Riflessioni sul tema “Magistratura e Politica”

Note sul ricollocamento dei magistrati, alla luce della proposta di legge intitolata "Disposizioni in materia di candidabilità, eleggibilità e ricollocamento dei magistrati in occasione di elezioni politiche e amministrative nonché di assunzione di incarichi di governo nazionale e negli enti territoriali. Modifiche alla disciplina in materia di astensione e ricusazione dei giudici" (Atti parlamentari, Camera dei deputati n. 2188, testo approvato il 30 marzo 2017 e trasmesso dal Presidente della Camera dei deputati alla Presidenza del Senato il 4 aprile 2017).

Partecipazione attiva alla vita politica

Non può non condividersi il rigoroso limite, segnato dalla proposta di legge, di demarcazione tra le funzioni giurisdizionali e l’attività di rappresentanza politica o di governo.Fermo il diritto anche dei magistrati di partecipare alla vita pubblica per il progresso dello Stato, secondo l’art. 51 della Costituzione (“tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”), non v’è dubbio che l’esigenza di siffatta linea di demarcazione affondi le sue radici nella necessità di evitare un duplice rischio.Da un lato, che il ruolo e le prerogative esercitati come rappresentanti dell’ordine giudiziario influiscano sulla libera formazione del consenso elettorale tra i cittadini (che vi sono, vi sono stati o vi saranno sottoposti), alterando l’equilibrio della competizione democratica.Dall’altro  che l’impegno politico, per l’inevitabile adesione a progetti politici, espressione di giudizi di valore per loro natura opinabili, per la conseguente partecipazione al dibattito pubblico ed al confronto dialettico, anche aspro, su questioni ideologiche, ma anche sulle concrete scelte reputate utili da compiere sulle più varie questioni amministrative, sociali, economiche, finanziarie,  finisca per appannare, nell’ambito della comunità di riferimento, l’immagine di imparzialità, autonomia ed indipendenza di cui la funzione giurisdizionale deve godere per mantenere la legittimazione ed il consenso sociale indispensabili per il suo effettivo democratico dispiegamento.

L’adeguato bilanciamento tra il diritto individuale del magistrato ad offrire il proprio contributo al tessuto delle istituzioni democratiche di rappresentanza politica e di governo e la necessità di garantire che tale partecipazione avvenga nel rispetto dei valori di integrità della selezione politica e della funzione giurisdizionale, passa dunque attraverso lo strumento operativo costituito dalla disciplina delle concrete modalità e condizioni a cui il rappresentante dell’ordine giudiziario può avere accesso ad incarichi politici. Del resto, come sancito dalla Corte Costituzionale “le funzioni esercitate e la qualifica rivestita dai magistrati non sono indifferenti e prive di effetto per l’ordinamento costituzionale (sentenza n. 100 del 1981). Per la natura della loro funzione, la Costituzione riserva ai magistrati una disciplina del tutto particolare, contenuta nel titolo IV della parte II (artt. 101 e ss.): questa disciplina, da un lato, assicura una posizione peculiare, dall’altro, correlativamente, comporta l’imposizione di speciali doveri” (cfr. Corte costituzionale n. 224/2009).La fatte premesse impongono di guardare dunque  con favore alla introdotta regola per cui, indipendentemente dalla localizzazione dell’ente territoriale e dalla modalità di accesso alla funzione amministrativa (elezione o designazione per svolgere le funzioni di sindaco, presidente della Regione, consigliere ovvero assessore comunale,  e regionale) ad essa debba, sempre e comunque, seguire il collocamento in aspettativa del magistrato.

