Ricorsi per inumana detenzione ex art. 35 ter l. 354/1975 e giudice civile

di Federico Lume

Le ripetute condanne in sede Cedu subite dall’Italia per le condizioni di sovraffollamento delle carceri, ritenute contrarie e al divieto di tortura e trattamenti inumani  degradanti di cui all’art. 3 Cedu, nonché le indicazioni contenute nella decisioneCedu, 8.1.2013, Torreggiani, hanno indotto il legislatore (d.l.92/2014  conv.  con l. 117/2014) a introdurre nell’ordinamento nuovi rimedi preventivi, compensativi e risarcitori a disposizione di coloro che abbiano subito un danno determinato dalla detenzione non conforme a tali principi.

Secondo le indicazioni della stessa Cedu tali rimedi dovranno essere effettivi e “tali da garantire forme di riparazione adeguate e sufficienti nei casi di sovraffollamento penitenziario che espongano l’individuo a trattamenti inumani”.

Uno di questi rimedi, previsto dall’art. 35 ter o.p., è affidato alla competenza del giudice civile, tradizionalmente poco abituato a trattare tematiche carcerarie, chiamato oggi a riconoscere, all’esito di un procedimento camerale, un eventuale risarcimento,forfettizzato nella misura di 8 euro per ogni giorno di detenzione inumana.

La scelta del rito camerale (in controtendenza rispetto all’obiettivo di semplificazione dei riti di cui al d.lgs. 150/2011) e la mancata esplicitazione di taluni passaggi fondamentali hanno determinato incertezze applicative sia dal punto di vista sostanziale (natura della responsabilità con conseguenti questioni inerenti l’onere della prova e la prescrizione) che processuale (legittimazione attiva, contenuto del ricorso, tipologia dell’istruttoria, condanna alle spese); incertezze che rischiano di vanificare l’obiettivo del legislatore.

Le norme

Articolo 3 CEDU – Divieto della tortura.

Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.

Art. 35-ter O.P. introdotto dal decreto legge n. 92/2014  successivamente convertito nella l. n. 117/2014

Rimedi risarcitori conseguenti alla  violazione  dell’articolo  3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei  confronti  di  soggetti  detenuti  o internati

  1. Quando il pregiudizio di cui all’articolo 69, comma  6,  lett. b), consiste, per un periodo  di  tempo  non  inferiore  ai  quindici giorni, in condizioni di detenzione  tali  da  violare  l’articolo  3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo  e  delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti  dell’uomo, su istanza presentata  dal  detenuto,  personalmente  ovvero  tramite difensore munito di procura speciale, il magistrato  di  sorveglianza dispone, a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per  ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio. 

  2. Quando il periodo di pena ancora  da  espiare  è  tale  da  non consentire la detrazione dell’intera misura  percentuale  di  cui  al comma  1,  il  magistrato  di  sorveglianza   liquida   altresì  al richiedente,  in  relazione  al  residuo  periodo  e  a   titolo   di risarcimento del danno, una somma di denaro  pari  a  euro  8,00  per ciascuna giornata nella quale questi ha  subito  il  pregiudizio.  Il magistrato di sorveglianza provvede allo stesso modo nel caso in  cui il periodo di  detenzione  espiato  in  condizioni  non  conformi  ai criteri di cui all’articolo 3 della Convenzione per  la  salvaguardia dei  diritti  dell’uomo  e  delle  libertà  fondamentali  sia  stato inferiore ai quindici giorni. 

  3. Coloro che hanno subito il pregiudizio di cui  al  comma  1,  in stato  di  custodia  cautelare  in  carcere  non  computabile   nella determinazione  della  pena  da  espiare  ovvero  coloro  che   hanno terminato di espiare la pena detentiva in  carcere  possono  proporre azione, personalmente ovvero  tramite  difensore  munito  di  procura speciale, di fronte al tribunale del capoluogo del distretto nel  cui territorio hanno la residenza. L’azione deve essere proposta, a  pena di  decadenza,  entro  sei  mesi  dalla  cessazione  dello  stato  di detenzione o della custodia cautelare in carcere. Il tribunale decide in composizione monocratica nelle forme di cui agli  articoli  737  e seguenti del codice di procedura civile. Il decreto che definisce  il procedimento non è soggetto a reclamo. Il risarcimento del danno  è  liquidato nella misura prevista dal comma 2.

Art. 69 comma  6 lett. b

(Il magistrato di sorveglianza)… provvede a norma dell’articolo 35-bis sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti: …  b) l’inosservanza da parte dell’amministrazione  di  disposizioni previste dalla presente legge e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o all’internato un  attuale  e  grave  pregiudizio all’esercizio dei diritti.

Art. 2 d.l. 92/2014 Disposizioni transitorie

 1. Coloro  che,  alla  data  di  entrata  in  vigore  del  presente decreto-legge, hanno cessato di espiare la pena detentiva  o  non  si trovano più in stato  di  custodia  cautelare  in  carcere,  possono proporre l’azione di cui all’articolo 35-ter, comma 3, della legge 26 luglio 1975, n. 354, entro  il  termine  di  decadenza  di  sei  mesi decorrenti dalla stessa data. (ENTRATA IN VIGORE DEL D.L. E’ IL 28/6/2014)

  2. Entro sei mesi dalla data di  entrata  in  vigore  del  presente decreto-legge, i detenuti e gli internati che abbiano già presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo,  sotto  il  profilo del  mancato  rispetto  dell’articolo  3  della  Convenzione  per  la salvaguardia dei diritti dell’uomo  e  delle  libertà  fondamentali, ratificata ai sensi della  legge  4  agosto  1955,  n.  848,  possono presentare domanda ai sensi dell’articolo  35-ter,  legge  26  luglio 1975, n.  354,  qualora  non  sia  intervenuta  una  decisione  sulla ricevibilità del ricorso da parte della predetta Corte.

  3.  In  tale  caso,  la  domanda  deve   contenere,   a   pena   di inammissibilità,  l’indicazione  della  data  di  presentazione  del ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

  4. La cancelleria  del  giudice  adito  informa  senza  ritardo  il Ministero degli affari esteri di tutte le domande presentate ai sensi dei commi 2 e 3, nel termine di sei mesi dalla  data  di  entrata  in vigore del presente decreto-legge.

1. La genesi delle disposizioni

1.1. L’art.3 CEDU prevede il divieto della tortura  e di trattamenti inumani o degradanti.

Tale previsione aveva assunto particolare rilevanza, in Italia, con riferimento al trattamento penitenziario e alle condizioni delle carceri che avevano generato un rilevante contenzioso davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

In questa sede appare opportuno ripercorrere solo i passaggi fondamentali di tale contenzioso.

1.2. Con la decisione 16.7.2009, Sulemajnovic, la Corte EDU esamina in particolare l’aspetto del sovraffollamento carcerario; un cittadino della Bosnia Erzegovin, era stato condannato a 2 anni e 5 mesi di carcere per rapina aggravata ed altri reati; con il passaggio in giudicato della sentenza veniva trasferito a Rebibbia dove trascorreva 4 mesi e mezzo in una cella di 16 mq con altre cinque persone, poi trasferito in una cella più grande.Il ricorso a Strasburgo è incentrato sull’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che riconosce il diritto di ogni persona a non subire trattamenti disumani e degradanti. Ad avviso del ricorrente, la vita in carcere, secondo le modalità effettivamente applicate nella struttura carceraria di Rebibbia, costituiva una violazione del richiamato dettato normativo. Una soluzione condivisa dalla Corte, in base a cui gli Stati devono garantire ad ogni detenuto “condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana”, senza causare sofferenze che superino il livello già implicito nella detenzione, considerando altresì il benessere e la salute del detenuto. Da ciò, il Comitato per la Prevenzione della Tortura ha determinato che ogni detenuto deve avere a sua disposizione almeno 7 mq all’interno di una cella. Nello specifico, la raccomandazione n. 2 dell’11.01.2006 – che precisa le condizioni di vita dei detenuti e dei locali in cui devono alloggiare – definisce che gli Stati devono comporre le esigenze di sicurezza con la necessità che le misure siano “le meno restrittive possibili”. Inoltre, per evitare la violazione dell’art. 3, il detenuto deve godere di alcune ore d’aria con l’obbligo per il personale di verificarne lo stato di salute fisico-mentale. Sembrerebbe, dall’incipit  della Corte e dalla precedente giurisprudenza, che prima di dichiarare la violazione dell’art. 3, sia necessaria una valutazione caso per caso, che tenga in considerazione la vita complessiva del detenuto in carcere. Tuttavia, nel caso di specie, la particolare ristrettezza dello spazio a disposizione del detenuto ha indotto la Corte ad affermare che al di là di ogni valutazione sulle altre condizioni, si fosse verificata una violazione dell’art. 3. Ad avviso dei giudici europei, pertanto, laddove sussiste una situazione di sovraffollamento carcerario, non è necessario considerare altri elementi poiché, in modo quasi automatico, si può presumere che sia stato violato il divieto di trattamenti disumani e degradanti. La posizione assunta dalla Corte non è stata condivisa dal giudice italiano Zagrebelsky e dal giudice Jocienè, secondo i quali non era stato violato l’art. 3 perché mancava la necessaria gravità generalmente richiesta per ritenere sussistente la commissione di trattamenti disumani e degradanti. In effetti, la giurisprudenza della Corte è ormai assestata, come risulta dalla prassi in materia di art. 41 bis ord. penit., nel senso di ritenere violato l’art. 3 solo se risulta sorpassata una soglia minima di gravità. Si consideri, inoltre, che per i giudici che hanno espresso l’opinione dissenziente, la soglia minima richiesta non sarebbe stata superata anche per l’età del ricorrente e in ragione del periodo relativamente breve di detenzione.

