Riducibilità de iure e de facto ergastolo: divieto trattamenti disumani

CLASSIFICAZIONE

ERGASTOLO – DIVIETO TRATTAMENTI DISUMANI O DEGRADANTI – DIRITTO AL RISPETTO VITA PRIVATA E FAMILIARE – CONDIZIONI DETENZIONE – ADEGUATEZZA CURE MEDICHE DURANTE LA DETENZIONE – RIDUCIBILITÀ PENA PERPETUADE IURE E DE FACTO- PROSPETTIVA DI LIBERAZIONE – REVISIONE – AUTORITÀ COMPETENTE

RIFERIMENTI NORMATIVI

CONVENZIONE EDU, artt. 3 e 8

PRONUNCIA SEGNALATA – Corte E.D.U., 12 March 2019, Application no. 41216/13 Petukhov v. Ucraine

Abstract

1. La Corte EDU torna nuovamente sul tema della riducibilità de juree de facto dell’ergastolo, alla luce dell’art. 3 della Convenzione.

Nella causa Petukhov v. Ucraine il ricorrente è un condannato all’ergastolo per crimini gravi posti in essere quale componente di una organizzazione criminale. Egli ha adito la Corte ai sensi dell’art. 34 della Convenzione, lamentando l’irriducibilità della condanna all’ergastolo; l’inadeguatezza dell’assistenza medica ricevuta (questione già esaminata dalla Corte EDU che, con sentenza n. 43374/02 del 21 ottobre 2010, aveva riscontrato la violazione degli artt. 3, 5, 6 e 13); la precarietà delle sue condizioni detentive e, infine, le restrizioni arrecate al suo diritto a ricevere visite familiari in carcere, articolando la domanda con riferimento all’art. 3 (Prohibition of torture) e all’art. 8 della ECHR (Right to respect for private and family life).

VIOLAZIONE ART. 3 ECHR

2. I giudici di Strasburgo hanno riconosciuto la parziale fondatezza delle censure mosse dal ricorrente condannando lo Stato ucraino per la riscontrata violazione dell’art. 3 CEDU.

2.1. Procedendo con ordine, a fronte dell’invocata violazione dell’art. 3 della Convenzione, ai sensi del quale “Nessuno può essere sottoposto a tortura o a trattamenti o punizioni disumane o degradanti”, la Corte EDU, da un lato, ha rigettato la denuncia con cui il ricorrente si doleva delle precarie condizioni detentive presenti in entrambe le prigioni (inadeguata disinfezione delle cellule, cattivo stato del cortile, limitata possibilità di passeggiate all’aperto, scarsa ventilazione ed umidità nelle celle, inconvenienti inerenti alla ristrutturazione dei locali della prigione, stato fatiscente dell’edificio, vetri delle finestre rotti, perdite dal soffitto, videosorveglianza permanente nella cella, scarsa qualità dell’acqua potabile e del cibo) in quanto infondate e non comprovate; dall’altro, ha parzialmente accolto quella con la quale era stato denunciato l’irreversibile peggioramento delle sue condizioni di salute (la questione specifica era stata già demandata il 12 novembre 2002 dal detenuto alla Corte EDU, la quale con sentenza n. 43374/02 del 21 ottobre 2010 aveva riscontrato la violazione degli artt. 3, 5, 6 e 13 della Convenzione per non avere lo Stato assicurato la salute del predetto omettendo di ottemperare agli obblighi connessi a tale esigenza).

