A cura di Simone De Martino (giudice penale presso il Tribunale di Nocera Inferiore)
A partire dal 1° novembre 2022, a seguito dell’avvenuta pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del 17 ottobre 2022, serie generale n. 243, sarà in vigore il decreto legislativo n. 150 del 10 ottobre 2022, emanato dal Governo a seguito di delega conferita con Legge 27 settembre 2021, n. 134.
Orbene, decreto delegato de quo, sul versante del diritto penale, sebbene determini nel sistema codicistico sostanziale e processuale un significativo (se non anche radicale) effetto innovativo, risulta caratterizzato da un periodo di vacatio legis ordinario (15 giorni) e dall’assenza di una disciplina transitoria soddisfacente, lasciando agli interpreti la risoluzione di quelle che certamente saranno le molteplici problematiche ermeneutiche che insorgeranno.
È utile preliminarmente ricordare come la normativa disciplini il concetto di giustizia riparativa, introducendo, peraltro, attraverso il titolo IV del decreto legislativo citato, una disciplina organica della materia.
Gli interventi regolamentano, per la prima volta nel nostro ordinamento, in modo organico, una realtà che si sta facendo sempre più strada a livello internazionale e che si affianca, senza sostituirsi, al processo e all’esecuzione penale.
In linea con la Direttiva in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato (2012/29/UE) – e con la Dichiarazione di Venezia adottata dalla Conferenza dei Ministri della Giustizia del Consiglio d’Europa il 13 dicembre 2021, durante il semestre di Presidenza italiana – la giustizia riparativa viene, infatti, definita nello schema di decreto legislativo come ogni programma che consente alla vittima, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore.
La giustizia riparativa concorre all’efficienza della giustizia penale in vario modo: agevola la riparazione dell’offesa e la tutela dei beni offesi dal reato; incentiva la remissione della querela; facilita il percorso di reinserimento sociale del condannato; riduce i tassi di recidiva e il rischio di reiterazione del reato nei rapporti interpersonali, rappresentando un utile e innovativo strumento per le politiche di prevenzione della criminalità.
Fatta tale doverosa premessa, necessaria (ancorchè sintetica) per quanto si dirà nel prosieguo, s’intendono di seguito analizzare le principali innovazioni e modifiche in materia di riti speciali.
GIUDIZIO ABBREVIATO
L’art. 438 c.p.p. resta sostanzialmente invariato nel suo nucleo essenziale, se si eccettuato alcune modifiche frutto del recepimento di consolidati indirizzi giurisprudenziali.
Viene previsto, al co. 3 che, qualora la richiesta di rito venga formulata tramite procuratore speciale, la relativa procura debba essere autenticata da un notaio ovvero da altra persona autorizzata o dal difensore. La disposizione precedente, quanto alla sottoscrizione della procura speciale, richiamava le forme di cui all’art. 583, co. 3, coincidenti proprio con la nuova formulazione normativa.
Il fine del Legislatore è chiaramente quello di eleminare il rinvio ad altra norma, di guisa da rendere la lettura della nuova disposizione più chiara e autosufficiente.
Di maggiore peso ermeneutico sono le modifiche apportate al comma 5, in tema di giudizio abbreviato cd. condizionato, concernenti, in particolare, i presupposti per la sua ammissione.
Va preliminarmente precisato come l’art. 1, comma 10, lett. b), n. 1 della legge delega indichi: «modificare le condizioni per l’accoglimento della richiesta di giudizio abbreviato subordinata a un’integrazione probatoria, ai sensi dell’articolo 438, comma 5, del codice di procedura penale, prevedendo l’ammissione del giudizio abbreviato se l’integrazione risulta necessaria ai fini della decisione e se il procedimento speciale produce un’economia processuale in rapporto ai tempi di svolgimento del giudizio dibattimentale».
Orbene, attualmente la richiesta di rito abbreviato può essere subordinata, da parte dell’imputato ovvero del suo procuratore speciale, ad integrazione probatoria a patto che sia necessaria ai fini della decisione.
Il nuovo comma 5, secondo alinea, aggiunge l’inciso “tenuto conto degli atti già acquisiti e utilizzabili”, e dispone che oltre al già richiamato requisito, anche quello per cui il rito, nella sua forma “integrata” realizzi “comunque un’economia processuale, in relazione ai prevedibili tempi dell’istruzione dibattimentale”.
Orbene, il primo inciso può dirsi una codificazione del principio ampiamente espresso dalla giurisprudenza di legittimità in base al quale la richiesta di abbreviato condizionato dovrebbe essere rigettata ogni qual volta la stessa si sostanzi nella mera reiterazione di un atto istruttorio già svolto nel corso delle indagini.
