CEDU: Riqualificazione giuridica del fatto – Diritto di difesa

CLASSIFICAZIONE

RIQUALIFICAZIONE GIURIDICA DEL FATTO – MUTAMENTO DELL’ADDEBITO – CORRELAZIONE TRA ACCUSA E SENTENZA – DIRITTO DI DIFESA – EQUO PROCESSO – PRINCIPIO DEL CONTRADDITTORIO

RIFERIMENTI GIURISPRUDENZIALI

Corte E.D.U., 11 dicembre 2007, Ricorso n. 25575/04, Drassich c. Italia; Corte E.D.U., 22 febbraio 2018, Ricorso n. 65173/09, Drassich c. Italia (n. 2).

RIFERIMENTI NORMATIVI

Convenzione E.D.U., art. 6

PRONUNCE SEGNALATE

Cass. pen. sez. 4 n. 18798 del 28 marzo 2019

Cass, pen. sez. 4 n. 22214 del 12 aprile  2019

Abstract

1. La Corte di Cassazione, con le due sentenze segnalate, torna nuovamente sul tema della riqualificazione giuridica del fatto e del rapporto con il diritto di difesa sotto il profilo delle garanzie riservate all’imputato in relazione al principio del contraddittorio e al diritto a un equo processo, alla luce delle pronunce della Corte EDU nelle cause Drassich c. Italia.

La vicenda, sottoposta per ben due volte al vaglio della Corte di Strasburgo, assume rilievo nella riflessione sulla corretta interpretazione del principio costituzionale di cui all’art. 111, comma 3, nonché sulla ratio dell’art. 521, comma 1, cod. proc. pen., ovvero sul potere di riqualificazione giuridica dell’imputazione ex officio e, conseguentemente, sul rapporto intercorrente tra la riqualificazione del fatto-reato ed il mutamento dell’addebito.

IL CASO DRASSICH

2. Si ricorda brevemente che il ricorrente, un ex giudice fallimentare del Tribunale di Pordenone, era stato condannato nei giudizi di primo e secondo grado per falso continuato in atti pubblici e corruzione continuata per atti contrari ai doveri d’ufficio ex artt. 81 e 319 cod. pen. In sede di legittimità aveva invocato l’effetto estintivo della prescrizione. La Corte di legittimità, con la sentenza n. 23024 del 4/2/2004, riqualificati i fatti corruttivi nel reato di corruzione in atti giudiziari ex art. 319 ter cod. pen., ai sensi dell’art. 521, comma 1, cod. proc. pen., aveva escluso la consumazione del termine di prescrizione.

La Corte di Strasburgo, cui il Drassich si era rivolto sostenendo l’illegittimità della riqualificazione giuridica in peius dell’accaduto, con sentenza del 11 dicembre 2017, condannava l’Italia per inosservanza dell’art. 6, commi 1 e 3 lett. a) e b), CEDU, invitando alla riapertura o alla rinnovazione del giudizio viziato, riconoscendo quale condizione fondamentale dell’equità del processo il diritto dell’imputato ad essere informato in tempo utile, non solo del motivo dell’accusa, ovvero dei fatti materiali che gli vengono attribuiti e sui quali si basa l’accusa, ma anche, e dettagliatamente, della qualificazione giuridica data a tali fatti.

Atteso che le disposizioni dell’articolo 6 § 3 a) non impongono alcuna forma particolare quanto al modo in cui l’imputato deve essere informato della natura e del motivo dell’accusa formulata nei suoi confronti, secondo la Corte EDU è compito dei giudici di merito, cui il diritto interno riconosce la facoltà di riqualificare i fatti per i quali sono stati regolarmente aditi, assicurarsi che gli imputati abbiano avuto l’opportunità di esercitare i loro diritti di difesa in maniera concreta ed effettiva. Nel caso di specie, come rilevato dai giudici di Strasburgo, la diversa e più grave riqualificazione giuridica del fatto era intervenuta solo al momento della deliberazione della Corte di Cassazione. Essa non era stata evocata da alcuna delle controparti o dai giudici in una fase anteriore del procedimento, né il pubblico ministero o il Collegio avevano segnalato previamente l’opportunità di procedere ad una riqualificazione giuridica dei fatti, non essendo mai stato il ricorrente avvisato di tale eventualità. Pertanto, la Corte E.D.U. riteneva l’illegittimità di tale modus operandi siccome lesivo del diritto del ricorrente ad essere informato, in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa a suo carico e di disporre del tempo necessario a preparare la sua difesa e a dibattere la nuova accusa in contraddittorio.

