Sentenza CIR – Fininvest: risarcimento del danno non patrimoniale

Trib. Milano, sez. X civ., sentenza 10 luglio 2015 n. 8537 (Pres. est. Nadia Dell’Arciprete)

Danno non patrimoniale – Danno non patrimoniale da lesione del diritto costituzionalmente garantito ad un giudizio reso da un giudice imparziale – Quantificazione – Criteri di Calcolo – Parametri CEDU per il procedimento irragionevole – Sussiste(art. 2059 c.c.)

La lesione del diritto costituzionalmente garantito ad un giudizio reso da un giudice imparziale è suscettibile di risarcimento del danno non patrimoniale, ai sensi dell’art. 2059 c.c., facendo necessariamente riferimento alla valutazione  equitativa di cui all’art. 1226 c.c. L’utilizzo dell’ equità deve, tuttavia, evitare di tradursi in ingiustificate disparità di trattamento e deve tendere ad assumere, come riferimento liquidatorio, parametri oggettivi e, se possibile, di portata generale per una serie indeterminata e astratta di casi. Procedendo in questa traccia interpretativa, va rilevato che un giudizio reso da un giudice imparziale costituisce una lesione del più ampio diritto al “giusto processo” che si sostanzia, per l’appunto, nel principio del giudice imparziale. Si tratta, cioè, di una lesione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali e dell’art. 111 Cost.  Ebbene, in linea con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ,  la Legge n. 89/2001, come risultante per effetto delle modifiche introdotte dal D.L. n.35/ 2013, n. 35, convertito con modificazioni nella Legge n. 64/ 2013 e  dal D.L. n.83/ 2012, convertito con modificazioni nella Legge n.134/ 2012, n. 134, prevede espressamente un criterio di “ristoro” del danno da “processo ingiusto”. A tale titolo, infatti, il giudice può liquidare una somma di denaro non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro annuale (art. 2-bis, l. 89 del 2001).  Nel caso in esame può, quindi,  stimarsi utilizzabile, come metro di misura neutro cui riferirsi nel calcolo del danno, l’importo base  di € 1.500,00 (Nel caso di specie, partendo dalla base di euro 1500, il Tribunale ha liquidato, alla fine, euro 75.000 pari ad euro 246.000 a seguito di rivalutazione monetaria e interessi. In merito ai fatti valutati, ha così giudicato: Su detto  importo, devono poi essere applicati dei correttivi nel senso della personalizzazione e della aderenza al caso concreto. In primo luogo, nella ipotesi di specie, il processo è risultato ingiusto per la commissione di un reato: il giudice è stato oggetto di scambio corruttivo al fine di manipolare la propria funzione pubblica in aderenza agli interessi egoistici di una delle parti. Ne consegue un primo adattamento, tenendo presente la  fattispecie illecita che ha dato origine al  danno,  sorretta da un coefficiente di partecipazione soggettiva di  ampia intensità quale il dolo: si stima necessario pervenire alla somma base di € 15.000,00. Invero la percezione dell’altrui intenzionalità amplifica la sofferenza del danneggiato, il quale apprende che la lesione ai suoi diritti è stata arrecata con il precipuo fine di danneggiarlo; o, comunque, il danno è la conseguenza indiretta che il danneggiante accettava si verificasse. Deve, poi, considerarsi l’ efficacia offensiva del delitto: nel caso di specie, per effetto della corruzione, il “giudice parziale” ha  rovesciato la “decisione giusta” e offerto un risultato  opposto a quello che spettava, secondo Giustizia.  Indicativa della situazione di sofferenza  del danneggiato  è la decisione di non coltivare il giudizio in Cassazione ed accettare la transazione che, come noto, ha provocato  un ingente danno patrimoniale: la “fuga” dal sistema pubblico di risoluzione delle controversie, in coincidenza con la sentenza frutto di dolo, mette  in risalto la condizione soggettiva della CIR.  Un altro elemento che merita positivo apprezzamento è quello relativo alla collocazione storica della vicenda, nel suo complesso. In questo caso, infatti, la sofferenza è stata  amplificata dall’ ampia risonanza nazionale (e non solo) che la notizia ha avuto a mezzo di tutti i più importanti canali di informazione:  il singolo accadimento, diventato fatto di cronaca in cima ad ogni rassegna di stampa, ha assunto una dimensione estesa ed allargata e la  visibilità della vicenda a mezzo degli organi di informazione ha funzionato, in un certo senso, come cassa di risonanza dell’illecito,  analizzato  nei dettagli e nelle sue dinamiche storiche.  Ne discende,  a parere del Tribunale,  un ulteriore adeguamento che porta la somma ad € 75.000,00,  somma considerata già equa alla data del fatto illecito).

