre: 1) che la norma giuridica violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli; 2) che si tratti di violazione grave e manifesta; 3) che esista un nesso causale diretto tra la violazione dell’obbligo incombente sullo Stato e il danno subito dai soggetti lesi.

Per la Corte la responsabilità dello Stato per danni causati dalla decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado che viola una norma di diritto comunitario è disciplinata dalle stesse condizioni, che sono necessarie e sufficienti per attribuire ai singoli un diritto al risarcimento, fatto comunque salvo il diritto degli Stati membri di introdurre condizioni meno restrittive per l’accertamento della responsabilità dello Stato[6].

Certo, quando si tratta di accertare la ricorrenza del requisito della violazione grave e manifesta con riferimento ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado occorre tener conto della specificità della funzione giurisdizionale, nonché delle legittime esigenze della certezza del diritto. La responsabilità dello Stato a causa della violazione del diritto comunitario da parte di un’autorità giudiziaria può sussistere solo nel caso eccezionale in cui il magistrato abbia violato in maniera manifesta il diritto vigente.

Il giudice nazionale chiamato a decidere in ordine alla domanda risarcitoria, ed in particolare a valutare se sussista la violazione grave e manifesta di una norma europea attributiva di diritti, deve quindi tenere in considerazione, secondo la Corte, il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere intenzionale della violazione, la scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto, la posizione adottata eventualmente da un’istituzione comunitaria, nonché la mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, terzo comma, TCE (ora art. 267 TFUE).

In ogni caso, per la sentenza Köbler una violazione del diritto comunitario è sufficientemente caratterizzata allorché la decisione di cui trattasi è intervenuta ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in questa materia.

Logica e naturale conseguenza della sentenza sul caso Köblerè stata la sentenza sul caso Traghetti del Mediterraneo.

Innanzitutto, si è ribadito che la regola per cui uno Stato membro è obbligato a risarcire i danni arrecati ai singoli per violazioni del diritto comunitario che gli sono imputabili ha valore in riferimento a qualsiasi ipotesi di violazione del diritto comunitario, qualunque sia l’organo di tale Stato la cui azione od omissione ha dato origine alla trasgressione (come già affermato nella sentenza Köbler, decisione nella quale si statuiva – fondandosi in particolare sul ruolo essenziale svolto dal potere giudiziario nella tutela dei diritti che derivano ai singoli dalle norme comunitarie, nonché sulla circostanza che un organo giurisdizionale di ultimo grado costituisce, per definizione, l’ultima istanza dinanzi alla quale essi possono far valere i diritti che il diritto comunitario conferisce loro – che la tutela di tali diritti sarebbe indebolita – e la piena efficacia delle norme comunitarie che conferiscono simili diritti sarebbe rimessa in questione – se fosse esclusa la facoltà dei singoli di ottenere, a talune condizioni, il risarcimento dei danni loro arrecati da una violazione del diritto comunitario imputabile a una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado).

Per la Corte non si può escludere che una violazione manifesta del diritto comunitario vigente venga commessa, nell’esercizio di una tale attività interpretativa, se, per esempio, il giudice dà a una norma di diritto sostanziale o procedurale comunitario una portata manifestamente erronea, in particolare alla luce della pertinente giurisprudenza della Corte in tale materia, o se interpreta il diritto nazionale in modo da condurre, in pratica, alla violazione del diritto comunitario vigente. Tale constatazione vale, a maggior ragione, per gli organi giurisdizionali di ultimo grado, incaricati di assicurare a livello nazionale l’interpretazione uniforme delle norme giuridiche.

E per il giudice di Lussemburgo si deve giungere ad analoga conclusione nel caso di una legislazione che escluda, in maniera generale, la sussistenza di una qualunque responsabilità dello Stato allorquando la violazione imputabile ad un organo giurisdizionale di tale Stato risulti da una valutazione dei fatti e delle prove. Da un lato, infatti, una simile valutazione costituisce, così come l’attività di interpretazione delle norme giuridiche, un altro aspetto essenziale dell’attività giurisdizionale poiché, indipendentemente dall’interpretazione effettuata dal giudice nazionale investito di una determinata causa, l’applicazione di dette norme al caso di specie spesso dipenderà dalla valutazione che egli avrà compiuto sui fatti della vicenda processuale così come sul valore e sulla pertinenza degli elementi di prova prodotti a tal fine dalle parti in causa. Dall’altro lato, una tale valutazione – che richiede a volte analisi complesse – può condurre ugualmente, in certi casi, ad una manifesta violazione del diritto vigente, sia essa effettuata nell’ambito dell’applicazione di specifiche norme relative all’onere della prova, al valore di tali prove o all’ammissibilità dei mezzi di prova, ovvero nell’ambito dell’applicazione di norme che richiedono una qualificazione giuridica dei fatti. Escludere, in tali casi, ogni possibilità di sussistenza della responsabilità dello Stato poiché la violazione contestata al giudice nazionale riguarda la valutazione effettuata da quest’ultimo su fatti o prove equivarrebbe altresì a privare di effetto utile il principio sancito nella sentenza Köbler, per quanto riguarda le manifeste violazioni del diritto comunitario che sarebbero imputabili agli organi giurisdizionali nazionali di ultimo grado.

La Corte aggiunge che nemmeno può limitarsi, in relazione al diritto dell’Unione, la responsabilità dello Stato ai soli casi di dolo o di colpa grave del giudice. La Corte non poteva che ribadire che le condizioni che determinano la responsabilità sono soltanto quelle enunciate nella sentenza Köbler e che non può ammettersi l’introduzione nei sistemi nazionali di criteri, relativi alla natura o al grado che una violazione deve soddisfare, più rigorosi di quelli contemplati dall’ordinamento europeo.

Coerentemente a quanto statuito nelle sentenze sui casi Köbler e Traghetti del Mediterraneo, nel 2011 è intervenuta la terza sentenza della Corte di giustizia sulla responsabilità dello Stato-giudice per violazione del diritto dell’Unione.

Infatti, con sentenza del 24 novembre 2011 la terza sezione della Corte ha affermato, tra le altre cose, che il diritto dell’Unione impone agli Stati membri di risarcire i danni arrecati ai singoli a seguito di violazioni del diritto dell’Unione ad essi imputabili a prescindere dall’organo da cui tale danno sia scaturito, principio che trova quindi applicazione anche nel caso in cui la violazione sia commessa dal potere giudiziario e che per la Corte non trova attuazione nella legislazione italiana.

Posto che era già insita nella giurisprudenza della Corte di giustizia, dopo la sentenza Traghetti del Mediterraneo, l’inidoneità della normativa italiana ad assicurare la piena compatibilità con il diritto dell’Unione e posto che tale inidoneità era stata però affermata dalla Corte in modo incidentale nella sentenza Traghetti, con la decisione del 24 novembre 2011 il giudice di Lussemburgo ha stabilito in modo chiaro ed esplicito, all’esito di una procedura per infrazione (e quindi specificamente volta all’accertamento della violazione di un obbligo gravante sugli Stati membri), che la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado e che ciò l’Italia ha fatto in quanto, secondo la Corte, ha posto in essere le violazioni di cui ai due addebiti contestati dalla Commissione:

1) ha escluso, con la sua normativa nazionale, qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado e risultante da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo;

2) ha limitato per il resto tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (sul risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati).

Con riferimento al primo addebito il giudice di Lussemburgo ricorda – visto che la legge italiana esclude in via generale la responsabilità dello Stato nei settori dell’interpretazione del diritto e della valutazione di fatti e di prove – di avere già avuto modo di affermare che il diritto dell’Unione osta ad una siffatta esclusione generale della responsabilità dello Stato per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile ad un organo giurisdizionale di ultimo grado qualora tale violazione risulti dall’interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione di fatti e di prove operata dall’organo medesimo.

Invece, osserva la Corte nella sentenza del 24 novembre 2011, dall’esplicito tenore del comma 2 dell’art. 2 legge 117/88 emerge che la responsabilità statale resta esclusa, in via generale, nell’ambito dell’interpretazione del diritto e della valutazione dei fatti e delle prove.

Peraltro, aggiunge la Corte, negli stessi termini (totale esclusione di responsabilità) il giudice del rinvio aveva fatto riferimento al comma 2 dell’art. 2 della legge n. 117/88 nelle questioni pregiudiziali sottoposte alla Corte nella causa da cui è scaturita la sentenza Traghetti del Mediterraneo.

Per quanto poi concerne l’argomento utilizzato dallo Stato italiano per cui sarebbe stata errata l’interpretazione fornita dalla Commissione in merito a due sentenze della Corte di Cassazione (la 15227/07 e la 7272/08) che secondo la stessa Commissione dimostravano che la giurisprudenza nazionale accoglieva un’interpretazione dell’art. 2 della legge n. 117/88, in collegamento con il diritto dell’Unione, incompatibili con le posizioni della Corte di giustizia, la Corte rileva che, a fronte dell’esplicito tenore dell’art. 2, secondo comma, di tale legge, lo Stato italiano non ha fornito alcun elemento in grado di dimostrare validamente che, nell’ipotesi di violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado, tale disposizione venga interpretata dalla giurisprudenza quale semplice limite posto alla sua responsabilità qualora la violazione risulti dall’interpretazione delle norme di diritto o dalla valutazione dei fatti e delle prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e non quale esclusione di responsabilità.

In altri termini, risultando in violazione del diritto dell’Unione il testo normativo del comma 2 dell’art. 2 della legge 117/88 (che sembra effettivamente introdurre una clausola di esclusione di responsabilità autonoma rispetto al disposto di cui ai commi 1 e 3 del medesimo art. 2) e mancando una giurisprudenza che interpretasse il detto comma 2, quando viene in questione una violazione del diritto dell’Unione, in linea con gli orientamenti della Corte di giustizia, allora non poteva che essere accolto il primo addebito della Commissione].

La Corte ha poi esaminato il secondo addebito contestato dalla Commissione, ossia quello di limitare, in casi diversi dall’interpretazione delle norme di diritto o dalla valutazione di fatti e di prove, la possibilità di invocare la responsabilità dello Stato italiano per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado ai soli casi di dolo o di colpa grave, il che non sarebbe conforme ai principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte.

Per la Commissione, invero, la nozione di «colpa grave», di cui all’art. 2, commi 1 e 3, della legge n. 117/88, viene interpretata dalla Corte di Cassazione italiana in termini coincidenti con il «carattere manifestamente aberrante dell’interpretazione» effettuata dal magistrato e non con la nozione di «violazione manifesta del diritto vigente» postulata dalla Corte ai fini del sorgere della responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione.

Richiamandosi alla propria precedente giurisprudenza, la Corte ha in proposito rammentato che uno Stato membro è tenuto al risarcimento dei danni arrecati ai singoli per violazione del diritto dell’Unione da parte dei propri organi in presenza di tre condizioni: a) la norma giuridica violata deve essere preordinata a conferire diritti ai singoli; b) la violazione deve essere sufficientemente caratterizzata; c) tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato e il danno subìto dal soggetto leso deve sussistere un nesso causale diretto.

Per la Corte la responsabilità dello Stato per i danni causati dalla decisione di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado è disciplinata dalle stesse condizioni. In tal senso, come già sopra osservato, una «violazione sufficientemente caratterizzata della norma di diritto» si realizza solamente nel caso eccezionale in cui il giudice nazionale abbia violato il diritto vigente in maniera manifesta.

Per la Corte il diritto al risarcimento del danno sussiste anche nel caso in cui la violazione derivi da un provvedimento giudiziario purché essa sia qualificabile come manifesta, condizione che deve essere verificata tenendo in considerazione «il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere intenzionale della violazione, la scusabilità o l’inescusabilità dell’errore di diritto, la posizione adottata eventualmente da un’istituzione comunitaria nonché la mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale» (sentenza Köbler).

Ora, il diritto nazionale può precisare la natura o il grado di una violazione che implichi la responsabilità dello Stato, ma non può, in nessun caso, imporre requisiti più rigorosi. In altri termini, dalla giurisprudenza della Corte emerge che, se è pur vero che non si può escludere che il diritto nazionale precisi i criteri relativi alla natura o al grado di una violazione, criteri da soddisfare affinché possa sorgere la responsabilità dello Stato in un’ipotesi di tal genere, tali criteri non possono, in nessun caso, imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di una manifesta violazione del diritto vigente.

Invece, nella sentenza del 24 novembre 2011 la Corte rileva che la Commissione ha fornito elementi sufficienti da cui emerge che la condizione della «colpa grave», di cui all’art. 2, commi 1 e 3, della legge n. 117/88 viene interpretata dalla Corte di Cassazione italiana in termini tali che finisce per imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di «violazione manifesta del diritto vigente».

Nonostante in risposta a tale argomento della Commissione la Repubblica italiana abbia affermato, da un lato, che le sentenze della suprema Corte di Cassazione indicate dalla Commissione non riguardavano una violazione del diritto dell’Unione e, dall’altro, che l’art. 2 della legge n. 117/88 poteva essere oggetto di interpretazione conforme al diritto dell’Unione medesimo e che la nozione di «colpa grave» di cui al detto articolo era, in realtà, equivalente a quella di «violazione manifesta del diritto vigente», tuttavia per la Corte – indipendentemente dalla questione se la nozione di «colpa grave», ai sensi della legge n. 117/88, malgrado il rigoroso contesto in cui essa si colloca all’art. 2, terzo comma, della legge medesima, possa essere effettivamente interpretata, nell’ipotesi di violazione del diritto dell’Unione da parte di un organo giurisdizionale di ultimo grado dello Stato membro convenuto, in termini tali da corrispondere al requisito di «violazione manifesta del diritto vigente» fissato dalla giurisprudenza della Corte – ciò che rileva è che la Repubblica italiana non ha richiamato, in ogni caso, nessuna giurisprudenza che, in detta ipotesi, vada in tal senso e non ha quindi fornito la prova richiesta quanto al fatto che l’interpretazione dell’art. 2, commi 1 e 3, di tale legge accolta dai giudici italiani sia conforme alla giurisprudenza della Corte.

A questo proposito ha impiegato una motivazione che si fonda sul riparto dell’onere della prova e sul principio per cui nel giudizio exart. 258 TFUE alla Commissione spetta (per costante giurisprudenza della Corte) solo di dimostrare il preteso inadempimento dello Stato con sufficiente specificità, mentre grava sul convenuto l’onere di confutare in modo sostanziale e dettagliato i dati forniti nell’atto introduttivo e le conseguenze che secondo le allegazioni ivi contenute ne derivano.

La Corte di giustizia ha quindi accolto anche il secondo addebito della Commissione (ritenendo fondato il ricorso) sulla base della considerazione per cui la Repubblica italiana non aveva confutato in termini sufficientemente sostanziali e dettagliati l’addebito contestatole dalla Commissione, secondo cui la normativa italiana limita, in casi diversi dall’interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione dei fatti e delle prove, la responsabilità dello Stato italiano per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado in modo non conforme ai principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte.

Il principio affermato dalla Corte è stato, in conclusione, quello per cui la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi su di essa gravanti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado per effetto di due previsioni contenute nei commi 1 e 2 dell’art. 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117, sul risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, condotte: 1) escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o di valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo; 2) limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave.

I principi espressi dalla Corte di Lussemburgo sono stati prontamente recepiti dai giudizi nazionali. Ed invero, con la sentenza 22 febbraio 2012 n. 2560 la terza sezione della Corte di Cassazione ha affermato che “in tema di responsabilità civile dei magistrati, l’art. 2 l. 13 aprile 1988 n. 117, laddove – nel fissare i presupposti della domanda risarcitoria contro lo Stato per atto commesso con dolo o colpa grave dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni – esclude che possa dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto, ovvero di valutazione del fatto e della prova, è in contrasto con gli obblighi comunitari dello Stato italiano alla luce delle statuizioni contenute nella sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 24 novembre 2011, nella causa C-379/10, solo con riferimento alle violazioni manifeste del diritto dell’Unione europea imputabili ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado”.
 

2. Gli orientamenti giurisprudenziali formatisi nel vigore della precedente formulazione della legge 117/88.

Con la sentenza del 24 novembre 2011 la Corte di giustizia ha precisato che la necessità di garantire ai singoli una protezione giurisdizionale effettiva dei diritti che il diritto dell’Unione conferisce loro implica che la responsabilità dello Stato possa sorgere per violazione del diritto dell’Unione risultante dall’interpretazione di norme di diritto da parte di un organo giurisdizionale di ultimo grado.

Non era, però, questo l’orientamento della nostra Corte di Cassazione.

Interpretando il disposto dei primi due commi dell’art. 2 della legge 117/88 – e quindi della responsabilità statale sancita al primo comma in conseguenza di un comportamento doloso o gravemente colposo del magistrato, esclusa comunque ogni tutela risarcitoria in caso di «attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove» – e valutando anche i quattro comportamenti gravemente colposi specificamente indicati al comma 3, la Suprema Corte ha avuto modo di affermare che «il momento della funzione giurisdizionale riguardante l’individuazione del contenuto di una determinata norma e l’accertamento del fatto, con i corollari dell’applicabilità o meno dell’una all’altro, non può essere fonte di responsabilità, nemmeno sotto il profilo dell’opinabilità della soluzione adottata, dell’inadeguatezza del sostegno argomentativo, dell’assenza di una esplicita e convincente confutazione di opposte tesi, dovendo passare l’affermazione della responsabilità, anche in tali casi, attraverso una non consentita revisione di un giudizio interpretativo o valutativo; fonte di responsabilità, invece, può essere l’omissione di giudizio, sempre che investa questioni decisive, anche in relazione alla fase in cui si trova il processo, e sia ascrivibile a negligenza inescusabile» (Cass. n. 17259/2002).

In termini ancora più espliciti si legge in Cass. 13000/06 che «in tema di responsabilità civile dei magistrati, l’art. 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117, nel fissare – a pena di inammissibilità, ai sensi dell’art. 5, terzo comma – i presupposti della domanda risarcitoria contro lo Stato per atto commesso con dolo o colpa grave dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni, esclude possa dare luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto, ovvero di valutazione del fatto e della prova. Né può ritenersi che il giudice sia obbligato a decidere conformemente all’interpretazione già effettuata precedentemente dallo stesso o da altro giudice in relazione ad un’altra controversia».

Che l’art. 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117, escluda che possa dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto, ovvero di valutazione del fatto e della prova è principio affermato a chiare lettere anche da Cass. 25123/06, che aggiunge che la clausola di salvaguardia riconducibile a quest’ultima esclusione prevista nel comma 2 dell’art. 2 «non tollera letture riduttive perché giustificata dal carattere fortemente valutativo dell’attività giudiziaria e – come precisato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 18 del 19 gennaio 1989 – attuativa della garanzia costituzionale dell’indipendenza del giudice e, con essa, del giudizio».

La ratio di questa impostazione giurisprudenziale si può rinvenire in un passaggio di Cass. 14860/01, secondo il quale è per la tutela dell’autonomia della “funzione giudiziaria” che l’operazione conoscitiva della norma regolatrice della concreta fattispecie «non può costituire fonte di responsabilità personale (pur se in sede di rivalsa – art. 8 – o disciplinare – art. 9 -) per il magistrato che l’ha compiuta».

La clausola di salvaguardia che esclude la responsabilità per attività interpretativa o valutativa (di fatti e prove) è attuativa della garanzia costituzionale dell’indipendenza del giudice e, con essa, del giudizio.

Nella giurisprudenza della Corte di Cassazione italiana, quindi, vi è un’assoluta esclusione della responsabilità dello Stato per attività del giudice connessa all’interpretazione del diritto ed alla valutazione del fatto e delle prove.