1.3. La decisione emessa in sede europea aveva delle immediate ripercussioni nella giurisprudenza interna; l’Ufficio di Sorveglianza di Lecce, ord. 9.6.2011, adito in sede di reclamo dal detenutoSlimani, riconosciuta la natura di diritto soggettivo alla posizione dello stesso, ritenuta la propria giurisdizione anche sulla tutela risarcitoria deldiritto medesimo, accertata la violazione del diritto ad un trattamento penale effettivamente finalizzato alla rieducazione, condannava il Ministero della Giustizia al risarcimento del danno in favore del detenuto.

1.4. Da un punto di vista processuale, però, la decisione dell’Ufficio di Sorveglianza di Lecce era smentita da Cass. pen. 4772/2013 (che si pronunciava sul ricorso proposto dal detenuto Vizzaricontro il diniego espresso dall’Ufficio di Sorveglianza di Catanzaro su istanza analoga a quella del caso Slimani); la S.C. negava infatti che la Magistratura di Sorveglianza avesse competenza esclusiva sui diritti dei detenuti e non attribuzioni specifiche legate all’esecuzione penale. Concludeva pertanto che dovesse escludersi che alla Magistratura di Sorveglianza fosse attribuita la competenza a pronunciarsi sulle domande di carattere risarcitorio pur derivanti da pretese violazioni di diritti soggettivi di detenuti anche se connessi allo stesso stato di detenzione.

Punto necessario e prioritario da cui muove la decisione della S.C. è l’argomentazione che in materia risarcitoria ed indennitaria il sistema normativo prevede in via generale la sua attribuzione alla giurisdizione civile. La summa divisio tra giurisdizione civile e penale è sancita dall’art. 1 c.p.c. e dall’art. 1 c.p.p. cui corrispondono le pertinenti norme del vigente Ordinamento Giudiziario.Da tale presupposto consegue che le attribuzioni al giudice penale di competenze in materia risarcitoria si pongono come eccezioni a tale generale ripartizione e, come tali, devono essere specificamente previste dalla normativa, quali si rinvengono, ad esempio, ove il giudice penale è chiamato a pronunciarsi sulla domanda risarcitoria del danneggiato da un reato costituito parte civile (art. 74 c.p.p.) o su quella per ingiusta detenzione (art. 314 c.p.p.) od anche per riparazione dell’errore giudiziario (art. 643 c.p.p).È però certo che una siffatta attribuzione specifica non si riscontra nelle leggi in materia penitenziaria che, in via testuale, non prevedono alcuna attribuzione di competenza alla Magistratura di Sorveglianza della materia risarcitoria o indennitaria pur discendente da quegli aspetti dell’ambito penitenziario, o più strettamente carcerario, che vengono attribuiti alla sua specifica competenza, che è sempre legata alla giurisdizionalizzazione dell’esecuzione penale.

1.5. Poco prima, la CEDU era nuovamente tornata sull’argomento relativamente all’Italia; con la decisione 8.1.2013 Torreggiani, investita di analoghi ricorsi, la Corte riconosceva l’esistenza di strumenti processuali messi a disposizione dei detenuti per tutelare i loro diritti in sede di trattamento penale ma evidenziava che essi, di fatto, fossero poco effettivi, anche alla luce dell’accertato sovraffollamento (dal 2010, in effetti, il governo italiano, decretato l’esistenza di uno stato d’emergenze per quanto riguarda la situazione delle carceri aveva adottato misure d’urgenza volte alla costruzione di nuovi penitenziari (cd. “piano carceri”) e a favorire  l’esecuzione delle condanne o porzioni di condanna inferiori a dodici mesi all’esterno degli istituti penitenziari. Soprattutto la CEDU rilevava l’assenza di strumenti volti a ottenere la riparazione del danno esistenziale patito in ragione della permanenza in celle sovraffollate, riconoscendo come la pronuncia dell’Ufficio di Sorveglianza di Lecce fosse rimasta isolata.

Ciò premesso e deciso il caso singolo, la CEDU compie un passo ulteriore, cui si collega la nascita delle nuove disposizioni; essa adotta infatti  la procedura delle sentenze pilota, fondata sull’art. 46 CEDU, comma 1, e che è attualmente disciplinata dall’art. 61 del Regolamento della CEDU, introdotto il 21 febbraio 2011, cui si ricorre, d’ufficio o su richiesta del ricorrente, quando il caso particolare evidenzia l’esistenza di un problema sistematico derivante da una prassi statale incompatibile con la CEDU suscettibile di interessare un vasto numero di persone; i giudici osservano che sono oramai svariate centinaia i ricorsi simili a quello in esame pendenti presso la Corte, a riprova dell’esistenza in Italia di un problema strutturale o sistemico di sovraffollamento delle carceri. La gravità del problema è testimoniata dal fatto che, dopo la decretazione dello stato d’urgenza avvenuta nel 2010, il tasso di sovraffollamento delle carceri italiane (rapporto tra capienza massima delle strutture e presenza effettiva) è passato dal 151% al 148%, con un calo quindi assolutamente insufficiente. Si deve ricordare inoltre che circa il 40% della popolazione carceraria italiana è costituita da detenuti in attesa di giudizio.

Affermata l’esistenza di un problema strutturale, la procedura delle sentenze pilota consente alla Corte di indicare le misure generali che lo Stato dovrebbe adottare per contrastare tale situazione incompatibile con la CEDU prevedendo, in particolare, l’applicazione di misure punitive non privative della libertà personale in alternativa a quelle che prevedono il carcere e riducendo al minimo il ricorso alla custodia cautelare in carcere ma soprattutto a introdurre rimedi effettivi volti a eliminare il pregiudizio o a garantirne il risarcimento.”Quanto alla via o alle vie di ricorso interne da adottare per far fronte al problema sistemico riconosciuto nella presente causa, la Corte rammenta che, in materia di condizioni detentive, i rimedi “preventivi” e quelli “di natura “compensativa” devono coesistere in modocomplementare. Così, quando un ricorrente sia detenuto in condizioni contrarie all’art. 3 della Convenzione,la migliore riparazione possibile è la rapida cessazione della violazione del diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti. Inoltre, chiunque abbia subito una detenzione lesiva della propria dignità deve potere ottenere una riparazione per la violazione subita”.

Il dispositivo della sentenza chiede allo Stato di istituire un ricorso o un insieme di ricorsi interni effettivi tali da garantire forme di riparazione adeguate e sufficienti nei casi di sovraffollamento penitenziario che espongano l’individuo a trattamenti inumani. Tali misure devono garantire il rispetto degli standard e dei principi che guidano la giurisprudenza della CEDU (compresi quindi gli standard elaborati e raccomandati dal CPT).

1.6. Per adempiere a quanto richiesto, il governo italiano ha emanato le nuove disposizioni, introducendo nell’ordinamento nuovi rimedi preventivi e risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’art. 3 della CEDU.

I nuovi strumenti consistono in  due autonome azioni, disciplinate, rispettivamente, agli artt. 35-bise 35-ter o.p., che consentono al detenuto di essere sottratto con rapidità da una situazione che genera la violazione del suo fondamentale diritto a non subire trattamenti inumani e al contempo di conseguire un ristoro per la violazione subita. I due rimedi non sono alternativi tra loro  e hanno presupposti in parte diversi ma tendono, nel loro insieme, a garantire al detenuto  che assuma di patire (o di aver patito) una condizione detentiva contraria all’art. 3 Cedu, di ottenere, durante la detenzione, dal magistrato di sorveglianza l’immediato ripristino della legalità e uno sconto di pena (nella misura di un giorno per ogni dieci giorni di pregiudizio subito) o, in via subordinata e casi residuali, un risarcimento in forma monetaria (nella misura di 8 euro per ogni giorno di pregiudizio patito); dopo la detenzione, già scontata quindi la pena, una riparazione pecuniaria dal giudice civile.

1.7. Sull’intervento del legislatore si è rapidamente avuto un primo riscontro dalla CEDU, nella decisione 16.9.2014 Stella; la Corte ha di fatto  espresso un giudizio ampiamente positivo sull’accessibilità dei ricorsi preventivi e riparatori, nonché sull’apparente effettività degli stessi. La Corte reputa effettivo lo strumento affidato al magistrato di sorveglianza, la cui decisione è vincolante per l’amministrazione ed è suscettibile di esecuzione forzata. Il ricorso viene infine giudicato dalla Corte un rimedio a priori accessibile, in grado cioè di offrire alle persone sottoposte alla giustizia delle prospettive ragionevoli di esito positivo. Analogo giudizio (positivo con riserva) la Corte ha espresso anche in merito al ricorso risarcitorio, constatando che si tratta di un rimedio accessibile a chiunque lamenti di essere stato detenuto in Italia in condizioni materiali contrarie alla Convenzione. Il giudizio positivo è però espresso con riserva perché la Corte si riserva appunto la possibilità di un eventuale riesame che consideri anche le decisioni rese dai giudici nazionali e l’effettiva loro esecuzione.