EXCURSUS STORICO

L’odierna controversia si colloca sullo sfondo di accadimenti storici accertati con efficacia di giudicato, di cui è opportuno dare atto al fine di offrire sostegno motivazionale alla decisione assunta in questa sede: si tratta, infatti, di vicende rilevanti. In primo luogo – e per la primaria importanza – occorre muovere dalla vicenda civilistica già definita dal Tribunale di Milano, con sentenza 3 ottobre 2009, seguita in secondo grado dalla decisione della Corte di Appello, sez. II civ., 4 marzo 2011, con conclusione dell’ultimo grado del giudizio, a seguito della decisione della Cassazione, sez. III civ., 17 settembre 2013 n. 21255. In secondo luogo, occorre ripercorrere il giudizio penale, sfociato nella decisione della Suprema Corte di Cassazione n. 35616 del 2007, dopo una prima pronuncia di rinvio al giudice del merito.

La vicenda civile

Gli antefatti traggono origine dalla ipotizzata ristrutturazione degli assetti societari del gruppo Mondadori, che comprendeva, nel 1988, la capogruppo AME – controllata, con partecipazione del 50%, dalla AMEF -, alcune società controllate interamente o con partecipazione maggioritaria dalla capogruppo, altre società possedute al 50% dalla capogruppo stessa, fra cui “La Repubblica”, la “Finegil” e la “Elemond”, detentrice del pacchetto di maggioranza Einaudi. L’ipotesi di ristrutturazione aveva avuto una sua prima definizione con l’accordo Formenton – Cir del 21.12.1988, che avrebbe consentito alla Cir il controllo del gruppo, riconoscendo a De Benedetti Carlo “il ruolo di imprenditore di riferimento” (così la clausola 1 dell’accordo), per effetto dei collegamenti esistenti con il gruppo “L’Espresso” (a sua volta titolare del 50% di Repubblica e di Finegil): pochi mesi dopo la stipula della convenzione (e cioè nella primavera del 1989), difatti, i proprietari del gruppo L’Espresso lo avevano ceduto alla Mondadori, in previsione della creazione di un unico, grande gruppo editoriale. Il capitale della holding di controllo AMEF (tra i cui soci era stato stipulato, nel gennaio del 1986, un patto di sindacato, sia di voto che di blocco, per la durata di 5 anni) era così composto: – 25, 75%: famiglia Formenton; – 24,59%: famiglia Mondadori; – 27,71%: ing. De Benedetti; – 8,28%: Fininvest del dott. Berlusconi; – Quote minori restanti: altre società. L’accordo aveva ad oggetto un trasferimento azionario incrociato – e cioè una permuta tra azioni ordinarie AME ed AMEF -, da perfezionarsi entro il 30 novembre 1991, che avrebbe consentito alla CIR l’acquisizione della maggioranza assoluta della holding di controllo AMEF, ed ai Formenton (tramite alcune previsioni costituenti un sostanziale patto di sindacato) una posizione di controllo della AME che andasse al di là del valore della loro nuova ed effettiva partecipazione azionaria. Veniva convenuto, inoltre, che la eventuale risoluzione delle controversie insorte nella interpretazione ed esecuzione della convenzione di permuta sarebbe stata devoluta ad un arbitrato di equità. Nel novembre del 1989 i Formenton trasferirono,  invece,  alla Fininvest lo stesso numero di azioni AMEF promesse precedentemente in permuta alla CIR, a fronte di una somma – secondo quanto opinato dalla stessa CIR in base ad indagini della G.d.F. – pari o superiore ai 200 miliardi di lire.

A cagione del susseguirsi di continue iniziative giudiziarie cautelarihic et indeproposte, la CIR, nel gennaio del 1990, decise di azionare la clausola compromissoria, affinché il costituendo collegio arbitrale accertasse l’obbligo dei Formenton di dare esecuzione all’accordo 21.12.1988, emettendo se del caso un lodo che, ai sensi dell’art. 2932 c.c., tenesse luogo del contratto non concluso. I Formenton, dal loro canto, chiesero che il collegio pronunciasse la risoluzione dell’accordo per fatto e colpa della CIR.