Ad oggi, infatti, per le cariche politiche e/o amministrative presso enti locali territoriali, la legge vigente non prevedeva aspettativa obbligatoria e, conseguentemente, i magistrati potevano assumere incarichi politico-amministrativo-elettivi presso gli enti locali territoriali quali quelli di sindaco, presidente della regione, consigliere comunale e regionale, presidente o consigliere circoscrizionale o l’incarico di assessore, proseguendo contemporaneamente l’esercizio delle funzioni giurisdizionali con il solo limite della diversità degli ambiti territoriali.La descritta contestualità funzionale era sicuramente in grado di inquinare l’immagine del magistrato che operava contemporaneamente in due settori della vita pubblica tanto diversi e ontologicamente alternativi; indispensabile quindi era l’introduzione con legge ordinaria di un meccanismo – del tutto analogo a quello già vigente per la candidatura e l’eventuale successiva elezione alla Camera dei Deputati ed al Senato della Repubblica – in forza del quale il magistrato, all’atto dell’accettazione della candidatura nonché durante l’espletamento di tutto il mandato, debba necessariamente trovarsi in aspettativa, con conseguente collocamento fuori ruolo.Nella medesima prospettiva ed allo stesso fine si plaude all’intervento che, sempre a salvaguardia dell’immagine di autonomia ed indipendenza della funzione giurisdizionale, impedisce che un magistrato si proponga come amministratore attivo nel medesimo territorio nel quale, senza soluzioni di continuità, ha appena svolto attività giurisdizionali, rischiando in tal modo di creare un’oggettiva confusione di ruoli e di funzioni, di per sé idonea ad appannare l’immagine di imparzialità.Il transito diretto, nello stesso contesto umano e materiale,dalle funzioni giudiziarie a quelle politiche rischia di gettare un’ombra di strumentalità all’esercizio pregresso delle prime, nonché legittima la preoccupazione che i titolari di poteri pubblici si avvalgano dei “poteri connessi alla loro carica per influire indebitamente sulla competizione elettorale, nel senso di alterare la par condicio fra i vari concorrenti attraverso la possibilità di esercitare una captatio benevolentiae o un metus publicae potestatis nei confronti degli elettori” (Corte Cost. n. 5 del 1978; n. 344 del 1993).

Le misure previste sembrano dunque idonee a realizzare quel bilanciamento auspicato tra le diverse istanze coinvolte in termini equilibrati e soddisfacente. Del resto con riguardo alla garanzia di cui all’art. 51 Cost. non può che ribadirsi che siffatta norma che riafferma il principio di eguaglianza fra tutti i cittadini per l’ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, rinvia tuttavia alla legge ordinaria per la determinazione dei requisiti necessari per l’accesso alle une e alle altre. Sul punto ha rilevato la Corte costituzionale nella sent. n. 178/1982, con specifico riguardo ad una questione relativa alla conformità a Costituzione dell’art. 8, secondo comma, d. P.R. 30 marzo 1957 n. 361, secondo cui i magistrati che candidati e non eletti non possono esercitare per un periodo di cinque anni le loro funzioni nella circoscrizione nei cui ambito si sono svolte le elezioni:

«[…] è proprio per effetto di tale rinvio che il legislatore ha fissato nelle varie leggi i requisiti attitudinali necessari e, in particolare, le cause di ineleggibilità , che sono state ritenute da questa Corte pienamente legittime se contenute entro limiti razionali».

Più in generale, la fondamentalità/inviolabilità di un diritto costituzionale non esclude che esso possa essere oggetto di limitazioni, previste dalla legislazione con riguardo a singoli casi, purché queste siano dettate dall’esigenza di tutelare altri diritti o di dare concretezza a princìpi di rango costituzionale, e purché tali limitazioni ripettino il canone di ragionevolezza. A tal proposito può citarsi una decisione recente della stessa Corte costituzionale – la sent. n. 85/2013 – relativa al “caso Ilva” ma contenente, in motivazione, argomentazioni di portata generale, secondo le quali:

«Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona.

Se si tiene, dunque, a mente la struttura costituzionale della magistratura, così come desumibile dal Titolo IV, Parte Seconda della Carta repubblicana, l’imprescindibile garanzia dei diritti di libertà dei magistrati deve inscriversi nella prospettiva dischiusa dalla necessità del ragionevole bilanciamento tra le libertà stesse ed i princìpi costituzionali dell’autonomia e  dell’indipendenza della magistratura da ogni altro potere, nonché della terzietà, imparzialità ed indipendenza di ogni singolo appartenente al potere giudiziario (artt. 101, 104 e 111 Cost.). Tanto in linea con un’altra decisione della Consulta relativa alla libertà di manifestazione del pensiero dei magistrati,  la sent. n. 100/1981:

«I magistrati, per dettato costituzionale (artt. 101, comma secondo, e 104, comma primo, Cost.), debbono essere imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità nell’adempimento del loro compito.I principi anzidetti sono quindi volti a tutelare anche la considerazione di cui il magistrato deve godere presso la pubblica opinione; assicurano, nel contempo, quella dignità dell’intero ordine giudiziario, che la norma denunziata qualifica prestigio e che si concreta nella fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria e nella credibilità di essa».