2.2. L’art. 3 della Convenzione, ribadisce la Corte richiamando i principi giurisprudenziali in materia, impone allo Stato di proteggere il benessere fisico delle persone private della libertà, fornendo loro un’assistenza medica adeguata alle necessità che si presentano. Nel caso de quo lo stato di salute del ricorrente era stato regolarmente esaminato da vari medici e sottoposto ad esami di screening e di laboratorio. Tuttavia, non erano state predisposte le particolari cure mediche ritenute, nella specie, doverose, né le autorità erano state in grado di assicurare una fornitura regolare ed ininterrotta di farmaci antitubercolari essenziali per un efficace trattamento della malattia. A fronte della riproposta doglianza, la Corte si è nuovamente pronunciata sul punto, ravvisando una violazione dell’art. 3 della Convenzione limitatamente al periodo detentivo dal 3 luglio 2010 in avanti (riconoscendo ai sensi dell’art. 41 della Convenzione i relativi danni, patrimoniale e non, per il difetto di cure appropriate).

3. Anche sull’ulteriore doglianza, relativa alla violazione dell’art. 3 della Convenzione per essere l’ergastolode jure e de factoirriducibile non risultando in alcun modo garantita nei suoi riguardi alcuna possibilità di revisione o prospettiva di rilascio, la Corte ha fornito risposta positiva.

3.1. Il caso ha costituito l’occasione per richiamare i principi già affermati a partire dal noto caso Vinter and Others v. the United Kingdom  [GC, no. 66069/09+130/10+3896/10, ECHR, July 2013] e a seguire anche in Murray v. the Netherlands [GC, no. 10511/10, April 2016] e Hutchinson v. the United Kingdom [GC, no. 57592/08, 17 January 2017].

La Corte ha rammentato, infatti, che la Convenzione non proibisce l’imposizione dell’ergastolo (life sentence) ai condannati per crimini particolarmente gravi, ma perché tale pena sia compatibile con l’art. 3 della Convenzione, essa deve essere <<reducible de iure and de facto>>, nel senso che deve esistere sia una prospettiva di liberazione (a prospect of release), ma anche la possibilità di un riesame (possibility of review) che permetta alle autorità nazionali di verificare se, durante l’esecuzione della pena, il detenuto abbia fatto dei progressi sulla via del riscatto, tali che nessun motivo legittimo relativo alla pena (legitimate penological grounds) permetta più di giustificare il suo mantenimento in detenzione.

3.2. La Corte ha evidenziato l’importanza dell’aspetto rieducativo della pena e della reintegrazione del condannato, fattore che gli Stati membri devono tenere in considerazione nella programmazione delle loro politiche criminali [Khoroschenko v. Russia  (GC) no. 41418/04, ECHR 2015, ma anche Murray citata].

3.3. Quanto ai criteri e alle condizioni previsti dagli ordinamenti nazionali ai fini del riesame, essi devono possedere un sufficiente grado di chiarezza e certezza, per scongiurare il rischio che il procedimento di riabilitazione non sia effettivo. Certezza che, in questo settore, non va intesa solo come corollario del principio di legalità, ma deve informare lo stesso percorso di riabilitazione. Pertanto, i condannati a pena perpetua devono essere messi in grado di conoscere sin dall’inizio ciò che devono fare per riconquistare la libertà e a quali condizioni ciò possa accadere. Il che riguarda anche l’aspetto temporale del riesame della pena.

Sul punto, la Corte ha ribadito quanto già affermato nella sentenza Vinter, cit., constatando, sulla scorta degli elementi di diritto comparato e di diritto internazionale esaminati, come vi sia una netta tendenza in favore della creazione di un meccanismo speciale che garantisca un primo riesame entro un termine massimo di venticinque anni da quando la pena perpetua è stata inflitta, e poi, successivamente, un riesame periodico, pur avendo cura di precisare che deve assicurarsi un margine di apprezzamento agli Stati contraenti in materia di giustizia penale e di determinazione delle pene.

4. Nel caso all’esame, la Corte ha riscontrato la violazione dell’art. 3 della Convenzione, proprio perché i detenuti a pena perpetua in Ucraina possono essere scarcerati solo in due casi (condizioni di salute talmente gravi da impedire la prosecuzione dello stato detentivo, con ripresa della detenzione nel caso di guarigione; o atto di clemenza).

