Rosario Livatino: il “giudice ragazzino” e la lotta alla mafia tra giustizia e fede

di Antonio Balsamo in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la Costituzione

1. Un grande segnale di speranza al termine di un anno drammatico.

Alla fine di un anno veramente drammatico, che ha tracciato un solco profondo nelle vite di ciascuno di noi, un forte segnale di speranza per tutte le persone impegnate nella affermazione della giustizia e nella lotta alla mafia è stato lanciato da Papa Francesco il 21 dicembre 2020, con l’autorizzazione alla promulgazione del Decreto riguardante «il martirio del Servo di Dio Rosario Angelo Livatino, Fedele Laico; nato il 3 ottobre 1952 a Canicattì (Italia) e ucciso, in odio alla Fede, sulla strada che conduce da Canicattì ad Agrigento (Italia), il 21 settembre 1990»[1].

Il riconoscimento contenuto nel Decreto ha un significato speciale per la Chiesa Cattolica (dove alla dichiarazione del Martirio segue senza soluzione di continuità la beatificazione), ma assume un valore non meno importante per tutta la società e l’intero sistema istituzionale: per tutti coloro che credono che «veramente justitia est fundamentum reipublicae», come ricordava Piero Calamandrei nel discorso tenuto nel 1947 al Primo Congresso del Consiglio nazionale forense, quando esprimeva l’auspicio che la toga – questo abito che unisce avvocati e magistrati – sia «veste simbolica del coraggio civile, dell’altruismo e della solidarietà umana».

Un grande storico dell’età moderna, Federico Chabod, a proposito del mutamento culturale scaturito dalla Rivoluzione Francese che conduceva la politica ad acquistare “pathos religioso” a partire dal secolo XIX, spiegava: «per diciotto secoli, il termine di martire era stato riservato a coloro che versavano il proprio sangue per difendere la propria fede religiosa; martire era chi cadeva col nome di Cristo sulle labbra. Ora, per la prima volta, il termine viene assunto ad indicare valori, affetti, sacrifici puramente umani, politici: i quali dunque acquistano l’importanza e la profondità dei valori, affetti, sacrifici religiosi, diventano religione anch’essi».

La forza e l’ampiezza dei significati del martirio, che costituiscono il riflesso della capacità di questo evento di scuotere le coscienze di tutti, credenti e non credenti, sono particolarmente evidenti nel caso di Rosario Livatino: un magistrato che pensava che «rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio»[2], e non cessava di interrogarsi sul rapporto tra fede e diritto, due realtà «continuamente interdipendenti fra loro, (…) continuamente in reciproco contatto, quotidianamente sottoposte ad un confronto a volte armonioso, a volte lacerante, ma sempre vitale, sempre indispensabile»[3].

Alla visione del “rendere giustizia” espressa da Rosario Livatino si è richiamato, nel discorso tenuto in occasione dell’incontro del 29 novembre 2019 con gli iscritti al Centro Studi che ha scelto il suo nome, Papa Francesco, che ha tratteggiato in modo indimenticabile la sua figura e il valore della sua testimonianza: «Livatino – per il quale si è concluso positivamente il processo diocesano di beatificazione – continua ad essere un esempio, anzitutto per coloro che svolgono l’impegnativo e complicato lavoro di giudice. Quando Rosario fu ucciso non lo conosceva quasi nessuno. Lavorava in un Tribunale di periferia: si occupava dei sequestri e delle confische dei beni di provenienza illecita acquisiti dai mafiosi. Lo faceva in modo inattaccabile, rispettando le garanzie degli accusati, con grande professionalità e con risultati concreti: per questo la mafia decise di eliminarlo. Livatino è un esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l’attualità delle sue riflessioni»[4]

2. Il rifiuto di ogni compromesso e di ogni “doppia morale”.

Tra gli appunti di Rosario Livatino, dopo la sua morte, venne trovata la frase: Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili.

E’ una riflessione che esprime il senso profondo di tutto il suo impegno. In effetti, una delle cose che più colpiscono nel percorso umano e professionale di Rosario Livatino è la coerenza assoluta tra i principi proclamati e la condotta di vita. Il rifiuto di ogni compromesso e di ogni “doppia morale”.

Come è stato osservato da chi ha dato un forte impulso alla costruzione della memoria collettiva nel contesto nazionale su Rosario Livatino, «quel giudice che non si impaurisce delle reazioni dei centri di potere, quel giudice capace di apporre la sua firma in calce ai provvedimenti più scomodi. Quel giudice sconosciuto al pubblico, diventa invece ben conosciuto ai clan mafiosi che infestano in progressione l’agrigentino. In quell’ufficio Rosario rappresenta lo Stato che non china la testa davanti alla corruzione e ai suoi uomini, che si fa garante in periferia del principio di legalità devastato al centro»[5].