Nonostante non si registri alcuna decisione relativa al diritto dell’Unione, resta il fatto che nessuna apertura si può scorgere nelle sentenze del nostro giudice di legittimità con riferimento al comma 2 dell’art. 2 della legge 117/88.

Analogamente, una lettura restrittiva delle disposizioni dell’art. 2 della legge 117/88 è stata effettuata dalla Cassazione anche con riferimento al concetto di colpa grave di cui al primo e terzo comma della legge 117/88.

Come visto, nella sentenza del 24 novembre 2011 la Corte di giustizia ha rilevato che la Commissione ha fornito sufficienti elementi volti a provare che la condizione della «colpa grave» prevista dalla legge italiana, come interpretata dalla Corte di Cassazione italiana, si risolve nell’imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di «violazione manifesta del diritto vigente».

Si è già fatto cenno alla circostanza per cui la Commissione si è basata, per documentare il diritto vivente italiano al riguardo, su Cass. 15227/07 e Cass. 7272/08.

Secondo la prima delle due sentenze la responsabilità prevista dalla legge 13 aprile 1988 n. 117, ai fini della risarcibilità del danno cagionato dal magistrato nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, è incentrata sulla colpa grave del magistrato stesso, tipizzata secondo ipotesi specifiche ricomprese nell’art. 2 della citata legge, le quali sono riconducibili al comune fattore della negligenza inescusabile, che implica la necessità della configurazione di un “quid pluris” rispetto alla colpa grave delineata dall’art. 2236 cod. civ., nel senso che si esige che la colpa stessa si presenti come “non spiegabile”, e cioè priva di agganci con le particolarità della vicenda, che potrebbero rendere comprensibile, anche se non giustificato, l’errore del magistrato. Si tratta di pronuncia del tutto in linea con il resto del panorama giurisprudenziale della Corte di Cassazione.

Analogamente, per Cass. 7272/08 i presupposti della responsabilità dello Stato per grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, ai sensi dell’art 2, comma 3, lett. a), della legge n. 117 del 1988, devono ritenersi sussistenti allorquando nel corso dell’attività giurisdizionale si sia concretizzata una violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma stessa ovvero una lettura di essa in termini contrastanti con ogni criterio logico o l’adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore o la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo o ancora lo sconfinamento dell’interpretazione nel diritto libero, essendovi la «completa esenzione da responsabilità» in ogni caso in cui il magistrato abbia fornito una lettura della disposizione «secondo uno dei significati possibili, sia pure il meno probabile e convincente», sempre che dell’opzione accolta si sia dato conto in motivazione.

L’impostazione della legislazione nazionale italiana e l’interpretazione di essa datane dalla Corte di Cassazione hanno fatto sì che la responsabilità dello Stato italiano per fatto del magistrato non può essere fatta valere negli stessi termini precisati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia.

Invero, nei casi in cui venga in questione l’attività interpretativa o valutativa di fatti e prove del magistrato la responsabilità è esclusa dalla c.d. clausola di salvaguardia di cui al comma 2 dell’art. 2 della legge 117/88, così come, nei casi in cui tale clausola non risulta applicabile, l’interpretazione fornita dal giudice di legittimità con riferimento alla nozione di colpa grave di cui ai commi 1 e 3 dell’art. 2 della legge 117/88, ha finito con l’escludere, in via di fatto, l’ipotizzabilità di una responsabilità risarcitoria dello Stato pur in presenza delle condizioni indicate dalla Corte di giustizia.

La conclusione cui è giunta la Corte di giustizia nella sentenza del 24 novembre 2011 era quindi inevitabile.

Peraltro, come ha giustamente rilevato il giudice di Lussemburgo, se è vero che nel procedimento di infrazione incombe sulla Commissione dimostrare l’esistenza del preteso inadempimento, spetta però allo Stato membro convenuto, una volta che la Commissione abbia fornito elementi sufficienti a dimostrare la veridicità dei fatti contestati, confutare i dati forniti e le conseguenze che ne derivano.

Ora, nel caso in questione non solo la Commissione aveva provato la citata interpretazione da parte della nostra Corte di Cassazione, ma l’Italia non è stata poi in grado di provare che l’interpretazione di tale legge ad opera dei giudici italiani fosse conforme alla giurisprudenza della Corte di giustizia. Sotto quest’ultimo profilo, infatti, l’Italia non ha dimostrato che la normativa italiana veniva interpretata dai giudici nazionali nel senso di porre un semplice limite alla responsabilità dello Stato e non nel senso di escluderla.

Né poteva farlo se si considera, come già osservato, che le citate sentenze Cass. 15227/2007 e Cass. 7272/2008 si inseriscono all’interno di un orientamento consolidato che da ultimo ha trovato espressione in Cass. 11593/2011, secondo la quale, «nel fissare i limiti della responsabilità del Magistrato, il legislatore del 1988 si è ispirato al principio della tassatività delle condotte a tal fine rilevanti, tipizzando, al di fuori dell’ipotesi del dolo, gli specifici comportamenti integranti la colpa grave, tutti riconducibili al comune fattore della negligenza inescusabile (cfr. anche Cass. n. 15227/2007, 25133/2006). Ed invero, secondo l’espresso dettato legislativo, costituiscono colpa grave: a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; b) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; d) l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione. L’elencazione è con tutta evidenza tassativa con la conseguenza che ogni comportamento, che non può essere ricondotto ad una delle ipotesi normativamente previste, non integra il titolo di responsabilità necessario. Resta il temperamento dell’ipotesi costituita dalla grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile. Ma quest’ultima, come ha già avuto modo di affermare questa Corte, deve consistere in una totale mancanza di attenzione nell’uso degli strumenti normativi ed in una trascuratezza così marcata ed ingiustificabile da apparire espressione di vera e propria mancanza di professionalità (concretizzantesi in una violazione grossolana e macroscopica della norma ovvero in una lettura di essa contrastante con ogni criterio logico, l’adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore, la manipolazione arbitraria del testo normativo – Cass. n. 7272/2008). In effetti, la negligenza inescusabile implica la necessità della configurazione di un “quid pluris” rispetto alla colpa grave delineata dall’art. 2236 cod. civ., nel senso che si esige che la colpa stessa si presenti come “non spiegabile”, e cioè priva di agganci con le particolarità della vicenda, che potrebbero rendere comprensibile, anche se non giustificato, l’errore del magistrato (Cass. n. 15227/2007, 25133/2006)».

Ecco che nella pacifica giurisprudenza della nostra Corte di Cassazione la nozione di colpa grave è stata interpretata in modo tale da imporre requisiti ben più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione della «violazione manifesta del diritto vigente» indicata dalla Corte di giustizia ai fini del riconoscimento del diritto al risarcimento del danno.

Né sussiste una qualche deroga (normativa o giurisprudenziale) quando a venire in questione non è il diritto nazionale ma quello dell’Unione. Alla Corte di giustizia sarebbe bastato accertare che, nonostante un rigido regime previsto per il diritto nazionale, era comunque fatto salvo, con riferimento al solo diritto dell’Unione, il principio da lei sancito nelle sue sentenze. Poteva anche bastare un comma di poche parole che facesse salvo quanto statuito dalla Corte di giustizia con riferimento al diritto eurounitario. Addirittura, poteva anche essere sufficiente una sola sentenza della Cassazione non contraddetta da altre decisioni dello stesso organo.

In conclusione, escludendo la nostra precedente normativa e la relativa giurisprudenza qualsiasi responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione da parte di un organo giurisdizionale di ultimo grado commessa nell’interpretazione di norme o nella valutazione di fatti e prove e limitando per il resto la responsabilità statale ai casi di dolo o colpa grave interpretati in modo particolarmente restrittivo (e quindi senza potervi ricondurre le “violazioni manifeste del diritto” rilevanti per le violazioni del diritto dell’Unione), era inevitabile che la Corte di giustizia rilevasse il contrasto del nostro sistema legislativo e giurisprudenziale con il principio generale di responsabilità degli Stati membri per la violazione del diritto dell’Unione.

Prima di verificare come sia stato cambiato il tessuto normativo della legge 117/88 e se tali modifiche siano in linea con quanto chiesto dalla Corte di giustizia e con i principi di cui alla nostra Carta costituzionale ed ai Documenti di carattere internazionale è bene fornire un quadro sintetico di quanto previsto sulla responsabilità dei magistrati all’interno del Consiglio d’Europa e nei vari Paesi europei.

3. La responsabilità dei giudici nel Consiglio d’Europa.

La Raccomandazione n. 12/2010 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri sui giudici e sulla loro indipendenza, efficacia e responsabilità (adottata dal Comitato dei Ministri il 17 novembre 2010)  contiene importanti elementi da tenere in considerazione. 

Sono particolarmente significativi alcuni paragrafi del capitolo VII (relativo a “Responsabilità e procedimenti disciplinari”) della Raccomandazione, paragrafi nei quali si legge che «l’interpretazione della legge, l’apprezzamento dei fatti o la valutazione delle prove effettuate dai giudici per deliberare su affari giudiziari non deve fondare responsabilità disciplinare o civile, tranne che nei casi di dolo e colpa grave»(paragrafo 66) e che «soltanto lo Stato, ove abbia dovuto concedere una riparazione, può richiedere l’accertamento di una responsabilità civile del giudice attraverso un’azione innanzi ad un tribunale»(paragrafo 67).

Si nega, quindi, la possibilità di qualsiasi forma di responsabilità civile diretta dei magistrati, principio ritenuto di importanza tale che si prevede pure che «i giudici non devono essere personalmente responsabili se una decisione è riformata in tutto o in parte a seguito di impugnazione» (paragrafo 70), precisandosi, comunque, che «al di fuori dell’esercizio delle funzioni giudiziarie, i giudici rispondono in sede civile, penale e amministrativa come qualsiasi altro cittadino(paragrafo 71)».Chiaramente, l’immunità non è legata alla persona, ma alla funzione.

Sulla responsabilità penale e disciplinare si prevede, poi, che «l’interpretazione della legge, l’apprezzamento dei fatti o la valutazione delle prove effettuate dai giudici per deliberare su affari giudiziari non devono fondare responsabilità penale, tranne che nei casi di dolo» (paragrafo 68) e che “può essere promosso procedimento disciplinare nei confronti dei giudici che non ottemperano ai loro doveri in modo efficace e adeguato. Tale procedimento deve svolgersi da parte di un’autorità indipendente o di un tribunale con tutte le garanzie dell’equo processo e deve garantire al giudice il diritto di impugnare la decisione e la sanzione. Le sanzioni disciplinari devono essere proporzionate» (paragrafo 69).

Di particolare rilevo è poi quanto affermato da un organo del Consiglio d’Europa, ossia il Consiglio consultivo dei giudici, che il 17novembre 2010 ha approvato una “Magna Carta dei Giudici”(Principi fondamentali), che codifica e cristallizza le principali conclusioni contenute nei suoi precedenti dodici pareri ed i cui principi n. 21 («il rimedio agli errori giudiziari deve essere individuato in un adeguato sistema di impugnazioni. Qualsiasi rimedio per le altre disfunzioni della giustizia dà luogo esclusivamente a responsabilità dello Stato») e 22 («non è corretto che il giudice sia esposto, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, ad alcuna responsabilità personale, anche a titolo di rimborso dello Stato, tranne che in caso di dolo») sono chiaramente indicativi dell’esclusione di un’azione diretta dei privati contro il magistrato.

4. La responsabilità del magistrato nei vari Paesi europei.

Variegato è, poi, il panorama delle discipline nazionali sulla responsabilità dei magistrati.

E così ad esempio, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Canada, in Israele il giudice non può mai essere chiamato a rispondere per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni. In Germania la responsabilità civile è limitata alle sole ipotesi di reato. In Francia, nei Paesi Bassi e in Svizzera è esclusa ogni forma di azione diretta nei confronti del giudice.

È bene prendere qui in esame, per sommi capi, le normative previste nei quattro principali Stati europei diversi dall’Italia (Regno Unito, Spagna, Germania e Francia).

Nel Regno Unito esiste, a garanzia dell’indipendenza della Magistratura, il principio dell’esonero dalla responsabilità civile del magistrato per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni.

Per lungo tempo, in realtà, tale principio valeva in assoluto solo per i giudici superiori, posto che per i giudici inferiori vigeva la soggezione patrimoniale per gli atti lesivi compiuti in eccesso di giurisdizione, ossia per atti compiuti travalicando i loro poteri.

È stato, poi, nell’importante caso Sirros v. Moore (1975, QB 118, 113, 148) che si è esteso l’ambito dell’immunità giudiziale in relazione alla responsabilità civile e si è proceduto ad equiparare la posizione dei giudici inferiori (ad es., le cd. Magistrate’s Courts, formate da giudici onorari che gestiscono gran parte dei processi penali in Inghilterra e Galles) a quella dei giudici superiori (ad es.,High Courte Court of Appeal).

Da quel momento tutti hanno goduto dell’irresponsabilità sul piano civile.

Ciò perché l’indipendenza di giudizio del giudice richiede che il giudice non abbia timore di esercitare il suo ruolo. Diceva Lord Denning nel citato caso Sirros v. Moore  che il giudice «should not have to turn the pages of his books with trembling fingers, asking himself: If I do this, shall I be liable in damages?».

Non vi è alcuna responsabilità civile se il giudice agisce in buona fede ovvero nella convinzione, pur erronea, di esercitare la sua giurisdizione (anche in caso di grave errore o ignoranza).

Dall’affermazione giurisprudenziale si è poi passati alla cristallizzazione legislativa del principio in questione (in relazione alle Magistrate’s Courts) con il Justice of Peace Act 1997 (Sezioni n. 51 e 52), e ciò fatti però salvi i casi di eccesso di giurisdizione in cui l’atto sia stato compiuto in malafede.

Certo, con lo Human Rights Act 1988 si è incorporata la C.E.D.U. nel diritto interno ed in attuazione dell’art. 5, par. 5, della Convenzione, si è riconosciuto il diritto al risarcimento per ingiusta detenzione. Tuttavia, in queste ipotesi la tutela risarcitoria vede come soggetto passivo esclusivamente lo Stato. Solo nei confronti dei giudici delle Corti inferiori può essere avanzata una domanda di risarcimento del danno in caso di negligente esercizio delle loro funzioni.

La rivalsa da parte dello Stato è configurabile nei casi in cui manca l’immunità giudiziale.

Inoltre, il Prosecution of Offences Act 1985 prevede che siano esperite verso il Crown Prosecution Service, con un vaglio preliminare di ammissibilità da parte dell’O.C.D. (Central Confiscation Unit of the Organised Crime Division), le azioni civili contro gli atti compiuti dai magistrati del P.M.

Permane infine una responsabilità di tipo latamente “politico”, anche se limitata ai soli giudici delle corti superiori (e solo in misura minore estesa ai giudici di prima istanza), che si estrinseca nella procedura di “address“. Qualora, infatti, si riscontri un comportamento qualificabile nei termini di «cattiva condotta» (misbehaviour) da parte del giudice (ricomprendente ipotesi quali il difetto di giurisdizione, l’incapacità, la negligenza ed i casi di diniego di giustizia), entrambi i rami del Parlamento hanno la possibilità di presentare al Sovrano una petizione volta ad ottenere, ad opera della corona medesima, la rimozione del magistrato dal proprio ufficio.

In Spagna c’è un principio generale (fissato all’articolo 117.1 della Costituzione Spagnola, che ribadisce l’articolo 1 della Legge Organica del Potere Giudiziale) per cui i giudici sono responsabili per la loro condotta[34].

Al successivo art. 121 la medesima Costituzione sancisce che «i danni causati da un errore giudiziario come quelli conseguenti ad un anormale funzionamento dell’amministrazione della giustizia daranno diritto ad un indennizzo a carico dello Stato, conformemente alla legge».

Nello specifico, poi, la responsabilità civile del giudice trova la sua disciplina negli articoli 411-413 della Ley Orgánica del Poder Judicial (LOPJ).

In questi tre articoli si subordina la responsabilità del giudice ad alcune condizioni: che si siano causati danni, che si siano prodotti per colpa o dolo e nell’esercizio delle funzioni svolte dal magistrato (art. 411), che si denunzi a istanza della parte danneggiata o dei suoi aventi diritto (art. 412) e che si sollevi la questione dopo il passaggio in giudicato della sentenza (art. 413), sentenza che viene in ogni caso tutelata e non intaccata dalla decisione resa nel diverso giudizio di responsabilità civile (art. 413.2).

Si tratta, comunque, di norme di fatto inapplicate in quanto non risultano sentenze di condanna per responsabilità civile dei magistrati. L’orientamento giurisprudenziale maggioritario è per un’interpretazione assai restrittiva delle norme sopra indicate introdotte dalla Ley Orgánica del Poder Judiciale continua a discutere di responsabilità del giudice sulla base della negligenza o ignoranza inescusabile.

Meno complesso è ottenere tutela risarcitoria da parte dello Stato (per atto del giudice) facendo valere gli artt. 292-297 LOPJ. Questi ultimi prevedono, infatti, tre titoli di responsabilità per lo Stato, e precisamente l’errore giudiziale, il funzionamento anormale dell’Amministrazione della giustizia, salvo il caso di forza maggiore (art. 292), e la carcerazione preventiva seguita da assoluzione perché il fatto non sussiste (art. 294), e ciò indipendentemente dal funzionamento anormale della giustizia.

In questi casi è possibile per lo Stato (in base all’art. 296) agire in rivalsa contro i giudici che abbiano cagionato dei danni, ma solo nei casi di colpa grave e dolo.

In ogni caso, la responsabilità dello Stato non esclude, ma concorre con quella civile del giudice che, secondo un principio risalente al diritto comune, in Spagna è tradizionalmente estesa alla colpa. Prima di poter esercitare l’azione diretta nei confronti del singolo magistrato sarà però necessario passare attraverso il filtro di un apposito Tribunale chiamato a verificare l’esistenza dei presupposti soggettivi del dolo o della colpa grave.

In Germania è l’art. 34 della Legge Fondamentale (Grundgesetz) a prevedere che quando il giudice viola un proprio dovere d’ufficio nei confronti di un terzo la responsabilità ricade sullo Stato.

L’art. 34 contempla, poi, anche un diritto di rivalsa dello Stato nei confronti del giudice.

Un’altra importante disposizione è, inoltre, quella contenuta al secondo comma dell’art. 839 del codice civile, in forza del quale nel caso di violazione di un dovere d’ufficio commessa in una sentenza il giudice è personalmente responsabile per i danni che da ciò ne derivano al cittadino solo se la violazione del dovere si sostanzia in un fatto di reato.

Non sembra, però, che vi siano mai stati casi di accertata responsabilità personale del giudice in base al citato comma 2 dell’art. 839.

Sullo Stato grava, infine, il risarcimento dei danni derivati da ingiusta detenzione, da ingiusta sottoposizione a indagini e dalle sentenze di condanna che non sono state confermate nei gradi successivi.

In Francia, ancora, è prevista (dall’articolo 11-1 del decreto n. 58-1270 del 22 dicembre 1958, come modificato dalla legge organica sullo status della magistratura) un responsabilità civile dei giudici per i loro comportamenti caratterizzati da colpa propria (connessi o meno con l’espletamento del servizio), concetto che per la giurisprudenza francese è caratterizzato da una particolare gravità, spesso dall’intento di nuocere.

Non vi è, però, alcuna azione diretta nei confronti del magistrato. Se vi è una colpa propria del magistrato connessa all’espletamento del servizio-giustizia e quindi correlata alle funzioni di giudice, allora si citerà in giudizio lo Stato e non il magistrato. Poi vi potrà essere una responsabilità civile del magistrato in forza di un’azione di recupero (che, però, sembra non sia mai stata esperita) delle somme pagate da parte dello Stato, proposta davanti ad una sezione civile della Corte di Cassazione. La difficoltà nell’esercizio della stessa è tra l’altro data dal fatto che essa è limitata alle sole ipotesi di dolo, frode e concussione e non riguarda anche la fattispecie della colpa grave del giudice.