4.1. Quanto alla prima ipotesi, i giudici di Strasburgo hanno ribadito i principi contenuti nella più volte citata sentenza Vinter, rilevando come la liberazione per motivi umanitari non corrisponda a quanto previsto dall’espressione «prospettiva di scarcerazione» (prospect of release) nel senso chiarito in quella sentenza [ma anche in Matiošaitisand Others v. Lithuania,n. 22662/13 + altri sette, Maggio 2017], poiché si tratterebbe di garantire al condannato soltanto di morire a casa o in ospizio, piuttosto che in carcere.

4.2. Anche l’istituto della grazia presidenziale, secondo l’ordinamento ucraino, è stato attentamente esaminato: la procedura è contenuta in un decreto presidenziale e in base ad essa, nell’esame della domanda di grazia, vanno considerati la gravità del crimine commesso, la durata della pena già scontata, il carattere del condannato, il suo comportamento, l’esistenza di un sincero pentimento, il risarcimento o la riparazione del danno causato, nonché le circostanze di tipo familiare o di altra natura. Quanto al procedimento di clemenza, il Regolamento interno dello Stato ucraino prevede che ai condannati per reati gravi o particolarmente gravi o che annoverino due o più precedenti penali per reati commessi con premeditazione, la grazia può essere concessa solo in “exceptional cases” e ove ricorrano “extraordinary circumstances“. In proposito, la Corte ha osservato che i criteri sopra richiamati posso essere utilizzati per valutare l’effettiva sussistenza di legittimi motivi giustificanti il mantenimento dello stato di detenzione (legitimate penological grounds) dei prigionieri, ma non è chiaro se questi siano rilevanti anche per comprendere ciò che i Regolamenti che disciplinano il procedimento di concessione della grazia intendono quando affermano che “alle persone condannate per reati gravi o particolarmente gravi o che hanno due o più precedenti penali in relazione alla commissione di reati premeditati … può essere concessa la clemenza in casi eccezionali e soggetti a circostanze straordinarie”. L’indeterminatezza che ne discende rappresenta un vero e proprio ostacolo per la riabilitazione, poiché impedisce a coloro che sono stati condannati all’ergastolo di conoscere sin dal principio cosa fare al fine di essere rilasciati e a quali condizioni è subordinata la concessione della grazia presidenziale.

4.3. La Corte ha ulteriormente osservato come la procedura di concessione della grazia non richieda, in Ucraina, né alla Commissione competente, né al Presidente, di motivare le decisioni in merito alle richieste ricevute, circostanza, questa, le cui problematiche in termini di trasparenza ben potrebbero venir meno mediante il ricorso ad altri mezzi idonei a garantire la revisione della pena (tra cui, indica esemplificativamente l’obbligo stabilito per la Commissione di tenere conto della giurisprudenza rilevante dei tribunali internazionali o di altri organi sull’interpretazione e applicazione dei diritti umani internazionali in vigore nei confronti dello Stato in questione e di pubblicare regolarmente relazioni di attività che descrivono dettagliatamente l’esame delle richieste di clemenza). Tuttavia, in Ucraina non solo non è stata resa pubblica alcuna informazione di questo tipo, ma all’assenza dell’obbligo motivazionale delle decisioni adottate in merito alle richieste di grazia si affianca l’assoluta mancanza di un controllo giurisdizionale sulle stesse.

