Segnalazione Cass., sez. I, pen. n. 14629/2019 su “Misure di prevenzione”

[CLASSIFICAZIONE]

MISURE DI PREVENZIONE PERSONALI E PATRIMONIALI

LE CONSEGUENZE DI CORTE COST. N. 24 DEL 2019

 AL VAGLIO DELLA CORTE DI CASSAZIONE

[RIFERIMENTI NORMATIVI]

Costituzione, artt. 13 e 117;

Convenzione EDU, art. 7;

Convenzione EDU, Prot. add. 4, art. 2;

Legge n. 87 del 1953, art. 30;

Legge n. 1423 del 1956, art. 1

Legge n. 152 del 1975, art. 19

D. lgs. n. 159 del 2011, artt. 1, comma 1, lett. a) e b), 4, comma 1, lett. c), e 16.

[SENTENZA SEGNALATA]

Cass. pen., Sez. I, sentenza 5.3.2019, dep. 3.4.2019, n. 14629, Calabretto G. ed altri

Abstract. La Corte di cassazione ha esaminato le conseguenze della sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019 che, chiamata da plurime ordinanze di rimessione a valutare la compatibilità – sotto diversi aspetti – del sistema di prevenzione italiano con i principi affermati dalla Corte EDU, Grande Chambre, sentenza 23 febbraio 2017, caso De Tommaso c. Italia, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di plurime disposizioni, ed in particolare dell’art. 16 d. lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che le misure di prevenzione del sequestro e della confisca, disciplinate dagli articoli 20 e 24, si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, comma 1, lettera a), contestualmente fornendo un’interpretazione conservativa della previsione di cui all’art. 1, comma 1, lett. b), stesso d. lgs.

1. Premessa.

La Corte costituzionale, con sentenza 24 gennaio/27 febbraio 2019, n. 24, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale:

– dell’art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), nel testo vigente sino all’entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui consente l’applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, anche ai soggetti indicati nel numero 1);

– dell’art. 19 della legge 22 maggio 1975, n. 152 (Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico), nel testo vigente sino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che il sequestro e la confisca previsti dall’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere) si applicano anche alle persone indicate nell’art. 1, numero 1), della legge n. 1423 del 1956;

– dell’art. 4, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, lettera a);

– dell’art. 16 del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che le misure di prevenzione del sequestro e della confisca, disciplinate dagli articoli 20 e 24, si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, comma 1, lettera a).

Inoltre, valorizzando l’evoluzione giurisprudenziale successiva alla sentenza emessa dalla Corte EDU, Grande Chambre, nel caso De Tommaso c. Italia, ha ritenuto che risulta oggi possibile assicurare in via interpretativa contorni sufficientemente precisi alla fattispecie descritta dell’art. 1, numero 2), della legge n. 1423 del 1956, poi confluita nell’art. 1, lettera b), del d.lgs. n. 159 del 2011, che evoca la categoria di «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose»,sì da consentire ai consociati di prevedere ragionevolmente in anticipo in quali «casi» – oltre che in quali «modi» – essi potranno essere sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, nonché alle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca:

<<la locuzione «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» è oggi suscettibile, infatti, di essere interpretata come espressiva della necessità di predeterminazione non tanto di singoli “titoli” di reato, quanto di specifiche “categorie” di reato. Tale interpretazione della fattispecie permette di ritenere soddisfatta l’esigenza – sulla quale ha da ultimo giustamente insistito la Corte europea, ma sulla quale aveva già richiamato l’attenzione la sentenza n. 177 del 1980 di questa Corte – di individuazione dei «tipi di comportamento» («types of behaviour») assunti a presupposto della misura. Le “categorie di delitto” che possono essere assunte a presupposto della misura sono in effetti suscettibili di trovare concretizzazione nel caso di specie esaminato dal giudice in virtù del triplice requisito – da provarsi sulla base di precisi «elementi di fatto», di cui il tribunale dovrà dare conto puntualmente nella motivazione (art. 13, secondo comma, Cost.) – per cui deve trattarsi di:

a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto,

b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui,

c) i quali a loro volta costituiscano – o abbiano costituito in una determinata epoca – l’unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito.