Con specifico riguardo ai diritti fondamentali legati alla partecipazione attiva alla vita politica, va poi menzionato l’art. 98 Cost., noma che – in deroga agli artt. 18 e 49 della stessa Carta –  autorizza il legislatore a stabilire limitazioni al diritto di iscriversi a partiti politici per alcune categorie di funzionari, tra cui i magistrati. Con specifico riferimento a questi ultimi, è stato autorevolmente evidenziato come la previsione miri «a dare paradigmatica evidenza ad un dovere di imparzialità che grava naturalmente sul magistrato in ogni momento della sua vita professionale e coinvolge anche il suo operare da semplice cittadino» (G. Silvestri, Giustizia e giudici nell’ordinamento costituzionale, Torino, 1997, 148).

Di recente, la Corte costituzionale si è soffermata sull’art. 98 Cost. nella sent. n. 224/2009, con cui ha respinto le censure di costituzionalità sull’art. 3, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 25 febbraio 2006, n. 109, che configura quale illecito disciplinare l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici ovvero il coinvolgimento nelle attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario che possono condizionare l’esercizio delle funzioni o comunque compromettere l’immagine del magistrato.In tale occasione, la Consulta ha precisato che:

«la Costituzione, quindi, se non impone, tuttavia consente che il legislatore ordinario introduca, a tutela e salvaguardia dell’imparzialità e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario, il divieto di iscrizione ai partiti politici per i magistrati: quindi, per rafforzare la garanzia della loro soggezione soltanto alla Costituzione e alla legge e per evitare che l’esercizio delle loro delicate funzioni sia offuscato dall’essere essi legati ad una struttura partitica che importa anche vincoli gerarchici interni».

Ed ancora, al fine di escludere che la norma ora richiamata entri in contraddizione con il diritto di elettorato passivo spettante ai magistrati,  la Corte ha sottolineato che:

«un conto è l’iscrizione o comunque la partecipazione sistematica e continuativa alla vita di un partito politico, altro è l’accesso alle cariche elettive [….] « e, comunque, quel diritto non è senza limitazioni». (c.vo aggiunto).

Ricollocamento in ruolo

Le considerazioni sin qui svolte pongono parimenti in luce la centralità del tema relativo alle regole del ricollocamento in ruolo dei magistrati che abbiano partecipato, senza successo, ad una competizione elettorale o che, al contrario, siano stati eletti, così come dei magistrati che abbiano ricoperto incarichi politico-amministrativi di natura non elettiva.E’, infatti, evidente come, pure in questa fase, possa da un lato determinarsi una situazione di scarsa serenità nell’esercizio della funzione giudiziaria per il magistrato che, avendo appena concluso una esperienza politica o di gestione amministrativa, si possa trovare ora a decidere su ambiti di interessi o (anche su) questioni politiche che, a quella esperienza, possano in qualche modo collegarsi o riferirsi; e che, dall’altro lato, ciò possa causare quell’appannamento dell’immagine di imparzialità che rappresenta un inaccettabile vulnus alla sua legittimazione politica e culturale nei confronti dei cittadini, in nome dei quali la giustizia è amministrata.
E se è evidente come una regolamentazione di questo delicato momento che intendesse privilegiare nettamente le istanze connesse alla tutela della imparzialità delle funzioni giudiziarie (ovvero dell’immagine di essa), dilatando le limitazioni connesse alla riassunzioni delle funzioni giudiziarie, potrebbe, di fatto, condizionare in maniera forte l’esercizio dei diritti di partecipazione del magistrato, costituendo un potente disincentivo all’assunzione dell’incarico è parimenti evidente che tanto non possa se non cedere il passo e rimanere sub valente a fronte delle superiori e generali istanze.