5. Alla stregua di tali argomentazioni, i giudici di Strasburgo hanno considerato l’assoluta insufficienza, in tale Stato, di garanzie procedurali capaci di assicurare ai condannati alla pena dell’ergastolo il diritto a una revisione della loro condanna mediante l’ottenimento della grazia presidenziale, definita testualmente “a modern day equivalent of the royal prerogative of mercy“, basata su un principio di umanità, piuttosto che sul riesame in base a legittimi motivi riguardanti la pena e attraverso adeguate garanzie procedurali. Dinanzi ad una politica penale europea che, attualmente, pone sempre più l’accento sulla finalità riabilitativa della pena, anche in caso di ergastolo, e sulla riabilitazione del detenuto a vita (intesa come <<the reintegration into society of a convicted person>>, cfr. Murray v. the Netherlands, GC no. 10511/10 del 26 aprile 2016, §102,ndr), il corrente regime previsto per i condannati a vita in Ucraina nega, secondo la Corte, la possibilità di una riabilitazione laddove la richiesta finalizzata a ottenere la riduzione della condanna potrebbe non essere mai realmente capace di condurre alla commutazione, remissione o sospensione dell’ergastolo o al rilascio condizionale del prigioniero.

6. Si ricorda, per quel che attiene all’ordinamento italiano, che al condannato alla pena dell’ergastolo può essere concessa, in caso di ravvedimento ossia – come inteso dalla giurisprudenza di legittimità – di convinta revisione critica delle pregresse scelte criminali, la liberazione condizionale.

Essa è concedibile decorsi ventisei anni di detenzione, a cui vanno detratti quarantacinque giorni di detenzione per ogni semestre a titolo di liberazione anticipata sempre che il condannato dia prova di partecipazione all’opera di rieducazione.

Ciò comporta la possibilità che la domanda di liberazione condizionale, che è vagliata dal Tribunale di sorveglianza con provvedimento ricorribile per cassazione, sia proposta ben prima del compimento del ventiseiesimo anno di detenzione. Trascorsi cinque anni in liberazione condizionale, e quindi in libertà, senza che sia intervenuta alcuna causa di revoca il condannato all’ergastolo ottiene l’estinzione della pena.

La disciplina appena delineata sembra rispondere ai tradizionali criteri sulla base dei quali la giurisprudenza della Corte EDU, che sono:

–      la riducibilità della pena perpetua attraverso la previsione di meccanismi che consentano, de iure e de facto, la restituzione del condannato alla libertà;

–      e il vincolo di necessaria proporzione rispetto alla gravità del fatto commesso, dato che la pena perpetua è riservata nel sistema interno a reati di spiccata gravità.

Rispetto agli ulteriori parametri individuati dalla giurisprudenza sovranazionale per valutare la compatibilità dell’ergastolo si può ora osservare che il condannato sa fin dall’inizio dell’esecuzione il termine entro il quale potrà chiedere di essere ammesso alla liberazione condizionale; conosce, o è in grado di conoscere, quale è il criterio in forza del quale sarà valutata la sua domanda di liberazione, ossia il ravvedimento sì come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, e sa che la domanda sarà esaminata da un organo giurisdizionale con possibilità di un ricorso effettivo alla Corte suprema. Sin dall’inizio dell’esecuzione è infine posto nelle condizioni di conoscere che l’accoglimento della domanda di liberazione condizionale comporterà la restituzione alla libertà.

6.1. Un pericolo di frizione con detti principi può invece verificarsi per l’altra forma di ergastolo conosciuta dall’ordinamento italiano, il cd. ergastolo ostativo, che interessa i condannati per uno o più delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. che non collaborano con la giustizia e per i quali non può dirsi che la collaborazione sia impossibile o irrilevante, secondo quanto previsto dal comma 1-bis dello stesso articolo. A questa categoria di detenuti è infatti precluso l’accesso alla liberazione condizionale e ad altri benefici penitenziari dal carattere spiccatamente trattamentale come il lavoro all’esterno, i permessi premio e la semilibertà per il fatto che non intendono collaborare con la giustizia e quindi in ragione della presunzione che la mancata collaborazione sia indice dell’assenza di progressi nel percorso rieducativo. La Corte costituzionale ha, sino ad oggi, ritenuto la compatibilità costituzionale di tale forma di ergastolo osservando che non si ha una preclusione assoluta e definitiva di accesso al beneficio della liberazione condizionale, potendo il condannato, con una sua scelta di collaborazione, rimuovere l’ostacolo (v. sentenza n. 135 del 2003).