Ai fini dell’applicazione della misura personale della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, al riscontro processuale di tali requisiti dovrà naturalmente aggiungersi la valutazione dell’effettiva pericolosità del soggetto per la sicurezza pubblica, ai sensi dell’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 159 del 2011>>.

Ha, in proposito, precisato, con riferimento alle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca, che i requisiti poc’anzi enucleati dovranno a loro volta  essere accertati in relazione al lasso temporale nel quale si è verificato, nel passato, l’illecito incremento patrimoniale che la confisca intende neutralizzare:

<<dal momento che, secondo quanto autorevolmente affermato dalle sezioni unite della Corte di cassazione, la necessità della correlazione temporale in parola «discende dall’apprezzamento dello stesso presupposto giustificativo della confisca di prevenzione, ossia dalla ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato con i proventi di attività illecita» (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 26 giugno 2014-2 febbraio 2015, n. 4880), l’ablazione patrimoniale si giustificherà se, e nei soli limiti in cui, le condotte criminose compiute in passato dal soggetto risultino essere state effettivamente fonte di profitti illeciti, in quantità ragionevolmente congruente rispetto al valore dei beni che s’intendono confiscare, e la cui origine lecita egli non sia in grado di giustificare>>.

Per tali ragioni, ha conclusivamente ritenuto non illegittima la disciplina riguardante la fattispecie normativa di cosiddetta “pericolosità generica” di cui all’art. 1, lettera b), d.lgs. n. 159 del 2011.

2. Le conseguenze della decisione della Corte costituzionale.

La Prima sezione, con la sentenza n. 14629 del 5 marzo 2019, n.m. allo stato, ha esaminato la questione degli effetti della predetta decisione della Corte costituzionale (con riguardo ad un ricorso avverso un decreto di confisca, parzialmente confermato in appello).

2.1. Nei confronti di uno dei ricorrenti era stata separatamente confermata anche la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con divieto di soggiorno per tre anni (l’altro soggetto destinatario della misura personale era, nelle more, deceduto).

L’inquadramento soggettivo delle persone portatrici di pericolosità cd. semplice era stato operato – in primo grado – in riferimento a quanto previsto sia dall’art. 1, co. 1, lett. a), d.lgs. n. 159 del 2011 (sul presupposto che i due soggetti sottoposti a prevenzione personale fossero abitualmente dediti a traffici delittuosi), che dall’art. 1, co. 1, lett. b), stesso d. lgs. (in quanto il provento dei reati commessi sarebbe stato destinato, almeno in parte, alle esigenze di vita: all’uopo erano state valorizzate risultanze istruttorie contenute in due titoli cautelari emessi in sede penale, riguardanti plurime condotte di usura ed estorsione consumate nel corso degli anni antecedenti, a partire dal 2002 e fino al 2013).

La Corte di appello non aveva, peraltro, compiuto alcuna specificazione ulteriore circa l’inquadramento soggettivo della classe di pericolosità, limitandosi a richiamare in proposito i contenuti del primo decreto, ed aveva in ampia parte confermato il giudizio di sproporzione reddituale e la riconducibilità di fatto degli investimenti ai soggetti portatori di pericolosità.

2.2. La sentenza in esame ha premesso che due circostanze essenziali, valorizzate di ufficio, imponevano l’annullamento con rinvio del decreto impugnato:

– in sede di merito era stato applicato, quanto all’inquadramento soggettivo dei proposti in una delle categorie tipizzate di pericolosità, anche l’art. 1, lett. a), d. lgs. n. 159 del 2011, sul presupposto che l’attività di usura integrasse un “traffico delittuoso” cui i due soggetti sottoposti anche a prevenzione personale erano dediti;

– era nelle more sopravvenuta la sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019, « i cui contenuti devono essere oggetto di valutazione anche di ufficio (fermo restando che il tema del contrasto con i principi costituzionali e convenzionali è trattato nel ricorso), ai sensi della previsione di legge di cui all’art. 609, comma 2, c.p.p. » (peraltro richiamando decisioni giurisprudenziali sempre inerenti a sopravvenute declaratorie d’illegittimità costituzionale variamente riguardanti il trattamento sanzionatorio previste per il reato di volta in volta contestato all’imputato: Sez. U., n. 33040 del 2015; Sez. 6, n. 14995 del 2014; Sez. 6, n. 37102 del 2012).