È solo in caso di una colpa propria non connessa all’espletamento del servizio che si può agire direttamente contro il magistrato.

L’articolo 141-1 del codice dell’organizzazione giudiziaria prevede, poi, una responsabilità dello Stato per il cattivo funzionamento del servizio della giustizia. Si stabilisce che «lo Stato è tenuto a riparare i danni causati dal cattivo funzionamento del servizio della giustizia». «Questa responsabilità si concretizza nel caso di colpa grave o di diniego di giustizia».

Lo Stato è, sotto questo profilo, responsabile di un cattivo funzionamento del servizio giustizia caratterizzato da colpa grave o diniego di giustizia (ossia durata eccessiva di un processo), cui sia direttamente conseguito un danno grave e diretto per la parte.

Colpa grave è «qualsiasi cattivo funzionamento del servizio caratterizzato da un fatto o una serie di fatti che riflette l’incapacità dello stesso servizio pubblico della giustizia a svolgere il compito che gli è stato affidato» (Assemblea plenaria della Corte di Cassazione 23 febbraio 2001).

Tramite l’articolo 141-1 del codice dell’organizzazione giudiziaria si può quindi (ma in casi gravi) anche censurare una sentenza senza impugnarla.

5. L’emendamento Pini.

Diversa sembrava, invece, la strada che in un primo tempo sembrava intenzionato a percorrere il legislatore.

Il 2 febbraio 2012 veniva presentato dal deputato Pini ed approvato dalla Camera dei deputati un emendamento al disegno di legge C.4623 (“Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 2011“) che prevedeva l’introduzione nel disegno di legge in questione di un art. 30-bische apporta modifiche all’art. 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117.

Questo il testo dell’emendamento in questione:

1. All’articolo 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) il comma 1 è sostituito dal seguente:

«1. Chi ha subìto un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato e contro il soggetto riconosciuto colpevole per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. Costituisce dolo il carattere intenzionale della violazione del diritto»;

b) il comma 2, è sostituito dal seguente:

«2. Salvo i casi previsti dai commi 3 e 3-bisnell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di valutazione del fatto e delle prove»;

c) dopo il comma 3, è inserito il seguente:

«3-bis. Ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste una violazione manifesta del diritto ai sensi del comma 1, deve essere valutato se il giudice abbia tenuto conto di tutti gli elementi che caratterizzano la controversia sottoposta al suo sindacato con particolare riferimento al grado di chiarezza e di precisione della norma violata, al carattere intenzionale della violazione, alla scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto. In caso di violazione del diritto dell’Unione europea, si deve tener conto se il giudice abbia ignorato la posizione adottata eventualmente da un’istituzione dell’Unione europea, non abbia osservato l’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonché se abbia ignorato manifestamente la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea».

La violazione manifesta si aggiunge alle ipotesi di dolo e colpa grave (pur potendo, invece, in realtà, essere ricompresa in queste ultime) e scompare del tutto l’esenzione di responsabilità per attività interpretativa di norme. Risulta poi notevolmente ridotta l’esclusione di responsabilità per valutazione del fatto e delle prove, che non opera nei casi di diniego di giustizia di cui al comma 3 dell’art. 2 e di violazione manifesta del diritto di cui al comma 3-bis. In quest’ultimo comma, poi, si cristallizzano normativamente le figure sintomatiche di violazione grave e manifesta individuate dalla Corte di giustizia.

La modifica maggiormente dirompente è, però, la previsione di una possibile azione diretta nei confronti dello stesso magistrato. Viene introdotta la facoltà di convenire in giudizio “il soggetto riconosciuto colpevole” (il che lascia presupporre che vi debba prima essere stato un accertamento di responsabilità penale o disciplinare del magistrato) insieme o alternativamente allo Stato.

L’introduzione di una possibile azione diretta lascia perplessi sotto diversi profili[38].

La possibilità per chi si reputa danneggiato dall’attività di un magistrato di citare direttamente in giudizio quest’ultimo mina, invero, la terzietà, l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati e, quindi, in ultima istanza, il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge

La legge 117/88 non è posta a tutela dei magistrati, ma a protezione di valori fondamentali dei cittadini.

Quando ci si trova davanti ad un caso giudiziario sussiste la necessità di contemperare due opposte esigenze: da un lato, garantire i beni e i diritti dei cittadini che risultino vittime di (sempre possibili) errori giudiziari; dall’altro, evitare condizionamenti al magistrato nell’esercizio delle sue funzioni a tutela dei cittadini medesimi.

Dalla necessità di tenere conto di entrambe queste esigenze è venuta fuori la disciplina, costituente un corretto punto di equilibrio, contenuta nella legge 18 aprile 1988 n. 117 sul «risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati».

Questa legge non lascia senza forme di salvaguardia coloro che sono stati danneggiati ingiustamente dall’esercizio delle funzioni giudiziarie.

Prevede, però, che l’azione civile sia esperita non contro il magistrato personalmente, ma contro lo Stato, e quindi, contro l’amministrazione a cui appartiene il magistrato-organo dello Stato. È comunque contemplata un’azione di rivalsa dell’amministrazione nei confronti del magistrato responsabile.

Con il sistema della rivalsa si evita, quindi, che il magistrato responsabile possa andare esente da conseguenze sanzionatorie sotto il profilo civilistico, ma, non prevedendosi una legittimazione passiva del singolo magistrato, si evita di esporre quest’ultimo all’attacco diretto della parte soccombente o dell’imputato condannato.

Peraltro, vi sono almeno altre due categorie di cittadini che non pagano “di tasca propria” per motivi anche in questi casi significativi. La prima categoria è quella del personale direttivo, docente, educativo e non docente delle scuole materne, elementari, secondarie e artistiche, personale che risponde dei danni provocati dagli alunni soltanto in caso di dolo o colpa grave nella vigilanza degli stessi. Pure in questa ipotesi la causa va intentata contro lo Stato che, se sono configurabili dolo o colpa grave, si può rivalere sul singolo, dirigente, insegnante o bidello che sia. La ratio è quella di evitare che la scuola (della quale si riconosce l’essenziale funzione sociale) diventi una possibile fonte di ritorsioni.

Ma anche gli amministratori dei partiti politici, in virtù di un articolo della legge sul finanziamento, «rispondono delle obbligazioni assunte in nome e per conto del partito solamente nei casi di dolo e colpa grave». A pagare per il partito insolvente, in altri termini, è lo Stato (che adempie alle obbligazioni dei partiti attraverso un fondo di garanzia costituito presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze) e ciò in considerazione del ruolo centrale dei partiti nella vita politica.

Ora, la disciplina contenuta nella legge 117/88 è stata ritenuta conforme ai principi della nostra Costituzione.

Con la sentenza n. 18 del 1989 la Corte costituzionale ha infatti affermato che è infondata la questione di legittimità costituzionale dell’intera legge 13 aprile 1988 n. 117, nella parte in cui prevede e disciplina la responsabilità dei giudici per colpa grave, sollevata con riferimento agli art. 101, 104 e 108 Cost., sul presupposto che tale responsabilità comprometta l’imparzialità della magistratura con l’attribuzione alle parti di uno strumento di pressione idoneo ad influenzare le decisioni, ed all’art. 10 Cost., in relazione alla risoluzione 29 novembre 1985 dell’assemblea generale dell’Onu, secondo la quale i giudici debbono godere di forme d’immunità dalle azioni civili di risarcimento dei danni patrimoniali derivanti da atti impropri od omissioni commessi nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali.

Per la Consulta la responsabilità prevista dalla legge 117/88 non compromette l’imparzialità dell’ordine giudiziario e il richiamato principio internazionale non esclude che l’indipendenza della magistratura possa essere garantita con apposite limitazioni e cautele.

La Corte costituzionale ha pure precisato che la legge in questione – nel porre alcune limitazioni alla pretesa risarcitoria, a salvaguardia dell’indipendenza dei magistrati e dell’autonomia e della pienezza dell’esercizio della funzione giudiziaria – assicura un ragionevole punto di equilibrio fra i contrastanti interessi, di rilievo costituzionale, della responsabilità dei pubblici dipendenti (art. 28 Cost.) e dell’indipendenza ed autonomia della magistratura (artt. 101, 104 e 108 Cost.).

Per la Corte, se è vero che l’art. 28 Cost. fissa la regola generale, valida per tutti i funzionari e i dipendenti pubblici (e, quindi, anche per i giudici), della loro responsabilità per «gli atti compiuti in violazione di diritti», secondo «le leggi penali, civili ed amministrative», è anche vero che la stessa Costituzione porta il legislatore a prevedere una disciplina che tenga contestualmente in conto i principi costituzionali dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice.

In altri termini, si trova affermato nella citata sentenza n. 18 del 1989 che poiché la disciplina dell’attività del giudice deve essere tale da rendere quest’ultima immune da vincoli che possano comportare la sua soggezione, formale o sostanziale, ad altri organi, ma al tempo stesso il magistrato è soggetto alla legge e in primo luogo alla Costituzione, che sancisce contestualmente sia il principio d’indipendenza che quello di responsabilità, non merita censura una disciplina della responsabilità civile del magistrato caratterizzata da una serie di misure e di cautele dirette a salvaguardare l’indipendenza dei magistrati nonché l’autonomia e la pienezza dell’esercizio della funzione giudiziaria.

Si è già detto, poi, che l’emendamento Pini eliminava l’esclusione di responsabilità in relazione all’attività interpretativa. Tuttavia, se tale esclusione di responsabilità doveva scomparire in relazione al diritto dell’UE per rispetto alla sentenza della Corte di giustizia del novembre 2011, allora doveva anche scomparire del tutto l’esenzione di responsabilità (che con l’emendamento Pini rimaneva, fatta eccezione per i casi di diniego di giustizia e di violazione manifesta del diritto) per la valutazione del fatto e delle prove.

Oppure si potevano lasciare entrambe le forme di esclusione dicendo che queste non valevano in relazione alle violazioni del diritto UE.

Oppure ancora si poteva meglio differenziare il regime di responsabilità dello Stato (che poteva ampliarsi rispetto al passato) lasciando ferme le limitazione di responsabilità dei magistrati.

Prima tra tutte l’esclusione di un’azione diretta di responsabilità nei confronti del magistrato, che altrimenti potrebbe non essere più, nell’esprimere il proprio giudizio, autonomo ed indipendente e, quindi, equidistante dalle parti. Il compito del giudice è, strutturalmente, quello di distribuire torti e ragioni, scontentando una parte o, talvolta, entrambe o tutte le parti e ciò nell’interesse generale del corretto funzionamento della giustizia, dell’affermazione di un sistema che pretende il rispetto delle regole e l’affermazione della legalità in funzione della tutela della collettività. Un giudice esposto alle azioni dirette delle parti da lui scontentate potrebbe perdere la sua (invece indispensabile) libertà di giudicare in assenza di condizionamenti esterni. Il possibile uso strumentale delle azioni risarcitorie costituirebbe, invece, un forte condizionamento.

Peraltro, il magistrato potrebbe farsi condizionare soprattutto da chi ha i mezzi politici ed economici per intraprendere contenziosi contro i magistrati. Ecco che il maggior pregiudizio conseguente dall’eventuale introduzione di un’azione diretta contro il magistrato graverebbe soprattutto su quei cittadini che non hanno risorse economiche tali da permettere loro di “intimidire” i giudici.

E di certo la forza di essere libero e indipendente non può essere fornita dalla semplice stipulazione di un contratto di assicurazione professionale, che si spera di non rendere mai operativo.

Il cittadino ha invece diritto ad un magistrato forte e indipendente, che non sia in balia di timori e di condizionamenti indotti dalle parti economicamente più forti.

Ciò che va tutelato non è un privilegio dei magistrati, ma la terzietà, l’indipendenza e l’autonomia del giudice e, quindi, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. In un sistema con l’azione risarcitoria diretta verso il magistrato tale uguaglianza continuerebbe ad esistere se il magistrato trova in sé stesso (anche se non nella legge) la forza di essere giusto.

Peraltro, l’azione diretta non comporta alcun aumento delle forme di protezione del privato danneggiato. Il diniego di azione diretta contro il magistrato non incide sulle posizioni creditorie del danneggiato, per l’esaustiva tutela rappresentata dalla piena assunzione da parte dello Stato delle corrispondenti obbligazioni; la fase “filtrante” prevista dalla legge n. 117/1988 non contrasta con il contenuto immediatamente precettivo del novellato art. 111 Cost., consentendo comunque al cittadino, il quale si assuma danneggiato da un atto commissivo o omissivo di un organo giurisdizionale, di avanzare la propria pretesa risarcitoria nell’ambito di un processo “giusto”, ovverosia rispettoso del principio del contraddittorio e celebrato davanti a un giudice la cui individuazione sul territorio è determinata (vedi art. 1) in termini tali da fugare ogni timore di parzialità (così Cass. 9288/05).

La legge 117/88 non crea benefici o privilegi in favore del magistrato, ma risponde ad una precisa scelta di politica legislativa indirizzata a tutelare la funzione giurisdizionale, con i valori di indipendenza ed autonomia fissati dagli artt. 101 e segg. Cost., e, quindi, trova giustificazione e base logica nelle oggettive peculiarità della materia, senza autorizzare sospetti di lesione del principio di eguaglianza.

 6. Le nuove previsioni della legge 117/88.

La legge 18/2015 ha modificato parte delle norme della legge 13 aprile 1988 n. 117 (c.d. Legge Vassalli) sulla responsabilità civile dello Stato per atto del giudice e sulla responsabilità civile dei magistrati introducendo diverse novità, tra le più rilevanti delle quali vanno segnalate, oltre all’eliminazione del filtro, l’ampliamento dei casi tipici della responsabilità per colpa grave, che è stata estesa anche ad ipotesi non preesistenti quali il travisamento del fatto o delle prove (art. 2 n. 3).

Al non agevole fine di comprendere quale sia la reale portata di tali modifiche, occorrerà procedere ad una loro attenta lettura che tenga altresì conto di quanto conservato dell’emendamento Pini.

Anzitutto, l’art. 2 comma 1 della legge n. 117/88 torna, in buona sostanza, alla sua originaria formulazione. Spariscono, dunque, sia l’esplicitazione del senso da attribuire al termine «dolo» che, soprattutto, la previsione dell’azione diretta nei confronti del magistrato «riconosciuto colpevole».

Proprio quest’ultimo aspetto assume rilevanza decisiva in quanto si è voluto, attraverso una tale via, sanare i forti contrasti sorti sul punto. Al contempo una simile formulazione risulta essere maggiormente in linea con le già ricordate istanze volte a salvaguardare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura che, lo si ricordi, trova un suo fondamento non solo sul piano costituzionale, ma anche su quello internazionale.

Il comma 1, però, non limita più la risarcibilità dei danni non patrimoniali ai soli danni “che derivino da privazione della libertà personale” (come era nella precedente formulazione), ma ne consente la richiesta indiscriminata.

Importanti modifiche subiscono, poi, i commi 3 e 3-bis dell’art. 2.

Con riferimento al comma 3 (che era rimasto invariato nella sua formulazione originaria anche dopo l’approvazione dell’emendamento Pini), si fa adesso esplicitamente rientrare l’ipotesi di «violazione manifesta della legge e del diritto dell’Unione europea» tra quelle tipizzate di colpa grave, sostituendo la vecchia lettera a) che contemplava il caso di «grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile». Il più rigoroso requisito della negligenza inescusabile resta, invece, per l’accertamento della responsabilità del singolo magistrato nel giudizio di rivalsa.

Strettamente collegata a ciò è la modifica del testo del comma 3-bisdell’art. 2. Con l’intento di determinare cosa si intenda per «violazione manifesta della legge e del diritto comunitario», ci si è riportati agli indici sintomatici individuati dalla Corte di giustizia, dovendosi a tal proposito valutare in particolare il grado di chiarezza e precisione delle norme violate, la scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto e l’eventuale mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale di cui all’articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonché l’eventuale contrasto dell’atto o del provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea.

Chiaro risulta, dunque, il tentativo da parte del Governo di allinearsi in tutto agli orientamenti espressi dalla giurisprudenza comunitaria. Tramite queste ultime inserzioni, infatti, pur mantenendo la limitazione della responsabilità dello Stato ai soli casi di dolo o colpa grave, in sostanza si sono definiti i contorni di quest’ultima in modo tale da includere certamente al suo interno le ipotesi di «violazione grave e manifesta». Le altre figure tipizzate di colpa grave di cui al nuovo testo dell’art. 2 comma 3 cessano pertanto di costituire un limite per la responsabilità dello Stato-giudice nell’ottica del diritto eurounitario per divenire, al contrario, ipotesi ulteriori che si vanno ad aggiungere a quella di «violazione manifesta» rendendo, di conseguenza, le ipotesi di responsabilità non più ristrette, ma addirittura più numerose di quelle previste dalla Corte di giustizia.

E tuttavia, proprio a causa delle modifiche apportate, il testo della nuova legge potrebbe continuare a prestare il fianco a critiche da parte dell’Unione europea.

L’aspetto problematico riguarda il citato art. 2 comma 2 nella nuova versione e il cui testo, lo si ricordi, è il seguente: «fatti salvi i commi 3 e 3-bis ed i casi di dolo, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove“.

Come appare evidente ad una prima lettura, suscita perplessità la riproposizione, ancora una volta, della clausola di esonero della responsabilità (peraltro sempre con riferimento sia all’attività di valutazione del fatto e delle prove che all’attività di interpretazione delle norme).

Ma il mantenimento di una siffatta previsione normativa appare ancor meno giustificato ove si ponga mente al fatto che, a ben guardare, la norma finisce per affermare che, ai fini della configurabilità di una responsabilità dello Stato per l’esercizio del potere giurisdizionale, si dovrà tener conto anche dell’attività valutativa ed interpretativa, oltre che nel caso di dolo (ossia di «violazione intenzionale» delle norme, per la quale lo Stato è chiamato a rispondere sempre e comunque), anche nei casi di colpa grave, di cui appunto i commi 3 e 3-bisnon sono altro che una esplicitazione.

Se dunque questo sembra essere il significato da attribuire alla disposizione in esame, non si comprende quale spazio operativo residui per la clausola di limitazione. Escludendo infatti l’area del dolo e della colpa grave, conseguenza logica dovrebbe essere quella di affermare che allora l’attività di valutazione dei fatti e delle prove e quella di interpretazione delle norme non potrebbe essere tenuta in considerazione solo nella residuale ipotesi della colpa lieve. Ma è lo stesso comma 1 ad escludere la rilevanza a priori della colpa lieve, laddove afferma che la responsabilità dello Stato sorge solo qualora il danno derivi da dolo o colpa grave del magistrato nell’esercizio delle sue funzioni.

Altra ipotetica soluzione potrebbe essere quella di ritenere che i casi di responsabilità per colpa grave in cui non si possa tener conto dell’attività valutativo-interpretativa siano quelli non contemplati dai commi 3 e 3-bis. Ma anche una siffatta ricostruzione appare del tutto inaccettabile sol che si rifletta sul fatto che il legislatore della legge n. 117/1988 (e successive modifiche) ha inteso restringere l’area della responsabilità proprio ai soli casi di dolo e di colpa grave tipizzata di cui ai commi in parola. Ammettere che possano assumere rilevanza anche altre ipotesi diverse da quelle espressamente indicate finirebbe non solo per forzare il dato normativo, ma per risultare addirittura pericoloso in quanto minerebbe alle fondamenta l’intento di circoscrivere le ipotesi di responsabilità ai fini della salvaguardia dell’indipendenza dei magistrati.