La Corte EDU ha già dichiarato la ricevibilità di un ricorso relativo alla compatibilità convenzionale dell’ergastolo cd. ostativo, nella causa Viola c. Italia (n. 77633/16). La Corte EDU valuterà in tal modo se la possibilità di liberazione che l’ordinamento interno assicura a quanti collaborano con la giustizia soddisfi o meno i criteri stabiliti dalla sua giurisprudenza per ritenere “riducibile” una pena perpetua. E se, di contro, possa dirsi conforme ai principi convenzionali la non riducibilità dell’ergastolo per il caso in cui il condannato non intenda collaborare, per sua scelta, con la giustizia.

6.2. Recentemente la Corte costituzionale (sentenza n. 149 del 2018) ha dichiarato l’illegittimità di quella particolare forma di ergastolo prevista dall’art. 58-quater ord. pen. per i casi in cui la condanna è pronunciata per i delitti di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione o per sequestro di persona a scopo di estorsione, seguiti dalla morte della vittima. Per tale categoria di condannati la soglia temporale di accesso ai benefici dell’ammissione al lavoro all’esterno, ai permessi premio e alla semilibertà, pur in presenza di una collaborazione con la giustizia o delle condizioni equiparate (collaborazione impossibile o irrilevante), era in ogni caso quella dei ventisei anni, non anticipabile con gli sconti semestrali di liberazione anticipata, invece applicabili per l’accesso alla liberazione condizionale, interessata comunque, ai sensi dell’art. 176, comma terzo, cod. pen., dalla medesima soglia di pena espiata.

Merita di essere menzionato che, dopo la sentenza della Corte costituzionale appena richiamata, laCorte di cassazione, sez. 1, con ordinanza del 20 novembre 2018 n. 57913, ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità riguardante un aspetto della disciplina del cd. ergastolo ostativo, nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, e che non abbia collaborato con la giustizia a norma dell’art. 58ter  ord. pen., possa beneficiare dei permessi premio di cui all’art. 30- ter  ord. pen.

La Corte di cassazione ha a tal proposito rilevato la controvertibilità dell’affermazione che “la cessazione dei legami consortili di un detenuto con il gruppo criminale di riferimento possa essere dimostrata, durante la fase di esecuzione della pena, solo attraverso le condotte collaborative di cui all’art. 58-ter ord. pen.”; ed ha aggiunto che essa non può “assurgere a canone valutabile in termini di presunzione assoluta, a prescindere dalle emergenze concrete”.

Ha poi proseguito osservando “che le ragioni che possono indurre un condannato all’ergastolo ostativo a non effettuare una scelta collaborativa ex art. 58-ter Ord. Pen. non risultano univocamente dimostrative dell’attualità della pericolosità sociale e non necessariamente coincidono con la volontà di rimanere legato al sodalizio mafioso di provenienza”.

LA DECISIONE

7. Nell’irriducibilità della condanna all’ergastolo, i Giudici di Strasburgo hanno, dunque, individuato la sussistenza di un problema sistemico dello Stato membro che richiede l’attuazione di misure di carattere generale ai sensi dell’art. 46 ECHR, poiché, ai fini della corretta esecuzione della presente sentenza, lo Stato convenuto sarebbe tenuto a mettere in atto una riforma del sistema di revisione delle condanne a vita che garantisca l’esame di ogni caso particolare mediante la valutazione dell’effettiva sussistenza di legittimi motivi atti a giustificare il mantenimento della pena e consenta, con un certo grado di precisione, ai detenuti di prevedere cosa fare e a quali condizioni è subordinato il loro rilascio.