Sul punto la giurisprudenza di legittimità ha, sino ad oggi, ritenuto che, ai fini dell’ammissione al giudizio abbreviato condizionato, la necessità dell’integrazione probatoria vi sia allorché la prova richiesta abbia i requisiti della novità e decisività, presupponendo, dunque, da un lato, l’incompletezza di un’informazione probatoria in atti, e, dall’altro, una prognosi di oggettiva e sicura utilità, o idoneità, del probabile risultato dell’attività istruttoria richiesta ad assicurare il completo accertamento dei fatti del giudizio (cfr. Cass. Pen., sez. II, 10 novembre 2020, n. 10235, Rv. 280990).
Di maggiore impatto è sicuramente l’altra modifica riportata, che recepisce in toto la delega, imponendo sostanzialmente al giudice che riceve la richiesta condizionata di operare un raffronto, in termini prognostici, tra l’assunzione della prova richiesta e il probabile sviluppo dibattimentale.
A ben guardare, il novum legislativo appare assolutamente coerente con lo spirito generale della riforma, improntato ad attribuire al P.M. prima, al G.U.P. e al Giudice “predibattimentale”, poi, una visione prospettica degli esiti del procedimento.
Ebbene, se da un lato può ritenersi che, nell’ottica di una marcata accelerazione e contrazione dei procedimenti e dei processi penali, si voglia affidare alla Magistratura un ruolo di più accentuata selezione di ciò che realmente non solo deve essere oggetto di vaglio dibattimentale ma, ancor prima, di ciò che potrebbe tradursi ragionevolmente in condanna, dall’altro non può non evidenziarsi come l’attribuzione di poteri di prognosi così accentuati comporti il rischio di valutazioni affatto eterogenee, legate alla sensibilità personale del magistrato procedente o, peggio, alla presenza di variabili spurie rispetto alla valutazione giuridica tout court (in particolare, i carichi di ruolo disomogenei sul territorio nazionale).
Va sicuramente evidenziato come emerga un sicuro favor verso un deciso ampliamento delle possibilità di accedere al rito abbreviato condizionato, con la precisazione, però, che la valutazione circa l’ammissibilità o meno dello stesso non potrà tradursi in una fredda operazione matematica, dovendo, il Giudice, prestare particolare attenzione al merito della richiesta di integrazione probatoria, rigettandola quando, alla luce del materiale già raccolto nel corso delle indagini, la stessa finirebbe per risolversi in una defatigante ripetizione di attività compiutamente svolte.
Semplificando all’estremo: il rito abbreviato condizionato potrà e dovrà essere ammesso solo quando l’approfondimento richiesto abbia, almeno in astratto, la capacità di apportare al procedimento un contributo innovativo reale.
Procedendo oltre, si evidenzia come il comma 6-ter – che prevede il diritto di reiterare la richiesta di abbreviato cd. condizionato laddove la stessa sia stata dichiarata inammissibile – pure viene arricchito, con l’aggiunta di un alinea finale, a mente del quale: “In ogni altro caso in cui la richiesta di giudizio abbreviato proposta nell’udienza preliminare sia stata dichiarata inammissibile o rigettata, l’imputato può riproporre la richiesta prima dell’apertura del dibattimento e il giudice, se ritiene illegittima la dichiarazione di inammissibilità o ingiustificato il rigetto, ammette il giudizio abbreviato”.
La novella legislativa, anche in questo caso recepisce un consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità e costituzionale (rappresentato rispettivamente da Cass. Pen., Sez. Un., 27 ottobre 2004, n. 44711 e Corte cost., 23 maggio 2003, n. 169).
La norma va letta necessariamente in rapporto a quella prevista per il rito immediato, di cui all’art. 458, co. 2 c.p.p., la quale, alla luce della citata pronuncia della consulta, pure era stata oggetto di censura di incostituzionalità, proprio nella parte in cui non consentiva di reiterare la richiesta di abbreviato condizionato innanzi al giudice del dibattimento in caso di rigetto.
Per la verità, proprio alla luce della sentenza del 2003, il legislatore, sebbene con ritardo, aveva tentato un’operazione di ortopedia normativa con l’art. 1, comma 131 47, della L. 23 giugno 2017, n. 103 senza, tuttavia, riuscire a recepire l’intervento additivo della Corte costituzionale.
Ebbene, oggi deve evidenziarsi come la questione possa dirsi definitivamente composta alla luce del rinvio, proprio in seno all’art. 458, co. 2, all’art. 438, co. 6-ter c.p.p.
Viene così ad attuarsi un perfetto coordinamento fra il regime di abbreviato “puro” (cioè quello tipicamente presente nell’ambito dell’udienza preliminare) e quello di abbreviato nascente dalla notifica del decreto di giudizio immediato; esso è certamente più coerente con le esigenze di chiarezza e certezza del diritto in una fase del procedimento particolarmente delicata, nella quale vengono attuate scelte difensive decisive, tenuto anche conto dell’estrema concentrazione dei tempi e delle conseguenze in punto di contrazione della prova (è, peraltro, utile evidenziare come la Corte costituzionale, nuovamente, con sentenza n. 127/2021, avesse esortato il Legislatore a conformarsi al dictum della pronuncia di incostituzionalità del 2003).