Alla luce di tali considerazioni circa la sostanziale inutilità dell’attuale clausola di salvaguardia e circa il fatto che allo stato le ipotesi di responsabilità dello Stato per atto del giudice in violazione del diritto dell’Unione sono addirittura più numerose di quelle previste dalla Corte di giustizia nonostante la detta clausola di salvaguardia, non si può che concludere nel senso di ritenere che l’attuale disciplina risulta in linea con quanto prescritto dalla Corte di giustizia.

Per completare l’analisi sulle nuove norme, si sottolineano, infine, le modifiche inserite in tema di azione di rivalsa dello Stato nei confronti dei singoli magistrati.

Oltre all’eliminazione del procedimento di valutazione dell’ammissibilità della domanda, si nota anzitutto l’allungamento, da uno a due anni, del termine entro cui lo Stato è chiamato ad esercitare tale azione e che la stessa da facoltativa diviene obbligatoria al ricorrere dei presupposti di legge. Anche qui il problema principale deriva dalla confusione che continua a persistere (e che, in tal modo, risulta essere amplificata) tra responsabilità dello Stato-giudice per violazione del diritto eurounitario e responsabilità del singolo magistrato. Con la previsione dell’obbligatorietà dell’azione di rivalsa si elimina anche quel margine di valutazione discrezionale che, nel vigore della vecchia normativa, rendeva ancora possibile una distinzione tra i due aspetti, facendoli invece coincidere del tutto. Ecco quindi che, con l’intento di allargare le maglie del sistema a favore di una maggiore responsabilizzazione dei magistrati, si rischia di introdurre una forma di responsabilità che, sebbene non diretta, diviene tuttavia necessaria.

È invece del tutto evidente che la tutela delle esigenze dei cittadini e le sentenze di condanna della Corte di giustizia richiedevano un ampliamento dell’area di responsabilità statale, ma non anche dei singoli magistrati, il cui operato autonomo e sereno la nostra Costituzione ed il Consiglio d’Europa vogliono ampiamente salvaguardare. Andavano previste discipline differenziate, con efficaci clausole di salvaguardia valevoli soprattutto in relazione alla responsabilità da fare valere in sede di rivalsa, da prevedere come non obbligatoria, dello Stato verso i magistrati. Se lo Stato deve rispondere anche per errore manifesto del giudice nell’interpretazione di una norma, l’indipendenza della magistratura e l’agire senza condizionamenti del singolo magistrato richiedono un esonero di quest’ultimo da responsabilità (anche verso lo Stato che agisce in rivalsa).

Vi è, infatti, una profonda diversità tra la responsabilità dello Stato, fondata sulla semplice ed oggettiva “violazione manifesta”, e quella personale del singolo magistrato che, al contrario, necessita di una valutazione dell’aspetto soggettivo dell’inescusabilità della colpa.

Vengono, in conclusione, in rilievo le modifiche apportate alla misura della rivalsa. L’art. 8 della legge risulta infatti modificato nel senso di aumentare tale misura da un terzo, come è attualmente, alla metà di una annualità dello stipendio, e le trattenute sullo stipendio medesimo possono raggiungere la misura di un terzo dello stipendio netto. Anche siffatta ultima previsione desta notevoli perplessità (anche di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 3 Cost.), soprattutto in relazione al differenziato ed ingiustificato trattamento (mancando un criterio di ragionevolezza giustificativo del diverso regime) riservato ai magistrati con un prelievo che invece di essere nella misura ordinaria di 1/5 è previsto nella misura di 1/3 dello stipendio.

7. Le parole di Rosario Livatino.

Che la mancata previsione di un’efficace esenzione di responsabilità in sede di rivalsa relativamente all’attività interpretativa di norme e valutativa di fatti e di prove e l’aggravamento del regime della rivalsa possano risultare fortemente pericolosi per l’autonomia ed indipendenza della magistratura e, quindi, per l’integrità del principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge e per la garanzia che il diritto e la sua applicazione concreta continui ad essere, come diceva Celso, non solo ars boni, ma anche ars aequi si ricava anche a chiare lettere da uno dei paragrafi di un testo scritto per una conferenza tenuta da Rosario Livatino presso il Rotary Club di Canicattì il 7 aprile 1984 (e quindi addirittura prima che venisse emanata la legge 117/88) dal titolo “Il ruolo del giudice nella società che cambia“.

Scriveva Rosario Livatino:

«Quanto si è fin qui detto conduce a porre come argomento di chiusura l’interrogativo se il mutato sentire sociale, se le trasformazioni intervenute nel costume del nostro paese siano tali da imporre una nuova struttura della responsabilità del magistrato, delle conseguenze cioè alle quali quest’ultimo è suscettibile di andare incontro ove bene non eserciti la sua funzione.

Il ventaglio dei problemi è vastissimo, ma pare cosa più opportuna limitare il suggerimento, quale argomento di discussione per chi ascolta, alla proposta di introdurre la responsabilità civile per danni arrecati a terzi nell’esercizio di attività giudiziaria per colpa grave.

Sul punto si può osservare come contributo a tale discussione, che l’introduzione del principio della responsabilità civile pare assolutamente inaccettabile per molte ragioni, tutte difficilmente superabili.

Ogni atto giurisdizionale, anzi ogni manifestazione di potestà giudiziaria, incide necessariamente su diritti soggettivi; è per sua stessa natura idonea a produrre danno. E ciò vale non solo per le manifestazioni tipiche di potestà decisionale, ma anche per tutti quei provvedimenti che hanno funzione preparatoria ed ordinatoria rispetto alla decisione finale (concedere o non concedere un sequestro; ammettere o non ammettere una prova; concedere o no la provvisoria esecuzione).

Non esiste, si può dire, atto del giudice e più ancora del pubblico ministero che possa dirsi indolore. Ogni giudice, quindi, nell’atto stesso in cui si accingesse alla stipula di un qualsiasi provvedimento, non potrebbe non domandarsi se per caso dal suo contenuto non gliene possa derivare una causa per danni.

E sarebbe quindi inevitabile ch’egli si studiasse, più che di fare un provvedimento giusto, di fare un provvedimento innocuo.

Come possa dirsi ancora indipendente un giudice che lavora soprattutto per uscire indenne dalla propria attività, non è facile intendere. Né si dica che le parti raramente ricorrerebbero a questa possibilità. La facilità con cui, specialmente in certe regioni, si ricorre all’esposto contro il giudice, anche per i più ingiustificati motivi, autorizza la previsione che una riforma del genere aprirebbe subito un ampio contenzioso.

Se qualcuno volesse obiettare che, in fondo, la responsabilità è prevista solo per le ipotesi di colpa grave, sarebbe facile rispondere che questa limitazione introduce un elemento di aleatorietà in più, davvero insufficiente ad offrire un criterio d’orientamento obiettivo. E’ difficile trovare dei casi di colpa giudiziaria che non possano considerarsi gravi: la motivazione stereotipa; l’omessa convalida della perquisizione in flagranza; l’omesso esame di prove risultanti dagli atti; la mancata motivazione su specifici capi delle domande ecc., sono tutte mancanze gravi. La colpa del giudice, se c’è, è sempre grave per definizione, data dall’importanza degli interessi sui quali egli dispone.

L’altro effetto perverso, che potrebbe essere indotto dalla riforma, sarebbe quello di indurre il giudice al più rigido conformismo interpretativo: per cautelarsi contro il pericolo di seccature, è semplice prevedere che il giudice si guarderebbe bene dal tentare vie interpretative inesplorate e percorrerebbe sempre la strada maestra fornita dalla giurisprudenza maggioritaria della Cassazione; l’autorità del precedente, che è vincolo professionale per il magistrato anglosassone, diventerebbe per quello italiano fatto d’interesse personale e l’art. 101 della Costituzione potrebbe essere riscritto nel senso che i giudici sono soggetti soltanto alla Corte di Cassazione.

Quando poi la controversia toccasse affari od interessi di dimensioni eccezionali, ogni scelta diverrebbe veramente paralizzante: si pensi alla decisione di un tribunale fallimentare se far fallire o no un grosso complesso industriale od una catena di società legata magari a centri di potere politico.

Il giudice veramente verrebbe consegnato nelle mani delle forze che si scontrano fra loro e sarebbe difficile ch’egli non fosse tentato, se non è riuscito a fuggire prima di dover scegliere, di secondare il più forte.

Ma gli effetti più devastanti di una proposta del genere si avrebbero in materia penale, specialmente nel momento dell’inizio dell’azione penale.

Se l’organo dell’accusa sa che le sue iniziative investigative possono costargli, quando non ne seguisse una condanna, una causa per danni, ci si può chiedere se sarà mai più possibile trovare un pretore od un pubblico ministero che di sua iniziativa intraprenda la persecuzione di quei reati che per tradizione o per costume o per altro nel passato erano raramente perseguiti. Dai reati societari all’urbanistica, all’inquinamento ed in genere a tutti i reati che offendono interessi diffusi.

Ci si può chiedere ancora se si troverà un giudice che, in presenza di un reato che consente ma non impone la cattura, avrà l’ardire di imprigionare, ad esempio, un bancarottiere per qualche miliardo, quando rifletta alle conseguenze che gliene potrebbero derivare se, per caso, costui venisse assolto.

Questo è l’effetto perverso fondamentale che può annidarsi nella proposta di responsabilizzare civilmente il giudice: essa punisce l’azione e premia l’inazione, l’inerzia, l’indifferenza professionale. Chi ne trarrebbe beneficio sono proprio quelle categorie sociali che, avendo fino a pochi anni or sono goduto dell’omertà di un sistema di ricerca e di denuncia del reato che assicurava loro posizioni di netto privilegio, recupererebbero attraverso questa indiretta ma ancor più pesante forma di intimidazione del giudice la sostanziale garanzia della propria impunità.

Tutto ciò che si è riusciti a conquistare sul terreno di una più effettiva valenza del principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, verrebbe vanificato di colpo e le condizioni della nostra giustizia penale sarebbero retrocesse in un istante all’epoca dello Statuto Albertino».

8. Le modifiche da apportare all’ordinamento italiano. Alcune necessarie soluzioni normative.

Inoltre, vi è una violazione manifesta da parte del giudice anche quando questa viene commessa nella valutazione dei fatti e delle prove (v. sentenza Traghetti del Mediterraneo), come ad esempio, quando cade sul valore e sulla pertinenza degli elementi di prova prodotti dalle parti nel corso del giudizio, con la precisazione che può ricorrere una violazione non fattuale ma normativa (e comunque rilevante se manifesta) anche nell’ambito dell’applicazione di specifiche norme relative all’onere della prova, al valore di tali prove o all’ammissibilità dei mezzi di prova, ovvero nell’ambito dell’applicazione di norme che richiedono una qualificazione giuridica dei fatti.

Certamente, comunque, dopo la sentenza della Corte di giustizia del novembre 2011 è evidente che l’Italia deve porre fine all’accertata violazione dei vincoli derivanti dall’ordinamento eurounitario.

Non può più dirsi che non si pone un problema di compatibilità e che per conseguire una tutela risarcitoria per i danni scaturenti dalle violazioni del diritto comunitario poste in essere da organi giurisdizionali anche di ultima istanza non trovi applicazione la legge 117/88 alla luce del fatto che la responsabilità civile del magistrato contemplata dalla legge speciale è fattispecie diversa da quella della responsabilità dello Stato in quanto tale, occasionalmente determinata da un provvedimento giurisdizionale.

Vi sono diverse ipotesi di responsabilità dello Stato-giudice per violazione del diritto eurounitario che vanno sanzionate nel nostro sistema nazionale per poter ritenere quest’ultimo conforme all’impostazione eurounitaria.

Si pensi alle seguenti: 1) “responsabilità da dissenso” nei casi in cui il giudice di legittimità abbia deciso volutamente ed anche motivatamente discostarsi dalle indicazioni offerte dal giudice di Lussemburgo; 2) mancato rinvio pregiudiziale da parte del giudice di ultima istanza, per il quale l’attivazione del meccanismo del rinvio è obbligatorio, quando ciò ha dato luogo ad una soluzione giurisprudenziale non in linea con la tutela offerta in sede europea; 3) interpretazione del diritto nazionale in modo non conforme al diritto dell’Unione; 4) applicazione da parte del giudice di ultima istanza della normativa nazionale ritenendola conforme al diritto comunitario nei casi in cui, invece, vi doveva essere disapplicazione della norma interna in considerazione del suo assoluto contrasto con la disposizione europea e della preminenza del diritto UE rispetto al diritto nazionale; 5) errata interpretazione di una norma di diritto dell’Unione applicabile alla fattispecie.

Ora, l’obiettivo della cessazione della violazione da parte dello Stato italiano dei vincoli derivanti dall’ordinamento eurounitario poteva essere conseguito o tramite la via normativa o tramite la via interpretativa.

Essendosi il legislatore attivato, si è già per ora perfezionata la va normativa.

Si è previsto che “costituisce colpa grave” anche “la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea” così come individuata dalla Corte di giustizia (secondo parametri, quindi, nettamente meno rigorosi di quelli utilizzati dalla Corte di Cassazione nell’interpretazione del previgente art. 2 della legge 117/88).

D’altronde, nulla vieta di considerare come elementi indicativi di condotte colpose (o gravemente colpose) quelli che per la Corte di giustizia sono gli indici sintomatici della violazione grave e manifesta. Ciò che il giudice di Lussemburgo non vuole è che nei sistemi nazionali si aggiungano elementi costitutivi dell’illecito eurounitario mancanti nella costruzione ormai graniticamente effettuata all’interno della giurisprudenza europea. Quest’ultima verrebbe rispettata se la colpa non viene richiesta come elemento di responsabilità aggiuntivo, ma come requisito che si presume esistere una volta accertata la ricorrenza di uno degli indici sintomatici della violazione grave e manifesta richiesti dalla Corte di giustizia. Un’impostazione di questo tipo (quale è quella introdotta nella riformata legge 117/1988) non è divergente da quella eurounitaria.

Con riferimento, invece, alla clausola di salvaguardia, l’assoluto contrasto con il diritto dell’Unione sorto all’indomani delle citate tre sentenze della Corte di giustizia poteva essere risolto se il vecchio comma 2 dell’art. 2 della legge 117/1988 (secondo il quale «nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove») fosse stato fatto precedere dall’inciso «fatta eccezione per i casi di violazione grave e manifesta del diritto dell’Unione europea».

Oppure, ancora meglio (per evitare facile questioni di legittimità costituzionale per disparità di trattamento, e quindi violazione dell’art. 3 Cost., tra le violazioni del diritto UE e quelle del diritto nazionale) l’esonero di responsabilità di cui alla nota clausola di salvaguardia per l’attività interpretativa e di valutazione del fatto e delle prove doveva valere (ma integralmente e senza eccezioni) solo per la rivalsa ad opera dello Stato e poteva essere (come è stato) temperato per l’azione esperita dal cittadino nei confronti dello Stato.

Invece, l’avere lasciato una clausola di salvaguardia di fatto inutile (perché concretamente relativa ad ipotesi di colpa lieve, già escluse per definizione tra le possibili fonti di responsabilità) sia per l’azione di responsabilità del privato verso lo Stato che dello Stato verso il magistrato è stata una scelta non imposta dalla giurisprudenza europea e lesiva dell’indipendenza della magistratura.

Ciò che va chiarito, infatti, è che non è stata imposta dalla Corte di giustizia l’introduzione di una responsabilità diretta del magistrato né la necessaria previsione di più gravosi presupposti della responsabilità civile di quest’ultimo.

Già nella sentenza Köbler si era precisato, con riferimento all’obiezione formulata da alcuni Stati per cui l’affermazione del principio della responsabilità statale per violazione del diritto UE commessa da organi giudiziari avrebbe potuto minare il principio dell’indipendenza del giudice, che «il principio di responsabilità di cui trattasi riguarda non la responsabilità personale del giudice, ma quella dello Stato» (punto 42).

D’altronde, l’intento della Corte «non era certo di minare l’indipendenza e l’autonomia dei giudici […] ma [quello] di difendere l’effettività dei diritti di matrice comunitaria ed il principio dell’effetto utile delle norme del sistema comunitario prevedendo la possibilità di ottenere una tutela per equivalente».

Alla Corte di Lussemburgo interessa solo affermare la prevalenza del diritto dell’Unione anche tramite la previsione di una tutela risarcitoria nei confronti dei privati lesi da un comportamento dello Stato che, con leggi o con sentenze o con atti amministrativi, attraverso suoi organi come il Parlamento, l’esecutivo o l’apparato giudiziario – vìoli il diritto europeo.

La Corte di giustizia non afferma in alcun modo che debba rispondere personalmente il magistrato nazionale che non abbia applicato o abbia fatto cattivo impiego del diritto dell’Unione.

Allo stesso modo mai afferma la Corte di Lussemburgo che il parlamentare che abbia proposto o votato la legge poi considerata in contrasto con il diritto dell’Unione o l’amministratore che abbia emesso un atto amministrativo in violazione di una normativa europea debba essere chiamato a risarcire i danni causati dai suoi atti.

Il principio affermato dal giudice eurounitario è che la nostra legge 117/88 contrasta con il diritto dell’Unione nella misura in cui, da un lato, impedisce una responsabilità dello Stato per violazione del diritto europeo derivante «da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale di ultimo grado» e, dall’altro, limita «tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave».

La tutela risarcitoria è un mezzo di efficacia (indiretta) del diritto dell’Unione. Ma si tratta della tutela risarcitoria assicurata dagli Stati nazionali e non della responsabilità dei vari organi statali che hanno concorso a produrre la violazione del diritto dell’Unione[58].

Nella nostra legislazione andrebbe meglio definito il confine tra la responsabilità dello Stato e quella personale dei magistrati: non ha senso (come invece fa l’attuale legge 117/88) fare coincidere, con riferimento alla clausola di salvaguardia sull’interpretazione delle norme e sulla valutazione del fatto e delle prove, le due sfere e prevedere poi una possibile rivalsa da parte dello Stato unico legittimato passivo nei confronti del danneggiato.

Sarebbe meglio creare due differenti discipline (anche inserite nello stesso testo normativo, come attualmente accade): una sulla “responsabilità dello Stato per attività giudiziaria” ed una sulla “responsabilità dei magistrati verso lo Stato”.

In quest’ultima si dovrebbero inserire gli stessi principi (di tutela dell’autonomia ed indipendenza della magistratura e, quindi, anche dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge) che si rinvengono nella citata raccomandazione n. 12/2010 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. Ciò sarebbe anche il modo per consentire all’Italia di adeguarsi alla detta Raccomandazione.

È giusto che la disciplina della responsabilità statale sia più ampia di quella precedente e che sia stato ridotto l’ambito operativo della clausola di salvaguardia, chiarendo che è compresa anche la violazione manifesta del diritto.

E comunque, la disciplina della “responsabilità dei magistrati verso lo Stato” potrebbe pure continuare ad essere collocata, nello stesso testo legislativo relativo alla responsabilità statale, sotto forma di azione di rivalsa dello Stato verso i magistrati. Ciò che importa è che vengano differenziati i presupposti della responsabilità statale da quello della responsabilità magistratuale.

Continuare a tenere unificati i presupposti delle due forme di responsabilità rischia di causare unvulnus al principio costituzionale dell’indipendenza del giudice.

Si ricordi che, con riferimento alla precedente disciplina normativa, la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare, nella sentenza n. 18/1989, che “la garanzia costituzionale della sua indipendenza è diretta infatti a tutelare, in primis, l’autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l’imparziale interpretazione delle norme di diritto. Tale attività non può dar luogo a responsabilità del giudice (art. 2, n. 2 l. n. 117 cit.) ed il legislatore ha ampliato la sfera d’irresponsabilità, fino al punto in cui l’esercizio della giurisdizione, in difformità da doveri fondamentali, non si traduca in violazione inescusabile della legge o in ignoranza inescusabile dei fatti di causa, la cui esistenza non è controversa.