Più in particolare, per quanto riguarda le caratteristiche della riparazione, la Corte ritiene soddisfacente ed appropriata anche nel quantum la riparazione tramite riduzione di pena, che presenta l’innegabile ulteriore vantaggio di contribuire a risolvere il problema del sovraffollamento accelerando l’uscita dal carcere delle persone detenute; mentre in  relazione alla compensazione pecuniaria, pur rilevando che la somma fissata dal legislatore italiano si pone al di sotto dei parametri della “Torreggiani”, valuta la stessa ugualmente in termini positivi, osservando che, “quando uno Stato ha fatto un passo significativo introducendo un ricorso risarcitorio per porre rimedio a una violazione della Convenzione, essa deve lasciargli un più ampio margine di apprezzamento affinché lo Stato possa predisporre tale ricorso interno in maniera coerente con il proprio sistema giuridico e le sue tradizioni, conformemente al livello di vita del paese.In tali situazioni, segnate da una gran mole di ricorsi, la Corte ha ritenuto non irragionevole la previsione di somme, che, pur essendo inferiori a quelle fissate dalla Corte medesima, costituiscano comunque una risposta rapida e celere nella sua esecuzione dello Stato convenuto ai numerosi ricorsi intentati nei suoi confronti”.

1.8. Tali passaggi rendono peraltro evidente che l’effettiva e definitiva soluzione del problema sovraffollamento, anche in sede CEDU, non è arrivata ma dipende anche dalla concreta operatività dei rimedi, sia preventivi che compensativi, introdotti e quindi dal modo in cui si orienteranno i giudici nella loro applicazione.; il che non pare affatto scontato.

Le disposizioni che riguardano in particolare il giudice civile (già di per sé chiamato a “maneggiare” una materia tradizionalmente lontana dal suo strumentario sostanziale e processuale) creano infatti nell’interprete molti dubbi; dal punto di vista del diritto sostanziale, il giudice è chiamato a valutare il carattere risarcitorio o meramente indennitario dello strumento introdotto, poi a dover qualificare l’illecito e la natura della responsabilità con tutte le conseguenze in tema di onere della prova e prescrizione; inoltre non sono chiari gli effettivi ambiti di competenza del giudice civile rispetto al magistrato di sorveglianza in numerosi casi di non irrilevante portata; dal punto di vista processuale, il richiamo al rito camerale e la genericità di taluni passaggi normativi danno spazio a divergenti interpretazioni.

Ed infatti, nel panorama della prime pronunce edite, sono presenti quasi tutte le opzioni interpretative possibili.

La genesi delle nuove disposizioni e le considerazioni della sentenza Stella possono costituire una utile chiave di lettura e interpretazione delle stesse, inducendo a preferire, tra le varie possibili,l’interpretazione che maggiormente sia in linea con la finalità dell’intervento normativo, evitando (per quanto possibile) soluzioni meramente processuali e interpretazioni eccessivamente formalistiche.

1.9. La considerazione preliminare da fare è fondamentale e riguarda il dubbio se le nuove norme abbiano introdotto un procedimento che è volto a riconoscere un mero indennizzo o un vero e proprio risarcimento.

La lettera della legge (che parla di “strumenti risarcitori”, “risarcimento del danno”) sembra deporre inequivocabilmente nel senso della natura risarcitoria dell’istituto in questione. Il dato appare dirimente anche perché occorre considerare che nella vicenda, per molti versi analoga, della cd. legge Pinto (ove pure occorreva introdurre uno strumento interno, celere ed efficace, volto a tutelare il diritto, di derivazione CEDU, alla durata ragionevole del processo), il legislatore non aveva usato la stessa terminologia.

In tal senso si è espressa tutta la giurisprudenza dei tribunali ordinari edita che esplicitamente o implicitamente fa riferimento sempre al risarcimento dei danni (Trib. Palermo 1.6.2015; Trib. Roma 30.5.2015).

La tesi diversa, della natura meramente indennitaria, è stata però pure prospettata in dottrina (Braccialini, Art. 35 ter c. 3 ordinamento penitenziario, Risarcimento o tassa fissa?, in Questione Giustizia) che ha evidenziato come tale diversa impostazione porterebbe a configurare il decreto che conclude il procedimento come atto che non determina un giudicato e costituisce un mero indennizzo anticipatorio; ciò, pur con delle difficoltà, ovvierebbeal  problema della costituzionalità del valore giornaliero fisso, quasi che con il D.L. 92/2014 si pagasse un acconto risarcitorio standardizzato.

2. Le questioni sostanziali

2.1. Una delle prime questioni che si è posta è quella se le disposizioni in parola creino un nuovo illecito o solo un nuovo strumento processuale.

L’opinione largamente prevalente è che si tratti di un illecito preesistente nel sistema, trattandosi di violazione del diritto ad una detenzione conforme all’art. 3 CEDU; deporrebbe in tal senso Cass. 4772/2013, sopra ricordata, che nel negare l’ammissibilità della tutela risarcitoria davanti al magistrato di sorveglianza aveva evidenziato che il diritto al trattamento penitenziario conforme all’art. 3 CEDU potesse essere fatto valere, de iure condito, davanti al giudice civile (così Trib. Roma 30.5.2015, Trib. Napoli 7.8.2015).

Del resto, appare difficile pensare che prima di tali disposizioni la detenzione in carcere potesse lecitamente assumere caratteri tali da configurare trattamento inumano.

2.2. Quanto alla natura della responsabilità sono state avanzate diverse tesi.

La questione appare evidentemente rilevante in termini di ripartizione dell’onere della prova e di individuazione del termine di prescrizione, anche se forse meno di quanto si possa ritenere a prima vista.

Riconducono la responsabilità in questione alla previsione dell’art. 2043 c.c.la maggior parte delle decisioni dei giudici civili: vedi per es. Trib. Torino 6.5.2015; Trib. Roma 30.5.2015; Trib. Catania 15.6.2015; in alcune di tali decisioni non vi sono particolari approfondimenti sul punto della natura della responsabilità dell’amministrazione e la qualificazione della stessa come aquiliana è data per scontata o implicita allorquando si determina in cinque anni il termine di prescrizione applicabile.

Opta per la responsabilità ex art. 2051 c.c.Trib. Palermo 25.3.2015 (adito però ex art. 702 bis c.p.c. prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni); tale decisione riconduce la domanda di danni originati dalle carenze di carattere strutturale attinenti alle condizioni delle celle all’interno della casa di detenzione alla responsabilità da cosa in custodia che sancisce la responsabilità del soggetto che eserciti sulla cosa un effettivo potere fisico tale da implicare il governo, l’uso e il potere di escludere i terzi dal contatto con essa, imputando i rischi inerenti alla cosa al suo custode che ne controlli le modalità di uso; la conseguenza è che spetterebbe a chi agisce dimostrare che l’evento si è prodotto come conseguenza della particolare condizione lesiva della cosa e la prova liberatoria consiste nel caso fortuito (ma l’affermazione è poi in concreto mitigata dal riferimento alla non contestazione e ai criteri di riparto dell’onere della prova in casi di differente posizione tra e parti processuali).

Altre decisioni sono invece nel senso della responsabilità contrattuale o da contatto sociale; in tal senso Trib. Palermo, 1.6.2015; Trib. Napoli, 7.8.2015 (nel novero delle varie decisioni dei magistrati di sorveglianza si era orientata in tal senso anche la citata Uff. Sorv. Lecce, ord.  9.6.2011).

È noto che secondo l’orientamento della S.C. quando l’ordinamento impone a determinati soggetti in ragione dell’attività o funzione esercitata e della professionalità richiesta a tal fine di tenere in determinate situazioni specifici comportamenti, ai sensi dell’art. 1173 c.c., sorge in favore dei soggetti che si trovano nelle predeterminate situazioni e che entrano in contatto con l’attività di quel soggetto, uno specifico diritto di credito alla prestazione di facere contemplata e agli  annessi obblighi di protezione, cui fa da contraltare una correlativa obbligazione, dire che in tali situazioni la responsabilità da inadempimento deriva dal mero contatto serve solo a differenziare tali casi da quelli in cui la responsabilità civile deriva da violazione di norme di fonte propriamente negoziale. Tale principio costituisce iusreceptum della giurisprudenza di legittimità che ha ravvisato la sussistenza della responsabilità in esame in una varietà di casi accomunati dalla violazione di obblighi di comportamento preesistenti alla condotta lesiva posti dall’ordinamento a carico di determinati soggetti. Simili situazioni sono state per lo più ravvisate nell’ambito dell’esercizio delle attività professionali protette cioè riservate dalla legge a determinati soggetti previa verifica della loro specifica idoneità quali quelle del medico ospedaliero, del mediatore o dell’avvocato ma anche del banchiere. 

A fondare la tesi della responsabilità contrattuale o da contatto sociale sono quindi richiamati:

–  l’art. 6 della l. 354/1975 che prevede che i locali dove si svolge la vita dei detenuti e degli internati debbano essere di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale, aerati, riscaldati ove le condizioni climatiche lo esigano, dotati di servizi igienici adeguati;

–  gli artt. 7 e 8 del d.p.r. 230/2000 che prevedono poi che i locali dove si svolge le finestre debbano consentire il passaggio di luce ed aria, non siano ammesse schermature delle finestre se non in casi particolari e i servizi igienici debbano essere in vani annessi alla camera di detenzione.