7.1. Nell’argomentare l’accoglimento di tale censura, la Corte si è altresì espressa, come accennato, a proposito del meccanismo di riesame, rammentando che il margine di discrezionalità che in materia di giustizia penale e di condanna deve essere assicurato agli Stati contraenti impedisce alla Corte Europea di prescrivere e imporre uno specifico modello revisionale (esecutivo o giudiziario). Ciò nondimeno, per assicurare al reo un’effettiva possibilità di riabilitazione (che, come precisato in sentenza, costituisce per lo Stato un obbligo di mezzi e non di risultati), il riesame dovrebbe comportare motivazioni dei provvedimenti di tipo esecutivo o un controllo giurisdizionale, sì da scongiurare anche solo l’apparenza di forme di arbitrarietà.

8. Per inciso, pare utile precisare che tale affermazione ha costituito oggetto di una specifica critica nella partly dissenting opinion redatta dal giudice Pinto De Albuquerque. Costui, nel richiamare la giurisprudenza della Corte (e, in particolare, il caso Murray v. The Netherlands,n. 10511/10, 26 aprile 2016), ha sostenuto che lo Stato membro ha un obbligo di garantire e salvaguardare l’esistenza di un meccanismo di revisione efficace ed indipendente, soggetto ad un controllo giurisdizionale, completo degli elementi fattuali e legali. Ad avviso del giudice parzialmente dissenziente, nonostante con i casi Hutchinsonv. the United Kingdom (no. 57592/08, 17 gennaio 2017) e Matiošaitis e altri c. Lithuania  (nos. 22662/13 and 7 others, 23 maggio 2017)si sia, in effetti, sfocato il significato dei principi sanciti con la sentenza Murrayv. the Netherlands cui quelle sentenze pure rinviano, privare il detenuto del beneficio della supervisione dei motivi per cui si ritengono sussistenti esigenze esecutive tali da impedire il rilascio del reo, significherebbe restringere notevolmente, se non addirittura privare del tutto, il suo diritto alla riabilitazione.

8.1. Si aggiunge in questa sede per chiarezza che, in Hutchinson v. the United Kingdom, si è esplicitamente affermato che la natura non giudiziale del riesame non è in se stessa contraria ai requisiti dell’art. 3, e ciò sulla scorta della giurisprudenza della stessa Corte di Strasburgo; laddove, in Murray v. The Netherlands, si era invece affermato che – nella misura in cui ciò sia necessario per garantire al condannato di sapere cosa fare per essere considerato per il rilascio e a quali condizioni – può essere richiesto che la decisione sia motivata, ciò che un contrllo di tipo giudiziale potrebbe garantire (in quella sentenza si fa rinvio a  László Magyar v. Hungary, no. 73593/10, 20 maggio 2014, e a Harakchiev and Tolumov v. Bulgaria, nos. 15018/11 e 61199/12, ECHR 2014).

VIOLAZIONE ART. 8 ECHR

9. La violazione è stata dedotta dal ricorrente in relazione alle restrizioni imposte al suo diritto a visite di famiglia. La Corte, tuttavia, non ha ritenuto necessario valutare nel merito la censura, in quanto già pronunciatasi sulle principali questioni giuridiche sollevate con la domanda, richiamando, a titolo esemplificativo, il precedente Centre for Legal Resources on behalf of Valentin Câmpeanu v. Romania  [GC, no. 47848/08, ECHR 2014].

La c.d. Câmpeanu formula

9.1. Tale specifico punto ha costituito oggetto di serrata critica all’interno delladissenting opinionredatta sia dal giudice Kūris che, conformemente, dal giudice Bošnjak.

Costoro, oltre a non condividere il mancato esame della presunta violazione dell’art. 8 CEDU invocata dal ricorrente, hanno rilevato un indiscriminato e, a loro avviso problematico, uso della cd. formula di Câmpeanu. Ritengono, questi giudici, che la Corte può decidere, legittimamente e ragionevolmente, di non esaminare alcune doglianze proposte dal ricorrente per essere le stesse correlate con quelle già in precedenza esaminate solo previa verifica della sussistenza di un prerequisito necessario, ovvero l‘interrelazione fattuale fra le stesse (ciò che il relatore definisce<<an asset and a liability>> per la Corte, a causa del suo arretrato e della tentazione di fare applicazione troppo estesa di tale principio).