Sempre nell’ottica di un più accentuato favor nei confronti della definizione dei processi mediante il rito abbreviato, deve evidenziarsi come, all’art. 442 c.p.p., sia stato aggiunto il comma 2-bis che così recita: “Quando né l’imputato, né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione”.
Il novum legislativo deve, infatti, essere necessariamente letto alla luce delle modifiche apportate all’art. 676 c.p.p. che, definendo le “altre competenze” del giudice dell’esecuzione, ricomprende proprio la questione inerente alla riduzione della pena ex art. 442, co. 2-bis c.p.p.
Orbene, anche tale modifica risulta essere pedissequa applicazione del contenuto precettivo della legge delega e, in particolare, dell’art. 1, comma 10, lett. b), n. 2: «prevedere che la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto nel caso di mancata proposizione di impugnazione da parte dell’imputato, stabilendo che la riduzione sia applicata dal giudice dell’esecuzione».
Va soltanto precisato come si ritenga assolutamente conforme alla delega la disposizione di cui al comma 2-bis, non potendosi immaginare alcun profilo di incostituzionalità sub specie di eccesso di delega nella parte in cui quest’ultima fa riferimento, non solo alla mancata impugnazione dell’imputato (come previsto nella legge delega), ma anche quella del difensore (a cui la legge delega non fa riferimento).
Ragioni di carattere sistematico, logico e, soprattutto, letterale, impongono, infatti, di ritenere, alla luce dell’art. 571 c.p.p., indifferente la circostanza che l’impugnazione sia fatta dall’imputato ovvero, per lui, dal difensore (cfr. co. 1 e 3).
Appare utile, peraltro, proprio a conferma di quanto detto, rammentare che il riferimento all’impugnazione non può che concernere anche un eventuale ricorso per cassazione, per il quale la legittimazione spetta unicamente al difensore (art. 613, co. 1 c.p.p.)
Diversamente opinando, dunque ricollegando l’eventuale ulteriore sconto di pena in executivis alla mancata impugnazione da parte del solo imputato e immaginando, dunque, che la disposizione non si riferisca anche all’eventuale impugnazione del difensore, si giungerebbe alla paradossale e irrazionale conseguenza di consentire un effetto premiale (che trova la sua scaturigine nell’intento deflattivo chiaramente perseguito dal Legislatore) anche laddove sia stata proposta impugnazione da parte del solo difensore.
GIUDIZIO IMMEDIATO
Restano immutati i presupposti per la richiesta e l’emissione del decreto di giudizio immediato che, com’è noto, è l’unico dei riti speciali che, alla contrazione procedimentale, non ricollega effetti premiali.
In primo luogo, si evidenzia come, per effetto dell’art. 27, co. 1 lett. a) del d.lgs. 150/2022, l’art. 456 c.p.p. ora preveda espressamente che il decreto di giudizio immediato contenga l’avviso per il destinatario della possibilità di richiedere, unitamente al rito abbreviato e al patteggiamento, anche la messa alla prova.
Orbene, la modifica recepisce sostanzialmente un profilo di illegittimità costituzionale che affliggeva la disposizione de qua, già rilevato dalla nota pronuncia della Consulta n. 19/2020, del 30 gennaio 2020 (Pres. Cartabia, rel. Viganò), che aveva già censurato l’art. 456, co. 2 nella parte in cui non prevedeva l’avviso relativo alla possibilità di accedere alla probation.
Oltre alla significativa e chiarificatrice modifica di cui si è già dato atto nel precedente paragrafo, concernente i possibili rimedi al mancato accoglimento della richiesta di rito abbreviato condizionato conseguente alla notifica del decreto di giudizio immediato, si registrano alcune importanti modifiche dell’art. 458 c.p.p., aventi un’eminente funzione pratica.
In particolare, al comma 2, viene chiarito il dovere (plasticamente reso dall’inciso “in ogni caso”), in capo al G.I.P., laddove vi sia richiesta di rito abbreviato a seguito dell’emissione del decreto di giudizio immediato, di fissare udienza camerale ex art. 127 c.p.p., “per la valutazione della richiesta”.
Il novum legislativo sostanzialmente tenta di sopire il contrasto interpretativo sorto sul punto, che aveva condotto, in tempi relativamente recenti, la S.C. di Cassazione a ritenere come l’omessa fissazione dell’udienza in contraddittorio tra le parti, non determinasse la nullità assoluta o l’abnormità del decreto di rigetto de plano della richiesta e della contestuale fissazione dell’udienza per il giudizio immediato, emesso dal G.I.P., ma soltanto una nullità di ordine generale, sanabile per iniziativa di parte, avendo la stessa comportato un’indebita compressione dei diritti di difesa (cfr. Cass. Pen., sez. III, 25 maggio 2016, n. 5236, Rv. 269010).