Esistono quindi specifiche disposizioni di diritto positivo che impongono all’amministrazione penitenziaria di tenere specifiche condotte di facere allorquando entra in contatto con una persona in qualità di detenuta o internata.

In realtà la differenza tra le diverse tesi poggia tutta sull’interpretazione del valore delle norme di legge e regolamento penitenziario che definiscono le caratteristiche delle strutture carcerarie e le prestazioni assistenziali rieducative sanitarie da erogare al detenuto; tali norme o sono considerate il parametro di valutazione di una colpa specifica  derivante da violazione di legge  o regolamento (responsabilità ex 2043 c.c.) oppure, per chi valorizza la relazione che si instaura tra amministrazione e persona detenuta, quelle norme stabiliscono confini di una vera e propria obbligazione cui corrisponde uno specifico diritto di credito in capo alla persona detenuta.

A sostegno della tesi della responsabilità da contatto sociale potrebbero deporre le seguenti ulteriori circostanze e considerazioni:

–  il dato letterale; che gli interessi del detenuto possano assumere valenza di veri e propri diritti sembrerebbe confermato dallo stesso art. 35 ter comma 1 che richiama il pregiudizio di cui all’art. 69 comma 6 lett. b dell’ordinamento penitenziario, il quale concerne l’inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni previste della legge e dal regolamento che determinino pregiudizio all’esercizio dei “diritti”; in altri termini esso individua e qualifica le posizioni giuridiche del detenuto quali veri e proprio “diritti” voti ad esigere una determinata prestazioni prevista dall’ordinamento penitenziario medesimo, cui deve fare quindi da contraltare una specifica obbligazione;

–  non pare particolarmente rilevante la circostanza che le norme in parola non prevedano precisamente l’ampiezza del locale in quanto la specificità della disposizione non appare intaccata;

–  pur nella consapevolezza dell’ampio dibattito in tema di valenza delle norme di ordinamento penitenziario, l’opzione che dallo stesso derivino in capo ai detenuti dei veri e propri diritti appare preferibile anche in termini di interpretazione costituzionalmente orientata; il rischio che, trattandosi di diritti, ogni violazione di norma penitenziaria sia suscettibile di generare una pretesa risarcitoria appare del tutto evitabile ove si consideri che, in materia di danno non patrimoniale, occorre che per accedere al risarcimento, sia superata una certa soglia di gravità del danno stesso (il risarcimento mediato dal filtro della gravità della lesione era peraltro proprio del parere di minoranza del giudice Zagrebelsky nella sentenza Torreggiani e potrebbe essere un utile criterio di valutazione dei requisiti dell’illecito, come dopo si vedrà).

2.3. Occorre a questo punto esaminare quali siano i requisiti per l’accoglimento della domanda  e cioè quando è possibile parlare di detenzione in condizioni inumane contrarie all’art. 3 CEDU.

Sul punto in tutte le decisioni dei giudici civili edite viene accolta l’idea di fondo emergente dalla prevalente giurisprudenza CEDU secondo cui occorre distinguere tra le ipotesi di:

–  grave sovraffollamento: sono i casi di ampiezza della cella e spazio vitale a disposizione del ricorrente inferiore a 3 mq.;

–  sovraffollamento non così serio da sollevare – da solo – un problema  ex art.3 CEDU; si tratta dei casi di spazio disponibile tra i 3 e i 4 mq; in tali casi occorre guardare anche ad altri elementi quali possono essere possibilità di uso dei servizi igienici in modo riservato, aerazione disponibile, esistenza e qualità del riscaldamento, limitazione delle passeggiate all’esterno.

La questione del sovraffollamento viene quindi sostanzialmente ricondotta alla questione dello spazio a disposizione di ciascun detenuto; esso può divenire elemento da solo sufficiente ad accertareil mancato rispetto dell’art. 3 CEDU, quando sia inferiore o uguale a 3 mq. per ciascun detenuto all’interno di celle destinate a più persone (Makarov c/Russia n. 15217/07; Lind c/Russia n. 25664/05; Kantyrev c/Russia n. 37213/02; Labzov c/Russia n. 62208/00; così anche Torreggiani e altri c/Italia n. 43517/09). In altri termini, in situazioni di grave sovraffollamento, individuabile nei casi in cui lo spazio disponibile sia inferiore ai 3 mq., la detenzione è considerata di per sé contraria all’art. 3 CEDU. Sempre dalla predetta giurisprudenza emerge poi che ove il detenuto abbia a disposizione uno spazio tra i 3 e i 4 mq., per aversi violazione dell’art. 3 CEDU, occorre la verifica di ulteriori elementi. In particolare, i Giudici di Strasburgo hanno preso in considerazione altri elementi concorrenti all’assenza di spazi adeguati, per valutare se il trattamento è in concreto inumano e degradante. Ad esempio, parametri concorrenti sono un accesso insufficiente alla luce e all’aria naturali, le condizioni igieniche precarie, il calore eccessivo associato a mancanza di ventilazione, il rischio concreto di propagazione di malattie, l’assenza di acqua potabile o corrente, la condivisione di letti da parte dei detenuti, la passeggiata di brevissima durata, una o due ore al giorno, il fatto che i servizi igienici si trovano nella cella e sono visibili, l’assenza di cure adeguate per patologie di un ricorrente (per es. Moisseiev c/ Russia n. 62936/00; IstvanGkborKovcs c. Ungheria n. 15707/10).

Quest’assunto di fondo è sostanzialmente recepito espressamente da tutte le decisioni dei tribunali civili a vario titolo sopra riportate.

Ma a ben vedere la semplificazione dei presupposti per poter riscontrare una violazione dell’art. 3 è solo apparente perché vi è poi un’ estrema varietà di tesi su come si calcoli  lo spazio.

Rispecchiando le divisioni esistenti in dottrina e nella magistratura di sorveglianza (sulle quali divisioni v. Albano, Picozzi, Contrasti giurisprudenziali in materia di (misurazione dello) spazio detentivo minimo: lo stato dell’arte, in Arch. Penale 2015, n. 1) anche i giudici civili hanno avanzato plurime tesi, riconducibili alle seguenti opzioni, per le quali lo spazio va calcolato:

  • al lordo della mobilia;
  • al netto della mobilia: è la tesi dello spazio “calpestabile” per cui occorre scomputare dalla superficie lorda tutto lo spazio occupato da ogni mobile, sia esso letto, armadio fisso, tavolo o sgabello, in quanto la natura fondamentale dei diritti in questione non lascia adito alla possibilità che la già angusta misura dei 3 mq. sia ulteriormente ridotta; in tal senso, Trib. Venezia 20.3.2015 che richiama peraltro anche a sostegno la sentenza CEDU Modarcac. Moldova del 10.5.2007 n. 294 nonché la recente 12.3.2015 Mursic c. Croazia, su cui vedi dopo;
  • escludendo lo spazio occupato dall’armadio ma non dai mobili quali tavoli e sgabelli e non dai letti: spazio “vivibile”; in tal senso Trib. Genova 3.6.2015 (che evidenzia che nello spazio vivibile si debba eliminare lo spazio occupato dall’armadio e dagli arredi fissi mentre non si deve tenere conto di sedie, tavolo, sgabelli perché utilizzabili per lo svolgimento delle attività quotidiane e nemmeno del letto, arredo che è fruibile come seduta e quale sede di svolgimento di attività quotidiane anche diurne); escludono lo spazio dell’armadio anche Trib. Palermo 6.5.2015, Trib. Roma 30.5.2015;
  • escludendo lo spazio del letto: Trib. Napoli 7.8.2015, sul rilievo che il letto individuale è il mobile sicuramente previsto dalla normativa e dalla giurisprudenza CEDU per es. Ananyev c./ Russia 10.1.2012;
  • al netto del bagno (vedi Trib. Palermo 25.3.2015; Trib. Roma 30.5.2015; Trib. Genova, 3.6.2015;; Trib. Napoli, 7.8.2015); sul punto si evidenzia come se la presenza di un bagno sia un fattore positivo di cui tenere conto ai fini della valutazione delle condizioni detentive è anche vero che la superficie di tale locale nonpuò computarsi, per la sua specifica destinazione, nella quantità di spazio vitale assegnato a ciascun detenuto, spesso è citata a sostegno di tale conclusione la sentenza Sulejmanovic; del resto è la stessa disposizione dell’art. 8 d.p.r. 230/2000, in seguito indicata, a  prevedere che il vano adibito a bagno sia diverso ma annesso alla camera. Tale conclusione è ampiamente maggioritaria ma non univoca, in senso contrario si esprime infatti Trib. Palermo 6.5.2015;
  • al lordo del bagno; in tal senso appunto Trib. Palermo 6.5.2015.

La varietà delle soluzioni dipende anche dall’assenza di sicuri riferimenti provenienti da Corte europea e di legittimità.

Le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza CEDU non appaiono univoche anche in considerazione della natura particolare delle relative decisioni, legate sempre al caso concreto; inoltre in numerosi casi  le decisioni si fondano sulla natura delle informazioni fornite dal ricorrente e dall’Amministrazione non assumendo significato di criterio di computo, per es. nella decisione Tellissic. Italia del 5.3.2013 la Corte argomenta sulla contestata violazione dell’art. 3  dando per buoni i dati forniti dalla seconda e non contestati dal ricorrente.