2.1. A seguito della sentenza CEDU, la Corte di cassazione, investita con ordinanza dalla Corte di Appello di Venezia (che, quale giudice dell’esecuzione sul ricorso proposto dal Drassich, aveva dichiarato non eseguibile il giudicato ex art. 670 cod. proc. pen.), riconosciuta la forza vincolante delle sentenze definitive della Corte Europea dei diritti dell’uomo ai sensi dell’art. 46 della Convenzione, disponeva la revoca della sentenza del 4 gennaio 2004 e la nuova trattazione del ricorso limitatamente al punto della diversa qualificazione giuridica data al fatto corruttivo rispetto a quella enunciata nell’imputazione e ritenuta dai giudici di merito.

In assenza di rimedi codicistici (all’epoca l’ordinamento italiano non prevedendo ancora la c.d. “revisione europea”, solo con la sentenza additiva della Corte Costituzionale n. 113 del 2011 essendo stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevedeva la revisione della sentenza o del decreto penale di condanna, quando ciò era necessario per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte Europea della Corte dei diritti dell’uomo), i giudici di legittimità procedevano alla trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 625 bis cod. proc. pen. e, con sentenza n. 36323 del 25/05/2009, ribadendo la riqualificazione dei fatti corruttivi quali reati di corruzione in atti giudiziari ex art. 319 ter cod. pen., rigettavano il ricorso del Drassich, il quale aveva richiesto l’annullamento senza rinvio della sentenza di condanna del 2002 per prescrizione del reato. In particolare, la Corte di cassazione osservava che il contraddittorio sul punto era stato sufficiente e tale da assicurare l’equità processuale, non imponendo la giurisprudenza sovranazionale il riconoscimento del diritto alla prova.

2.2. Il Drassich investiva nuovamente la Corte E.D.U., ritenendo che il rimedio straordinario offertogli dall’ordinamento nazionale avesse nuovamente violato l’equità processuale, sotto il profilo dell’art. 6 co. 1 e 3 lett. a) e b) della Convenzione, atteso che non aveva potuto beneficiare né del tempo necessario per preparare la propria difesa, né del diritto a comparire personalmente dinanzi alla Corte di Cassazione, né del potere di ottenere una riapertura del dibattimento al fine di acquisire ulteriori prove sul riformulato addebito.

Nell’esaminare le doglianze del ricorrente, i giudici di Strasburgo ribadivano che ai sensi dell’articolo 6 § 3 lett. a) all’accusato è riconosciuto il diritto ad essere informato non solo sulla “causa” dell’accusa, ovvero sui fatti materiali posti a suo carico, ma anche, e in maniera dettagliata, sulla qualificazione giuridica data a tali fatti. Tuttavia, ritenevano che il ricorso ex art. 625 bis cod. proc. pen. non aveva in alcun modo pregiudicato i diritti del ricorrente, considerato che la possibilità di procedere alla riqualificazione giuridica della fattispecie era stata chiaramente prospettata al ricorrente con la sentenza della Corte di cassazione del 2009 e che – nei cinque mesi trascorsi fra la revoca parziale della condanna e la riapertura del processo – il richiedente aveva avuto modo di preparare adeguatamente la propria difesa, tanto che, durante tale lasso di tempo, egli aveva presentato due memorie scritte e il suo difensore aveva discusso oralmente all’udienza del 25 maggio 2009.