A ben guardare, la norma, confermando evidentemente il giudizio di disvalore espresso dalla Corte di legittimità e indicando un chiaro modello procedimentale al G.I.P., prima non espressamente e chiaramente previsto, dovrebbe impedire l’insorgere di dubbi circa la necessità, a fronte della richiesta di rito abbreviato, di provocare il contraddittorio in udienza camerale.
La novità legislativa, tuttavia, deve indurre necessariamente l’interprete a ripensare all’esito ermeneutico di cui alla pronuncia di legittimità citata.
A ben vedere, l’espressa imposizione di un chiaro dovere di fissazione dell’udienza camerale (e l’implicita censura alla prassi di provvedimenti di rigetto de plano) dovrebbe indurre a ritenere tale segmento procedimentale strettamente connesso all’esercizio compiuto e concreto del diritto di difesa, la cui violazione non potrà che tradursi in una forma di nullità assoluta ai sensi dell’art. 179, co. 1, c.p.p., atteso che la mancata fissazione dell’udienza determina logicamente un’omissione relativa alla citazione dell’imputato ovvero del suo difensore in un’ipotesi in cui ne è obbligatoria la presenza.
A ben guardare, il novum legislativo impone un ripensamento anche in ordine al profilo dell’abnormità.
Se, infatti, la giurisprudenza di legittimità l’abbia finora esclusa, ipotizzando “semplicemente” una nullità a regime intermedio che, ove non eccepita, sarebbe stata sanata, oggi un eventuale rigetto de plano da parte del GIP e il difetto dell’udienza camerale, eliderebbe, di fatto, un momento procedurale necessario, cancellando dalla mappa processuale disegnata dal legislatore, il luogo eletto per consentire all’interessato di formulare ulteriori richieste di rito.
In altri termini, la violazione del nuovo articolo 458, co. 2 c.p.p. rischierebbe di determinare un’eccentrica alterazione della sequenza procedimentale definita dal Legislatore, comportando l’indebita trasmissione degli atti al giudice del dibattimento e, quindi, espropriando l’imputato del diritto di definire il procedimento a proprio carico mediante l’accesso ad altri riti alternativi.
Proprio nell’ottica di una costruzione di un percorso procedimentale/processuale certo si pongono, poi, i commi 2-bis e 2-ter dell’art. 458 c.p.p.
Il co. 2-bis prevede: “Se il giudice rigetta la richiesta di giudizio abbreviato di cui all’articolo 438, comma 5, l’imputato, alla stessa udienza, può chiedere il giudizio abbreviato ai sensi dell’articolo 438, comma 1, l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 oppure la sospensione del procedimento con messa alla prova”
La norma è attuazione dell’art. 1, comma 10, lett. c), n. 1 della legge delega: «prevedere che, a seguito di notificazione del decreto di giudizio immediato, nel caso di rigetto da parte del giudice delle indagini preliminari della richiesta di giudizio abbreviato subordinata a un’integrazione probatoria, l’imputato possa proporre la richiesta di giudizio abbreviato di cui all’articolo 438, comma 1, del codice di procedura penale oppure la richiesta di applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale»,
Il co. 2-ter prevede, invece: “Se non è accolta alcuna richiesta di cui al comma precedente, il giudice rimette le parti al giudice del dibattimento, dandone comunicazione in udienza alle parti presenti o rappresentate”
Tale ultima norma appare riempire uno spazio procedimentale per troppo tempo lasciato vuoto, sebbene lo faccia in maniera non del tutto soddisfacente e completa.
Nella prassi applicativa, infatti, sovente si verifica il caso in cui, a fronte dell’emissione del decreto di giudizio immediato da parte del G.I.P. e contestuale individuazione del giudice e della data dell’udienza dibattimentale, seguendo richiesta di rito abbreviato (in special modo condizionato), ove la data in cui interveniva la declaratoria di inammissibilità o il rigetto del rito abbreviato (in alcune circostanze pronunciata dal GIP de plano), fosse stata antecedente all’udienza dibattimentale individuata, nulla quaestio; dubbi nascono nel caso, diverso, in cui la decisione reiettiva del G.I.P. intervenga in epoca posteriore alla stessa (in special modo all’esito di udienza camerale che aveva conosciuto, per le più svariate ragioni, uno o più rinvii).
Si poneva, allora, il problema di comprendere la sorte del decreto di giudizio immediato emesso dal G.I.P., nel quale era indicata una data d’udienza ormai passata e, quindi, inutile.