Né può sostenersi – come fa il giudice a quo – che la legge impugnata spingerebbe il giudice a scelte interpretative accomodanti e a decisioni meno rischiose in relazione agl’interessi in causa, così influendo negativamente sulla sua imparzialità. Come si è ora rilevato, l’art. 2, comma secondo, della l. n. 117 esclude espressamente che possa dar luogo a responsabilità “l’attività d’interpretazione di norme di diritto” e quella di valutazione del fatto e delle prove.

Tale statuizione rende parimenti priva di fondamento la censura, secondo la quale la proposizione di un’azione di risarcimento di danni verso lo Stato, riferita ad una determinata causa, potrebbe turbare l’imparzialità del giudice riguardo a cause analoghe o nelle quali sia parte colui che abbia promosso il giudizio di responsabilità. Ove ne ricorrano gli estremi, soccorre in tale caso il rimedio dell’astensione. Comunque, va sottolineato che la previsione del giudizio di ammissibilità della domanda (art. 5 l. cit.) garantisce adeguatamente il giudice dalla proposizione di azioni “manifestamente infondate”, che possano turbarne la serenità, impedendo, al tempo stesso, di creare con malizia i presupposti per l’astensione e la ricusazione“.

Peraltro, ciò, come detto, non è affatto imposto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, che espressamente nel caso Köbler ha chiarito, come già sopra si è visto, che l’affermazione della responsabilità statale per atto del giudice non inficia l’indipendenza della magistratura perché la responsabilità in questione è dello Stato e non del magistrato.

Come è stata ora introdotta una diversa disciplina dei presupposti della responsabilità statale per atto del giudice (per la quale basta ora una colpa grave che non coincide più con il più rigoroso e prima richiesto requisito della negligenza inescusabile) rispetto alla responsabilità del magistrato (che continua a sussistere solo se ricorre la negligenza inescusabile, fortunatamente di difficile individuazione), anche per la clausola di salvaguardia andava introdotta una disciplina differenziata.

In altri termini, le modifiche da apportare al testo normativo riguardano gli artt. 7 e 8 in tema di azione di rivalsa. Si deve inserire in tali articoli un’autonoma clausola di salvaguardia (sull’esenzione di responsabilità del magistrato per attività interpretativa di norme e per valutazione di fatti e di prove) che riguardi il solo rapporto tra Stato e magistrato, peraltro prevedendo (come detto) anche la facoltatività dell’esercizio della rivalsa, il limite (valevole in generale nel nostro ordinamento) del prelievo massimo di 1/5 dello stipendio mensile ed il termine di 1 anno per l’eventuale esercizio dell’azione da parte dello Stato (per garantire al magistrato di conoscere in tempi brevi le determinazioni statuali in merito all’esercizio della rivalsa).

Dopo l’eventuale condanna dello Stato, l’azione di rivalsa dovrebbe quindi essere soggetta ad un’efficace clausola di salvaguardia.

Allo stato, l’applicazione della medesima (e sostanzialmente vuota) clausola di salvaguardia sia alla responsabilità statale ex lege 117/88 che alla responsabilità del magistrato in sede di azione di rivalsa determina una violazione del principio costituzionale di indipendenza e di autonomia dei magistrati.

E risulta poi in contrasto con i principi di autonomia e indipendenza della magistratura un sistema di rivalsa che la legge 117/1988 configura come automatico ed obbligatorio.

Se in passato la restrittiva interpretazione dei requisiti di responsabilità richiesti dalla legge 117/88 fornita dalla nostra Corte di Cassazione (che richiedeva, secondo quell’orientamento dichiarato contrario al diritto UE dalla sentenza della Corte di giustizia del 24 novembre 2011, interpretazioni giuridiche «manifestamente aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore» o la «manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo» o violazioni grossolane e macroscopiche delle norme) poteva far sembrare in linea con la garanzia dei principi di indipendenza ed autonomia della magistratura un sistema che prevedeva gli stessi requisiti per la responsabilità dello Stato verso i cittadini e per la successiva azione di rivalsa, ora che i presupposti di responsabilità statale sono stati estesi rispetto alla precedente impostazione si rende necessaria una configurazione legislativa (non avendo l’interprete, sotto questo profilo, spazi di manovra) dell’azione di rivalsa non più in termini di automaticità e sulla base di presupposti più restrittivi di quelli richiesti ai fini della responsabilità dello Stato verso i terzi. Poiché ora sono diversi e più ampi i requisiti della responsabilità statale (colpa grave) rispetto a quella del magistrato in sede di rivalsa (dove è necessaria la negligenza inescusabile), non si capisce perché si continui a prevedere un’obbligatorietà ed un automatismo dell’azione di rivalsa. Come ben affermato nell’ordinanza del Tribunale di Verona del 12.5.2015 che ha sollevato alcune questioni di legittimità costituzionale della legge 117/88, dalla diversità dei presupposti dell’azione risarcitoria verso lo Stato e dell’azione di rivalsa verso il magistrato “consegue che la Presidenza del Consiglio dovrà esercitare l’azione di rivalsa “al buio”, vale a dire senza aver avuto, nella maggiora parte dei casi, il conforto della positiva verifica dell’elemento soggettivo della negligenza inescusabile del magistrato nel giudizio nei confronti dello Stato e anche nei casi, invero remoti, in cui fosse stata acclarata l’insussistenza di quel presupposto“. Senza considerare che non è obbligatoria l’azione di rivalsa esercitata nei confronti dei dipendenti pubblici, e ciò alla luce dei principi generali in tema di garanzia personale (v. art.1950 c.c.), non derogati dall’art. 22, comma primo, del d.P.R. 10 gennaio 1957 n.3. Tale azione di rivalsa presuppone solo che nel giudizio verso lo Stato sia stato accertato l’elemento soggettivo (dolo o colpa grave) del funzionario e sia emersa la probabilità di successo della rivalsa.

Gli artt. 7 e 8 della legge 117/98 andrebbe quindi così riformulati:

Art. 7 Azione di rivalsa 1. Il Presidente del Consiglio dei ministri, entro un anno dal risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o di titolo stragiudiziale, ha la facoltà di esercitare l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato nel caso di diniego di giustizia, ovvero nei casi in cui la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea ovvero il travisamento del fatto o delle prove, di cui all’articolo 2, commi 2, 3 e 3-bis, sono stati determinati da dolo o negligenza inescusabile. 1 bis. Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità del magistrato da fare valere in sede di rivalsa l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove. 2. In nessun caso la transazione è opponibile al magistrato nel giudizio di rivalsa o nel giudizio disciplinare.

Art. 8 Competenza per l’azione di rivalsa e misura della rivalsa.

“1. L’azione di rivalsa viene promossa dal Presidente del Consiglio dei Ministri. 2. L’azione di rivalsa va proposta davanti al tribunale del capoluogo del distretto della corte d’appello, da determinarsi a norma dell’articolo 11 del codice di procedura penale e dell’articolo 1 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271. 3. La misura della rivalsa non può superare una somma pari alla metà di una annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l’azione di risarcimento è proposta, anche se dal fatto è derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità. Tale limite non si applica al fatto commesso con dolo. L’esecuzione della rivalsa, quando viene effettuata mediante trattenuta sullo stipendio, non può comportare complessivamente il pagamento per rate mensili in misura superiore ad un quinto dello stipendio netto.  4. Le disposizioni del comma 3 si applicano anche agli estranei che partecipano all’esercizio delle funzioni giudiziarie. Per essi la misura della rivalsa è calcolata in rapporto allo stipendio iniziale annuo, al netto delle trattenute fiscali, che compete al magistrato di tribunale; se l’estraneo che partecipa all’esercizio delle funzioni giudiziarie percepisce uno stipendio annuo netto o reddito di lavoro autonomo netto inferiore allo stipendio iniziale del magistrato di tribunale, la misura della rivalsa è calcolata in rapporto a tale stipendio o reddito al tempo in cui l’azione di risarcimento è proposta”.

9. La soluzione interpretativa. Le nuove ipotesi di colpa grave.

Uno dei punti nevralgici della nuova disciplina è quello della rilevanza attribuita (ai fini della determinazione della colpa grave del magistrato rilevante nel giudizio instaurato contro lo Stato e nell’eventuale successivo giudizio di rivalsa dello Stato verso il magistrato) all’introdotto concetto di “travisamento del fatto o delle prove”.

Esso, assente nel precedente tessuto normativo, costituisce uno dei casi di colpa grave del magistrato.

Il nuovo comma 3 stabilisce, infatti, che costituisce colpa grave del magistrato: a) la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea; b) il travisamento del fatto o delle prove; c) l’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; d) la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; e) l’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dei casi previsti dalla legge oppure senza motivazione.

Aggiungendosi agli altri tre elementi, il concetto di travisamento del fatto dovrebbe costituire qualcosa di diverso.

Invece, nella relazione della Commissione Giustizia della Camera sul disegno di legge in questione si afferma che “le preoccupazioni suscitate dalla nuova ipotesi di travisamento del fatto o delle prove possono essere superate ricorrendo ad un’interpretazione costituzionalmente orientata in base alla quale costituisce travisamento la “affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento” o dalla “negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento”, ipotesi peraltro già previste dal vigente art. 3 comma 2 lettere b) e c) della legge e lasciate intatte dal testo in esame.In altri termini, appare necessario chiarire come l’interpretazione costituzionalmente orientata della norma in esame imponga di considerare che l’unico “travisamento” rilevante ai fini della responsabilità civile del magistrato possa essere quello macroscopico, evidente, che non richiede alcun approfondimento di carattere interpretativo o valutativo. Per questa ragione sono stati respinti anche li emendamenti che qualificavano come “manifesto” il travisamento.

Il travisamento del fatto e delle prove, infatti, coinvolge aspetti tipici dell’attività valutativa, che è connessa ai principi costituzionali di indipendenza e imparzialità della giurisdizione. Infatti, come affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 18 del 1989, la garanzia costituzionale dell’indipendenza del magistrato è diretta a tutelare anzitutto “l’autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l’imparziale interpretazione delle norme di diritto”. L’eventualità che l’azione civile possa operare sul giudice come stimolo verso scelte interpretative accomodanti e decisioni meno rischiose in relazione agli interessi in causa, con ricadute negative sull’imparzialità, è, secondo la Corte, impedita in radice proprio escludendo che possa dar luogo a responsabilità l’attività d’interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove. Tali parole rendono chiara, oltre ogni dubbio, la centralità che, ai fini della tutela dell’indipendenza e dell’imparzialità della giurisdizione, assume la salvaguardia della valutazione del fatto e delle prove, alla pari dell’interpretazione del diritto.

Pertanto, se si vogliono rispettare i citati principi costituzionali occorre evitare il travaso della nozione di travisamento in quelle di interpretazione e valutazione.

Ove il “travisamento” si traduca in valutazioni manifestamente abnormi del dato normativo o macroscopici ed evidenti stravolgimenti di quello fattuale, allora non ricorrerà più un’attività definibile come interpretazione o valutazione. Solo allora, tramite questa lettura costituzionalmente orientata, il travisamento potrà legittimamente costituire il presupposto della responsabilità civile, lasciando intatta la clausola di salvaguardia che mira a garantire l’autonomia e l’imparzialità del giudice nell’attività di interpretazione di norme di diritto e in quella di valutazione del fatto e delle prove.

Queste sono le ragioni che hanno portato la Commissione a non sopprimere il travisamento del fatto o delle prove quale uno dei presupposti della responsabilità civile del magistrato“.

È interessante sottolineare questo passaggio della relazione della Commissione giustizia perché può servire per compiere qualche valutazione sulla nuova legge.

Un’interpretazione restrittiva (in quanto costituzionalmente orientata) del requisito del travisamento del fatto e delle prove risulta molto rilevante se si considera:

1) che l’eventuale rigetto dell’azione di responsabilità dello Stato esclude alla radice la rivalsa contro il magistrato;

2) che un’interpretazione non ampia del travisamento del fatto e delle prove potrebbe portare il magistrato a decidere di non intervenire nel giudizio risarcitorio instaurato contro lo Stato (ed evitare così che la relativa decisione faccia stato contro di lui nel giudizio di rivalsa) quando risulti privo di sostanziale fondatezza, alla luce della detta interpretazione, l’atto di citazione comunicato dal Capo dell’Ufficio almeno quindici giorni prima della data fissata per la prima udienza;

3) che un’interpretazione restrittiva (in quanto costituzionalmente orientata) del requisito del travisamento del fatto e delle prove potrebbe ridurre l’entità di questo tipo di contenzioso.

È infatti necessario evitare interpretazioni che consentano di impiegare l’azione di responsabilità ex lege 117/88 di fatto come una forma ulteriore di impugnazione del provvedimento giudiziario.

Il travisamento del fatto e delle prove va individuato nell’errore inescusabile e non in qualsiasi errore, soprattutto quello nella valutazione delle prove, posto che altrimenti vi sarebbe una moltiplicazione di controversie strumentali.

Comunque, sebbene già a livello interpretativo sia possibile, per quanto detto, pervenire ad un’interpretazione restrittiva (in quanto costituzionalmente orientata) del requisito del travisamento del fatto e delle prove, tuttavia sarebbe in ogni caso opportuno che il travisamento sia espressamente qualificato dal legislatore, con un apposito intervento normativo, come “inescusabile” o “palese” o “evidente” o “macroscopico”.

10.Il filtro.

L’abrogata norma di cui all’art. 5 della legge 117/88 sulla preliminare valutazione circa l’ammissibilità della domanda avanzata nei confronti dello Stato mirava a tutelare la serenità del singolo magistrato, che, tutelato dalla possibile instaurazione di azioni pretestuose e temerarie, sapeva che erano limitati i casi e i tempi delle azioni giudiziarie relative ai suoi potenziali errori.

Peraltro, ciò era ed è ancor più rilevante se si considera che il magistrato “cui viene addebitato il provvedimento” può intervenire nel procedimento (art. 6) ai sensi dell’art. 105 c.p.c.

E pronunciandosi sulla legge Vassalli, con un parere reso il 10 dicembre 1987, il C.S.M. aveva pure resto segnalato che “costituirebbe ragione di gravissima turbativa, inevitabilmente incidente sulla stessa autonomia della giurisdizione, il fatto in sé della pendenza di un cospicuo contenzioso che, pur formalmente esaurendosi nei confronti dello Stato e non dando luogo a rivalsa, tuttavia consisterebbe nella messa in discussione di provvedimenti giurisdizionali da parte dei loro destinatari del tutto al di fuori della logica delle impugnazioni“.

Ed anche la Corte costituzionale aveva costantemente “riconosciuto il rilievo costituzionale di un meccanismo di filtro della domanda giudiziale, diretta a far valere la responsabilità civile del giudice, perché un controllo preliminare della non manifesta infondatezza della domanda, portando ad escludere azioni temerarie e intimidatorie, garantisce la protezione dei valori di indipendenza e di autonomia della funzione giurisdizionale, sanciti negli artt. da 101 a 113 della Costituzione nel più ampio quadro di quelle ‘condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati che ‘la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono” (Corte cost. sent. n. 468/1990; nello stesso senso v. sent. n. 2 del 1968 e sent. n. 26 del 1987) . “La previsione del giudizio di ammissibilità della domanda garantisce adeguatamente il giudice dalla proposizione di azioni “manifestamente infondate” che possano turbarne la serenità, impedendo, al tempo stesso, di creare con malizia i presupposti per l’astensione e la ricusazione” (Corte Cost. sent. 18/1989).

Il filtro è stato invece eliminato in considerazione della “esigenza di rendere più immediata ed effettiva la responsabilità del magistrato in chiave di semplificazione” (v. relazione al disegno di legge).

Visti i pochi casi di esito positivo di azione giudiziaria, allora i numerosi insuccessi sono stati ricondotti dal legislatore al sistema del filtro. Sono stati, invece, i rigorosi requisiti normativi della responsabilità statale (e l’ancor più rigorosa loro interpretazione giurisprudenziale) a condurre ad un limitato accoglimento delle domande formulate ex lege 117/88.

In ogni caso, l’eliminazione del filtro comporta soltanto uno spostamento in avanti della valutazione degli stessi elementi che prima si valutavano in una fase inziale del giudizio, un evidente allungamento dei tempi di tutte queste cause, un possibile pregiudizio per la serenità del giudice che avrebbe commesso l’errore giudiziario ed un rischio di richieste di ricusazione o di dichiarazioni di astensione in caso di processi ancora in corso (come nelle ipotesi di giudizi ex lege 117/88 proposti in relazione a provvedimenti cautelari, la cui fase di impugnazione è generalmente di breve durata).

È quindi necessario reintrodurre, anche in forme leggermente diverse rispetto al passato, un filtro per la valutazione dell’ammissibilità della domanda e ciò per evitare la proposizione di azioni ritorsive, strumentali e prive dei requisiti minimi di sostanza o di forma (che erano quelle che venivano bloccate dal sistema del filtro). Lo stato attuale della legge 117/88 (che non prevede più il sistema del filtro) sembra in contrasto con i principi della nostra Carta costituzionale.

11. L’azione disciplinare.

Mentre il previgente art. 8 della legge 117/88 prevedeva che “il procuratore generale presso la Corte di cassazione per i magistrati ordinari o il titolare dell’azione disciplinare negli altri casi devono esercitare l’azione disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento, salvo che non sia stata già proposta, entro due mesi dalla comunicazione di cui al comma 5 dell’articolo 5“, ossia dalla comunicazione sull’ammissibilità della domanda valutata in sede di “filtro”, la nuova formulazione legislativa dell’art. 8 ha eliminato il riferimento ai due mesi dalla comunicazione indicata in quanto è stato abrogato il c.d. filtro di ammissibilità della domanda.

Potrebbe quindi sembrare che scatti l’obbligatorietà dell’azione disciplinare ogni volta che vi sia un atto di citazione contro lo Stato ex lege 117/88.

Tale soluzione però non convince sia perché gli illeciti disciplinari sono tipici, mentre in questo caso l’illecito disciplinare sarebbe quello indicato in citazione dall’attore sia perché si lascerebbe all’iniziativa del privato la genesi di un procedimento disciplinare contro il magistrato a lui non gradito (con intuitive conseguenze anche su eventuali astensioni del magistrato).

Quindi, è preferibile ritenere che vi sia l’obbligatorietà dell’azione disciplinare ma solo in relazione a quelle ipotesi in cui ricorra la violazione di una fattispecie disciplinare e che non sussista alcun automatismo tra la conoscenza da parte della Procura Generale dell’instaurazione di un giudizio ai sensi della legge 117/88 e l’inizio del parallelo procedimento disciplinare,

12. Organizzazione del lavoro giudiziario e responsabilità civile dei magistrati.

Le più rigorose e pesanti norme sulla responsabilità civile dei magistrati impongono di individuare tutti i possibili strumenti gestionali di programmazione idonei a valorizzare l’esigenza di una programmazione realistica dello smaltimento che possa coniugare quantità e qualità della risposta giurisdizionale, coordinando incidenza ponderale dei procedimenti, tempi del processo e necessità di una decisione consapevole e di qualità.

Per evitare il più possibile che i magistrati risultino esposti ad azioni giudiziarie a causa di ingestibili carichi di lavoro occorre, ad esempio, valorizzare e migliorare il più possibile la programmazione gestionale dei dirigenti giudiziariexart. 37 l. 111\2011 cercando di individuare (anche tramite la creazione di una banca dati) le migliori prassi già sperimentate dagli Uffici giudiziari italiani, di verificare quale tipo di programmazione sia stata effettuata e concretamente realizzata e di ripensare la produttività dei magistrati coniugando dignità della funzione, qualità giurisdizionale e produttività degli Uffici.