9.2. La ratio di tale modus operandi consiste, infatti, nell’assicurare maggiore rapidità e minor dispendio di risorse, in tutti quei casi in cui il contesto di fatto di una denuncia, sovrapponendosi a quello di un’altra, rende del tutto ridondante un nuovo esame di quello che, sostanzialmente, altro non è se non lo stesso reclamo. Qualora, tuttavia, le censure non presentino il medesimo backgroundfattuale, il mancato esame di alcune di queste può essere giustificato solo mediante il ricorso a un criterio ausiliare, quale quello del legame giuridico intercorrente tra le disposizioni della Convenzione invocate.

Secondo il parere reso dai giudici dissenzienti, la Corte incorre in errore nel momento in cui considera la denuncia ai sensi dell’art. 8 CEDU coperta ,a priori, da quella avanzata ai sensi dell’art. 3 CEDU, ciò in quanto tali disposizioni normative non sono considerate sovrapponibili in giurisprudenza, né si trovano in relazione l’una con l’altra quali lex generalis e lex specialis. Gli artt. 3 e 8 della Convenzione rimangono, invero, territori legali separati, ne discende che solo in presenza di circostanze particolari o, meglio, di elementi fattuali comuni che determinino una sovrapposizione delle censure formulate dal ricorrente può, la Corte, astenersi dall’esaminare la medesima situazione fattuale dal punto di vista di tutti gli articoli invocati.

9.3. L’approccio basato sul principio secondo cui le denunce ai sensi dell’art. 3 e dell’art. 8 sollevano questioni giuridiche distinte (del resto, le visite familiari o coniugali sono cosa ben diversa dalle condizioni di detenzione ed irriducibilità della pena) era, ad avviso di questi giudici, radicato nella pratica della Corte, almeno fino all’avvento della formula Câmpeanu, o, piuttosto, fino alla sua applicazione indiscriminata, come accaduto nel caso di specie. In realtà, il giudice Kūris chiarisce come tale formula non sia stata introdotta per la prima volta nel caso che ha dato il nome al modello, poiché ancor prima, precisamente già nel 2012 [con il caso Stanev v. Bulgaria  (GC), no. 36760/06, ECHR 2012], l’esame delle “principali questioni giuridiche” veniva dedotto dalla Corte affinché questa potesse essere assolta dalla necessità di esaminare alcune delle ulteriori questioni. Tuttavia, ciò avveniva sempre e solo se le denunce ai sensi degli articoli 3 ed 8 CEDU erano correlate tra di loro per effetto del medesimo contesto fattuale di riferimento.

9.4. Dal 2014 in poi, il ricorso alla richiamata formula è, però, divenuto sempre più frequente tanto che è diventato quasi naturale nonché rituale l’utilizzo dell’espressione “non c’è bisogno di esaminare” in tutti i casi in cui la Corte ritiene di aver già affrontato alcune “questioni giuridiche” principali, come nel caso in esame. Secondo il parere espresso nella dissenting opinion, qualora la giurisprudenza della Corte dovesse proseguire verso tale direzione si rischierebbe non solo di elidere l’onere motivazionale e decisionale espresso dall’art. 45 CEDU a vantaggio di autocitazioni meccaniche, acritiche ed indiscriminate di una formula che non è affatto universale, ma si livellerebbero, altresì, quei ricorsi aventi un numero maggiore di accuse con quelli che ne contengono di meno. Ulteriormente, secondo i giudici dissenzienti, la maggioranza, etichettando bruscamente le questioni giuridiche già esaminate nel presente caso come “principali” avrebbe efficacemente classificato,a contrario, le questioni derivanti dalla denuncia di cui all’articolo 8 come “non principali”.