Ricusando agevolmente la scelta interpretativa di ritenere invalido il decreto di giudizio immediato e di operare la restituzione degli atti al P.M. in ragione della natura tassativa del regime di nullità degli atti, ci si è interrogati su quello che avrebbe dovuto fare il G.I.P.
Orbene, la prassi invalsa era quella di rimettere, in ogni caso, gli atti al giudice del dibattimento per la fissazione di una nuova data per la prima udienza dibattimentale con contestuale notifica della stessa agli interessati, ovvero di richiedere preventivamente al giudice dibattimentale già individuato nel decreto di giudizio immediato una nuova data in vista di un possibile provvedimento reiettivo, escludendosi – così – che il G.I.P. dovesse emettere un nuovo decreto di giudizio immediato.
Oggi la norma è chiara nel prevedere che questi “rimetta” le parti innanzi al giudice del dibattimento, confermando, così, la prassi invalsa e precedentemente descritta.
Tuttavia, resta incompleta la disciplina per l’ipotesi in cui il provvedimento di inammissibilità/rigetto intervenga in data successiva a quella già individuata nel decreto di giudizio immediato.
Si ritiene, pertanto, che debba continuarsi a seguire il modello procedimentale sopra delineato con le annesse soluzioni operative prospettate.
Le considerazioni appena svolte concernono anche il patteggiamento, la cui disciplina è simmetrica a quella del rito abbreviato, ai sensi dell’ultimo alinea dell’art. 458-bis, co. 2, ultimo alinea (vd. infra).
Preme, infatti, evidenziare come la novella legislativa abbia perseguito le medesime esigenze di chiarezza, completezza e certezza imposte dalla legge delega che, all’art. 1, comma 10, lett. c), n. 2, ha espressamente previsto: «prevedere che, a seguito di notificazione del decreto di giudizio immediato, nel caso di dissenso del pubblico ministero o di rigetto da parte del giudice delle indagini preliminari della richiesta di applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, l’imputato possa proporre la richiesta di giudizio abbreviato».
In altri termini, il legislatore ha espressamente procedimentalizzato l’ipotesi di rigetto della richiesta di patteggiamento, prevedendo, ai sensi del nuovo art. 458-bis, co. 2 c.p.p., il modello procedimentale da seguire nel caso di dissenso al patteggiamento da parte del P.M., di declaratoria di inammissibilità ovvero di rigetto della richiesta da parte del giudice; e, infatti: “Nel caso di dissenso da parte del pubblico ministero o di rigetto della richiesta da parte del giudice, l’imputato, nella stessa udienza, può chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova oppure il giudizio abbreviato ai sensi dell’art. 438. Se il giudice dispone il giudizio abbreviato, si applica l’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 458. Nel caso di rigetto delle richieste si applica l’art. 458, comma 2-ter”
PATTEGGIAMENTO
Le modifiche più consistenti sono state introdotte nell’ambito del procedimento di applicazione di pena su richiesta delle parti, con la previsione di sostanziali modifiche all’ordito normativo esistente.
L’art. 444, co.1, c.p.p. è infatti stato arricchito di un ultimo alinea in forza dell’art. 25, co. 1, lett. a) del decreto legislativo 150/2022, che è, a sua volta, espressione dell’art. 1, comma 10, lett. a, n. 1 della legge delega: «prevedere che, quando la pena detentiva da applicare supera i due anni, l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alle pene accessorie e alla loro durata; prevedere che, in tutti i casi di applicazione della pena su richiesta, l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alla confisca facoltativa e alla determinazione del suo oggetto e ammontare».
Esso ora prevede che: “l’imputato e il pubblico ministero possono altresì chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata, salvo quanto previsto dal comma 3-bis, e di non ordinare la confisca facoltativa o di ordinarla con riferimento a specifici beni o a un importo determinato”.
La lettura combinata della nuova norma codicistica e della legge delega legittima l’interpretazione in base alla quale il cd. patteggiamento su elementi diversi dalla pena principale non attiene ai casi in cui la pena principale risulta essere non superiore a due anni, non essendo prevista, in tale ipotesi, la possibilità di applicare pene accessorie e misure di sicurezza diverse dalla confisca.
Pertanto, in tutti i casi in cui la pena sarà superiore a due anni e, ogni caso, non superiore a cinque, potranno essere oggetto di accordo anche le pene accessorie e la confisca diversa da quella obbligatoria, la cui durata e misura saranno ampiamente modulabili dalle parti.
Conseguenzialmente viene arricchito il successivo comma 2, nella parte in cui fa rientrare nella generale valutazione dell’accordo sulla sanzione, anche quella sulla confisca e sulle pene accessorie (si utilizza, infatti, l’espressione al plurale non più al singolare).