E bisogna anche interrogarsi sui possibili effetti (in termini di genesi di azioni di responsabilità civile) di un sistema di controlli affidato ai numeri, alle griglie di analisi della produttività e ad accertamenti di tipo statistico.

L’aumento dei numeri richiesti dal singolo magistrato, invero, rischia di esporre maggiormente lo stesso ad azioni civili per possibili errori ed a responsabilità disciplinari per i ritardi nel deposito dei provvedimenti. Ed a quest’ultimo proposito ci si dovrebbe chiedere se sia possibile un’interpretazione convenzionalmente orientata della responsabilità disciplinare del magistrato in un rapporto tra ragionevole durata del processo e ritardo “ingiustificabile”.

Il tema dei carichi di lavoro è infatti strettamente connesso a quello della responsabilità civile dei magistrati, ma anche a quello delle valutazioni quadriennali di professionalità ed a quello della responsabilità disciplinare. È necessario coordinare formalmente i carichi esigibili, che individuano la produttività annuale possibile per il futuro, con la disciplina sulle valutazioni di professionalità. Si impone, poi, l’individuazione di correttivi per i casi di gestione di ruoli sovraccarichi o di pluralità di funzioni, evitando meccanismi automatici sulla valutazione disciplinare in relazione alla fattispecie sui ritardi (art.2, lett. q, D.L.gs. 109/96) ed alla contestazione ai sensi della lettera l) del medesimo articolo (mancanza motivazione).

Occorre inoltre pure monitorare le attività di indebita supplenza alle quali i Magistrati fanno quotidianamente fronte e che costituiscono indubbiamente un appesantimento non dovuto del già oneroso carico di lavoro, particolarmente rischioso alla luce dei nuovi parametri normativi di responsabilità civile.

Dopo un monitoraggio sui concreti effetti della nuova legge 117/88 sarà poi possibile formulare proposte concrete al fine di evitare, pure sotto un profilo organizzativo e non solo normativo, che la sua applicazione comporti anche minimi rischi per il corretto esercizio della giurisdizione.

Se le azioni volte all’accertamento della responsabilità dovessero aumentare in maniera preoccupante e se si dovesse verificare un diffuso fenomeno di “giustizia difensiva” (ammissione di mezzi di prova a tappeto, meno sequestri di prevenzione, più assoluzioni, meno misure e provvedimenti cautelari, ecc.), si potrebbe anche valutare una ridefinizione da parte dei dirigenti degli obiettivi di produttività già indicati nei programmi di gestione.

E sarebbe pure interessante verificare se sia possibile – quando l’errore, anche grave, si è verificato in contesti in cui il singolo si è trovato a gestire carichi insostenibili ed esorbitanti rispetto a quelli individuati come esigibili – tale condizione possa determinare necessariamente una concorrente responsabilità organizzativa (da fare valere anche in via di eccezione da parte del magistrato) dell’Amministrazione che agisce in sede di rivalsa.

Gli scenari sono ancora aperti e le certezze sono poche. Tra queste è comunque importante che il singolo magistrato mantenga quelle che riposano sul suo rigore morale, sulla sua consapevolezza dell’alta funzione esercitata e sulla sua totale indipendenza di giudizio.

Michele Ruvolo

Vera Sciarrino (ricercatrice di diritto privato dell’Università Kore di Enna)

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di Fabio Di Lorenzo e Vincenza Lioniello

1. La vicenda sottoposta al sindacato del T.A.R.

Il Tribunale Amministrativo regionale per il Lazio, con la sentenza n. 3367 del 18.03.2016, ha vagliato la legittimità del diniego del C.S.M. ad autorizzare un magistrato ordinario in servizio ad aderire, con inquadramento volontario e non retribuito, al Corpo Militare del Sovrano Ordine di Malta.

La delibera di diniego era stata impugnata, dinanzi all’autorità giurisdizionale amministrativa, da un magistrato, il quale aveva sostenuto in giudizio la illegittimità del provvedimento del C.S.M., deducendo la lesione del diritto di esprimere la propria personalità in maniera piena e completa, al di là del proprio ambito professionale, attraverso un’attività – a suo dire – di carattere eminentemente umanitario e volontaristico.

La sentenza illustra preliminarmente il contenuto della delibera del C.S.M. impugnata dal ricorrente, con la quale l’Organo di autogoverno, in sede procedimentale, aveva effettuato una puntuale ed articolata ricostruzione sulla natura giuridica del Corpo Militare del Sovrano Ordine di Malta. Quindi il T.A.R. ha valutato la legittimità del diniego alla luce della disciplina sugli incarichi extra giudiziari e più in generale alla luce dei principi di indipendenza del Magistrato.

2. La natura giuridica dell’Ordine di Malta

Al fine di comprendere e valutare il percorso logico della decisione in commento, occorre sia pur brevemente descrivere la natura e la struttura organizzativa dell’Ordine di Malta.

Le origini di tale Ordine[1] sono lontane nel tempo[2] e risalgono al periodo delle crociate e della nascita dei numerosi ordini, attualmente scomparsi o sopravviventi come istituzioni interne dei vari Stati[3]. Si tratta di un Ordine cattolico laico, qualificabile come istituzione di diritto pubblico[4], di cui si discute la natura sovrana[5].

L’Ordine di Malta, presenta una struttura simile a quella di uno Stato[6], pur se non può essere tecnicamente definito tale[7] -anche perché privo di un proprio territorio[8]-;  la sua struttura è comunque molto più complessa rispetto a quella di un comune ordine monastico[9], atteso che possiede un proprio ordinamento giuridico[10], caratterizzato tra l’altro da una Costituzione[11] e un ordinamento giudiziario. Tale Ordine svolge attività normativa, amministrativa e giudiziaria, esercita un autonomo potere sui propri membri e sulle sue istituzioni, intrattiene relazioni politiche e diplomatiche con governi stranieri, e conclude accordi con altri soggetti di diritto internazionale. Pur essendo privo di un territorio in sovranità, esso si avvale dell’immunità diplomatica concessa dall’Italia alle sedi di Roma[12], per svolgervi con piena indipendenza le attività di governo necessarie all’espletamento dei suoi fini[13]. L’Ordine ha lo status di osservatore permanente presso le Nazioni Unite, anche se, non essendo uno Stato, non può prendere parte alle votazioni.

L’Ordine non ha «sudditi territoriali», ma si compone di «sudditi istituzionali»[14], gerarchicamente dipendenti dalle proprie autorità, da ciò derivando in maniera evidente la sussistenza di un marcato vincolo di subordinazione.

L’Ordine di Malta inoltre è militarizzato, atteso che pur non disponendo attualmente di un esercito e di una flotta, può possedere e impiegare convogli ferroviari ed aerei ospedalieri.

Infine l’Ordine ha una propria bandiera, insegne, e uno stemma; esso celebra la propria festività nazionale (il 24 giugno), emette propri francobolli, e conia monete. Tali circostanze sono  espressione di sovranità.

Ciò detto per quanto concerne la struttura organizzativa, in ordine ai fini perseguiti va evidenziato che l’Ordine svolge attività mediche e umanitarie, che persegue anche attraverso organismi periferici[15], tra cui associazioni[16], che hanno come scopo l’attuazione delle finalità proprie dell’Ordine, sotto l’autorità di un Gran Maestro e del Sovrano Consiglio.

In Italia l’Ordine di Malta realizza i propri fini istituzionali benèfici, in materia sanitaria e ospedaliera, attraverso l’associazione dei Cavalieri italiani del sovrano militare Ordine di Malta (in sigla denominata A.C.I.S.M.O.M.), ente pubblico di diritto melitense[17], a cui si estende l’immunità dalla potestà dello Stato italiano[18]. 

3. La delibera del C.S.M. impugnata dinanzi al T.A.R.

Il C.S.M. ha rigettato il rilascio dell’autorizzazione al magistrato ricorrente dinanzi al T.A.R. per l’adesione con inquadramento volontario e non retribuito, come sottotenente del Corpo Militare del Sovrano Ordine di Malta.

Il C.S.M. ha rilevato che il Corpo militare dell’Ordine di Malta, alla luce della disciplina dell’art. 674 del Codice dell’ordinamento militare, non costituisce una riserva speciale dell’Esercito Italiano, potendo piuttosto essere qualificato come “corpo militarizzato” con compiti di soccorso, alle dirette dipendenze dell’associazione dei Cavalieri italiani del Sovrano militare Ordine di Malta, salvo incorporazione nell’esercito italiano in caso di guerra. Sotto tale ultimo profilo, i rapporti tra lo Stato italiano e l’Ordine di Malta sono regolati dal d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66 (codice dell’ordinamento militare), specie dal titolo V del libro V (artt. da 1761 a 1775), intitolato “Associazione dei Cavalieri italiani del sovrano militare Ordine di Malta”[19]; inoltre, l’art. 1766 del citato decreto legislativo prevede che lo stato giuridico, il reclutamento, l’avanzamento, il trattamento economico e l’amministrazione del personale sono disciplinati mediante apposita convenzione con l’Associazione dei cavalieri italiani del sovrano militare Ordine di Malta[20].

Nella delibera impugnata il C.S.M. evidenzia che sono molteplici gli elementi ostativi alla adesione del magistrato all’Ordine, e in particolare che: l’Ordine è un corpo militare, che espleta compiti gravosi sia in tempo di pace sia in tempo di guerra; esso svolge le proprie attività attraverso associazioni che operano sotto l’autorità di un Gran Maestro e di un Sovrano Consiglio; agli appartenenti è applicabile l’art. 1765 del codice dell’ordinamento militare, secondo cui tutti gli iscritti sono militari e come tali sottoposti alla disciplina militare e della legge penale militare.

Il C.S.M. ha evidenziato che lo status proprio dei magistrati, caratterizzato dall’autonomia dal potere esecutivo, esclude che gli stessi possano prestare adesione a un ordine caratterizzato da forme di peculiare e rimarcata subordinazione gerarchica addirittura di tipo militare, oltre che di sottoposizione a un Gran Maestro.

Pur ritenendo ferma la circostanza che il conferimento di un “grado” non sia ex se incompatibile con la nuova circolare sugli incarichi extragiudiziari n. 19942 del 3.8.2011 (adottata con delibera del 27.7.2011) e con l’art. 16 c. I dell’Ordinamento Giudiziario (che impone il divieto di assumere pubblici o privati uffici, ad eccezione di quelli gratuiti in istituzioni pubbliche di beneficenza), il C.S.M. ha rilevato che è incompatibile con lo status di magistrato l’adesione a un ordine caratterizzato da uno specifico vincolo di subordinazione gerarchica determinato dalla incorporazione del corpo militare del Sovrano Ordine di Malta nell’esercito italiano in caso di guerra. Altra circostanza ostativa all’adesione di un magistrato a tale Ordine è individuata nella impossibilità di svolgere normalmente le funzioni giudiziarie nel caso in cui il magistrato venga chiamato in servizio dall’Ordine; peraltro la sottrazione al servizio in caso di richiesta dell’Ordine, comporterebbe per il magistrato sanzioni previste da quell’ordinamento.

4. La decisione del T.A.R. Lazio

Il T.A.R. Lazio, nella sentenza in commento, ha ampiamente aderito alle conclusioni raggiunte dal C.S.M.[21].

Il T.A.R. ha evidenziato che nella fattispecie era doverosa la valutazione autorizzatoria compiuta dal C.S.M., pur se l’“incarico” di cui era richiesta l’autorizzazione era inquadrabile tra le attività “libere”previste dalla circolare del 2011 sugli incarichi extragiudiziari[22]. Ciò in quanto, anche nei casi di attività “libere” il C.S.M. ha il dovere di ponderare la compatibilità con il prestigio dell’ordine giudiziario, anche al fine di verificare che tali attività, per le modalità in cui devono essere svolte, non risultino pregiudizievoli per le esigenze di servizio. D’altra parte, l’art. 1765 c. III del Codice dell’Ordinamento Militare (Decreto legislativo n. 66 del 15/03/2010) stabilisce che l’arruolamento, da parte dell’Associazione, dei dipendenti dalle amministrazioni dello Stato, comprese quelle aventi ordinamento autonomo, in tempo di pace, di guerra o di grave crisi internazionale, non può aver luogo senza il preventivo consenso dell’amministrazione di appartenenza. Il consenso richiesto dal Codice deve essere prestato previa valutazione preordinata a evitare qualunque aspetto di incompatibilità tra lo status di magistrato e l’esercizio delle attività richieste dall’arruolamento.

Alla luce di tali considerazioni, il T.A.R. ha giustamente ritenuto “doverosa” la valutazione compiuta dal C.S.M. nel caso in esame, evidenziando che la stessa non è stata effettuata ad abundantiam, ma alla stregua degli stessi parametri indicati nella circolare sugli incarichi extragiudiziari. L’art. 6 di tale circolare indica quali sono i criteri generali da valutare per il rilascio dell’autorizzazione da parte del C.S.M., stabilendo che essa è sempre subordinata al positivo riscontro della compatibilità dell’incarico con le esigenze di servizio e con le funzioni concretamente espletate dal magistrato interessato. In particolare, sotto tale ultimo profilo, la disposizione citata specifica che l’efficienza ed efficacia dell’amministrazione della giustizia devono essere assicurate anche impedendo rilevanti sottrazioni di energie lavorative all’ufficio, con la conseguenza che occorre verificare che gli incarichi possano espletarsi compatibilmente con il contemporaneo esercizio delle funzioni giudiziarie, al fine di evitare che il prestigio, nonché i valori dell’indipendenza ed dell’imparzialità della magistratura possano essere (o anche solo apparire) compromessi o soltanto esposti a rischio, per effetto di gratificazioni collegabili ad incarichi concessi o controllati da soggetti estranei all’amministrazione della giustizia. Perciò l’art. 6 della delibera sugli incarichi giudiziari stabilisce che il C.S.M. deve valutare l’opportunità di rilasciare o meno l’autorizzazione anche in relazione alla natura dell’incarico, alla sua durata e all’impegno che esso comporta, sia in fase di preparazione sia in fase di effettivo espletamento.

Alla luce di tale disciplina, il T.A.R. Lazio ha evidenziato che l’esame della domanda presentata al C.S.M. per ottenere l’autorizzazione allo svolgimento di una attività extra-istituzionale, comporta una valutazione sia in termini meramente operativi che di opportunità, mediante verifica della compatibilità dell’attività che si intende svolgere sia con le esigenze di servizio, sia con lo specialestatusdi cui è investito il richiedente.

Il T.A.R., di fronte a tale verifica effettuata dal C.S.M., ha ricordato che il sindacato giurisdizionale da parte degli organi di giustizia amministrativa sugli atti adottati da tale Organo di autogoverno incontra precisi limiti[23], dovendo attenersi alla verifica della estrinseca legittimità del provvedimento adottato, in riferimento alla puntuale ricostruzione dei fatti e alla congruità e logicità della motivazione posta a fondamento del provvedimento, non potendo in nessun modo entrare nel merito delle valutazioni effettuate dall’Organo di autogoverno della magistratura, essendo inibito al G.A. sovrapporre la propria valutazione a quella effettuata dal C.S.M. Ed invero, la delibera impugnata contiene valutazioni fondate ampia discrezionalità amministrativa[24], per cui il sindacato da parte del giudice amministrativo è limitato solo alle ipotesi in cui le decisioni siano viziate da eccesso di potere o siano inficiate da palese irragionevolezza, travisamento dei fatti, arbitrarietà, inesistenza o incongruità della motivazione[25]. Insomma al giudice amministrativo è consentito esaminare la congruità e la logicità dell’iter argomentativo a supporto del provvedimento discrezionale adottato, senza entrare nel merito delle valutazioni amministrative in punto di opportunità e convenienza dell’atto. 

Con la sentenza in commento, i Giudici del T.A.R. hanno ritenuto corretto l’iter logico e motivazionale seguito dal C.S.M. per pervenire alla scelta di denegare la richiesta autorizzazione.

In particolare, il T.A.R. non ha ritenuto condivisibili le deduzioni svolte dal magistrato ricorrente, secondo cui il C.S.M. avrebbe errato nel qualificare l’Ordine di Malta come “corpo militare”, non considerando che la natura dello stesso sarebbe caratterizzata dall’assistenza sanitaria e ospedaliera, in cooperazione con i servizi sanitari italiani.

In secondo luogo, il TAR ha disatteso le deduzioni svolte dal magistrato ricorrente, secondo cui il C.S.M. non avrebbe ravvisato la presenza di elementi di analogia tra l’A.C.I.S.M.O.M. e la Croce Rossa Italiana (C.R.I.) [26], così contraddicendo il proprio passato orientamento, in base al quale sarebbe stata autorizzata la richiesta di altro magistrato di adesione alla C.R.I.

La Croce Rossa Italiana è un ente dotato di personalità giuridica[27], autonomo nello svolgimento delle sue attività, anche ausiliarie dei pubblici poteri, nonché oggetto di specifica disciplina normativa[28]. Su tale ente lo Stato esercita un potere di controllo, in ragione dell’interesse pubblico generale alle attività e ai compiti svolti. La C.R.I. ha potere di azione sia in tempo di guerra, potendo effettuare, tra l’altro, lo sgombero e la cura dei malati e dei feriti, nonché l’organizzazione della difesa sanitaria e il disimpegno del servizio dei prigionieri di guerra, sia in tempo di pace, potendo effettuare lo svolgimento di servizi di assistenza e di soccorso sanitario in favore delle popolazioni in caso di calamità e di situazioni di emergenza sia interne che internazionali. L’adesione alla C.R.I. è retta dal principio volontaristico, nel senso che la qualità di socio debba riconoscersi a chiunque si impegni ad offrire prestazioni volontarie e personali per il raggiungimento delle citate finalità.

Il T.A.R., nel caso in esame, ha ritenuto insussistente la denunciata disparità di trattamento e disomogeneità di valutazione del C.S.M., evidenziato la netta differenza tra l’A.C.I.S.M.O.M. e la CRI.: agli arruolati dell’A.C.I.S.M.O.M. si applica l’art. 1765 del codice dell’Ordinamento Militare (Decreto legislativo – 15/03/2010, n. 66), secondo cui la chiamata in servizio è effettuata dall’Associazione a mezzo di “precetti” così radicando nel soggetto chiamato lo status di militare, soggetto alle norme della disciplina militare e della legge penale militare[29], e inoltre sono previste precise conseguenze anche sanzionatorie in caso di mancata adesione alla chiamata; viceversa per gli aderenti alla C.R.I. non sono previste analoghe regole in punto di carattere vincolante della chiamata e di sanzioni in caso di disobbedienza. 

Allo stesso modo, il Collegio ha evidenziato l’infondatezza delle deduzioni del magistrato ricorrente, che aveva asserito una presunta disomogeneità tra la valutazione negativa, da parte del C.S.M., del proprio caso e la valutazione positiva del caso in cui altro magistrato aveva chiesto di essere autorizzato a svolgere l’attività di Ufficiale della riserva speciale delle Forze Armate[30].

Il G.A. ha evidenziato che l’A.C.I.S.M.O.M. non costituisce una riserva speciale dell’Esercito italiano. Infatti il precedente evocato dal ricorrente riguarda l’attribuzione di una qualifica, quella di riservista dell’esercito, che comporta obblighi meramente eventuali; del tutto diverso è lo statusdegli aderenti all’A.C.I.S.M.O.M., i quali sono assoggettati alla disciplina militare con vincolo di subordinazione, tanto che la chiamata in servizio è effettuata dall’Associazione a mezzo di precetti, con l’irrogazione di sanzioni in caso di mancata adesione alla chiamata. Inoltre nel caso del riservista dell’esercito italiano, valutato positivamente dal C.S.M., i periodi di richiamo possono essere effettuati usufruendo di congedo o aspettativa dalle funzioni di magistrato, atteso che si tratta dell’assolvimento di attività richieste per la soddisfazione di esigenze delle Forze Armate dello Stato italiano, e dunque al fine di soddisfare il preminente interesse nazionale.