Peraltro, anche allo stato dell’arte i magistrati  “scesi in politica” si contano sulle dita di due mani (6 i parlamentari, italiani e europei; 2 i sottosegretari; 2 gli amministratori locali). Quanto alle commissioni Giustizia delle Camere sono 3 al Senato, su un totale di 24 senatori, e 2 alla Camera, su 45 deputati. In netta minoranza rispetto agli avvocati, che nelle commissioni Giustizia di Palazzo Madama e Montecitorio sono, rispettivamente, 11 e 27 (gli altri componenti sono giornalisti, insegnanti, professori delle più svariate discipline).

Ciò posto, andando nello specifico alla disciplina del ricollocamento dei magistrati, va segnalato che per i magistrati candidati non eletti le scelte possibili sono varie e tutte oggetto di valutazione politica.Innanzitutto, si osserva che potrebbe creare problemi la disposizione secondo cui  il magistrato non possa essere assegnato ad un ufficio “nella circoscrizione elettorale in cui ha presentato la candidatura”.Tuttavia, per come è formulata la norma, il magistrato potrebbe tornare ad esercitare le funzioni nella sede di originaria appartenenza!Avverrebbe perciò che il magistrato deve candidarsi in sede diversa da quella del suo più recente ufficio, ma potrebbe tornarvi subito dopo la sua mancata elezione.Quanto al ricollocamento dei magistrati eletti si osserva che il testo della proposta di legge in itineredetta regole differenti, a seconda che la carica da cui i magistrati sono cessati sia nazionale (o europea) ovvero riguardi il livello sub-nazionale.Secondo l’attuale stesura dell’art. 6, i magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, eletti al Parlamento europeo o al Senato della Repubblica o alla Camera dei deputati, qualora non abbiano già maturato l’età per il pensionamento obbligatorio, sono tenuti ad optare per una delle seguenti ipotesi: a) essere ricollocati in ruolo presso gli uffici della Corte di cassazione e della procura generale presso la Corte di cassazione, avendone i requisiti, o in un distretto di corte di appello diverso da quello in cui è compresa, in tutto o in parte, la circoscrizione elettorale nella quale sono stati eletti, con il divieto di ricoprire, per il periodo di tre anni, incarichi direttivi o semidirettivi e, in ogni caso, con il vincolo di esercitare funzioni giudicanti collegiali nel corso del medesimo periodo di tre anni, anche in caso di trasferimento ad altro ufficio. I magistrati già in servizio presso la Corte di cassazione, il Consiglio di Stato, la Corte dei conti centrale e la Corte militare d’appello, nonché presso le rispettive procure generali e presso la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, possono essere ricollocati presso l’ufficio di provenienza, con il divieto di ricoprire incarichi direttivi o semidirettivi per un periodo di tre anni; b); essere inquadrati nell’Avvocatura dello Stato, secondo quanto previsto dal regolamento cui rinvia la stessa legge, con il divieto di ricoprire incarichi direttivi o semidirettivi per un periodo di tre anni; c) essere inquadrati in un ruolo autonomo del Ministero della giustizia, secondo quanto previsto dal regolamento. Le richieste relative a tali opzioni, a pena di decadenza dall’impiego, devono essere presentate entro sessanta giorni dalla data di cessazione del mandato ed il magistrato decaduto dall’impiego si considera cessato dall’ordine giudiziario a seguito di dimissioni.Tali disposizioni si applicano anche ai magistrati nominati Presidente del Consiglio dei ministri, vicepresidente del Consiglio dei ministri, ministro, viceministro, sottosegretario di Stato, alla cessazione dall’incarico (art. 7, c. 1)Diversa, come si diceva, si presenta la disciplina per i magistrati eletti alla carica di presidente della Regione, sindaco, consigliere regionale, consigliere comunale o circoscrizionale (art. 9, c.1): per questi, infatti, non è contemplato l’obbligo di opzione tra le diverse possibilità alternative prima viste, risultando invece previsto soltanto un mix tra limiti territoriali e limiti funzionali. Essi, infatti, una