Di grossa significatività è, poi, la modifica all’art. 445 c.p.p., avente ad oggetto gli effetti della sentenza di applicazione di pena su richiesta che al nuovo comma 1-bis prevede, per effetto dell’art. 25, co. 1, lett. b) del decreto legislativo: “La sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile. Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna. Salvo quanto previsto dal primo e dal secondo periodo o da diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna.”
La norma è applicazione dell’art. 1, comma 10, lett. a), n. 2 della legge delega: «ridurre gli effetti extra-penali della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, prevedendo anche che questa non abbia efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare e in altri casi».
Balza immediatamente agli occhi la chiara volontà di ridurre, fino a neutralizzarli, gli effetti extra-penali, in particolare, la rilevanza probatoria del fatto storico di cui alla sentenza di patteggiamento. Se prima l’inefficacia si estendeva ai “soli” giudizi civili ed amministrativi, ora si estende anche a quelli disciplinari e ricomprende espressamente anche quelli tributari e contabili.
È, inoltre, abrogato il riferimento all’art. 653 c.p.p., che continua a riferirsi alle sole sentenze di assoluzione e di condanna.
Con il chiaro intento di rendere il rito più appetibile, viene previsto che, qualora per effetto della sentenza di patteggiamento non si applichino le pene accessorie (ex lege se la pena non eccede i due anni; in forza dell’accordo di parte se superiore e non eccedente i cinque), vengono meno anche tutti gli altri effetti discendenti dall’applicazione di disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza di patteggiamento a quella di condanna (si pensi, a titolo meramente esemplificativo, al caso della normativa concernente l’incandidabilità e alla partecipazione a concorsi pubblici).
La pronuncia di applicazione della pena vale quoad effectum a quella di condanna limitatamente all’applicazione di istituti di impronta chiaramente penalistica (ad esempio, sospensione condizionale della pena, causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p., recidiva, ecc.).
In altri termini, la sentenza di patteggiamento rimane equiparabile ad una pronuncia di condanna esclusivamente nell’ambito penalistico sostanziale e processuale; perde tale qualità al di fuori di esso.
Soltanto una logica di chiarezza ed ordine spiega, poi, la modifica intervenuta all’art. 446 e all’art. 447 c.p.p.
Quanto al primo, il comma 1, nell’ultima parte, richiama la possibilità di richiedere il rito a seguito di notifica del decreto di giudizio immediato, nel corso dell’udienza camerale fissata ex art. 458, co. 2-bis c.p.p.
Quanto al secondo, sempre il comma 1, chiarisce che, qualora la richiesta di patteggiamento intervenga nel corso delle indagini preliminari, il Giudice debba provvedere – si ritiene, per effetto dell’abrogazione dell’espressione “in calce alla richiesta” – con autonomo decreto di fissazione che dovrà, peraltro, informare la persona sottoposta alle indagini della facoltà di accedere a programmi di giustizia riparativa.
PROCEDIMENTO PER DECRETO
La riforma Cartabia apporta alcune significative novità anche in relazione ai presupposti per l’emissione e alla forma del decreto penale di condanna.
In primo luogo, si evidenzia, come, all’art. 459, co.1 c.p.p. – per effetto delle modifiche apportate dall’art. 28, co. 1, lett. a), del decreto legislativo n. 150/2022 – il termine (che, si precisa, mantiene la sua natura ordinatoria) di sei mesi attribuito al P.M. per formulare richiesta al GIP di emissione del decreto penale di condanna, allineandosi alle modifiche intervenute sulla durata delle indagini preliminari, venga esteso a 1 anno (si precisa che la modifica, simmetricamente, ha riguardato anche la procedura di cui all’art. 64, d.lgs. n. 231/2001 in materia di responsabilità amministrativa derivante da reato in capo agli enti), per allinearsi al nuovo termine di durata delle indagini preliminari previsto per i (soli) delitti (per le contravvenzioni resta di 6 mesi) diversi da quelli di cui all’art. 407, co. 2 (1 anno e sei mesi)
Di maggiore peso è la modifica apportata al successivo comma 1-bis, il quale resta inalterato solo in relazione al primo e al terzo periodo.
Il secondo periodo ora prevede: “il valore giornaliero non può essere inferiore a 5 euro e superiore a 250 euro e corrisponde alla quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria, tenendo conto delle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare”.
La nuova disposizione, salva in ogni caso l’applicabilità del criterio “di adattamento” dettato dall’art. 133-bis c.p., rispetto alla precedente previsione stabilisce – in maniera certamente più coerente con il principio di individualizzazione del trattamento sanzionatorio – il valore minimo (€ 5,00) e massimo (€ 250,00) giornaliero della sanzione pecuniaria sostitutiva che deve essere legata, in ogni caso, alla quota di reddito giornaliero impiegabile per il pagamento della stessa.