Quanto alla lamentata impossibilità di comparire personalmente, la Corte E.D.U. evidenziava che la discussione dinanzi al giudice di legittimità aveva avuto ad oggetto solo questioni di diritto che non rendevano necessaria la presenza dell’imputato, laddove, con riferimento alla mancata acquisizione di nuove prove, rilevava che il ricorrente non aveva mai contestato la ricostruzione dei fatti come operata dai giudici di merito e che non risultava in alcun modo ex actis una richiesta di riapertura dell’istruttoria, essendosi la difesa, nelle sue memorie, limitata a chiedere l’annullamento senza rinvio della condanna per prescrizione dei reati contestati.

LE SENTENZE IN COMMENTO

La Quarta sezione penale della Suprema Corte, con le sentenze n. 18798/19 e n. 22214/19, si è pronunciata sull’assetto ordinamentale venutosi a determinare dopo le citate pronunce della Corte EDU, ritenendo coerente con i principi ivi formulati una riqualificazione giuridica dei fatti più ampia rispetto al passato, ferma restando la necessità di assicurare concretamente e effettivamente il diritto di difesa dell’imputato.

3. Cass. pen., sez. 4, n. 18798 del 28 marzo 2019, Macaluso

La prima pronuncia, nonostante la minor risonanza mediatica della vicenda processuale rispetto a quella oggetto della seconda, riflette con chiarezza lo sviluppo dei principi affermati dalla Corte E.D.U. nel passaggio dalla Drassich 1 alla Drassich 2.

Nella specie, i giudici della Quarta Sezione penale della Corte di cassazione hanno affermato un principio di diritto in linea di continuità con la giurisprudenza di legittimità successiva alla Drassich 1, in forza del quale, immutato il fatto in contestazione, il giudice può dare in sentenza una diversa qualificazione giuridica allo stesso, nettamente distinguendo, tuttavia, il caso in cui ciò avvenga nel corso del giudizio di merito (in cui non è richiesta la preventiva informazione alle parti, potendo le difese in ordine alla diversa qualificazione giuridica essere pienamente dispiegate nei successivi gradi di giudizio), o in sede di legittimità (in cui, invece, è necessario che le parti siano state rese edotte della possibilità di diversa qualificazione giuridica o, in un caso come quello che ci occupa, direttamente vertendo sulla stessa l’atto di impugnazione oppure attraverso un’informativa, anche orale, da parte del Procuratore generale in sede di conclusioni o del Collegio prima della discussione).

3.1. Nel caso specifico, l’imputata era stata condannata in abbreviato dal Tribunale di Torino per il reato di cui agli artt. 81 cpv., 624, 625 nn. 2 e 7 cod. pen., per essersi impossessata di due mazzi di chiavi e di un borsello contenente varie monete appartenenti al personale in servizio presso l’Ospedale di Chieri (TO). La sentenza era stata impugnata con ricorso per saltum dal Procuratore generale presso la Corte d’appello di Torino, il quale aveva dedotto violazione dell’art. 521, comma 1, cod. proc. pen., assumendo che il tribunale torinese aveva erroneamente ritenuto i fatti sussumibili nella fattispecie di cui all’art. 624 cod. pen., senza riqualificarli quali ipotesi di cui all’art. 624 bis cod. pen., dal momento che i furti erano stati commessi all’interno di luoghi dell’ospedale che, alla stregua dei principi sanciti dalla sentenza dalle Sezioni Unite n. 31345 del 23/03/2017, D’Amico, Rv. 270076 in avanti, dovevano essere considerati alla stregua di quelli in cui si svolgono manifestazioni della vita privata in modo riservato e al riparo da intrusioni esterne per un tempo apprezzabile e non occasionale.