Ha poi diffusamente illustrato il contenuto della richiamata sentenza n. 24 del 2019 della Corte costituzionale, in particolare evidenziando che essa, contestualmente alla plurime declaratorie d’illegittimità costituzionale pronunciate, ha anche ritenuto la disposizione di cui l’art. 1, lett. b), d. lgs. n. 159 del 2011 (riguardante i soggetti che, per la condotta ed il tenore di vita, debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose), nell’interpretazione datane dai più recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità (antecedenti e successivi alla nota decisione della Corte EDU, Grande Chambre, nel caso De Tommaso contro Italia, e tesi ad estrarre dalla disposizione contenuti di maggiore tassatività descrittiva), non in contrasto con i principi costituzionali, mantenendone quindi inalterata la vigenza, conclusivamente osservando che « l’analisi del complessivo sviluppo delle argomentazioni espresse dalla Corte costituzionale porta pertanto a ritenere che la tipologìa di decisione emessa – quanto ai contenuti della previsione di legge di cui all’art. 1, co.1, lett. B) d.lgs. n. 159 del 2011 – sia quella di una cd. interpretativa di rigetto, che nel comporre il denunziato contrasto tra la norma di legge ordinaria e il contenuto delle norme costituzionali ‘segna’ il percorso interpretativo idoneo ad evitare la demolizione della norma di legge ordinaria, riconoscendolo – in larga misura – in quello già espresso in numerosi arresti da questa Corte di legittimità (…) proprio la ricognizione del contenuto di tali arresti (…) ha consentito alla Corte costituzionale di superare i dubbi sollevati in sede sovranazionale nella decisione Corte Edu De Tommaso contro Italia, essendosi nel tempo stabilizzata una chiave di lettura della disposizione che attraverso il recupero di connotati di tassatività (le attività da censire in parte constatativa sono necessariamente rappresentate da delitti idonei alla produzione di reddito) assicura la predeterminazione legale dei ‘tipi di comportamento’ assunti a presupposto delle misure, sia personali che patrimoniali. Ciò conferisce un particolare valore di orientamento ai contenuti della decisione, nel senso che eventuali «deroghe» dalla suddetta linea di assegnazione di significati alle parole utilizzate dal legislatore porrebbero il caso concreto non solo fuori dall’attuale recinto interpretativo maggioritario ma fuori dal perimetro di legalità costituzionale e convenzionale ».

D’altro canto, come già in passato chiarito dalle Sezioni Unite (n. 25 del 16 dicembre 1998, dep. 1999, Alagni, Rv. 212074), « non può disconoscersi l’efficacia di “precedente” che deve essere riconosciuto alla decisioni [della Corte costituzionale] di rigetto in genere, ed in particolar modo a quelle interpretative, e l’influenza che siffatta pronuncia determina nei confronti dei giudici comuni e degli operatori del diritto i quali, in mancanza di validi motivi, sono tenuti ad uniformarsi alla sentenza, la quale, secondo la dottrina prevalente, viene ad assumere la figura di una “doppia pronuncia”, nel senso che contiene una duplice affermazione: che cioè l’atto, proprio perché espressione di un principio proveniente dalla Corte costituzionale, è costituzionalmente legittimo e che, al contrario, nella diversa interpretazione del giudice a quo, lo stesso non è conforme a Costituzione. È pur vero che non si tratta di vincolo giuridico, del resto inesistente nel nostro ordinamento; pur tuttavia è innegabile il valore persuasivo di siffatta pronuncia costituendo un precedente autorevole nonché il risultato di una interpretazione sistematica in funzione adeguatrice proveniente dall’organo più qualificato in tema di interpretazione costituzionale. Senza contare, poi, che, in tali sentenze, la motivazione non rappresenta semplicemente il motivo della decisione, ma svolge un ruolo più importante e decisivo in quanto diviene elemento costitutivo della decisione stessa che, con diversa motivazione, avrebbe avuto esito diverso. E che un tale vincolo sia in effetti esistente e non già puramente teorico, deriva, poi, dalla considerazione che, secondo la prevalente dottrina e la più recente giurisprudenza, tutti i giudici sono tenuti a non fare applicazione delle disposizioni in un senso diverso da quello affermato dalla Corte costituzionale senza aver prima sollevato questione di legittimità costituzionale ».