In questa sede, si ritiene doveroso evidenziare come, nella prassi applicativa, in assenza di precise indicazioni provenienti dal P.M. richiedente, sarà estremamente complicato per il G.I.P. operare con congruità sulla dosimetria della pena.
Ne conseguirà, a seconda della diversa sensibilità dell’organo giudiziario investito della richiesta, l’emissione di un decreto penale di condanna attestato su valori medi ovvero del moltiplicarsi di rigetti delle richieste monitorie (ex art. 459, co. 3 c.p.p.) per impossibilità, per il giudice, di operare una razionale ed individualizzata valutazione di congruità della misura della sanzione.
Viene, inoltre, aggiunto, un nuovo quarto periodo che dispone: “Entro gli stessi limiti, la pena detentiva può essere sostituita altresì con il lavoro di pubblica utilità di cui all’art. 56-bis della legge 24 novembre 1981, n. 689, se l’indagato, ne fa richiesta al pubblico ministero, presentando il programma di trattamento elaborato dall’ufficio esecuzione penale esterna con la relativa disponibilità dell’ente”.
Si osservi come il Legislatore abbia, dunque, individuato un ulteriore meccanismo di sostituzione, attivabile in via preventiva e ad istanza dell’interessato, che consenta di sostituire la pena pecuniaria in lavoro di pubblica utilità e prevede l’intermediazione necessaria dell’UEPE territorialmente competente.
Se, da un lato, l’intento riformatore, almeno in astratto, appare lodevole, nella misura in cui sembra stimolare, non solo un potenziamento dell’istituto ma anche un percorso di resipiscenza che passi attraverso lo svolgimento, da parte del reo, di attività non retribuita in favore della collettività, dal punto di vista strettamente pratico, appare di dubbia utilità, attesa l’estrema celerità del rito e la conseguente difficoltà di immaginare che l’indagato riesca tempestivamente ad anticipare la richiesta monitoria del magistrato del P.M.
Infatti, in maniera molto più appropriata dal punto di vista pratico, all’art. 459 c.p.p. è stato aggiunto il comma 1-ter che così recita: “Quando è stato emesso decreto penale di condanna a pena pecuniaria sostitutiva di una pena detentiva, l’imputato, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, nel termine di quindici giorni dalla notificazione del decreto, può chiedere la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 56-bis della legge 24 novembre 1981 n. 689, senza formulare l’atto di opposizione. Con l’istanza l’imputato può chiedere un termine di sessanta giorni per depositare la disponibilità dell’ente o dell’associazione di cui all’articolo 56-bis primo comma e il programma dell’ufficio di esecuzione penale esterna. Trascorso detto termine, il giudice che ha emesso il decreto di condanna può operare la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità. In difetto dei presupposti, il giudice respinge la richiesta ed emette decreto di giudizio immediato.”
È lecito ritenere, attese le difficoltà operative sopra prospettate, che tale modello procedimentale sarà quello statisticamente più seguito.
Quanto ai requisiti del decreto, viene previsto all’art. 460 c.p.p. (per effetto delle modifiche apportate dall’art. 28, co. 1 lett. b) del decreto legislativo) che lo stesso contenga anche l’avviso all’imputato di poter accedere a programmi di giustizia riparativa (lett. h-bis) nonché quello della possibilità per l’imputato di procedere al pagamento, nel termine di 15 giorni dalla notificazione, della pena pecuniaria ulteriormente ridotta nella misura del quinto in caso di rinuncia a formulare opposizione (lett. h-ter).
Conseguenzialmente viene modificata la lettera d), prevedendo che sarà dovere del Giudice prevedere l’entità della riduzione, ricorrendo i presupposti di cui alla lett. h-ter).
Tutto ciò, in ragione della modifica apportata all’art. 460, co. 5 c.p.p. che, modificando i presupposti per ritenere il reato di cui al decreto penale di condanna estinto, in uno agli ordinari requisiti temporali, richiede, altresì, il pagamento della somma ridotta nel già indicato termine di 15 giorni.
L’opposizione al decreto penale di condanna, sostanziandosi, a tutti gli effetti, in un atto di impugnazione, seguirà, ai sensi delle modifiche apportate all’art. 461 c.p.p., le regole previste dall’art. 582 c.p.p. che, oggi, prevede le forme descritte dal nuovo art. 111-bis c.p.p.
MESSA ALLA PROVA
Infine, anche l’istituto della messa alla prova risulta caratterizzato, sia dal punto di vista sostanziale che processuale, da significative modifiche, finalizzate ad incentivare l’utilizzo del rito.
Dal punto di vista sostanziale, si evidenzia un deciso ampliamento dei casi per cui sarà possibile richiedere la probation, richiedibile, peraltro, anche dal P.M.