Esaminata la questione di diritto riguardante la nozione di privata dimora, la Quarta sezione penale ha riconosciuto la fondatezza del ricorso del Procuratore generale e ritenuto, per quanto qui d’interesse, che il giudice di primo grado avrebbe dovuto riqualificare i fatti nel più grave reato di cui all’art. 624 bis cod. proc. pen., nonostante il mancato riferimento alla norma in questione nel capo d’imputazione, atteso che, secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, l’art. 521 cod. proc. pen. consente l’addebito di un “fatto diverso” inteso non solo come fatto che integra un’imputazione diversa, restando invariato, ma anche come fatto che presenta connotati materiali difformi da quelli descritti nella contestazione originaria e che, dunque, rende necessaria una correlativa puntualizzazione nella ricostruzione degli elementi essenziali del reato.

3.2. Esaurito l’esame del profilo relativo alla immutatio facti, alla luce dei principi sanciti anche dal giudice delle leggi [in base ai quali l’operazione di rivalutazione che il giudice può compiere, senza far scattare il precetto del comma 2 dell’art. 521 cod. proc. pen., è soltanto quella che non va a modificare né l’elemento oggettivo del reato (condotta, evento e nesso causale) né quello soggettivo; o, quantomeno, quella che non va a stravolgere detti elementi, rendendoli incompatibili rispetto ad un effettivo esercizio del diritto di difesa, cfr. sentenza 103/2010 della Corte Costituzionale], la corte di legittimità si è interrogata sulla possibilità per il giudice di primo grado, una volta ritiratosi in camera di consiglio, di uscirne con una decisione “a sorpresa” rispetto alla qualificazione giuridica di quel fatto che era stata data in imputazione, dando al quesito risposta positiva, sulla scorta di una interpretazione del principio costituzionale di cui all’art. 111, comma 3, della Costituzione (che riconosce il diritto della persona accusata di un reato all’informazione in ordine alla natura e ai motivi dell’accusa) coerente con i principi espressi dalla Corte E.D.U. nel caso Drassich c. Italia Sez. 2 dell’11/12/2007 e Sez. 1 del 24/2/2018, dalla dottrina comunemente indicate come sentenze “Drassich 1” e “Drassich 2”.

Le citate pronunce hanno offerto alla corte di legittimità lo spunto per compiere una più ampia riflessione sul tema del rapporto tra riqualificazione del fatto-reato (operazione squisitamente ermeneutica, che si estrinseca nel ricondurre la fattispecie concreta nell’alveo di una differente norma incriminatrice, ma che purtuttavia non fa acquisire al fatto una connotazione diversa per quel che concerne i suoi elementi essenziali) e mutamento dell’addebito (attività valutativa che invece va a stravolgere l’originaria imputazione anche sotto il profilo fattuale, incidendo proprio su uno degli elementi essenziali del reato che era stato ascritto all’imputato).

La Quarta Sezione penale della Corte di cassazione ha dunque fatto propria un’impostazione non formalistica dei principi formulati dalla Corte di Strasburgo, in base alla quale vi è violazione del precetto richiamato solo allorquando vi sia stato un effettivo e non meramente ipotetico regresso sul piano dei diritti difensivi, attraverso un mutamento della cornice accusatoria che abbia effettivamente comportato una novazione dei termini dell’addebito tale da impedire all’imputato di rielaborare la propria linea difensiva, escludendo che la diversa qualificazione giuridica dei fatti accertati possa avvenire con atto a sorpresa e con pregiudizio del diritto di difesa e ribadendo la necessità di una preventiva instaurazione del contraddittorio tra le parti sulla quaestio iuris relativa anche in un grado successivo.

Per la Corte di legittimità, dunque, immutato il fatto in contestazione, il giudice può dare ad esso in sentenza una diversa qualificazione giuridica, sia in primo grado che in appello, senza alcuna preventiva informazione alle parti, potendo le facoltà difensive in ordine alla diversa qualificazione giuridica essere pienamente esercitate nei successivi gradi di giudizio, senza che ciò determini una compressione o limitazione del diritto al contraddittorio.