Neanche decisivi appaiono gli arresti della giurisprudenza di legittimità; Cass. 5728/2014 viene spesso citata dai giudici civili a fondamento della tesi per cui occorrerebbe scomputare dalla superficie lorda della cella lo spazio occupato dal mobilio; ma la S.C. sembra limitarsi a ritenere non irragionevole tale valutazione di merito effettuata dal magistrato di sorveglianza.

Né risolutivi appaiono alcuni “paradossi” evidenziati dai primi commentatori; per es. le tesi favorevoli ad escludere il mobilio dal calcolo dello spazio utile evidenziano il rischio che, diversamente opinando, la detenzione si rivelerebbe legittima ove svolta in una camera molto ampia ma talmente ingombra di mobili da rendere impossibile il passaggio; tale circostanza  però appare di difficilissima verificazione; ben maggiore, a ragionar per paradossi, appare invece il rischio che, ad accedere a tale impostazione, si possa verificare l’opposta conseguenza di  ritenere legittima la detenzione in una camera con 3 mq. di spazio netto per ciascun detenuto ma priva del tutto di mobili.

In realtà il problema del giudice civile, ancorato alle prove offerte dalle parti e privo di un contatto diretto e dei poteri propri del magistrato di sorveglianza, è anche quello di prova relativamente all’esistenza effettiva di tali elementi di arredo, per cui potrebbe essere di agevole applicazione un criterio che tenga conto solo dei mobili che necessariamente devono esserci all’interno della cella.

Infine occorre segnalare che l’impostazione “spaziocentrica” finora citata, come detto maggioritaria, non è l’unica; una parte della dottrina (vedi per es. Ciuffoletti, Mariotti, Integralità e personalizzazione del risarcimento del danno da detenzione inumana, in Questione Giustizia online, 2015, ma anche Albano, Picozzi cit.), è infatti aspramente critica nei confronti di tale visione.

Un punto in questa direzione potrebbe essere offerto dalla sentenza Mursic sopra citata che sembra scindere la valutazione in merito al livello minimo di gravità delle condizioni detentive dal mero dato dello spazio personale disponibile rigettando il ricorso di un detenuto che aveva a disposizione meno di 3 mq. Nel tentativo di mettere ordine nella questione, il giudice europeo indica i tre cardini entro cui deve muoversi il giudizio in merito alla violazione dell’art. 3 della Convenzione; in particolare, infatti, gli stati devono assicurare che le condizioni detentive siano compatibili con il rispetto della dignità umana, che i modi e i metodi di esecuzione della misura non sottopongano il soggetto a una afflizione o a una prova di intensità tale da eccedere il livello inevitabile di sofferenza inerente alla detenzione e, con riguardo alle esigenze pratiche dell’incarceramento, devono assicurare in maniera adeguata la salute e il benessere del detenuto . Relativamente al giudizio sulle condizioni detentive, inoltre, si afferma il valore dell’ “effetto cumulativo” di queste tre componenti, cui si aggiunge, come quarto elemento di valutazione necessitata, il tempo di protrazione della specifica situazione detentiva. Infine si ricorda come il mero dato spaziale debba essere considerato come una forte presunzione di violazione , secondo il ragionamento della Corte nel caso Ananyev , che individua, tra l’altro tre standard probatori rilevanti nei casi in cui la violazione dell’art. 3 discenda da una mancanza palese insufficienza di spazio personale disponibile. Prescindendo, quindi, da qualsiasi automatismo, la Corte in Ananyev  afferma che il parametro spaziale, lungi da rappresentare elemento autonomo e automatico di giudizio, deve essere letto alla luce di tre prospettive: ogni detenuto deve avere a disposizione un posto letto individuale, deve avere a disposizione almeno 3 m2di superficie calpestabile (calpestabile, detratto quindi il mobilio fisso, tra cui rientrano, senz’altro, il letto, gli armadi e gli ingombri) e la superficie stessa della cella deve essere tale da assicurare alla persona ristretta di muoversi liberamente tra gli arredi. L’assenza di uno qualunque di questi elementi crea una “forte presunzione” di violazione dell’art. 3 della Convenzione; trattandosi di presunzione, però, essa potrebbe essere superata alla luce di una valutazione di tutti gli elementi concreti. Si prescinde, così, da ogni automatismo spazio-centrico nella valutazione della potenziale violazione dell’art. 3 della Convenzione.

2.4. Il quantum del risarcimento è previsto direttamente dalla legge: 8 euro per ogni giorno di detenzione inumana.

Premesso che si tratta di danno non patrimoniale (così espressamente Trib. Palermo 25.3.2015), il giudice è quindi chiamato a individuare il numero dei giorni in cui la detenzione è stata non conforme ai canoni di cui all’art. 3 CEDU.

La dottrina (Gori, Art. 3 Cedu e risarcimento da inumana detenzione, in Questione Giustizia online, 2015), ha evidenziato come il legislatore ha previsto di risarcire il danno per un giorno di inumana detenzione con un valore rigidamente quantificato in 8,00 euro, molto più basso del primo punto di invalidità previsto per le micro-permanenti, ed aggiornato al 5 luglio 2014 in euro 795,91. Non solo, come evidenziato già dai primi commentatori del d.l., è un valore anche molto inferiore al tasso di conversione delle pene pecuniarie in sanzioni sostitutive  ex art. 102 l. 24 novembre 1981 n. 689, come interpretato dalla sentenza della Corte costituzionale 12 gennaio 2012 n. 1, pari a 250,00 euro, ed è pure inferiore alla stessa liquidazione dell’indennizzo – e non risarcimento – operata dalla Corte EDU nel caso Torreggiani  sulla base di un valore superiore a 20,00 euro al giorno. Sono tutti parametri che inducono ad interrogarsi sulla ragionevolezza della quantificazione operata dal legislatore, considerato anche che si tratta di danno alla persona in casi di accertata violazione dei diritti dell’uomo protetti dalla CEDU (in tal senso vedi anche Braccialini, Art. 35 ter o.p.: risarcimento o tassa fissa?, in Questione giustizia online, 2015).

Non risultano note allo stato questioni di legittimità costituzionale che del resto parrebbero possibili solo ove nel ricorso si chiedesse una somma diversa da quella predeterminata dal legislatore.

Sulla questione del risarcimento per equivalente, infine, occorre però rammentare che la CEDU, nella citata sentenza Stella, afferma la necessità di lasciare agli stati, che decidono di introdurre una misura risarcitoria espressa per violazioni relative a norme della CEDU, il più ampio margine di apprezzamento, al fine di organizzare tale misura in maniera coerente rispetto al proprio sistema giuridico e alle proprie tradizioni e in conformità rispetto al tenore di vita del paese . La Corte accetta, quindi, la congruità della somma stabilita dal legislatore italiano nella misura di 8 euro per ogni giorno passato in condizioni tali da integrare una violazione dell’art. 3 della Convenzione; somma che, pur integrando un quantum  risarcitorio inferiore alla media prevista e accordata dalla giurisprudenza della Corte, non appare, a giudizio della Corte di Strasburgo, irragionevole. 

2.5. L’oggetto del processo è spesso ampliato dalla proposizione di due eccezioni da parte dell’amministrazione, prescrizione e compensazione.

Quanto alla prima, occorre evidenziare che la stessa deve sempre essere eccepita dalla parte  e non dovrebbe essere rilevabile di ufficio.

Quanto all’individuazione del termine di prescrizione, in primo luogo tutte le decisioni dei giudici civili sopra indicate ritengono che la legge in esame non abbia introdotto un nuovo diritto  ma solo uno specifico strumento processuale, circostanza per la quale non è dalla entrata in vigore della legge che inizia a decorrere il termine di prescrizione del diritto.

Quanto al dies a quo del termine di prescrizione, l’opinione prevalente è relativa all’applicazione dell’art. 2947 c.c. nel senso di far decorrere la prescrizione giorno per giorno a ritroso, partendo dalla data di proposizione della domanda; occorre segnalare peraltro che l’Amministrazione talvolta ha fatto riferimento anche al momento dell’uscita dal carcere o alla fine di ciascun periodo di detenzione presso ciascun carcere o presso ciascuna cella. Il riferimento ad ogni singolo giorno pare maggiormente conforme alla stessa legge che ha individuato nell’unità di tempo “giorno” anche il criterio di calcolo del danno.

Quanto all’individuazione del termine, in linea di prima approssimazione essa dipende dalla tesi adottata in merito alla natura della responsabilità; ove si opti per la responsabilità extracontrattuale, il termine è di cinque anni, ove si opti per la responsabilità contrattuale sarà di dieci anni.

Pertanto sul punto le decisioni dei giudici civili rispecchiano esattamente la differenza di posizioni esistenti in merito alla natura della responsabilità.

In realtà è stata avanzata anche una tesi del tutto diversa (Trib. Lanciano, e sul punto analogo è anche il parere dell’Ufficio Studi del CSM sulla legge in questione) per cui occorrerebbe in questa sede riprendere l’orientamento espresso da Cass., Sez. Un., 2.10.2012, n. 16783, in tema di irragionevole durata del giudizio, per cui il termine di prescrizione inizia a decorrere solo impedita la fattispecie decadenziale; in altri termini, ove la legge prevede un termine di decadenza per far valere un diritto, e il fatto che determina l’impedimento della decadenza coincida con quello interruttivo della prescrizione, esso esclude che possa decorrere anche il termine di prescrizione.

L’Avvocatura dello Stato spesso propone poi un’eccezione di compensazione, riferita sia alla pena pecuniaria eventualmente irrogata al condannato che al credito per le spese di mantenimento in carcere.