volta cessati dal mandato non possono, per i successivi tre anni, prestare servizio in un distretto di corte di appello in cui è compresa, in tutto o in parte, la circoscrizione elettorale nella quale sono stati eletti e non possono esercitare funzioni inquirenti. Una volta ricollocati in ruolo, tali magistrati non possono, in ogni caso, ricoprire incarichi direttivi o semidirettivi per un periodo di tre anni.Tali disposizioni si applicano anche ai magistrati cessati dalla carica di presidente della provincia, di consigliere provinciale, di sindaco metropolitano o di consigliere metropolitano, avendo riguardo ai distretti di corte di appello in cui è compreso, in tutto o in parte, il territorio della provincia o della città metropolitana, nonché ai magistrati nominati assessore regionale, sottosegretario regionale o assessore comunale (artt. 9, c. 2 e 7, c.2)[1].Ora, ci si deve chiedere se sia ragionevole distinguere, come si è ora visto, in ragione della natura nazionale (o europea) ovvero locale della carica ricoperta. Per un verso, va infatti tenuto presente che, per quanto riguarda i mandati elettivi, la risalente e tralaticia distinzione tra elezioni politiche (nazionali) ed elezioni amministrative (locali) è stata da tempo messa in discussione, in ragione della natura politica dell’autonomia riconosciuta dalla Costituzione agli enti locali. Per  altro verso, sovente i mandati elettivi o gli incarichi di governo a livello locale implicano il coinvolgimento degli eletti o degli incaricati in seno a forze politiche le quali altro non sono che mere articolazioni territoriali di quelle presenti ed operanti a livello nazionale. In altre parole, la circostanza che l’attività politica si sia svolta a livello locale produce una trasformazione del magistrato in “uomo di parte” agli occhi dell’opinione pubblica non meno evidente (e, per certi versi, preoccupante) di quella che si determina quando la medesima attività sia svolta a livello nazionale (o europeo).Una disciplina costituzionalmente orientata del ricollocamento dei magistrati dovrebbe dunque tenere conto che anche con riguardo alle cariche locali il problema non è soltanto scongiurare l’eventualità che – citando la già ricordata sent. n. 178/1982 della Corte costituzionale – i «rapporti della più diversa natura (di amicizia, di contrapposizione, di riconoscenza, di risentimento, ecc.)» quali in genere si instaurano durante un mandato o un incarico di natura politica, finiscano per influenzare illegittimamente le decisioni che il magistrato potrebbe assumere, se restasse nel “territorio” in cui ha condotto l’attività politica, e/o se tornasse a svolgere nell’immediato funzioni inquirenti. Tale obiettivo resta certo fermo, ma esso si affianca a quello, da considerarsi primario, di salvaguardare l’indipendenza e l’imparzialità dei magistrati agli occhi di tutti i cittadini, e non solo di quelli che vivono e operano in quel particolare “territorio”. Nell’opinione pubblica potrebbero, infatti, riscontrarsi difficoltà oggettive a considerare come terzo ed imparziale un magistrato – pur quando non svolga funzioni inquirenti  – che abbia militato ed operato sistematicamente in favore di una particolare forza politica, da eletto o da incaricato, quale che sia l’area del Paese in cui tale attività politica sia stata svolta. Ciò, a maggior ragione qualora il magistrato abbia operato in una determinata parte del territorio, ma sotto le insegne locali di un partito attivo (anche) a livello nazionale.Da qui una prima conclusione: quando i magistrati si presentano sulla scena pubblica come organicamente schierati con una delle parti politiche attive sulla scena istituzionale – nazionale o locale: poco importa, ammesso che sia sempre possibile distinguere nettamente i due piani – viene minata la loro credibilità – o come, suole dirsi, la loro immagine – quali organi indipendenti ed imparziali. Di riflesso, viene perciò appannata anche l’autonomia e l’indipendenza da ogni altro potere (ed, in specie, dal potere politico) dell’intera magistratura.