Il T.A.R., alla stregua delle considerazioni sopra svolte, ha ritenuto legittimo il provvedimento del C.S.M. che ha valutato l’adesione all’Ordine di Malta incompatibile con lo status di magistrato, in ragione dell’inconciliabilità dell’autonomia e indipendenza richiesta ai magistrati con il vincolo di subordinazione che comporta l’adesione all’Ordine di Malta; altro profilo di incompatibilità è quello tra la continuità delle funzioni di magistrato e le esigenze di servizio da un lato, e le non precisate modalità e frequenza delle chiamate previste per gli aderenti dell’Ordine di Malta dall’altro, alle quali gli aderenti sono obbligati a rispondere, a pena di precise sanzioni in caso di disobbedienza.

5. Conclusioni

La decisione in commento risulta condivisibile. L’adesione all’A.C.I.S.M.O.M., pur dettata da nobili ispirazioni solidaristiche, comporta il sorgere di un vincolo non dissimile a quello di subordinazione di tipo gerarchico, con la conseguenza che gli aderenti sono tenuti a rispondere a eventuali chiamate in servizio, a cui non si possono sottrarre se non subendo sanzioni. Tali conseguenze dell’adesione non sono compatibili con le funzioni di magistrato per almeno due motivi. In primo luogo, la sottoposizione gerarchica, che si traduce in subordinazione, non è compatibile con le regole di indipendenza e di autonomia proprie delle funzioni del magistrato e costituzionalmente sancite. In secondo luogo, l’aderente non può sottrarsi alle chiamate dell’ente, le quali non sono prevedibili in frequenza e durata, così che possono essere seriamente compromesse le esigenze di servizio dell’amministrazione della giustizia. Opportunamente quindi il C.S.M. non ha autorizzato il magistrato richiedente ad aderire all’A.C.I.S.M.O.M., e la sentenza richiamata, facendo corretto utilizzo dei limiti del sindacato sugli atti discrezionali dell’organo costituzionale del C.S.M., ha escluso profili di vizio di eccesso di potere in punto di palese irragionevolezza, travisamento dei fatti, arbitrarietà, inesistenza o incongruità della motivazione.


[1] Storicamente denominato come Ordine militare e ospitaliero di San Giovanni di Gerusalemme detto di Rodi, detto di Malta. Sul punto, vide Gazzoni, Ordine di Malta(voce), in Enc. dir., XXXI, 1981, Milano.

[2] Schwarzenberg, Il Sovrano Militare Ordini di Malta e gli ordini cavallereschi della Santa Sede nella storia del diritto e dell’Oriente Cristiano, in Jus, 1972, p. 348 ss.; Bascapè, Sommario storico del S. M. Ordine di S. Giovanni Gerosolimitano di Malta, Roma, 1949; Cansacchi, Malta (Ordine di), in NssD.I., X, 1964, p. 69 ss.; Rossi E., Ordine di Malta, in Nss.D.I., X, 1939, p. 313; Hafkemeyer, Der Malteser-Ritter-Orden, in Abhandlungen der Forschungsstelle für Völkerrecht und ausländisches öffentliches Recht der Universität Hamburg, 1956, p. 47-79.

[3] Vide l’Ordine teutonico, l’ordine del S. Sepolcro, l’ordine dei Templari, l’ordine dei Cavalieri portaspada, l’ordine di Compostella, l’ordine di Santo Stefano, l’ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Sul punto, Cansacchi, Istituzioni di diritto internazionale pubblico, Torino, 1967, p. 68 ss.

[4] Tradizionalmente, l’Ordine di Malta viene annoverato tra i soggetti di diritto internazionale. Si veda, ex multis, Gnavi, Sovrano militare Ordine di Malta (voce),in Digesto disc. pubb.,XIV, Torino, 2001, p. 394 ss.; Bettetini, Note minime in tema di soggettività internazionale dell’Associazione dei Cavalieri Italiani del Sovrano Militare Ordine di Malta, in Dir. eccl., fasc.2, 2000, p. 237.

In giurisprudenza, Cass. civ., sez. un., 12 novembre 2003, n. 17087; Cass. civ., sez. un., 18 marzo 1999, n. 150; Cass. civ., sez. II, 30 gennaio 1997,  n. 944, in Dir. eccl., 108,  1997, p. 312 ss.

[5] Gazzoni, Ordine di Malta, cit.; Cansacchi, Il fondamento giuridico della soggettività internazionale del Sovrano Ordine Militare di Malta, nota a Trib. Roma, 3 novembre 1954, inGiur. it., 1955, I, 2, p. 737 ss.

[6] L’Ordine di Malta si articola in Organi di Governo quali il Gran Maestro e il Governo straordinario; le Alte Cariche del Gran Magistero; il Prelato; il Sovrano Consiglio; il Consiglio del Governo; il Capitolo Generale; il Consiglio Compito di Stato; la Consulta Giuridica; l’Ordinamento giudiziario; la Camera dei Conti.

[7] L’Ordine in quanto tale non è stato riconosciuto come Stato ovvero come organo di governo di uno Stato. Sul punto Sperduti, Sulla personalità internazionale dell’Ordine di Malta, in Riv. dir. intern., 1955, p. 50.

[8] L’assenza di territorio non è incompatibile con il riconoscimento di sovranità. La dottrina ha evidenziato che la personalità internazionale dell’Ordine non è necessariamente collegata alla sovranità su un certo lembo di terra geograficamente individuato. Sul punto Gazzoni, Ordine di Malta, cit. Contra Salvini, nota a Cass. 18 marzo 1935, n. 926, in Giur. it., 1935, I, 1, p. 416, secondo il quale la mancanza di territorio è argomento dirimente per escludere il carattere della sovranità dell’Ordine di Malta.

[9] In letteratura è stato evidenziato che l’Ordine di Malta, data la propria complessa struttura organizzativa, autonoma e indipendente, non può essere assimilato a un ordine religioso-monastico, anche perché è composto da membri laici, e non prevede l’obbligo di vita in comune, che invece costituisce una delle più tipiche caratteristiche monacali. Si veda sul punto Gazzoni, Ordine di Malta, cit.

[10] Biscottini, Sulla condizione giuridica dell’Ordine di Malta, in Archivio storico di Malta, 1939, p. 13.

[11] Carta Costituzionale del Sovrano Ordine ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, di Rodi e di Malta, promulgata il 27.06.1961 e riformulata dal Capitolo Generale (organo legislativo dell’Ordine) del 28-30 aprile 1997.

[12] Cass. civ., sez. un., 18 febbraio 1989,  n. 960.

[13] Gazzoni, Fini e conformazione dell’Ordine di Malta, nota a Cass. civ., sez. I, 5 novembre 1991, n. 11788, in Giust. civ., 1992, I, p. 389 ss. 

[14] I sudditi istituzionali sono uniti da un vincolo di subordinazione e di fedeltà, non derivante dalla nascita nel territorio. Peraltro la sudditanza istituzionale è compatibile con il mantenimento della cittadinanza di origine, dandosi così vita ad un rapporto sovranazionale. Sul punto, Visconti, La sovranità dell’Ordine di Malta nel diritto italiano, in Riv. dir. priv., 1936, II, p. 197 ss.; Severi, Alcune osservazioni in merito all’attuale situazione giuridica del Sovrano Militare Ordine di Malta, Rovigo, 1970, p. 2.

[15] Gli organismi periferici operano nell’ambito dei diversi territori nazionali; Enti locali dell’istituzione sono i Gran priorati, i Priorati, i Sottopriorati, la Associazioni Nazionali e le Delegazioni.

[16] Le associazioni nazionali sono previste dall’art. 27 della Carta Costituzionale dell’Ordine di Malta; esse sono state definite dalla giurisprudenza come enti di diritto pubblico, dotati di soggettività internazionale, attraverso i quali l’Ordine militense persegue le proprie finalità istituzionali e pubblicistiche: sul punto Cass. civ., 18 marzo 1999, n. 150.

[17] Gazzoni, Quante divisioni ha… l’Ordine di Malta?, in Giust. Civ., 1991, II, 169; Id., Art. 17 c.c. e acquisti dell’Ordine di Malta, in Giust. Civ.,1997, I, 2173. In giurisprudenza si veda, ex multis, Cass, civ., sez. un., 6 giugno 1974, n. 1653, in Giur it., 1975, 1, 1, 448.

[18] Gazzoni, Immunità giurisdizionale, ipse dixit e inquadramento contributivo dell’A.C.I.S.M.O.M.,in Giust. civ.  ,fasc.1, 2007, p. 52. In giurisprudenza Cass. civ., sez. II, 30 gennaio 1997, n. 944, cit.

[19] I capi sono intitolati rispettivamente “Personale militare”, “Corpo delle infermiere volontarie”, “Trattamento economico” e “Trattamento previdenziale”.

[20] Si tratta di convenzioni di diritto internazionale, atteso che intercorrono tra due diversi soggetti di diritto internazionale, che stipulano su un piano di assoluta parità.

[21] Nella sentenza, in particolare si rileva che “Esaurita la ricognizione dei passaggi salienti della gravata delibera, il Collegio ritiene che le conclusioni ivi raggiunte sono esenti da mende, in quanto risultano fondate su una ricostruzione normativa notevole per completezza e chiarezza, e sono affidate ad ampia e articolata motivazione, di cui non si rinvengono né salti logici né le lamentate irrazionalità”.

[22] Circolare n. 19942 del 3 agosto 2011 – Delibera del 27 luglio 2011.

[23] Si veda in giurisprudenza, Cons. Stato, sez. IV, 3 marzo 2016,  n. 875, secondo cui i provvedimenti adottati dal C.S.M. sono espressione di un’ampia valutazione discrezionale, come tali sindacabili in sede di legittimità solo nella misura in cui risultino inficiati da palese irragionevolezza, travisamento dei fatti, arbitrarietà. In terminis, Cons. Stato, sez. IV, 12 giugno 2014, n. 2989; Cons. Stato, sez. IV, 11 febbraio 2016, n. 607; Cons. Stato, sez. IV, 22 dicembre 2007, n. 6616.

[24] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 16 aprile 2014,  n. 1912.

[25] Si vedano, ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 28 gennaio 2016,  n. 299; Cons. Stato, sez. IV, 11 novembre 2014, n. 5513.

[26] La Croce Rossa italiana (C.R.I.) fu istituita a Milano il 15 giugno 1864 con il nome di «Associazione nazionale della Croce Rossa ». Sul punto Focarelli, Croce Rossa(voce), in Enc. Dir. Annali, VI, 2013.

[27] Primicerio, Croce Rossa Italiana, in Nss.D.I. App., II, Torino, 1981, p. 951.

[28] Il r.d.l. 10 agosto 1928, n. 2034 ha regolato l’Associazione, prevedendo il carattere pubblico dell’Ente; poi è seguita l’adozione dello Statuto organico dell’Associazione con r.d.l. 21 gennaio 1929, n. 111. Questa normativa non ha modificato il carattere pubblico dell’ente, né i suoi fini, riconosciuti di interesse generale, mirando piuttosto a rafforzare l’organizzazione e a precisarne i compiti. In seguito è stato adottato il d.lgs.c.p.s. 13 novembre 1947, n. 1256, che ha disciplinato tra l’altro i compiti e le funzioni dell’associazione in tempo di pace.

La legge 20 marzo 1975, n. 70 ha poi classificato l’Associazione come ente di assistenza generica, ricomprendendola nella disciplina degli enti pubblici parastatali. Il sistema di questa normativa è stato poi parzialmente modificato con la legge 22 luglio 1975, n. 382 riguardante l’ordinamento regionale e l’organizzazione della pubblica amministrazione nonché con la normativa di attuazione prevista nel d.p.r. 24 luglio 1977, n. 616. Quest’ultimo provvedimento ha previsto per la Croce Rossa Italiana, così come per altri enti a struttura associativa, la sussistenza come enti morali e l’assunzione di personalità giuridica di diritto privato.  Con il d.p.r. 31 luglio 1980, n. 613 è stato effettuato il riordinamento della Croce Rossa Italiana (art. 70 della Legge n. 833 del 1978), e l’Associazione è stata riconosciuta come ente privato di interesse pubblico, sotto l’alto patrocinio del Presidente della Repubblica. Con il d.P.C. n. 97 del 2005, è stato approvato il nuovo Statuto dell’Associazione, che disciplina tra l’altro i compiti da essa espletati, l’ammissione e la decadenza dei soci, nonché la propria organizzazione istituzionale. Il d. lg. 28 settembre 2012, n. 178, recante «Riorganizzazione dell’Associazione italiana della Croce Rossa (C.R.I.), a norma dell’articolo 2 della legge 4 novembre 2010, n. 183», trasferisce le funzioni esercitate dall’Associazione italiana Croce rossa (l’attuale C.R.I.) alla costituenda Associazione della Croce Rossa italiana. Secondo l’art. 1 del D.Lgs. 178/2012, in particolare, le funzioni esercitate dall’Associazione italiana della Croce rossa(CRI), sono trasferite, a decorrere dal 1º gennaio 2016, alla costituenda Associazione della Croce Rossa italiana, promossa dai soci della CRI, secondo quanto disposto nello statuto di cui all’articolo 3, comma 2. L’Associazione è persona giuridica di diritto privato e di interesse pubblico ed è ausiliaria dei pubblici poteri nel settore umanitario, posta sotto l’alto Patronato del Presidente della Repubblica. Tra i compiti della nuova C.R.I. sia in tempo di pace che in tempo di guerra sono indicati, tra gli altri, l’organizzazione di una rete di volontariato sempre attiva, la collaborazione con le C.R.I. di altri Paesi e l’adempimento delle convenzioni internazionali, lo svolgimento di servizi di assistenza sociale e soccorso sanitario in occasione di calamità e situazioni di emergenza, nonché di attività umanitarie presso i Centri di identificazione ed espulsione (Cie), e in tempo di guerra di servizi di assistenza e di ricerca dei prigionieri, internati, dispersi, profughi, deportati e rifugiati e il servizio di ricerca in tempo di pace delle persone scomparse in ausilio alle Forze armate. L’Associazione può stipulare convenzioni con le pubbliche amministrazioni o partecipare a gare indette dalla pubblica amministrazione.

[29] Secondo l’art. 1765 del D.Lgs. n. 66/2010, in particolare, gli iscritti nei ruoli dell’Associazione sono militari e come tali sono sottoposti alle norme della disciplina militare e della legge penale militare. Le chiamate in servizio sono effettuate dall’Associazione mediante precetti. A chi si sottrae alla chiamata sono applicate le disposizioni, anche penali, sancite per i militari delle Forze armate.

[30] Si veda l’art. 4 del R.D. n. 819 del 1932 (abrogato dall’art, 2268, comma 1, del D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66).

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R.g. 14907/2015

Ud. 6.10.2015 –  P.P.  –  Pubbl. 16.02.2016 – Racc. Gen. 2948/2016  –  Rel. Di Iasi

Disciplinare magistrati – ritardo nel deposito di sentenze civili – sanzione della censura – ricorso (r.g.  n. 14907/15)

SU accolgono nei limiti e nei termini di cui in motivazione il secondo motivo, rigettano il primo e dichiarano assorbito il terzo, cassano e rinviano. SU rilevavo che il compito del giudice disciplinare deve essere grave, consapevole, attento e meticoloso, per valutare in concreto se i ritardi contestati possano essere effettivamente conseguenza di una scelta organizzativa consapevole, progettata, discussa, attuata anche in considerazione delle eventuali peculiarità del ruolo e caratteristiche del contenzioso, idonea a produrre effetti positivi sulla durata dei processi e sulla diminuzione delle pendenze e non piuttosto una “scusa” per tentare di giustificare in extremis  ritardi gravi e reiterati da parte di un magistrato che, ad esempio, non abbia neppure la compiuta conoscenza della composizione del proprio ruolo ovvero non abbia neppure assunto in decisione un numero di processi pari alla media dei colleghi di sezione nel medesimo arco temporale. SU precisano altresì che è onere del magistrato che intenda giustificare i gravi e reiterati ritardi contestatigli sulla base di una scelta organizzativa intesa ad una più funzionale e proficua gestione del ruolo fornire al giudice disciplinare tutti gli elementi per valutare la fondatezza e serietà della giustificazione addotta.

R.g. 22205/2015

Ud. 9.02.2016  –  P.U.  –  Pubbl. 26.02.2016 – Racc. Gen. 3800/2016  –  Rel. Giancola 

disciplinare magistrati – ritardo nel deposito di sentenze penali – sanzione della censura – cassazione con rinvio – nuovo esame – censura – ricorso (RGN 22205 del 2015).

SU rigettano il ricorso. SU confermano la valutazione della Sezione disciplinare, la quale aveva osservato che il rilevante numero dei ritardi e la loro specifica entità erano circostanze che, unitariamente considerate, non consentivano di ricondurre al solo carico di lavoro, pur notevolissimo, la causa della condotta illecita contestata e, dunque, di eliderne il disvalore disciplinare e da rendere ingiustificata l’inflitta sanzione, peraltro contenuta nel minimo edittale.

R.g. 23820/2015

Ud. 9.02.2016 – P.U.  –  Pubbl. 25.03.2016 – Racc. Gen. 6021/2016  –  Rel. Iacobellis

disciplinare magistrati – ritardo nel deposito di sentenze civili – sanzione della censura – ricorso (RGN 23820 del 2015)

SU rigettano il ricorso. I ritardi nel deposito dei provvedimenti, quando per la reiterazione e l’entità superino ogni limite di tollerabilità e ragionevolezza, integrano gli estremi dell’illecito disciplinare di cui all’art. 2, comma 1, lettera q), del d.lgs. 24 febbraio 2006, n. 109, costituendo palese violazione del dovere fondamentale di diligenza del magistrato, e ciò anche nei casi di accertata laboriosità dello stesso e di sussistenza di ragioni personali estranee all’ambiente di lavoro che abbiano influito sulla sua attività, le quali non possono risolversi in un ostacolo al buon funzionamento del servizio giustizia e lasciano aperte, ove il magistrato non sia in grado di svolgere il proprio lavoro in condizioni di apprezzabile serenità ed efficienza, le vie consentite dall’ordinamento giudiziario per potersi assentare temporaneamente dal servizio, quali congedi straordinari e aspettative per motivi familiari.

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di Maria Casola

1.      La sostenibilità sociale dei ritardi quale fisiologia di una giustizia in crisi

La sentenza delle Sezioni unite costituisce un ulteriore, importante step nel percorso di necessaria torsione degli istituti ordinamentali tipici sotto la pressione di un sistema giudiziario ormai al collasso.

La tematica del ritardo nei depositi dei provvedimenti giudiziari ha assunto, negli ultimi anni, una crescente rilevanza, atteggiandosi viepiù non come problema puramente individuale, ma come fenomeno  collettivo, quasi endemico entro specifici settori della giurisdizione o all’interno di determinati contesti territoriali. Se, infatti, le ispezioni ordinarie periodiche sempre più rilevano ritardi commessi da molti, quasi tutti, i magistrati di un medesimo ufficio o addetti a particolari funzioni, è evidente che l’uso delle categorie della responsabilità disciplinare e delle valutazioni di professionalità, prettamente individualistiche, viene messa radicalmente in discussione.