Nella specie, il tribunale torinese avrebbe potuto modificare la qualificazione giuridica del fatto, correttamente inquadrandolo nella fattispecie incriminatrice dell’art. 624 bis cod. pen., aggravato dalla violenza sulle cose, atteso che il diritto di difesa rispetto alla nuova qualificazione giuridica sarebbe stato pienamente garantito all’imputata nei successivi gradi di giudizio. E ciò pur essendosi proceduto con il rito abbreviato, costituendo ius receptum che il potere del giudice di dare in sentenza al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, previsto dall’art. 521, comma primo, cod. proc. pen., è esercitabile anche con la sentenza emessa a seguito di giudizio abbreviato.

Diversamente, la riqualificazione giuridica del fatto nel giudizio di cassazione potrà avvenire solo se le parti siano state rese edotte della possibilità della diversa qualificazione giuridica ovvero siano state poste in grado di interloquire in ordine a tale possibilità. La Corte nazionale ha infatti precisato che, nonostante i limiti di tale giudizio non consentano l’esercizio di un’adeguata attività difensiva, la questione della qualificazione giuridica del fatto (e non dell’accertamento materiale dello stesso) rientra fra i casi tipici del ricorso per cassazione (art. 606, lett. b, cod. proc. pen.) e può pertanto essere discussa adeguatamente anche in tale ultima istanza. Sul punto specifico, i giudici della Quarta Sezione hanno richiamato il consolidato orientamento della Corte di legittimità elaborato sulla scorta dei principi di matrice convenzionale, anche prima della sentenza Drassich 2, a mente dei quali la riqualificazione giuridica dei fatti accertati può avvenire anche in sede di legittimità, purché non con atto a sorpresa e con pregiudizio del diritto di difesa, imponendosi, per contro, la comunicazione alle parti del diverso inquadramento prospettabile, con concessione di un termine a difesa, ribadendo che la giurisprudenza di legittimità ha in varie prospettive circoscritto la portata del principio e della regola di sistema espressa dalla Corte europea con la sentenza Drassich 1 e che non sussiste violazione del diritto al contraddittorio quando l’imputato abbia avuto modo di interloquire in ordine alla nuova qualificazione giuridica attraverso l’ordinario rimedio dell’impugnazione, non solo davanti al giudice di secondo grado, ma anche davanti al giudice di legittimità (il riferimento in sentenza è, solo per citarne alcune, a Sez. 6, n. 3716 del 24/11/2015, dep. 2016, Caruso, Rv. 266953; Sez. 4, n. 2340 del 29/11/2017, dep. 2018, D.S, Rv. 271758; Sez. 4, n. 9133 del 12/12/2017, dep. 2018, Giacomelli, Rv. 272263; Sez. 6, n. 10093 del 14/02/2012, Vinci, Rv. 251961; Sez. 2, n. 32840 del 09/05/2012, Damjanovic e altri, Rv. 253267; Sez. 5, n. 7984 del 24/09/2012 15 19/02/2013, Jovanovic, Rv. 254649).

Quanto al diritto alla integrazione probatoria, inoltre, i giudici della Quarta Sezione, facendo applicazione del dictum di Sez. 2 n. 37413/2013, hanno ritenuto, per il caso di contestazione, in fatto, della diversa qualificazione giuridica prospettata, la necessità che con il ricorso per cassazione o con le difese in sede di legittimità sia stata formulata una richiesta di annullamento con rinvio, con specifica indicazione di nuovi elementi di fatto, non valutati dal giudice di merito e non prospettati perché non attinenti alla originaria qualificazione, atti a far escludere la diversa e nuova qualificazione, con relativo onere difensivo di allegazione a pena di genericità del ricorso.