Sembrerebbe inevitabile, a questo punto, auspicare che anche ai magistrati eletti negli enti territoriali ed a quelli che siano cessati da un incarico di governo locale venga estesa la disciplina prevista dal citato art. 6 per il ricollocamento di quelli eletti al Parlamento nazionale o a quello europeo: disciplina che – lo si è visto –  la stessa legge riferisce anche ai magistrati che abbiano ricoperto un incarico di governo a livello nazionale. Tale approdo condurrebbe ad una disciplina omogenea ed ispirata da una logica univoca per il ricollocamento di tutte le “categorie” di magistrati prese in considerazione dalla proposta di legge, superandosi perciò la differenziazione attualmente prevista, che – come si è tentato di mostrare – presenta profili di irragionevolezza, trattando in modo diverso situazioni assimilabili, in contrasto con l’art. 3 Cost.

La possibile collocazione a richiesta presso la Corte di Cassazione ci vede poi radicalmente contrari. Infatti, la Corte di Cassazione, anche per la funzione di nomofilachia che svolge, richiede precisi requisiti professionali per accedervi e non sarebbe tollerabile alcuna collocazione presso di essa preferenziale rispetto alla procedura concorsuale prevista per gli altri magistrati che senza soluzione di continuità hanno svolo funzioni giurisdizionali.

Va tuttavia detto che anche la disciplina dettata dall’art. 6 non convince.In un suo recente scritto, G. Silvestri (Politica e giurisdizione, in AA.VV., Unità della scienza giuridica. Problemi e prospettive, Napoli, 2016, 125.), ha affermato che «sarebbe ora di approvare una legge che impedisca ai magistrati che hanno fatto il loro ingresso nella vita politica, presentando la propria candidatura in competizioni elettorali o, ancora di più, dopo aver svolto funzioni istituzionali di tipo politico (parlamentare, sindaco, ministro, etc.), di tornare a esercitare funzioni giudiziarie […]. Esistono molteplici possibilità di utilizzare esperti di diritto in vari rami dell’amministrazione pubblica a cominciare, ad esempio, dall’Avvocatura dello Stato». Tale conclusione, a prima vista, può sembrare troppo drastica e, perciò, irragionevole.Essa, tuttavia, non appare più tale se, per un verso, si tiene conto della circostanza che «nello Stato di diritto moderno, le norme costituzionali creano una categoria di soggetti istituzionali, i giudici, dotati del massimo di indipendenza, cui attribuire la tutela di quegli interessi fondamentali che si vogliono sottrarre alla faziosità della politica» (G. Silvestri, ibidem, 124). E se, per l’altro, si considera al tempo stesso che, proprio perché questa indipendenza particolarmente guarentigiata non è fine a se stessa, ma è strumentale alla tutela di tali interessi fondamentali – in primis, la tutela dei diritti dei cittadini –  essa può essere vista anche come un dovere per gli stessi magistrati, in quanto “duro privilegio”, secondo l’icastica definizione che ne ha dato Piero Calamandrei nell’Elogio dei giudici scritto da un avvocato.Non è questa, però, la soluzione sposata dall’art. 6 del testo in esame, che obbliga sì i magistrati a prendere in considerazione il ricollocamento presso l’Avvocatura dello Stato o anche presso il Ministero della Giustizia, ma considera queste come destinazioni eventuali, opzionabili dagli stessi magistrati unitamente a quella che consente, sia pure con i temperamenti prima visti, il ritorno alle funzioni giurisdizionali.Ora, una soluzione siffatta, pur apparendo meno rigida – e quindi, più “mite” – di quella che suggerirebbe in via esclusiva l’obbligo di ricollocazione presso l’Avvocatura dello Stato e/o il Ministero della giustizia (o, eventualmente, altra amministrazione), non bilancia ragionevolmente i molti diritti e princìpi in gioco e collide con quanto affermato dalla Corte costituzionale nella già citata sent. n. 224/2009:

«nel disegno costituzionale, l’estraneità del magistrato alla politica dei partiti e dei suoi metodi è un valore di particolare rilievo e mira a salvaguardare l’indipendente ed imparziale esercizio delle funzioni giudiziarie, dovendo il cittadino essere rassicurato sul fatto che l’attività del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, non sia guidata dal desiderio di far prevalere una parte politica».