Il lodo Pratis/Irti/Rescigno, depositato il 20 giugno 1990: – Accertò l’obbligo dei Formenton di stipulare il contratto definitivo di trasferimento delle azioni; – Rigettò la domanda di pronuncia costitutiva di trasferimento azionario, ritenendo non ancora spirato il relativo termine di adempimento; – Rigettò la domanda di risoluzione proposta dai Formenton per insussistenza/scarsa importanza degli inadempimenti imputati a controparte.

I Formenton impugnarono la pronuncia degli arbitri dinanzi alla Corte di appello di Roma. La Corte di appello di Roma, definì il procedimento di impugnazione, con decisione redatta dal dott. Vittorio Metta, del 24 gennaio 1991: il Collegio dichiarò, in sede rescindente, la nullità del lodo per inosservanza di principi di ordine pubblico in tema di governo societario; rigettò le domande proposte dalla CIR in conseguenza della ritenuta nullità dei patti di sindacato contenuti nell’accordo del 1988, nullità da estendersi – a giudizio della corte – anche alle ulteriori pattuizioni relative alla permuta azionaria convenuta tra le parti, a cagione della ritenuta inscindibilità delle complesse ed articolate convenzioni endo-negoziali convenute tra le parti. Dopo aver presentato ricorso per Cassazione, la CIR vi rinunciò avendo, nelle more, raggiunto un accordo transattivo compositivo della lite

La vicenda penale.

Successivamente, si accertò che la decisione della corte romana era stata il frutto di atti corruttivi che avevano coinvolto (tra l’altro) il giudice relatore, Vittorio Metta. Per quanto qui interessa, a seguito di varie pronunce del Tribunale, della Corte d’Appello e della Cassazione, intervenne  la Corte d’Appello di Milano, con sentenza  del 23.2.2007 determinando la pena della reclusione per  Metta Vittorio, Previti Cesare, Pacifico Attilio ed Acampora Giovanni e condannando i predetti in solido al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, cagionati alla parte civile costituita, C.I.R., da liquidarsi in separato giudizio civile, nonché a rifondere, in solido, le spese di  rappresentanza ed assistenza.

Investita nuovamente di impugnazione, la Corte di Cassazione, con sentenza 27 settembre 2007 n. 35616 (sez. II pen.), respinse i ricorsi degli imputati.