La sua visione dell’etica del giudice è racchiusa in una conferenza tenuta al Rotary Club di Canicattì il 7 aprile 1984 sul tema: “Il ruolo del Giudice nella società che cambia”. Un intervento che sembra davvero scritto “a futura memoria” e che meriterebbe di essere proposto a tutti coloro che intendono intraprendere il lavoro di magistrato, come la più importante lezione di etica professionale:

«L’indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della stia condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività».

Rosario Livatino così proseguiva: «La credibilità esterna della magistratura nel suo insieme ed in ciascuno dei suoi componenti è un valore essenziale in uno Stato democratico, oggi più di ieri. “Un giudice”, dice il canone II del già richiamato codice professionale degli U.S.A. “deve in ogni circostanza comportarsi in modo tale da promuovere la fiducia del pubblico nell’integrità e nell’imparzialità dell’ordine giudiziario”.

Occorre allora fare un’altra distinzione tra ciò che attiene alla vita strettamente personale e privata e ciò che riguarda la sua vita di relazione, i rapporti coll’ambiente sociale nel quale egli vive.

Qui è importante che egli offra di se stesso l’immagine non di una persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di una persona seria, sì, di persona equilibrata, sì, di persona responsabile pure; potrebbe aggiungersi, di persona comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire.

Solo se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la società può accettare che gli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha. Chi domanda giustizia deve poter credere che le sue ragioni saranno ascoltate con attenzione e serietà; che il giudice potrà ricevere ed assumere come se fossero sue e difendere davanti a chiunque. Solo se offre questo tipo di disponibilità personale il cittadino potrà vincere la naturale avversione a dover raccontare le cose proprie ad uno sconosciuto; potrà cioè fidarsi del giudice e della giustizia dello Stato, accettando anche il rischio di una risposta sfavorevole».

E’ una visione, questa, che Rosario Livatino cercava di mettere in pratica in ogni sua attività giudiziaria, in ogni momento della sua vita. Sia quando affrontava senza nessuna esitazione quella fitta rete di complicità e cointeressenze che legava esponenti della criminalità organizzata, del mondo politico e della realtà economica ad Agrigento, collaborando con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino[6], sia quando, da pubblico ministero con una solida cultura della giurisdizione[7], esprimeva tutto il suo rispetto verso gli accusati e, in particolare, verso le persone deboli e vulnerabili, con un incessante anelito a raggiungere la verità nel processo[8].

  • Un esempio luminoso contro una crisi del potere giudiziario che ha radici profonde.

«Rosario Livatino ha lasciato a tutti noi un esempio luminoso»: queste parole di Papa Francesco non sono solo una celebrazione, ma soprattutto un forte invito ad un profondo rinnovamento, proprio in una fase storica nella quale si assiste a una «crisi del potere giudiziario che non è superficiale ma ha radici profonde»[9].

Rosario Livatino operava in partibus infidelium. Dovette sostenere un contrasto molto duro con il suo ambiente di riferimento, in un’epoca nella quale a Palermo si giocavano le sorti della nostra democrazia[10].

Pochi giorni dopo la sua uccisione, il 1° ottobre 1990, ad Agrigento si svolse una assemblea dei magistrati siciliani che fu subito vista dalla stampa come “un atto di accusa senza precedenti, una vera sfida lanciata agli uomini di Roma[11].