L’effetto, a ben guardare, non deriva da una modifica del contenuto dell’art. 168-bis c.p. bensì dall’ampliamento del novero dei reati per i quali il P.M. dovrà esercitare l’azione penale tramite decreto di citazione diretta a giudizio, di cui agli artt. 550 e ss. c.p.p.
Infatti, la norma, al di là del riferimento ai termini edittali massimi di pena (che resta legato al limite dei 4 anni di pena massima), prevedeva e continua a prevedere la possibilità di accesso alla MAP per i reati espressamente richiamati dall’art. 550, co. 2 c.p.p.
Venendo al versante prettamente processuale, lo statuto generale della MAP risulta assolutamente arricchito.
Proprio la celebrazione della nuova udienza predibattimentale di cui all’art. 554-bis c.p.p. sarà il termine ultimo per accedere alla probation (art. 464-bis, co. 2, primo periodo c.p.p.)
Inoltre, alla luce della nuova lett. c) dell’art. 464-bis c.p.p. si prevede che il programma che l’U.E.P.E. dovrà redigere e il Tribunale dovrà valutare dovrà necessariamente contenere condotte volte a promuovere lo svolgimento di programmi di giustizia riparativa.
Si diceva in precedenza come, alla luce della Riforma, oggi si riconosca anche in capo al P.M. la facoltà di proporre la sospensione del processo con messa alla prova.
E, infatti, l’art. 464-ter.1 c.p.p. (introdotto per effetto dell’art. 29, co. 1, lett. B), del decreto legislativo) prevede: “1. Il pubblico ministero, con l’avviso previsto dall’articolo 415-bis, può proporre alla persona sottoposta ad indagini la sospensione del procedimento con messa alla prova, indicando la durata e i contenuti essenziali del programma trattamentale. Ove lo ritenga necessario per formulare la proposta, il pubblico ministero può avvalersi dell’ufficio di esecuzione penale esterna. 2. Nel caso previsto dal comma 1, entro il termine di venti giorni, la persona sottoposta ad indagini può aderire alla proposta con dichiarazione resa personalmente o a mezzo di procuratore speciale, depositata presso la segreteria del pubblico ministero. 3. Quando la persona sottoposta ad indagini aderisce alla proposta, il pubblico ministero formula l’imputazione e trasmette gli atti al giudice per le indagini preliminari, dando avviso alla persona offesa dal reato della facoltà di depositare entro dieci giorni memorie presso la cancelleria del giudice. 4. Nel caso previsto dal comma 3, il giudice per le indagini preliminari, se non deve pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell’articolo 129 e quando ritiene che la proposta del pubblico ministero cui ha aderito l’imputato sia conforme ai requisiti indicati dall’articolo 464-quater, comma 3, primo periodo, richiede all’ufficio di esecuzione penale esterna di elaborare il programma di trattamento d’intesa con l’imputato. 5. Nel caso previso dal comma 4, l’ufficio di esecuzione penale esterna trasmette al giudice entro novanta giorni il programma di trattamento elaborato d’intesa con l’imputato. 6. Quando lo ritiene necessario ai fini della decisione, il giudice per le indagini preliminari può fissare udienza ai sensi dell’articolo 127. Il giudice, se ritiene opportuno verificare la volontarietà della richiesta, dispone la comparizione dell’imputato 7. Il giudice, valutata l’idoneità del programma trattamentale elaborato ai sensi del comma 5, eventualmente integrato o modificato con il consenso dell’imputato nel corso dell’udienza prevista dal comma 6, dispone con ordinanza la sospensione del procedimento con messa alla prova.”
A ben guardare, il legislatore, ricalcando sostanzialmente il procedimento previsto per la fase delle indagini e facultando il P.M. ad attivare la MAP già all’atto della notifica dell’avviso di cui all’art. 415-bis, dimostra una più accentuata propensione alla “risoluzione partecipata” del procedimento penale, con il chiaro intento di evitare la saturazione della fase dibattimentale, che – tenuto anche conto delle significative modifiche intervenute nel procedimento a citazione diretta, con l’introduzione, anche per tali ipotesi, di un’udienza “filtro” – dovrà diventare, secondo la ratio legis, “luogo” di celebrazione di un numero residuale di procedimenti.
CONCLUSIONI
Alla luce della complessiva disamina svolta emerge, almeno in relazione ai procedimenti speciali, una lodevole opera di raccordo compiuta dal Legislatore con il diritto vivente di cui alle pronunce della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale.
Le modifiche introdotte, infatti, appaiono per certi versi attuazione di un’opera di codificazione (e quindi di razionalizzazione) di principi ormai da tempo invalsi nella giurisprudenza dominante e risultano assolutamente funzionali a sopire definitivamente (pur non risolvendoli del tutto) alcuni contrasti interpretativi.
Non sfugge, inoltre, il chiaro intento deflattivo del Legislatore che dimostra di aspirare ad un sempre maggiore ricorso ai riti alternativi.