L’azione risarcitoria di CIR

Appurato che la sentenza della Corte di Appello di Roma era stata il frutto di dolo del giudice, poiché corrotto, la CIR citò in giudizio la Fininvest dinanzi al Tribunale di Milano, per sentirla condannare al danno  subito. Nell’introdurre dinanzi al Tribunale di Milano la propria domanda risarcitoria, la CIR osservò in fatto: – che la pronuncia della Corte di appello di Roma aveva illegittimamente determinato un capovolgimento radicale nei rapporti di forza tra le parti contrattuali; – che, parallelamente alla vertenza giudiziaria ed alla luce tanto della sostanziale ingovernabilità dell’intero gruppo Mondadori, era in corso tra le parti una trattativa per la composizione transattiva della vicenda già in epoca precedente il lodo Pratis, la quale aveva subito un arresto nel periodo intercorso tra il lodo e la sentenza della Corte di Appello; che essa era  poi ripresa dopo la pubblicazione di quest’ultima e  le parti erano alla fine addivenute alla stipula di un accordo transattivo, sottoscritto il 29.4.1991, all’esito del quale alla CIR veniva conferito il gruppo “L’Espresso-Repubblica-Finegil”, ed alla Fininvest il gruppo “Mondadori classica” (libri riviste e grafica); – che in epoca precedente al deposito della sentenza della Corte di appello di Roma, a fronte di una pretesa Cir di un conguaglio di circa 500 miliardi in suo favore, Fininvest ne aveva in un primo tempo contro-proposto un altro oscillante tra i 100 e i 150 miliardi, aumentando poi l’offerta, nei giorni immediatamente precedenti il lodo Pratis, a 400 miliardi, ma  all’indomani della sentenza della Corte di appello capitolina, era stata invece la Cir a dover versare a controparte, a titolo di conguaglio, la somma di 365 miliardi di lire, in conseguenza dell’irredimibile indebolimento della propria posizione contrattuale dovuto proprio a quella pronuncia giudiziaria; – che tale indebolimento era stato, peraltro, conseguenza della corruzione del relatore ed estensore della sentenza, il dott. Vittorio Metta, corruzione da ritenersi a sua volta ideata, predisposta e consumata, nei rispettivi ruoli, da Previti Cesare, Attilio Pacifico, Giovanni Acampora, Silvio Berlusconi; – che, in particolare, quanto al dott. Berlusconi, la Corte d’Appello di Milano, nel giugno 2001, dopo aver disposto il rinvio a giudizio degli altri imputati per il reato di corruzione (rubricato come consumato “in atti giudiziari” per il solo Metta), lo aveva a sua volta ritenuto imputabile del delitto di cui agli artt. 319 e 321 c.p. (corruzione semplice), prosciogliendolo per intervenuta prescrizione previa concessione delle attenuanti generiche; – che, quanto agli altri imputati, all’esito di articolati e complessi passaggi giudiziari, la Corte di appello di Milano, con sentenza del 23.3.2007 n. 737, aveva reso definitivo – a seguito del rinvio operato dalla S.C. con sentenza 4.5.2006 – l’accertamento delle rispettive responsabilità penale in relazione alla vicenda corruttiva che aveva vulnerato la legittimità della sentenza sul lodo Mondadori; – che, dalla emanazione di quella sentenza – frutto di corruzione -, era derivato ad essa esponente un danno ingiusto consistente: 1) nella perdita del diritto a non subire l’annullamento del lodo, con conseguente indebolimento della posizione contrattuale spendibile in sede di trattative transattive; 2) nella perdita del diritto a beneficiare dell’acquisto delle azioni AMEF sì come stabilito nell’accordo CIR – Formenton, con i conseguenti vantaggi economici; 3) nella perdita del diritto a non vedere lesa l’immagine imprenditoriale della società; – che il danno patrimoniale andava calcolato, in particolare, nella differenza tra le condizioni effettive della divisione dei gruppi editoriali (c.d. “spartizione corrotta”) e le possibili condizioni di una divisione scevra dal condizionamento della sentenza Metta (c.d. “spartizione pulita”), differenza deducibile per tabulas dalle precedenti proposte contrattuali provenienti dalla stessa controparte Fininvest; – che il danno non patrimoniale, da ritenersi parimenti configurabile nella specie, appariva legittimamente predicabile con riferimento alla lesione del diritto inviolabile, costituzionalmente tutelato, di essere giudicati da un giudice imparziale, ed a quello, parimenti vulnerato  alla immagine ed alla reputazione dell’ente; – che, in via subordinata, ed a prescindere dalla intrinseca ingiustizia della sentenza Metta, essa attrice aveva comunque subito un danno da perdita di chance, essendo stata privata della possibilità di ottenere un risultato (id est, una sentenza) favorevole; – che il risarcimento del danno  doveva essere quantificato nella misura di Euro 468.882.841 oltre rivalutazione e interessi, mentre dei danni non patrimoniali si chiedeva un accertamento limitato nell’an, con riserva di quantificazione in un successivo giudizio.