Non vi può essere spazio per il compromesso e l’unica  soluzione che possa armonizzarsi con la struttura costituzionale della magistratura e bilanciare le libertà stesse ed i princìpi costituzionali dell’autonomia e  dell’indipendenza della magistratura da ogni altro potere, nonché della terzietà, imparzialità ed indipendenza di ogni singolo appartenente al potere giudiziario è la cessazione dall’attività giudiziaria, la quale unica tra le funzioni pubbliche comporta l’onere di assumere, anche sotto il profilo dell’apparenza, la veste dell’imparzialità.

Non esiste diritto costituzionale fondamentale o inviolabile che non possa essere oggetto di limitazioni nella prevalente esigenza di di tutelare altri diritti o di dare concretezza a princìpi di rango costituzionale, nel rispetto del canone di ragionevolezza.La tutela è e deve essere sistemica e non frazionata e l’indipendenza della magistratura da ogni altro Potere dello Stato deve prevalere su ogni altro diritto pure spettante al singolo magistrato. La necessità che l’impegno in politica dei magistrati, cioè la loro partecipazione diretta alla attività dei partiti e l’impegno nelle competizioni politico elettorali internazionali, nazionali o locali, ovvero, ancora, la assunzione di cariche politiche all’interno delle istituzioni del governo, nazionale o locale comporti il loro abdicare all’esercizio delle funzioni giurisdizionali è cogente anche in ragione della recente evoluzione del ruolo della giurisdizione nelle società contemporanee. E delle relative implicazioni sul piano delle relazioni istituzionali, ed in particolare dei rapporti tra politica e magistratura.

Peraltro, la questione si presenta molto complessa per il ricollocamento di chi è stato eletto in organi politici di livello nazionale, poiché non è possibile una ricollocazione in “ambiti” nei cui confronti l’eletto non abbia esercitato le sue funzioni politiche.L’ordinamento democratico italiano, come gli ordinamenti di altri paesi dell’occidente avanzato, vive un momento di grande trasformazione.Oggi, la giurisdizione è fisiologicamente chiamata ad intervenire in settori nuovi e a risolvere conflitti sociali di particolare significato. La sempre maggiore complessità dell’esistente, dovuta anche alla evoluzione scientifica e alla globalizzazione dei rapporti sociali ed economici, porta la magistratura ad essere la prima istituzione ad incontrare soggetti e interessi nuovi alla ricerca di una legittimazione.Accade ad esempio sui terreni della libertà di religione, delle questioni eticamente sensibili o dei diritti fondamentali, quali la condizione dei migranti e il diritto di asilo. In altri termini, nei momenti in cui il legislatore non è tempestivo nelle sue determinazioni, i soggetti e gli interessi nuovi vanno alla ricerca di un altro varco istituzionale. Lo trovano proprio nella magistratura, data la sua natura di potere diffuso con l’obbligo di non denegare giustizia.Inoltre, da tempo, la magistratura è in prima linea là dove terrorismo, corruzione e crimine organizzato diventano grandi fenomeni sociali. Il progressivo allargarsi dell’azione pubblica ha fisiologicamente dilatato il controllo di legalità sulle attività politico-amministrative e su chi direttamente le gestisce. Di tal che, sempre più spesso, l’esercizio della azione penale finisce per condizionare le dinamiche finanziarie, industriali e politiche del nostro paese.Tali considerazioni, attinenti alla evoluzione del ruolo della giurisdizione registratasi dall’immediato dopoguerra ai giorni nostri, si coniugano con l’evoluzione del nostro sistema politico-istituzionale avvenuto negli ultimi decenni. La “crisi della rappresentanza” dei partiti ha portato alla affermazione di leadership personali o di partiti carismatici formati non su un programma ma sulla figura e il richiamo mediatico del candidato di turno. In questo contesto, a partire dagli anni novanta, si inserisce una ulteriore peculiarità. Gruppi politici, in crisi di autorevolezza, cercano magistrati noti al pubblico per le indagini svolte o incarichi di prestigio ricoperti per candidarli ad assemblee elettive o affidargli incarichi di governo, spesso nel tentativo di lanciare segnali rassicuranti a comunità segnate da forme varie di illegalità. L’operazione è, peraltro, agevole in competizioni dove “liste bloccate” o “chiamate dirette” sono nelle mani dei leader politici, locali o nazionali. Certo, non sempre la “cooptazione” ha le stesse ragioni. Ma, in ogni caso, certe operazioni pongono la questione del come garantire una effettiva e visibile separazione tra giustizia e politica e quindi di individuare le condizioni affinché certe opzioni del singolo magistrato non danneggino la credibilità della intera giurisdizione.E’ ineludibile aggiornare le “chiavi di lettura dell’esistente” e dare priorità assoluta all’esigenza di preservare, in uno all’indipendenza ed all’imparzialità dell’esercizio della giurisdizione, l’immagine e la credibilità complessiva della magistratura.