Fermo restando che dell’esistenza derivanti dalle stesse dovrà essere offerta prova, con riferimento alla pena pecuniaria sono possibili due ordini di considerazioni; da un lato, la pena pecuniaria è un credito certo, liquido ed esigibile e che non rientra nei casi dell’art. 1246 c.c.; dall’altro essa, in quanto pena, non sembra disponibile da parte dello Stato che non può rinunciare alla sua esecuzione, eventualmente chiedendo, in caso di insolvenza, il PM al magistrato di sorveglianza la conversione in sanzioni sostitutive.

Non vi dovrebbero invece essere ostacoli particolari in relazione al debito per spese di detenzione.

Ha accolto l’eccezione di compensazione Trib. Brescia 9.6.2015, sull’assunto che l’art. 69 r.d. 2440/1929 in tema di fermo amministrativo prevede in generale il potere dell’amministrazione di sospendere i pagamenti nei confronti del soggetto verso cui vanti ragioni di credito.

3. I profili processuali

3.1. Il procedimento civile introdotto dal legislatore prevede il rito camerale; probabilmente l’esigenza è quella di consentire l’utilizzazione di uno strumento processuale agile ed effettivo, in linea con  l’ esigenza segnalata dalla Cedu nella sentenza Torreggiani che assegnava termine all’Italia per adottare un ricorso o un insieme di ricorsi interni effettivi idonei ad offrire una riparazione adeguata e sufficiente in caso di sovraffollamento carcerario, in conformità con i principi della Convenzione come interpretati dalla giurisprudenza della Corte.

Si tratta però di un procedimento camerale che non ha ad oggetto affari di volontaria giurisdizione ma diritti soggettivi, rientrante quindi nel fenomeno della tutela camerale dei diritti, ben noto (ma non sempre ben visto)  alla dottrina processualcivilistica, il che rende necessario, ove esistano lacune da colmare, fare riferimento alle elaborazioni giurisprudenziali riguardanti tali situazioni. Il procedimento in camera di consiglio dell’art. 737 c.p.c., è stato definito dai primi commentatori (Braccialini, Art. 35 ter o.p.: risarcimento o tassa fissa?, in Questione giustizia online, 2015)lo “schema più etereo, il rito più evanescente che sia mai stato concepito, il quale è arrivato fino ad oggi solo grazie alle robuste iniezioni ortopediche che ha apportato la giurisprudenza su uno schema di base, che era pensato per la giurisdizione volontaria (amministrazione di diritti), ma che con il tempo si è venuto colorando – in certi settori e materie – di fogge contenziose”.

E’ evidente la totale controtendenza rispetto agli interventi normativi, anche recenti, finalizzati ad eliminare il ricorso al rito camerale ove la controversia verta su diritti; viene immediato il riferimento al d.lgs. 150/2011 che, nel dichiarato intento della cd. semplificazione dei riti, ha eliminato numerosi casi di procedimento camerale riconducendo determinate materia al rito ordinario (è il caso, per es., della domanda di attribuzione del sesso anagrafico dopo l’intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali) o al rito sommario di cognizione (è il caso dei procedimenti in materia di protezione internazionale e di immigrazione) o al rito del lavoro. Tendenza peraltro presente anche nella giurisprudenza di legittimità (vedi per esempio il dichiarato sfavore per il rito camerale nelle decisioni sulle controversie in materia di apolidia).

Se si parte dalla considerazione che la scelta legislativa di adottare il rito camerale sia consapevole e quindi non neutra, ne derivano peraltro diverse conseguenze, come successivamente si vedrà.

3.2. Quanto alla competenza, la norma prevede che sia competente il Tribunale del capoluogo del distretto ove si trova la residenza del ricorrente; non è quindi rilevante ove la pena inumana sia stata scontata ma unicamente la residenza del ricorrente al momento del ricorso; trattandosi di procedimento camerale l’incompetenza è rilevabile anche di ufficio in base alla formulazione dell’art. 28 c.p.c.

3.3. La legittimazione attiva (intesa in senso improprio) spetta alle persone che abbiano subito una detenzione inumana,non importa se a titolo definitivo o non definitivo; ciò che rileva nel primo caso (pena detentiva a titolo definitivo) è che essa sia cessata; nel secondo caso (custodia cautelare) che essa non sia convertibile in pena espiata (quindi in buona sostanza che la persona che abbia sofferto la custodia cautelare in condizioni inumane non sia poi stata condannata).

Ciò in realtà pone diverse questioni, ove si intrecciano diritto sostanziale e competenza.

3.4. Il primo caso è relativo alle persone (ancora) attualmente detenute per pregiudizi però non più attuali, cioè subiti in precedenti detenzioni “non conformi all’art. 3 CEDU”; in questo caso si pone il dubbio se sia competente il Tribunale civile, con ammissibilità del solo rimedio risarcitorio, o il Magistrato di sorveglianza; il quale quindi, se competente, può anche concedere uno sconto di pena sull’attuale detenzione. La questione deve essere letta ovviamente non tanto con riferimento alla competenza ma soprattutto con riguardo al merito della tutela cui abbia diritto la persona che si trovi in siffatte condizioni; cioè colui che sia ancora detenuto, ma non più in condizioni inumane, ha diritto alla tutela preventiva (sconto di pena, sulla pena attuale benché ora conforme all’art. 3 Cedu) o alla sola tutela risarcitoria?

La soluzione dipende dall’interpretazione della nozione di “attualità del pregiudizio”, prevista dall’art. 69 comma  6 lett. b che prevede che “il magistrato di sorveglianza… provvede a norma dell’articolo 35-bis sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti: …  b) l’inosservanza da parte dell’amministrazione  di  disposizioni previste dalla presente legge e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o all’internato un  attuale  e  grave  pregiudizio all’esercizio dei diritti”.

Sul punto esiste un vivace contrasto tra i magistrati di sorveglianza (divisi tra i sostenitori della tesi cd. attualista e non attualista), la cui interpretazione determinerà anche la concreta proposizione o meno del ricorso al giudice civile; è infatti ragionevole pensare che colui che sia tuttora detenuto “preferisca” ottenere lo sconto di pena anziché la tutela per equivalente, ove il magistrato di sorveglianza si ritenga competente; in tali casi quindi non vi sarà alcuno spazio per la tutela risarcitoria davanti al giudice civile. Tra coloro che sostengono la tesi attualista, peraltro, prevale l’opinione che l’attualità del pregiudizio debba esistere non solo al momento della domanda ma anche al momento della decisione.

Non è questa la sede per ripercorrere le tappe di tale dibattito, molto acceso.

La tesi non attualista appare probabilmente preferibile, per ragioni sistematiche, letterali e logiche; quanto alle prime, essa sembra meglio rispondere alla ratio delle nuove disposizioni  tendente a ridurre il sovraffollamento e a privilegiare la tutela risarcitoria in forma specifica; concedere ulteriori riduzioni di pena infatti contribuisce. Quanto alle seconde, occorre osservare che la conseguenza della tesi attualista (cioè per cui occorre che il pregiudizio sia ancora in essere per accedere al magistrato di sorveglianza) dovrebbe essere quella di rendere possibile per tali persone, ancora detenute, di adire il giudice civile; ma ciò è espressamente escluso dal comma 3 che prevede che per adire il giudice civile occorre che il ricorrente abbia terminato di espiare la pena in carcere  a meno di non ritenere, appunto, che questi  debba prima aspettare di terminare la detenzione e poi agire. Altro elemento letterale è dato dal fatto che anche il comma 3  richiama l’art. 69 e quindi  l’attualità del pregiudizio, per cui i due richiami in realtà si eliderebbero a vicenda e le norme non avrebbero senso. Infine sembra di ostacolo alla tesi attualista, soprattutto nella sua versione più restrittiva per cui l’attualità occorre anche al momento della decisione, l’idea che così facendo si attribuirebbe ad una delle parti il potere di vanificare l’altrui iniziativa giudiziaria semplicemente spostandolo in altro istituto o comunque eliminando le condizioni disumane nel corso del processo.

3.5. L’altra questione che concretamente si è posta in diversi ricorsi concerne il caso di persone che, dopo la detenzione in carcere, siano state ammesse a misure alternative alla detenzione  che siano ancora in corso; anche in questo caso si pone il dubbio di quale sia la tutela cui abbiano diritto e quale il giudice da adire (giudice civile o ancora magistrato di sorveglianza, connessione con la questione dell’attualità del pregiudizio); l’Avvocatura dello Stato, adita davanti al giudice civile, ha in questi casi eccepito l’ inammissibilità del ricorso per avere diritto il detenuto allo sconto di pena, in quanto pur non trattandosi di detenzione sarebbe ancora pena in espiazione. L’Amministrazione ritiene cioè che in tali casi trattandosi ancora di pena in fase esecutiva il soggetto abbia diritto allo sconto di pena e quindi debba rivolgere la sua istanza al magistrato di sorveglianza. La soluzione della questione dipende in primo luogo dalla nozione di “attualità del pregiudizio” sopra evidenziata. E’ evidente infatti che se si ritiene  che il presupposto per adire il magistrato di sorveglianza sia l’attualità della detenzione non conforme ai canoni dell’art. 3 CEDU,la persona ammessa alla misura alternativa ha diritto solo alla tutela risarcitoria. Ove si ritenga diversamente, si apre però una questione ulteriore e in parte diversa relativa al tipo di tutela risarcitoria (in forma specifica, davanti al magistrato di sorveglianza, o per equivalente davanti al tribunale civile) cui abbia diritto colui che ha terminato, almeno allo stato, la propria detenzione in carcere e sia stato ammesso al regime alternativo per es. alla detenzione domiciliare. Anche sul punto la norma non è chiara; il dato letterale sembrerebbe deporre nel senso che costoro abbiano diritto alla sola tutela per equivalente; il comma 1, laddove parla dello sconto di pena, parla genericamente di pena detentiva; ma il  comma 3 prevede quale unico requisito legittimante il ricorso al giudice civile che la parte abbia terminato di espiare la pena detentiva “in carcere”, facendo quindi espresso riferimento alla detenzione inframuraria. Neutro e compatibile anche con tale ricostruzione appare il passaggio della disposizione laddove prevede che il magistrato di sorveglianza conceda una riduzione della “pena detentiva”.