3.3. La Corte di cassazione ha operato direttamente la riqualificazione del reato alla luce dei principi di cui alla richiamata pronuncia Drassich del 22/02/2018, affermando che la difesa dell’imputata, dal ricorso per cassazione del Procuratore generale di Torino del 28/5/2018 alla data della udienza e della decisione (28/3/2019) aveva avuto tutto il tempo per articolare le proprie difese in relazione alla richiesta di riqualificazione dei fatti come furto in abitazione aggravato dalla violenza sulle cose e ha annullato la sentenza con rinvio per la rideterminazione della pena quale conseguenza dell’intervenuta riqualificazione giuridica dei fatti.

4. Cass. pen., sez. 4, n. 22214 del 12 aprile 2019

Il procedimento in esame trae origine dai tragici eventi verificatisi in Genova il 4 novembre 2011, allorché, a seguito di piogge eccezionalmente intense e concentrate sul territorio, si verificò l’esondazione del Rio Fereggiano, che travolse cose e passanti, determinando la morte di sei persone, e lesioni ad altre due, nonché danni ingenti a beni materiali, assumendo le caratteristiche proprie del disastro, come disciplinato dagli articoli 449 e 434 del codice penale. La vicenda processuale ha consentito di calibrare i principi di matrice convenzionale di cui si discute nel peculiare contesto dell’addebito colposo e della cooperazione nel reato colposo, anche con riferimento alle cosiddette norme cautelari “elastiche”.

Quanto ai fatti, le indagini condotte dalla Procura della Repubblica del capoluogo ligure erano esitate nella contestazione del reato di disastro innominato colposo, aggravato dalla violazione dei doveri di pubblico ufficiale, in concorso formale con quello di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose, nei riguardi del Sindaco di Genova, quale autorità locale di protezione civile, nonché presidente del Comitato Comunale di Protezione Civile (COC); dell’assessore del Comune di Genova con deleghe alla Polizia Municipale, Sicurezza e Protezione Civile; del direttore generale dell’Area Sicurezza e Progetti Speciali del Comune di Genova; del direttore della Direzione “Città Sicura” del Comune di Genova e del dirigente del Settore Protezione Civile del Comune di Genova. I citati soggetti erano tutti componenti del COC. Agli stessi, nonché al volontario e referente comunale delle associazioni di volontariato della Protezione Civile, come tale componente effettivo del COC, erano stati inoltre addebitati alcuni reati di falso ideologico in atto pubblico ex art. 479 cod. pen.

4.1. Ciò premesso, uno dei temi al vaglio del giudice di legittimità è stato, per l’appunto, quello della violazione degli artt. 521, comma 2, cod. proc. pen. e 6 par. 3 lett. a) CEDU., avendo gli imputati lamentato una compromissione del diritto di difesa a causa della sostanziale modifica dell’imputazione, diverso essendo il percorso argomentativo con cui le sentenze di merito erano pervenute all’affermazione di responsabilità nei loro riguardi per i reati di cui al capo 1) dell’imputazione (disastro colposo, in concorso formale con omicidio colposo plurimo e lesioni colpose). Con esso si era, infatti, contestato il cattivo governo della posizione di garanzia – in virtù di una responsabilità organizzativa e di gestione dell’emergenza che sarebbe derivata prima dal ruolo ricoperto e poi da quello di componenti del Comitato Comunale di Protezione Civile, con violazione di regole cautelari riconducibili alla loro specifica esperienza – mentre in appello si era loro addebitata la cooperazione colposa, per non essersi opposti alle decisioni assunte da chi doveva occuparsi della gestione operativa dell’emergenza.