E’, pertanto possibile ritenere, sulla scorta di un’interpretazione costituzionalmente orientata, che il ricollocamento in ruoli diversi da quelli della magistratura ordinaria non contrasti con la previsione di cui all’art. 51 comma 3 Cost. secondo cui “chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto (…) di conservare il suo posto di lavoro”.Si potrebbe quindi addivenire ad una interpretazione del precetto di cui all’art.51 comma 3 Cost., fondata su una lettura più ampia del concetto di “posto di lavoro”.La tutela costituzionale della permanenza del posto di lavoro può essere attuata anche con l’attribuzione di una funzione pubblica diversa, purchè equivalente sotto il profilo della responsabilità, del livello retributivo e del prestigio professionale, quali il collocamento nei ruoli dell’Avvocatura dello Stato o dell’alta Amministrazione.

Né convince la proposta dell’Organo di Autogoverno formulata in seno alla risoluzione adottata sul tema secondo cui si potrebbe differenziare i casi e assicurare la garanzia del mantenimento delle funzioni pubbliche specifiche esercitate prima dell’impegno politico nella misura in cui per qualità, quantità e durata di esso non sembri essere stato reciso il legame culturale e professionale con l’attività giurisdizionale e prevedere il ricollocamento in ruoli diversi allorquando l’allontanamento sia stato radicale e persistente tanto da fare perdere al singolo la traccia intellettuale dell’impegno nella giurisdizione, vanificando irreversibilmente il relativo bagaglio professionale -tanto da far venire in dubbio la stessa utilità pratica di un apporto professionale tecnicamente ormai destrutturato.

Al di là di ogni questione problematica che pure si affaccia in merito ad una compatibilità con una visione costituzionalmente orientata di diversificazioni di questa fatta, lo snodo fondamentale non è rappresentato, o comunque non è solo rappresentato da un allontanamento troppo radicale e persistente dalla giurisdizione, ma dalla tenuta della struttura costituzionale della magistratura che franerebbe a seguito di un ritorno nelle funzioni di un magistrato che abbia comunque fatto politica attiva.

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[1] Una disciplina ancora diversa è prevista per i magistrati che ricoprano incarichi di responsabilità in qualità di capi degli uffici di diretta collaborazione dei ministri e dei sottosegretari di Stato, dei presidenti delle regioni o dei sindaci delle città metropolitane, nonché i magistrati nominati, su iniziativa del Parlamento, del Governo o degli organi di governo regionali, commissario straordinario, presidente o componente di autorità o commissioni di vigilanza (art. 7, c. 3). In tali casi,  alla cessazione, a qualunque titolo, dell’incarico devono essere ricollocati presso gli uffici di provenienza, anche in soprannumero rispetto alla pianta organica dei medesimi uffici, con il divieto di ricoprire incarichi direttivi o semidirettivi per un periodo di un anno.  Tale particolare regolamentazione può spiegarsi tenendo presente che si tratta di designazioni,  da parte di organi politici, di “tecnici” ed “esperti” che vengono scelti ed operano, ordinariamente, al di fuori della pura logica dell’appartenenza partitica.