Infine non appare pienamente condivisibile la preoccupazione manifestata da alcuni commentatori secondo cui così facendo si verificherebbe una paradossale conseguenza nel caso in cui due soggetti correi condannati alla stessa pena tengano in carcere comportamenti diversi, uno accedendo ai benefici premiali e l’altro no; il paradosso consisterebbe nel fatto che solo quest’ultimo, nonostante il suo comportamento, potrebbe beneficiare dello sconto di pena e il primo potrebbe avere solo tutela monetaria. Invero le due situazioni appaiono profondamente diverse in quanto appare evidente che vi è profonda differenza, dal punto di vista dell’afflittività, tra  colui che permanga in carcere e colui che sia ammesso a regime alternativo.

Inoltre  la normativa in esame non ha alcuna finalità premiale ma di escludere o risarcire la permanenza in carcere in condizioni di afflittività aggravata dal sovraffollamento.

3.6. Per quanto concerne gli adempimenti del giudice,non dovrebbero esservi dubbi sul fatto che, benchè si tratti di rito camerale, sull’istanza debba essere attivato il contraddittorio, in quanto si controverte su diritti soggettivi; il giudice emetterà un decreto di fissazione di udienza; non è previsto un termine libero di comparizione predeterminato dal legislatore né è applicabile il termine dell’art. 163 bis c.p.c. I tempi della fissazione sono quindi da decidere dal giudice, caso per caso, a seconda delle esigenze di ruolo; è certo che non si tratta di procedimenti da trattare necessariamente con urgenza, difettando ogni previsione al riguardo.

Il decreto non deve necessariamente essere comunicato al ricorrente, seguendo Cass. S.U. 5701/2014 che nel rito camerale esclude l’obbligo della comunicazione del decreto di fissazione dell’udienza e grava la parte del relativo onere. Ove vi sia l’utilizzazione di Consolle e la presenza di un avvocato costituito il problema peraltro di fatto non si pone.

Il decreto deve essere notificato al Ministro della Giustizia presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato e la costituzione deve avvenire mediante l’Avvocatura dello Stato, non essendo previste deroghe alle regole generali.

3.7. Molte perplessità sono sorte in merito all’effettivo contenuto del ricorso introduttivo e ai requisiti minimi del medesimo onde evitare una pronuncia di inammissibilità; nelle prime esperienze infatti alcuni ricorsi sono apparsi piuttosto scarni nelle loro indicazioni in fatto.

Per valutarne l’ammissibilità, è indispensabile fare riferimento alle norme processuali, in particolare l’art. 125 c.p.c. (“salvo che la legge disponga altrimenti, la citazione, il ricorso, la comparsa, il controricorso, il precetto debbono indicare l’ufficio giudiziario, le parti, l’oggetto, le ragioni della domanda e le conclusioni o la istanza, e, tanto nell’originale quanto nelle copie da notificare, debbono essere sottoscritti dalla parte, se essa sta in giudizio personalmente, oppure dal difensore che indica il proprio codice fiscale”) ma occorre altresì considerare che tale ricorso, per espresso dettato normativo, può essere proposto anche personalmente, senza patrocinio di difensore, specularmente al rimedio del reclamo davanti al magistrato di sorveglianza.

Le situazioni sostanziali in cui la difesa personale è consentita, nel sistema processuale civile e in processi comunque contenziosi, sono probabilmente riconducibili sempre all’esigenza di facilitare l’accesso al giudizio; può trattarsi di pretese di poca rilevanza economica ma laddove ciò non sia necessariamente, per esempio nel processo di opposizione a sanzioni amministrative, la difesa personale è sempre unita alla previsione di significativi poteri officiosi in capo al giudice che potranno sopperire in tal modo alla disparità esistente tra  le parti.

La volontà di consentire quindi la difesa personale, che nel caso di specie probabilmente nasce dalla necessità di facilitare l’accesso alla giustizia, potrebbe essere pregiudicata da  interpretazioni eccessivamente rigorose in merito al contenuto degli atti processuali; una scelta eccessivamente rigida del giudice civile circa il necessario contenuto del ricorso, che non tenga conto di quanto detto, correrebbe cioè il rischio di rendere vana l’introduzione dello strumento risarcitorio e creare disarmonie rispetto all’ammissibilità del reclamo al magistrato di sorveglianza.

Appare quindi necessario che il ricorso faccia riferimento alla data dell’inizio e della fine della detenzione, al luogo o ai luoghi della medesima e anche ai dettagli in merito alle effettive condizioni della stessa che consentano di applicare eventualmente il principio di non contestazione da parte dell’Amministrazione; occorre poi anche fare attenzione a non ritenere clausole di stile il richiamo agli elementi che sono usati dalla stessa CEDU come indicativi della detenzione inumana, cioè le condizioni di sovraffollamento della cella per la presenza di numerosi detenuti, lo spazio ridotto, la presenza del mobilio e formule similari; il contenzioso in esame infatti ha un contenuto tipizzato dal legislatore con il richiamo alla giurisprudenza CEDU, ove sono proprio questi gli elementi fondanti la responsabilità dello Stato. In questo senso Trib. Venezia 8.3.2015 ha ritenuto  sufficiente l’indicazione dei periodi di detenzione in condizioni di sovraffollamento carcerario  e il riferimento al ricorso proposto prima davanti alla  Corte Europea e alla relativa  giurisprudenza.

Il ricorso nasce cioè dalla necessità di introdurre uno strumento di reazione ad uno specifico pregiudizio alla condizione dei detenuti, quello del sovraffollamento; l’oggetto del processo, in altri termini, è dato unicamente dal danno derivante dalla detenzione in condizioni di sovraffollamento; le altre condizioni della detenzione eventualmente denunciate non si profilano come autonome cause di danno ma possono costituire motivo per rafforzare o contrastare il rilievo della limitatezza dello spazio disponibile

In caso di genericità del ricorso, ci si è posti il dubbio circa l’ammissibilità del rimedio dell’art. 164 c.p.c.

Innanzi tutto sembrerebbe possibile ritenere sanato il vizio in caso di costituzione dell’amministrazione che fornisca tutti tali elementi.

In generale, poi, secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. 23.2.2015, n. 3508, in merito alla fase camerale conseguente all’opposizione al rigetto della domanda di indennità ex lege Pinto) ha ritenuto applicabile l’art. 164 c.p.c. proprio con riferimento alla incertezza su petitum e causa petendi e quindi a vizi della editioactionis. Analogamente Trib. Venezia, 20.3.2015 che richiama Cass. 25.10.2011 n. 22153 (che sembrerebbe però riferirsi sì all’applicabilità dell’art. 164 c.p.c. al rito camerale ma con riguardo a vizi della vocatio in ius).

3.8. Altro dubbio processuale attiene alla ipotesi di mancata comparizione delle parti eall’applicabilità degli artt. 181 e 309 c.p.c.

Una costante giurisprudenza ritiene che nei procedimenti in camera di consiglio tali disposizioni non siano applicabili; nel caso di mancata comparizione delle parti all’udienza davanti al giudice, purchè risulti la notifica del ricorso disposta dal giudice, la S.C. afferma che il giudice deve decidere nel merito; la conclusione nasce dal fatto che detti articoli non sono richiamati nel procedimento speciale camerale: Cass. 9930/2005 con riferimento al procedimento di reclamo fallimentare, Cass. 2847/2009 nel reclamo contro il provvedimento ex art. 262 c.c., Cass. 27089/2005 e Cass.  1688/2002 nel procedimento ex art. 30 comma 6 d.lgs. 286/98 in materia di permesso di soggiorno per coesione familiare; Cass. 16884/2012, Cass. 18043/2010, Cass.5238/2011 nel reclamo in tema di protezione internazionale.

Molto spesso l’affermazione della S.C. richiama precedenti conformi ed evidenzia che le regole degli artt. 181 e 309 sono dettate per i procedimenti ordinari; talvolta vi sono delle argomentazioni più puntuali per cui, partendo dalla considerazione che l’ipotesi non è regolata, si precisa che non è prevista neanche l’udienza di comparizione la cui fissazione è rimessa al giudice; celerità delle forme e impulso officioso nello svolgimento deporrebbero nel senso che non possa esistere nel rito camerale un onere maggiore rispetto al rito ordinario, per cui il giudice, anche se la parte convocata non compare, deve decidere nel merito.