L’intervento effettuato in questa occasione da Paolo Borsellino iniziava così: «Non ho potuto evitare che in me insorgesse la mortificante sensazione del già visto, del già sentito, del già detto e del già fatto, come se ancora una volta, per inevitabile condanna storica fosse necessario sottoporsi a questo inevitabile ed inutile rituale. Del già visto, perché il viso innocente di bambino di Rosario, sforacchiato da colpi micidiali, che mi è apparso in fondo alla brulla scarpata sotto il lenzuolo bianco, il cui lembo non ho potuto fare a meno di sollevare, mi ha immediatamente richiamato alla memoria tanti altri visi di colleghi ed amici, colpiti anch’essi nella loro giovinezza o maturità dalle mani omicide che percorrono questa terra, impunite e con terrificante sicurezza di perdurante impunità. Del già sentito, perché subito dopo ho riascoltato esplodere lo sciacallaggio morale di chi, anche tra colleghi, non trova di meglio che addebitare alla stessa magistratura siciliana la responsabilità di questi tragici eventi, risollevando stantie argomentazioni razzistiche, che dimenticano come tutto quello che contro la mafia si è fatto in Sicilia è stato opera di magistrati siciliani e dei loro collaboratori, nonostante la scandalosa assenza delle altre Istituzioni dello Stato che vi dispiegassero doverosamente tutti i mezzi e gli sforzi dovuti. Io non esprimo solidarietà ai colleghi di Agrigento, oggetto in questi giorni di ignobili indiscriminati attacchi. Esprimo insieme a loro lo sdegno verso gratuite ed ingiuste generali criminalizzazioni, che colpiscono anche me e la grande maggioranza dei miei colleghi, siciliani e non siciliani. Non è difesa corporativa. Se ci sono mele marce vanno individuate, punite ed eliminate, ma non deve essere consentito a nessuno avvalersi di queste tragiche occasioni per liberarsi a poco prezzo di magistrati scomodi che cercano di fare tutto il loro dovere, e spesso molto di più, in condizioni di lavoro inammissibili in un paese civile. Del già detto, perché il macabro inutile rituale comprende anche un determinato periodo di lamentazioni da un lato e promesse dall’altro, l’une avanzate e le altre propinate quasi come un medicinale digestivo della tragedia, affinché dopo alcuni giorni più non se ne parli e ci si possa continuare ad occupare, senza distrazioni fastidiose, della crisi del Golfo e delle grandi civili riforme sanitarie o carcerarie. Ed allora l’idea di convocare questa Assemblea è nata insieme col fermo proposito di sfuggire finalmente a queste logiche ripetitive, di non celebrare più alcuna cerimonia rituale, di non ripetere più tristemente, come il 28 settembre 1988, che la magistratura siciliana, ormai da troppo tempo sottoposta ad inconcepibili aggressioni, avrebbe continuato come in passato a fare il proprio dovere con rinnovata energia e passione di giustizia. Sì è vero, dopo ogni barbaro assassinio di giudici non si è verificato alcun cedimento né si è registrata alcuna defezione; anzi il lavoro è continuato con maggiori sacrifici e risultati apprezzabili. Ma abbiamo detto già due anni fa che l’impegno dei magistrati non poteva costituire alibi per le perduranti gravissime inadempienze che contribuiscono a tenere questa terra in preda alle organizzazioni criminali. Aggiungiamo oggi che questo impegno è allo stremo: a forza di spillar vino dalla botte questa si svuota. E qui non di vino si tratta».

Negli ultimi decenni l’esempio di Rosario Livatino ha scosso le coscienze dei magistrati, della società civile, della Chiesa.

Come ha ricordato Papa Francesco, il 9 maggio 1993 Giovanni Paolo II, poco prima di rivolgere agli “uomini della mafia” il memorabile e perentorio invito alla conversione nella Valle dei Templi, ad Agrigento, aveva incontrato i genitori di Rosario Livatino.

La lezione di Rosario Livatino oggi è di sorprendente attualità (per usare le parole di Papa Francesco), anche quando smonta una serie di luoghi comuni e di “ricette pronte” da oltre quarant’anni, capaci di produrre un «effetto perverso fondamentale», che «punisce l’azione e premia l’inazione, l’inerzia, l’indifferenza professionale», con la conseguenza che «chi ne trarrebbe beneficio sono proprio quelle categorie sociali che, avendo fino a pochi anni or sono goduto dell’omertà di un sistema di ricerca e di denuncia del reato che assicurava loro posizioni di netto privilegio, recupererebbero attraverso questa indiretta ma ancor più pesante forma di intimidazione del giudice la sostanziale garanzia della propria impunità». Come lui sottolineava nella conferenza del 7 aprile 1984 sul tema: “Il ruolo del Giudice nella società che cambia”, «come possa dirsi ancora indipendente un giudice che lavora soprattutto per uscire indenne dalla propria attività, non è facile intendere», e «ci si può chiedere se sarà mai più possibile trovare un pretore od un pubblico ministero che di sua iniziativa intraprenda la persecuzione di quei reati che per tradizione o per costume o per altro nel passato erano raramente perseguiti. Dai reati societari all’urbanistica, all’inquinamento ed in genere a tutti i reati che offendono interessi diffusi».
        La via per rafforzare veramente l’indipendenza, esterna e interna, di ciascun magistrato, passa dalla capacità di ognuno di noi di prendere sul serio, non solo nelle celebrazioni ma soprattutto nell’attività di ogni giorno, il suo pensiero e il suo modo di essere giudice e pubblico ministero.