E’ lo spaccato di una magistratura che è costretta a lavorare con la quotidiana consapevolezza di non poter garantire, ad un tempo, sia il rispetto di adeguati standard di durata dei procedimenti, sia l’osservanza dei termini di deposito dei provvedimenti, sia, infine, una dignitosa qualità del prodotto. E ciò – si badi – pur lavorando indefessamente, ultra vires.

La conseguente drammatica necessità per il giudice in affanno di stabilire priorità nella gestione del ruolo implica evidentemente la scelta strategica tra sistemi di valori alternativi, all’interno di una magistratura che, lo si sa, ondeggia tra tendenze burocratizzanti auto conservative e corporative e spinte intellettuali indirizzate verso un volontariato martirizzante, che vuole una giustizia sostanziale a tutti i costi.

Il sistema giudiziario – come si vedrà – sta chiaramente reagendo al paradosso dell’insostenibilità del peso giudiziario, imponendo la transizione dalle categorie individuali (il magistrato) a quelle istituzionali e collettive. La palla passa al Capo dell’Ufficio, o, più in alto, al CSM e da questo al Ministro ed alla politica. La defaillance del singolo giudice diviene così un costo sociale, sostanzialmente già metabolizzato nella filiera produttiva della giustizia. Ma con quali effetti? E quali prospettive?

L’arresto delle Sezioni unite, proposto all’attenzione dei lettori, costituisce un’illuminante chiave di lettura di questa cruciale tematica, ed offre, per chi vorrà coglierli, preziosi spunti di rinnovamento culturale ed ordinamentale.

2.      La vicenda concreta

Un giudice civile di tribunale è stato giudicato dalla Sezione disciplinare del C.S.M. responsabile dell’illecito disciplinare di cui agli artt. 1 e 2 primo comma lett. q) d.lgs. n. 109 del 2006 per aver ritardato in modo reiterato, grave ed ingiustificato il deposito di numerosi provvedimenti (in un quinquennio: oltre 600 sentenze, con consistenti ritardi, anche ultra annuali). In considerazione della “indubbia laboriosità” dell’incolpato, risultando documentato un “rendimento elevato”,  gli è stata applicata la sanzione minima.

3.    La condanna del CSM fedele alla consolidata giurisprudenza sui ritardi

Il CSM, quale giudice disciplinare, aveva, nel caso di specie, esattamente fatto applicazione dei principi interpretativi recepiti ormai da anni nella giurisprudenza di legittimità.

A tali fini la sentenza consiliare aveva precisato che ai fini dell’integrazione dell’illecito non rileva (come accadeva nella vigenza dell’art. 18 d.lgs. n. 511 del 1946) la scarsa laboriosità o la negligenza del magistrato ma il dato obiettivo della lesione del diritto delle parti alla ragionevole durata del processo di cui agli artt. 111, comma 2 Cost. e 6 par. 1 CEDU, perché tale lesione comporta il superamento della soglia di giustificazione della condotta ed è idonea di per sé ad incidere sul prestigio della funzione giurisdizionale.

In questa prospettiva, la condanna disciplinare in primo grado era stata diretta conseguenza della constatazione che il superamento del termine annuale nel ritardo deve, di per sé, presumersi ingiustificabile se non ricorrono situazioni eccezionali o transitorie.

Sempre quale puntuale applicazione di canoni esegetici ben consolidati, in sede di valutazione del carattere “ingiustificato” dei ritardi, la Sezione consiliare aveva precisato, che non è consentito al magistrato, che per il carico di lavoro avverta di non essere in grado di osservare i termini per il deposito delle sentenze, di effettuare autonomamente la scelta di assumere in decisione cause civili in eccesso rispetto alle proprie possibilità di smaltimento.

4.   La decisione delle Sezioni unite: la scelta personale che non può mai giustificare i ritardi

Avverso la sentenza della Sezione del CSM, il magistrato condannato ha proposto ricorso per cassazione.

L’importante arresto delle S.U., oltre al più innovativo principio di diritto formulato, di cui poi si dirà, si sofferma preliminarmente a chiarire alcune questioni di contorno, sulle quali, data la ricorrenza ed attualità, è utile comunque spendere qualche parola.

Intanto viene appurata l’irrilevanza, a fini di giustificazione dei ritardi, dell’incarico assunto volontariamente dal magistrato nell’ambito di un Gruppo di lavoro operante presso il CSM.

Osserva, infatti, la Cassazione che, per l’incarico attribuito era previsto un esonero giudiziario che avrebbe dovuto vanificare l’incidenza di esso sul carico di lavoro complessivamente gravante.

La sentenza precisa che, ove non fosse stato in concreto consentito al magistrato di fruire di tale esonero nelle modalità e nella misura previste, il magistrato avrebbe potuto dolersene col capo dell’ufficio, mentre, ove il medesimo esonero non fosse stato sufficiente in rapporto al lavoro riveniente dall’incarico, ben avrebbe potuto il magistrato chiedere un adeguamento di esso all’effettivo impegno richiesto, o, in ultima analisi, rinunciare all’incarico stesso.

L’affermazione merita rilievo nella misura in cui non consente sostanzialmente al magistrato che assuma volontariamente incarichi aggiuntivi, anche di natura istituzionale, avvalendosi di un corrispondente regime di esonero, di addurre poi alcuna scusante in casi di ritardi sul lavoro.

Viene imposta, dunque, una precisa scala di priorità: il lavoro ordinario viene prima degli extra, pur meritevoli che siano. Dunque, chi non se la sente, pur con l’esonero, di assicurare  a pieno un adeguato ritmo di lavoro, è bene che non si accolli ulteriori oneri, anche se nel circuito del governo autonomo: in caso di insufficienze professionali non avrà alibi, imputet sibi.

Il secondo principio affermato riguarda la natura formale dell’illecito di che trattasi, il quale si perfeziona per il verificarsi della pura condotta tipizzata dalla norma, indipendentemente dal giudizio di riprovevolezza sul magistrato. La Cassazione precisa infatti che, ai fini dell’integrazione di questo illecito, è irrilevante il fatto che i ritardi contestati costituiscano sintomo di mancanza di operosità e difetto di organizzazione dell’incolpato.

Invero , nel caso di specie, lo stesso  giudice disciplinare aveva dato atto della “indubbia laboriosità” dell’incolpato e del suo “rendimento elevato”, ma ha valutato le suddette circostanze non come esimenti, ma come attenuanti, cioè valevoli solo ai fini della graduazione della sanzione irrogata.

In proposito, la sentenza qui commentata ribadisce un principio già assodato in subiecta materia, cioè quello della formalità pura dell’illecito, a prescindere dalla laboriosità e diligenza in concreto. Canone, questo, a propria volta connesso con la regola di coessenzialità dei doveri di cui all’art. 1 del d.ls.n 109, cit., nel senso che l’inadempimento di uno non può essere compensato dall’ eccellenza sull’altro.

A conti fatti, la condizione necessaria e sufficiente del buon magistrato “sembrerebbe essere” quindi il rispetto anche solo di un minimo di rendimento, purché si “galleggi” su tutti i fronti: la pregevolezza di un certo profilo (esempio, l’alta produttività) non scuserebbe la carenza su un altro  fronte (es. i ritardi).

“Sembrerebbe essere” perché, in verità, il portato ultimo della sentenza sembra essere proprio l’opposto, come ora si vedrà.

5.      Qualsiasi ritardo può essere giustificato: dalla responsabilità oggettiva alla rimproverabilità

La pronuncia in esame merita attenzione in quanto porta a più chiare e definitive conseguenze il principio di diritto già anticipato dalla precedente sentenza delle Sezioni unite n. 14268 del 2015.

Questa revisione della tradizionale giurisprudenza sulla responsabilità da ritardo muove dal constatare l’impossibilità di ritenere di per sé “ingiustificabili” i ritardi superiori all’anno o comunque superiori ai termini di ragionevolezza, in ogni caso escludendo che tali ritardi possano essere addebitati al magistrato a titolo di responsabilità oggettiva. E’, invero, sempre necessario verificare se il ritardo si ricolleghi ad un comportamento ascrivibile al magistrato, almeno a titolo di colpa, e con una motivazione in proposito “significativa, rigorosa e strutturata”.

La Sezione Disciplinare del CSM ha prontamente recepito questo canone esegetico (cfr. sentenze nn. 55, 58, 59 ed 80/2015) ben rilevando che l’obbligo di rispettare un limite di durata del processo, come richiede la CEDU, grava ed incombe in primo luogo sugli Stati “in capo ai quali è posto il dovere di dotare la magistratura di strutture e personale efficiente, adeguati al rispetto dell’obbligo di cui si tratta”.

Non esistono  ritardi in assoluto ingiustificabili, cioè presunti come tali, iuris et de iure.

Di certo, sussiste un nesso di diretta proporzionalità tra ampiezza  del ritardo e portata giustificativa del fattore causativo, nel senso che per giustificare un ritardo irragionevole occorre una piattaforma generatrice “sicuramente più complessa e più articolata”, sostanzialmente eccezionale, ma, pur sempre, in astratto ammissibile.

6.      Le strategie gestionali del magistrato ed il ruolo del dirigente

Nel caso di specie, la Sezione del CSM, pur riscontrata l’astratta ingiustificabilità dei ritardi, a cagione della loro intrinseca irragionevolezza, si era comunque fatta carico di esaminare le circostanze addotte dall’incolpato a propria giustificazione.

Tra le altre, merita qui attenzione la complessa circostanza addotta, consistente nell’affermazione di avere assunto in decisione un numero di processi superiore alle proprie capacità di smaltimento, in ragione di una precisa e programmata scelta organizzativa di gestione del ruolo, intesa al perseguimento di un ragionato abbattimento delle pendenze e di una minore durata dei processi.

In proposito il giudice disciplinare consiliare, come sopra accennato, aveva rilevato che: a) non è consentito al magistrato che per il carico di lavoro avverta di non essere in grado di osservare i termini per il deposito delle sentenze di effettuare autonomamente la scelta di assumere in decisione cause in eccesso rispetto alla possibilità di redigere tempestivamente le relative motivazioni, invece di rinviarne la decisione a data compatibile col rispetto dei termini; b) una corretta gestione del ruolo non avrebbe potuto prescindere dalla soluzione dei problemi che avevano determinato  l’intollerabile durata del singolo processo; c) sarebbero state necessarie scelte complessive non demandate al singolo giudice ma al dirigente dell’ufficio in base ai criteri formalizzati dal CSM, che avrebbero suggerito un esame dei flussi e l’adozione di un modello organizzativo più adeguato, consentendo al dirigente, se del caso, di farsi carico della eliminazione dell’arretrato patologicamente accumulato con la specifica programmazione di un piano di rientro e l’eventuale affiancamento al magistrato ritardatario di giudici onorari; d) la giustificazione addotta non avrebbe comunque trovato riscontro nei dati statistici acquisiti.

Ora, circa le lettere a) ed e), la Cassazione riconosce che è certamente potere e dovere del capo dell’ufficio conoscere la pendenza dei ruoli dei singoli magistrati, le relative modalità di gestione e l’eventuale ritardo nel deposito dei provvedimenti di ciascuno, proprio in vista dell’esercizio dei poteri-doveri di controllo, impulso e intervento riconosciutigli, pertanto è difficile immaginare che l’assunzione in decisione di un numero di cause superiore alla possibilità di tempestiva motivazione da parte di un singolo magistrato possa essere stata ignorata dal capo dell’ufficio o possa avergli impedito gli interventi “correttivi” che erano in suo potere,  

Ma ciò che le Sezioni unite maggiormente censurano è l’affermazione dei giudici disciplinari secondo la quale le scelte organizzative del magistrato sarebbero state illegittime perché assunte autonomamente e soprattutto l’asserzione per cui “una corretta gestione del ruolo non avrebbe potuto prescindere dalla soluzione dei problemi che avevano determinato l’intollerabile durata del singolo processo”. Infatti, rimarca la Cassazione, non si comprende quali sarebbero state le migliori misure che il magistrato ritardatario avrebbe dovuto assumere per evitare così macroscopici ritardi.

Invero, si legge nella sentenza, l’intollerabile durata dei singoli processi “non è necessariamente collegata al ritardo del magistrato ma assai spesso preesiste e prescinde da esso, e che, pertanto, negli uffici giudiziari gravati oltre le possibilità di smaltimento del magistrato assegnatario nessuna corretta organizzazione del ruolo sarebbe possibile se si dovesse attendere “prima” la soluzione dei problemi che hanno determinato l’intollerabile durata di ciascuno dei singoli processi”.

7.      Il carico eccessivo dei ruoli: bilanciamento tra necessità di smaltimento e possibili ritardi

Proseguendo oltre nell’analisi della sentenza, di grande importanza e potenzialità è l’affermazione del valore delle scelte gestionali del magistrato, nell’intento di calibrare segmento istruttorio e fase decisoria.

Osservano le Sezioni unite che la scelta strategica del magistrato, se meritevole ed apprezzabile, deve essere sempre presa in considerazione ai fini dell’eventuale giustificazione dei ritardi. In particolare, deve essere apprezzata la scelta di “bloccare” il protrarsi della fase istruttoria (quale ne fosse la durata pregressa) assumendo in decisione i processi anche oltre le possibilità di tempestivo deposito delle relative motivazioni, in una sorta di “partita di giro” idonea a promuovere l’attivazione di un circuito “virtuoso” determinante la più veloce definizione anche di altri processi. La stessa sezione disciplinare del CSM ha, del resto, riconosciuto come apprezzabile “la consapevole scelta di trattenere in decisione le cause, esponendosi al rischio del mancato rispetto dei termini” anziché accedere “alle prassi deteriori del mero rinvio, della rifissazione per la precisazione delle conclusioni, degli incombenti istruttori inutili, prassi che tanto peso hanno avuto nel portare l’Italia davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo” (n. 123/2001).

A tale proposito, viene altresì precisato che in linea di principio il magistrato è responsabile della gestione del proprio ruolo e quando, come nella   gran   parte   degli   uffici   giudicanti   civili,   la consistenza del ruolo risulta sproporzionata rispetto alle possibilità di smaltimento determinando perciò solo l’accumularsi dei processi e la conseguente irragionevole durata dei medesimi, la responsabilità individuale assume valenza più grave e profonda sìa perché impone valutazioni di priorità che non possono essere casuali, sia perché esige dal magistrato assegnatario importanti scelte organizzative intese, per quanto possibile, a contenere un arretrato destinato, in mancanza, ad accrescersi sempre più nel tempo, anche attraverso la allocazione delle limitate risorse (temporali, personali e materiali) a sua disposizione nel modo più  razionale e funzionale possibile.

Se così è, la giustificazione organizzativa proposta dal magistrato incolpato deve essere sempre “seriamente vagliata e valutata” perché ” è un dovere del giudice, soprattutto in una condizione di carico eccedente le possibilità di smaltimento, organizzare il proprio lavoro in modo da ridurre, nei limiti del possibile, la pendenza e la durata dei processi”.

Ciò, peraltro, in uno alla corretta constatazione operata in sentenza per cui l’assunzione in decisione, sia pure con deposito delle motivazioni dilazionato nel tempo, può in certa misura “alleggerire” il ruolo, che, come evidenziato nella citata su n. 25994 del 2014, è elemento condizionante da considerare in concreto nella sua ampiezza, indipendentemente dal numero delle cause che il magistrato riesce a “trattare” e decidere, non costituendo esso una massa inerte che grava solo per le controversie trattate e/o decise, ma un’entità plurale, complessa e composita che quanto più è “pesante” tanto più produce lavoro.

8.      I ritardi nella giustizia civile: una strategia o una scusa?

La grave situazione in cui versa la giustizia civile non può certamente costituire – chiarisce conclusivamente la Suprema corte – un “usbergo e salvacondotto per ritardi di ogni tipo”.

Ciò, significa solo che “grave, consapevole, attento e meticoloso” dovrà essere il lavoro del giudice disciplinare per valutare in concreto se i ritardi contestati possano essere effettivamente conseguenza di una scelta organizzativa consapevole, progettata, discussa, attuata anche in considerazione delle eventuali peculiarità del ruolo e caratteristiche del contenzioso, idonea a produrre effetti positivi sulla durata dei processi e sulla diminuzione delle pendenze e non piuttosto una “scusa” per tentare di giustificare in extremis ritardi gravi e reiterati da parte di un magistrato che, ad esempio, non abbia neppure la compiuta conoscenza della composizione del proprio ruolo ovvero non abbia neppure assunto in decisione un numero di processi pari alla media dei colleghi di sezione nel medesimo arco temporale. E naturalmente sarà onere del magistrato che intenda giustificare i gravi e reiterati ritardi contestatigli sulla base di una scelta organizzativa intesa ad una più funzionale e proficua gestione del ruolo fornire al giudice disciplinare tutti gli elementi per valutare la fondatezza e serietà della giustificazione addotta.

La sentenza impugnata è stata dunque cassata in relazione alle censure accolte, con rinvio alla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura   in diversa composizione.

9.      Traslazione del rischio nella filiera della giustizia e l’impossibilità dei miracoli a costo zero

Nel corso della passata consiliatura, la presa d’atto delle criticità immanenti al servizio giustizia, ha indotto una più approfondita riflessione sull’esistenza di eventuali situazioni di oggettiva difficoltà dei magistrati a rispettare i termini per il deposito dei provvedimenti giudiziari, sollecitando, nel perseguimento dell’obiettivo del miglioramento del servizio e della promozione di migliori condizioni di lavoro in ambito giudiziario, la ricerca di ogni opportuna soluzione organizzativa utile a prevenire il formarsi di arretrati e di ritardi nei depositi.

La delibera CSM del 13 novembre 2013 costituisce, in questa direzione, un tentativo serio di “socializzare” e distribuire i rischi indeclinabili, connessi alla gestione di ruoli sovraccarichi. In particolare, in questo provvedimento si pone sui dirigenti il dovere di prevenire eventuali ritardi dei magistrati dell’ufficio imputabili a carenze organizzative oggettivamente risolvibili ( ad esempio

eccessivi squilibri nei carichi di lavoro, mancato o incompleto impegno di magistrati onorari). E’ stato anche stabilito che, in presenza di ritardi da parte dei magistrati dell’ufficio, i dirigenti non hanno solo compiti di informazione a fini disciplinari, ma hanno anche doveri di conoscenza, e quindi di comprensione, delle cause dei ritardi, in funzione di eventuali interventi organizzativi di propria esclusiva competenza.

Questo preciso schema di pensiero risulta recepito anche nelle sentenze disciplinari n.ro 59 e n.ro 80 del 2015 secondo cui si determina una situazione di inesigibilità quando si versa in un situazione lavorativa oggettivamente difficile perché caratterizzata da un carico di lavoro sovradimensionato, frutto non di scelte del magistrato, ma di un criterio di assegnazione degli affari non sensibile al principio della equa distribuzione.

Si assiste, dunque, ad un chiaro percorso di traslazione ed ascesa del rischio da carenza di risorse: esso non grava più sul cittadino, che gode dell’indennizzo per la legge Pinto, ma il rischio derivante dalla carenza di risorse non grava più endemicamente neppure sul penultimo anello della catena, il magistrato. Tendenzialmente, le conseguenze risalgono sul dirigente e, entro certi limiti, sulle Istituzioni: il CSM, il Ministro, lo Stato nel suo complesso.

Il CSM, con la recentissima delibera del 15 giugno 2016,  fa il punto sulla “filiera” del servizio giustizia e definitivamente chiarisce che, senza risorse, la giustizia non si può garantire.

Il nodo è dunque arrivato al pettine: senza un minimum di mezzi, non vi è cultura dell’organizzazione, non vi sono buone prassi, non vi è strategia che tenga.

Con tutti gli sforzi possibili, in una così grave penuria di risorse, né i magistrati, né gli  avvocati, né i dirigenti, né il CSM possono risolvere alcunché: pure a voler fare dei miracoli… almeno cinque pani e due pesci servono!

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