L’interpretazione recepita dalla Corte costituzionale nella decisione n. 24 del 2019 andava, pertanto, accolta, essendo l’unica compatibile con i principi costituzionali ed al tempo stesso idonea a realizzare un delicato equilibrio «di sistema» con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in tema di accessibilità e prevedibilità della legge.

2.3. Sulla base di tali premesse, e ritenuto necessario procedere alla rielaborazione dei connotati fattuali posti a base del “giudizio di pericolosità prevenzionale”, considerato che l’attività di usura contestata nell’ambito del separato giudizio di cognizione potrebbe astrattamente costituire presupposto in fatto di un inquadramento soggettivo in via esclusiva ex art. 1, comma 1, lett. B), d. lgs. n.159 del 2011, si è osservato che tale rielaborazione non poteva avere luogo in sede di legittimità, « non soltanto perché la trattazione camerale del procedimento di prevenzione (…) non consente la realizzazione del contraddittorio, ingrediente necessario di qualsiasi operazione di – quantomeno parziale – diversa qualificazione giuridica della parte constatativa (ancorata, come si è detto, a fatti) del giudizio di pericolosità (…), ma anche perché l’eventuale inquadramento – in via esclusiva – nella fattispecie di cui alla citata lettera B) dell’articolo 1, co. 1, d.lgs. n.159 del 2011, esige, per quanto sinora detto, una piena verifica di coerenza logica e di esistenza di tutti i passaggi esplicativi di quella “opzione tassativizzante” elaborata nella presente sede di legittimità e recepita dalla Corte Costituzionale. In altre parole, l’ operazione di riqualificazione – totale o parziale – della fattispecie di pericolosità, pur rispettosa del dictum del giudice delle leggi, risulta possibile – una volta riaperto il contraddittorio – se ed in quanto i materiali istruttori offrano la possibilità di ritenere e qualificare le pregresse condotte delittuose (…) non solo temporalmente sequenziali in modo significativo ma anche produttive di reddito illecito utilizzato, almeno in parte, per il soddisfacimento dei bisogni primari del soggetto e il mantenimento del tenore di vita (i profitti da reato devono rappresentare una componente significativa del reddito per stare alle parole utilizzate nella decisione n.24 del 2019 Corte Cost.). Si tratta, pertanto, di attività di verifica che involgono profili di merito pieno, da rimettere al vaglio della Corte di Appello di (…), in sede di rinvio ».