Sul punto, i giudici di legittimità hanno effettivamente rilevato la diversità del percorso argomentativo seguito dalle sentenze di merito per pervenire all’affermazione di responsabilità degli odierni ricorrenti, atteso che il giudice di primo grado è pervenuto ad assolvere due imputati in ragione di una concezione rigidamente formalistica della posizione di garanzia, ancorata ad una ben individuata norma di legge delineante specifici obblighi di fare in capo a ciascuno; diversamente, la Corte territoriale, individuata per il Sindaco una posizione di garante ex lege, ha condannato tutti gli imputati alla stregua di un’applicazione estensiva dell’art. 113 cod. pen. in tema di cooperazione colposa. La doglianza è stata ritenuta però infondata dalla corte di legittimità. Nonostante nell’incipit la sentenza della corte territoriale sembrasse evocare una giurisprudenza di legittimità troppo rigorosa e rimasta isolata (secondo cui sarebbe responsabile ai sensi dell’art. 113 cod. pen. di cooperazione nel delitto colposo l’agente il quale, trovandosi a operare in una situazione di rischio da lui immediatamente percepibile, pur non rivestendo alcuna posizione di garanzia, contribuisca con la propria condotta cooperativa all’aggravamento del rischio, fornendo un contributo causale giuridicamente apprezzabile alla realizzazione dell’evento, ancorché la condotta del cooperante appaia in sé tale da non violare alcuna regola cautelare, essendo sufficiente l’adesione intenzionale dell’agente all’altrui azione negligente, imprudente o inesperta), la corte genovese aveva specificamente individuato in capo a ogni singolo cooperante una posizione di garanzia.

4.2. I giudici di legittimità hanno ribadito come l’accertamento della violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza non si esaurisca nel mero confronto letterale tra contestazione e sentenza, dovendosi, invece, verificare se l’imputato attraverso l’iter processuale sia venuto a trovarsi nella concreta condizione di potersi difendere in ordine all’oggetto dell’imputazione. Il suddetto principio non impone, dunque, una conformità formale tra i termini in comparazione, ma implica la necessità che il diritto di difesa dell’imputato abbia avuto modo di dispiegarsi effettivamente. Anche in questo caso i giudici della Quarta Sezione penale, richiamando l’impostazione della Corte di Strasburgo, hanno ribadito che di violazione del principio in commento può parlarsi solo nel caso in cui il mutamento della cornice accusatoria abbia effettivamente comportato una novazione dei termini dell’addebito tale da rendere la difesa menomata proprio sui profili di novità che da quel mutamento sono scaturiti e da determinare un concreto regresso sul piano dei diritti difensivi.

4.3.  Ciò premesso, al di là dell’applicazione al caso di specie delle richiamate pronunce della Corte EDU, la sentenza assume rilievo per la riflessione condotta dai giudici di legittimità quanto alla delimitazione dell’operatività di detti principi con riferimento ai reati colposi. La Corte ha precisato che, in tema di colpa specifica, nell’ipotesi della violazione di una norma cautelare cosiddetta “elastica” – che indichi, cioè, un comportamento determinabile in base a circostanze contingenti – è necessario che l’imputazione soggettiva dell’evento avvenga attraverso l’apprezzamento della concreta prevedibilità ed evitabilità dell’esito antigiuridico da parte dall’agente modello. Ha poi osservato che, in materia di reati colposi, non sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza qualora la contestazione riguardi globalmente la condotta addebitata come colposa, ben potendo il giudice aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa.

Sul punto, i giudici di legittimità hanno richiamato la Sez. 4, n. 19028 del 01/12/2016, dep. 2017, Casucci, Rv. 269601, con cui si è affermato che, in tema di reati commissivi colposi, non si ha violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza di condanna, se l’affermazione di responsabilità si fondi su diverse possibili alternative condotte colpose, ciascuna delle quali avente efficienza causale in relazione all’evento, allorché l’imputato sia stato posto in condizione di esercitare i diritti di difesa in merito alle diverse ipotesi ricostruttive; nonché sez. 4, n. 27389 del 8/3/2018, Siani, Rv. 273588, con cui si è precisato che, una volta contestata la condotta colposa e ritenuta dal giudice di primo grado la sussistenza di un comportamento commissivo, la qualificazione in appello della condotta medesima anche come colposamente omissiva non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza, qualora l’imputato abbia avuto la concreta possibilità di apprestare in modo completo la sua difesa in relazione ad ogni possibile profilo dell’addebito.