Nel costituirsi dinanzi al Tribunale di Milano, la società convenuta eccepì: – che l’accordo Cir – Formenton del 1988 doveva ritenersi illecito per contrarietà ad una precedente Convenzione Amef, del 6 gennaio 1986, che vietava ai soci partecipanti al sindacato di alienare a terzi le azioni vincolate al sindacato stesso e imponeva il consenso scritto di tutti gli aderenti al patto di sindacato in caso di alienazione di azioni AMEF);  – che, nonostante gli accordi, la CIR aveva, agli inizi del 1988, dato inizio ad un vero e proprio rastrellamento di azioni sul mercato al fine di aggirare il contenuto della predetta convenzione; – che il successivo accordo del 21.12.1988 era stato stipulato a seguito di alcune garanzie pretese dalla famiglia Formenton, garanzie destinate a realizzarsi, tra l’altro, attraverso il deposito di oltre 8 milioni di azioni privilegiate AME, di proprietà CIR, presso la società Pasfid – deposito cui la CIR non aveva, in realtà, mai provveduto; – che la nullità dei patti di sindacato contenuti nell’accordo in discorso era stata sostenuta, sia pur in altra vicenda giudiziaria, addirittura dalla stessa CIR, e la relativa questione di diritto era risultata a tal punto controversa da condurre ad una decisione del lodo soltanto a maggioranza; – che la sentenza Metta conteneva, diversamente da quanto opinato dalla controparte, affermazioni e considerazioni del tutto fondate, in fatto come in diritto ed  il ritenuto vizio radicale di motivazione del lodo era a sua volta pronuncia del tutto conforme a diritto, poiché il lodo stesso, in parte qua, non consentiva di ricostruirne in alcun modo la ratio decidendi; – che la Cir, dopo aver depositato rituale impugnazione dinanzi alla Corte di legittimità invocando la cassazione della sentenza, vi aveva poi rinunciato, determinandosi ad una transazione che aveva definitivamente ed inoppugnabilmente chiuso ogni questione e le domande dell’attrice non potevano, in ogni caso, che ritenersi precluse dal giudicato formatosi sulla sentenza 24.1.1991 della Corte d’Appello romana a seguito di rinuncia al ricorso per cassazione da parte della stessa CIR; – che il diritto così come azionato era, per altro verso,  prescritto, vertendosi in tema di responsabilità aquiliana; – che la sentenza Metta, asseritamente frutto della corruzione di quest’ultimo, era comunque una pronuncia collegiale, onde la necessità della prova rigorosa della condotta di  coartazione/condizionamento esercitata dal membro corrotto sulla volontà degli altri componenti del collegio, così da orientarli ad operare nel senso ed in funzione dell’illecito intervento (in tal senso si erano espresse le stesse sezioni unite penali della Corte di legittimità con la sentenza n. 22327/ 2003): tale prova, nella specie, doveva dirsi del tutto inesistente, alla luce delle deposizioni rese in sede penale dagli altri due magistrati che avevano pronunciato la sentenza di riforma del lodo; – che, infine, quanto alla pretesa perdita di chance lamentata da controparte, nessuna reale possibilità di una sentenza favorevole poteva in concreto vantare la CIR, che, comunque, aveva essa stessa rinunciato a tale chance abbandonando il ricorso che pur avrebbe potuto opportunamente continuare a coltivare in cassazione.