3. La decisione segnalata non ha esaminato i motivi dei plurimi ricorsi (essendosi limitata limitandosi a ricordare che i ricorrentiavevano dedotto l’erronea applicazione delle previsioni regolatrici, l’assenza di motivazione su punti decisivi, il contrasto delle previsioni di legge applicate con taluni diritti fondamentali espressi nella Convenzione EDU e nella Costituzione, e che in alcuni ricorsi ed in alcune memorie sopravvenute era stata rappresentata la pendenza dell’incidente di legittimità costituzionale relativo alla disciplina di cui all’art. 1 d. lgs. n.159 del 2011, con richiesta di sollevare nuovo incidente di costituzionalità), avendo ritenuto, sia pure implicitamente, che l’eventuale inammissibilità  dei ricorsi non avrebbe condizionato la possibilità delle valutazioni officiose svolte ex art. 609, comma 2, c.p.p.; una conferma in tal senso è data dal rinvio ad una precedente decisione delle Sezioni Unite (n. 33040 del 26/02/2015, Rv. 264207), secondo la quale, nel giudizio di cassazione, l’illegalità della pena conseguente a dichiarazione d’incostituzionalità di norme riguardanti il trattamento sanzionatorio è rilevabile d’ufficio anche in caso di inammissibilità del ricorso, tranne che nel caso di ricorso tardivo (nel caso esaminato, la dichiarazione di incostituzionalità, intervenuta con la sentenza n. 32 del 2014, riguardava il trattamento sanzionatorio introdotto per le cosiddette “droghe leggere” dal d.l. n. 272 del 2005, convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2006, n. 49).

3.1. Fra le tante decisioni di rilievo, in argomento, merita di essere segnalata Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Rv. 260695, P.M. in proc. Gatto, secondo la quale <<I fenomeni dell’abrogazione e della dichiarazione di illegittimità costituzionale delle leggi vanno nettamente distinti, perché si pongono su piani diversi, discendono da competenze diverse e producono effetti diversi, integrando il primo un fenomeno fisiologico dell’ordinamento giuridico, ed il secondo, invece, un evento di patologia normativa; in particolare, gli effetti della declaratoria di incostituzionalità, a differenza di quelli derivanti dallo “ius superveniens”, inficiano fin dall’origine, o, per le disposizioni anteriori alla Costituzione, fin dalla emanazione di questa, la disposizione impugnata>>.

Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, Rv. 258650, Ercolano, ha, inoltre, chiarito che <<L’art. 30, comma quarto, l. n. 87 del 1953, relativo alla cessazione della esecuzione e di tutti gli effetti penali di sentenza irrevocabile di condanna in applicazione di norma dichiarata incostituzionale, non è stato implicitamente abrogato dall’art. 673 cod. proc. pen., posto che quest’ultima disposizione, a differenza della prima, avente natura sostanziale, è norma processuale che detta la disciplina del procedimento di esecuzione per l’ipotesi dell’abrogazione o della declaratoria d’incostituzionalità di una previsione incriminatrice>>.

Infine, secondo Sez. U, n. 27614 del 29/03/2007, Rv. 236535, Lista, <<La sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge ha efficacia “erga omnes” – con l’effetto che il giudice ha l’obbligo di non applicare la norma illegittima dal giorno successivo a quello in cui la decisione è pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Repubblica – e forza invalidante, con conseguenze simili a quelle dell’annullamento, nel senso che essa incide anche sulle situazioni pregresse verificatesi nel corso del giudizio in cui è consentito sollevare, in via incidentale, la questione di costituzionalità, spiegando, così, effetti non soltanto per il futuro, ma anche retroattivamente in relazione a fatti o a rapporti instauratisi nel periodo in cui la norma incostituzionale era vigente, sempre, però, che non si tratti di situazioni giuridiche “esaurite”, e cioè non più suscettibili di essere rimosse o modificate, come quelle determinate dalla formazione del giudicato, dall’operatività della decadenza, dalla preclusione processuale>>. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che ricorresse una situazione “esaurita” nel caso di appello del P.M. avverso sentenza assolutoria, dichiarato inammissibile per effetto degli artt. 1 e 10 comma secondo, L. n. 46 del 2006, che ne precludevano la esperibilità, pur dopo la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle relative disposizioni – C. cost. n. 26 del 2007 -, stante l’inerzia della parte pubblica, la quale, non avendo assunto alcuna iniziativa processuale intesa a prevenire il consolidarsi della inammissibilità, mediante la preliminare deduzione di incostituzionalità delle suddette disposizioni o l’esercizio della facoltà, prevista dall’art. 10 comma terzo L. cit., di proporre ricorso per cassazione entro 45 giorni dalla notifica della ordinanza di inammissibilità dell’appello, aveva di fatto prestato ad essa acquiescenza).