Io ho visto tanti esempi di questa capacità nei colleghi con cui ho avuto la possibilità di lavorare a Caltanissetta. Ne voglio ricordare due, che riguardano rispettivamente un pubblico ministero e un giudice.

Uno è quello di una collega che arrivò in Sicilia dopo una esperienza internazionale nei Balcani. Di aspetto sembrava davvero una ragazzina, ma aveva una cultura e una determinazione fortissime. Tra le tante cose che ha fatto lavorando in Procura, mi è rimasto impresso un processo in cui ha tenuto esattamente lo stesso comportamento che, secondo la “storia orale” dei magistrati di Agrigento, era stato tenuto da Rosario Livatino tanti anni prima: concluse a sfavore dell’imputato, ascoltò con attenzione la difesa, e poi cambiò completamente le proprie conclusioni in sede di replica, in quanto si era convinta della fondatezza delle ragioni addotte a favore dell’imputato.

Il secondo riguarda una collega che è entrata in magistratura dopo essere stata in polizia per diversi anni. La passione per la giustizia – quella vera – l’aveva avuta sin da bambina, quando scriveva delle lettere a Enzo Tortora perché era convinta della sua assoluta innocenza (e ci aveva visto giusto, a differenza di tanti magistrati). Il padre di Rosario Livatino trascorse il suo ultimo Natale con lei e la sua famiglia. Subito dopo avere iniziato il suo lavoro al Tribunale di Caltanissetta, la collega ha dato un contributo fondamentale alla ricostruzione della convergenza di interessi tra “Cosa Nostra” e ambienti esterni che, secondo gli ultimi accertamenti giudiziari, sta alla base della strage di Capaci e della strategia del “terrorismo mafioso”, per poi impegnarsi con coraggio nella descrizione del volto più recente, più ambiguo, e più difficile da percepire, della criminalità organizzata.

E’ in persone come loro che l’esempio di Rosario Livatino continua a vivere.


[1] In questi termini il comunicato ufficiale della Sala Stampa della Santa Sede.

[2] R. Livatino, Fede e diritto, Conferenza tenuta il 30 aprile 1986 a Canicattì, nel salone delle suore vocazioniste.

[3] F. Chabod, L’idea di nazione, a cura di A. Saitta – E. Sestan, Laterza, Roma-Bari, 1992, p. 62.

[4] Discorso del Santo Padre Francesco ai membri del Centro Studi “Rosario Livatino”, Sala Clementina, 29 novembre 2019, in cui il Papa soggiunge: «Rosario Livatino ha lasciato a tutti noi un esempio luminoso di come la fede possa esprimersi compiutamente nel servizio alla comunità civile e alle sue leggi; e di come l’obbedienza alla Chiesa possa coniugarsi con l’obbedienza allo Stato, in particolare con il ministero, delicato e importante, di far rispettare e applicare la legge».

[5] N. dalla Chiesa, Il giudice ragazzino, Einaudi, 1992.

[6] Sul tema, v. lo Speciale Tg1 del 20/9/2020, “Un uomo giusto”, di Maria Grazia Mazzola, che contiene un’accurata ricostruzione delle attività di indagine di Rosario Livatino, con le testimonianze di alcuni dei colleghi che collaborarono con lui, anche nell’analisi delle risultanze del rapporto della polizia canadese che già dal 1974 aveva delineato una struttura dell’organizzazione mafiosa largamente coincidente con quella descritta, dieci anni dopo, da Tommaso Buscetta (v. sul punto la testimonianza di Salvatore Cardinale e la documentazione sul predetto rapporto, su quello del 20/2/1984, e sulle intercettazioni ambientali eseguite presso il “Reggio Bar” di Paul Violi).

[7] Cfr. R. Conti – R. Saieva, Livatino ieri e oggi. Sacrificio di un giudice e giurista d’altri tempi o testimonianza limpida di un magistrato “di ogni tempo” al servizio della società?, in www.giustiziainsieme.it

[8] Cfr. M. Ronco, Il decreto sul martirio di Rosario Livatino, in www.centrostudilivatino.it, che esamina in profondità la motivazione del decreto.

[9] Cfr. il discorso del 29 novembre 2019 di Papa Francesco ai membri del Centro Studi “Rosario Livatino”, sopra citato.

[10] V. le riflessioni di Nando dalla Chiesa nel citato Speciale Tg1 del 20/9/2020, “Un uomo giusto”,

[11] A. Bolzoni, La rabbia dei giudici siciliani ‘colleghi, dimettiamoci tutti’, in la Repubblica, 2 ottobre 1990, cui si rinvia per una completa ricostruzione dello svolgimento dell’assemblea.