Forse tali considerazioni potrebbero essere riviste alla luce di due osservazioni:

–  esse sembrano considerare solo il caso del procedimento camerale vero e proprio, avente ad oggetto affari di volontaria giurisdizione, e non i numerosi casi in cui comunque, per una scelta del legislatore, il rito camerale abbia ad oggetti diritti soggettivi e posizioni contrapposte; nel primo caso, infatti, la comparizione delle parti, non prevista dalla legge,è una scelta del giudice, funzionale ad acquisire informazioni utili alla decisione del merito, per cui appare ragionevole che il giudice debba comunque decidere; nel secondo caso, invece, la fissazione di un’udienza di comparizione delle parti non è una mera eventualità ma un adempimento processuale imposto da principi di valenza costituzionale, quale il principio del contraddittorio; laddove manchino norme che prevedano un impulso officioso, non si vede perché in tali casi l’inerzia della parte debba essere valutata diversamente dal rito ordinario;

–  inoltre tale ordine di considerazioni nasce nell’originaria formulazione dell’art. 309c.p.c.; secondo la stessa, l’inattività delle parti determinava solo una quiescenza del processo (rinvio, cancellazione, estinzione solo su istanza di parte di riassunzione finalizzata all’estinzione) in alternativa alla decisione; dire che il 309 non si applicava al rito camerale significava dire che il giudice doveva decidere; oggi l’art. 309 comporta invece l’automatica estinzione del processo e cioè l’alternativa è tra decisione ed estinzione; l’inerzia è sanzionata con l’estinzione. Si potrebbe quindi forse dire che non può esistere una sanzione, nel rito ordinario, più grave di quella prevista nel rito camerale.

3.9. Quanto all’onere della prova, appare evidente il collegamento con la questione della natura della responsabilità; ove si opti per la tesi della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. il ricorrente ha l’onere di provare tutti i fatti costitutivi della sua pretesa, potendo al più essere agevolato dalla non contestazione dell’amministrazione; nel caso che si consideri la responsabilità come contrattuale da contatto sociale, è invece sul debitore ex art. 1218 c.c. che grava l’onere di provare di aver correttamente adempiuto.

In realtà l’impatto di tale scelta, almeno in termini pratici, appare ridotto da numerose considerazioni.

In primo luogo, in caso di specifica allegazione dei fatti, dovrà funzionare il principio di non contestazione; nella prassi sono emersi alcuni casi limite, come per esempio quello del ricorrente che affermi di essere stato detenuto ma non alleghi alcun documento che attesti neanche questa condizione e l’amministrazione non sia costituita; in realtà sembra che casi siffatti possano essere evitati attraverso un’accorta gestione dell’udienza e l’invito, ex art. 738 c.p.c., al ricorrente, ad integrare la documentazione;

Poi, la ripartizione dell’onere della prova deve anche tenere conto ex art. 24 Cost. della riferibilità o vicinanza dei mezzi di prova.

Il principio di riferibilità o vicinanza dei mezzi di prova è espressamente fatto proprio dalla S.C. (Cass. 17.4.2012 n. 6008) che lo radica nell’art. 24 Cost. ed anche dalla giurisprudenza Cedu proprio nelle controversie inerenti la disumanità del trattamento detentivo; secondo i giudici di Strasburgo la vulnerabilità delle persone interessate che si trovano sotto il controllo esclusivo degli agenti dello Stato induce a non applicare rigorosamente il principio dell’onus probandi e la prova può risultare anche da un insieme di indizi gravi, precisi e concordanti; soprattutto, il Governo è l’unico a dare accesso alle informazioni che possono confermare o infirmare le affermazioni del ricorrente ed è tenuto a fornire documentazione o spiegazioni a sostegno delle sue opposizioni (CEDU, sentenza Torreggiani).

Trattandosi di rito camerale, infine, il giudice ha certamente dei poteri istruttori officiosi, ex art. 738 c.p.c.; tale disposizione prevede che possano essere assunte informazioni ma è invocabile anche l’art. 210 c.p.c., rivolto alla parte, o l’art. 213 c.p.c., con richiesta di informazioni di ufficio; si potrebbe porre il dubbio che trattandosi di un camerale su diritti non si possa, con i poteri istruttori officiosi, alterare la “regola del gioco” ma tale considerazione potrebbe essere superata proprio dalla volontà legislativa di rinviare al rito camerale anziché a forme processuali più rispettose dei principi classici del processo civile.

Concretamente, nella pratica, almeno nei primi ricorsi, l’Amministrazione nel costituirsi ha prodotto dei rapporti inerenti la storia del detenuto, contenenti una serie di indicazioni sia sulla collocazione dello stesso, sia sull’ampiezza dei locali sia infine sul numero dei detenuti in quella determinata cella giorno per giorno.

Peraltro, sempre volendo utilizzare le categorie e gli istituti classici del processo civile, il problema pratico che potrebbe porsi è quello relativo alla presenza di contestazioni su quanto indicato in tali rapporti e quindi del valore da attribuire a quanto riferito dall’Amministrazione e se sia o meno necessaria la querela di falso per superare talune affermazioni. Per esempio, il dato relativo al numero dei detenuti in una determinata cella sembra superabile solo attraverso una querela di falso mentre il dato dell’ampiezza dei locali sembra suscettibile di smentita diversa trattandosi di dati percepiti con il ricorso a misurazioni tecniche.

3.10. La decisione deve essere assunta con decreto con il quale regolare anche le spese di giudizio.

Occorre premettere che l’applicazione del rito camerale non esclude il dovere del giudice di regolare le spese, non essendovi dubbi sul fatto che si tratti di un procedimento camerale su diritti a posizioni contrapposte.

In ordine alla regolamentazione delle spese di giudizio, la compensazione sembrerebbe quindi possibile solo per la novità della questione, altrimenti dovendo valere la generale regola della soccombenza.

Occorre infatti evidenziare che non è possibile ritenere che il giudizio sia in qualche modo”necessitato” (cioè che l’attore debba per forza agire in giudizio per ottenere il risarcimento); infatti nel contenzioso, per molti versi analogo, relativo alla legge Pinto, la S.C. ha ritenuto numerose volte che si applichi comunque sempre la regola della soccombenza non potendosi ritenere che il diritto debba essere soddisfatto solo attraverso il giudizio.

Cass. 1101/2010 (ed analoghe sono Cass. 5123/2015, 18704/2014), infatti, ha cassato la decisione della  Corte di Appello, in punto di compensazione delle spese di lite, fondata “unicamente sul rilievo che l’amministrazione convenuta, non essendosi costituita in giudizio, non ha tenuto un comportamento volto ad ostacolare il riconoscimento del diritto spettante al ricorrente, il cui soddisfacimento non avrebbe potuto essere realizzato se non in via giudiziale”.

La S.C. ha ritenuto non condivisibile tale ultima affermazione, nulla impedendo alla pubblica amministrazione di predisporre i mezzi necessari per offrire direttamente soddisfazione a chi abbia sofferto un danno a cagione dell’eccessiva durata di un giudizio in cui sia stato coinvolto. Ma, anche indipendentemente da ciò, appare chiaro che la mancata costituzione in giudizio della parte convenuta non implica, di per sè, acquiescenza alla pretese dell’attore e, se può in concreto rendere meno dispendioso l’esercizio processuale del diritto di costui, non per questo giustifica che i costi di tale esercizio debbano restare a suo carico. Nè varrebbe, in un simile caso, invocare l’applicazione, in luogo del mero principio di soccombenza, del criterio d’imputazione delle spese processuali a chi al processo ha dato causa. È pur sempre da una colpa organizzativa dell’amministrazione della giustizia che dipende la necessità per il privato di ricorrere al giudice, al fine di conseguire l’indennizzo spettategli per l’eccessiva durata del processo, indipendentemente dal fatto che l’amministrazione convenuta scelga poi di costituirsi o meno nel giudizio di equa riparazione che ne consegue.

Ciò premesso, hanno condannato alle spese Trib. Palermo, 25.3.2015 e Trib. Genova, 3.6.3015 che ha escluso che potesse darsi luogo alla compensazione per scarto elevato tra somma domandata e somma riconosciuta (secondo la nota tesi dell’accoglimento parziale come ipotesi di soccombenza reciproca) evidenziando che ciò dipendeva dalla difficoltà insita nella ricostruzione dei fatti da parte del ricorrente

Hanno disposto la compensazione per novità della questione o controvertibilità della stessa: Trib. Venezia, 25.3.2015, Trib. Palermo, 6.5.2015, Trib. Roma, 30.5.2015;  Trib. Brescia, 9.6.2015, Trib. Catania 15.6.2015, Trib. Caltanissetta 27.6.2015,Trib. Napoli, 7.8.2015.

Ciò premesso, sempre in punto di spese, e particolarmente ai fini dello loro liquidazione (anche ove la parte ricorrente sia ammessa al patrocinio a spese dello Stato),  si potrebbe porre il dubbio se occorra fare riferimento, nell’individuazione dei parametri, alla voce “volontaria giurisdizione” o alle voci relative al processo ordinario (e quindi alle quattro fasi, di studio, introduzione, istruzione, decisione), di cui al d.m. 55/2014.

Si è già avuto modo di evidenziare che appare difficile ritenere che l’oggetto del processo in questione possa considerarsi afferente alla volontaria giurisdizione in quanto, pur camerale, esso ha ad oggetto diritti e posizioni contrapposte, con conseguente necessità di fare riferimento alle voci del contenzioso ordinario, opportunamente considerando, negli aumenti e diminuzioni possibili, la natura più o meno standardizzata del processo.

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