Con sentenza n. 11786 del 3 ottobre 2009, il Tribunale di Milano condannò la Fininvest al pagamento, in favore dell’attrice, della somma di 749.955.611 di Euro a titolo di danno patrimoniale da perdita di chance di un giudizio imparziale, riconoscendo altresì come dovuti i danni non patrimoniali richiesti (la cui liquidazione venne peraltro rinviata ad altro giudizio). In motivazione, il giudice di primo grado: – escluse la improponibilità della domanda attorea per preclusione da precedente transazione, attesa 1) la diversità di petitum tra la domanda giudiziale di risarcimento (di natura extracontrattuale) e l’oggetto della transazione (di natura contrattuale); 2) l’assenza di qualsivoglia rimedio contrattuale a fronte dell’illecito lamentato (potendo la transazione stessa venir annullata per errore, violenza o dolo, rimedi impraticabili nella specie); 3) la “vicinanza” non sovrapponibile della causa petendi azionata ex art. 2043 c.c. e l’ipotesi di cui all’art. 1440 c.c.; – escluse la improponibilità della domanda medesima per preclusione da precedente giudicato poiché (pur prescindendo dalla circostanza dell’essere stato il giudicato stesso superato dall’atto transattivo), l’oggetto della lite non si identificava con quello della controversia risolta dalla corte di appello di Roma, la cui sentenza era, viceversa, uno degli elementi costitutivi dell’illecito lamentato dall’attrice; – escluse la improponibilità della domanda per preclusione da compiuta prescrizione (come eccepito della Fininvest); – esaminò nel merito il tema dei rapporti tra il giudicato penale di condanna degli imputati Metta, Previti, Pacifico e Acampora, il giudicato penale di proscioglimento per intervenuta prescrizione, previa concessione delle attenuanti generiche, dal reato di corruzione semplice per Silvio Berlusconi e il tema del giudizio civile instaurato dinanzi a sè, per concludere che l’affermazione di responsabilità penale di cui alla sentenza 737/2007 della corte di appello di Milano non potesse fare stato nei confronti di Fininvest (art. 651 c.p.p.), non intervenuta ne’ citata come responsabile civile in quel giudizio; – ritenne conseguentemente necessario procedere ad una autonoma ricostruzione dell’intera vicenda di corruzione che, alla luce delle numerose anomalie caratterizzanti l’iter deliberativo della sentenza Metta, non poteva che condurre ad una valutazione di “ingiustizia” di quella pronuncia: tra i suoi tanti vizi, essa ne celava uno particolarmente grave in diritto, quello, cioè di aver affermato che la motivazione del lodo (caratterizzantesi, ictu oculi, per semplicità, linearità, chiarezza, congruità, immediata comprensibilità) fosse illogica al punto da non consentire di comprenderne la stessa ratio decidendi, inficiata da un vizio di non- senso logico/giuridico: a tutto concedere, invece, la questione controversa si iscriveva tout court nell’orbita dell’interpretazione della volontà negoziale, onde la natura di quaestio facti il cui esame era del tutto precluso in sede di impugnazione di un lodo di equità; – osservò come altra grave anomalia oggettivamente riscontrabile fosse costituita dai tempi di stesura e dattilo scrittura della sentenza (composta da 167 pagine di 27 righe ciascuna), decisa nella camera di consiglio del 14.1.1991, consegnata in minuta addirittura il giorno successivo, 15.1.1991, e depositata il 24.1.1991, con inusuale tempestività, attesa la “fama di ritardatario” nel deposito delle sentenze che accompagnava il Metta; – esaminò, in via incidentale, il ruolo del dott. Berlusconi nella vicenda corruttiva, concludendo, sulla base di un ragionamento di tipo sillogistico, per la affermazione della sua corresponsabilità e per la conseguente estensione di tale responsabilità alla Fininvest – alla luce del principio che vuole predicabile la responsabilità civile delle società di capitali per il fatto illecito del legale rappresentante o dell’amministratore commesso nel corso dell’attività gestoria; – esaminò, agli stessi fini, e sempre incidenter tantum, la posizione dell’avv. Previti, al quale venne attribuito un rapporto con la società non già di ordinaria collaborazione professionale, ma di vera e propria preposizione gestoria, inquadrata nell’ambito del mandato generale; – esaminò la questione della rilevanza della corruzione di un componente di un organo collegiale ai fini della predicabilità di una oggettiva “ingiustizia” della decisione, concludendo nel senso del concreto condizionamento esercitato dal relatore Metta sulla volontà degli altri magistrati, orientatisi verso la soluzione poi adottata proprio in conseguenza di quell’illecito agire (veniva all’uopo nuovamente citata Cass. penale SS UU n. 22327/2003), e ciò in applicazione del criterio della c.d. probabilità relativa vigente in sede civile (Cass. 21619/07- Cass. SSUU n.577/08); – ritenne, in conformità al principio  di cui alla sentenza della Cassazione Penale n. 35525/2007 ( rectius n. 35325/2007)  che la presenza di un componente dell’organo giurisdizionale privato del requisito dell’imparzialità perché partecipe di un accordo corruttivo invalidasse, per difetto di legittimazione, l’atto giudiziario, e che, in sede civile, l’ingiustizia della sentenza, se passata in giudicato, potesse essere autonomamente rilevata ed affermata dal giudice civile; – ritenne integrata, all’esito della dimostrata ingiustizia della sentenza della corte di appello conseguente alla corruzione del giudice Metta, la fattispecie del danno da perdita di chance in capo all’attrice – avendo la detta corruzione privato la CIR della possibilità di ottenere una sentenza favorevole – sotto un triplice profilo: 1) di danno patrimoniale da indebolimento della propria posizione contrattuale; 2) di danno patrimoniale da lesione alla sua immagine imprenditoriale; 3) di danno da spese legali del giudizio arbitrale e del successivo giudizio di appello ingiustamente sostenute; – quantificò nella misura complessiva di Euro 937.444.514 la somma dovuta a titolo risarcitorio, ridotta del 20% per essere stata quantificata la chance perduta nella misura dell’80%, individuando tale somma come il risultato dalla differenza tra l’offerta Fininvest del 19.6.1990 e quanto invece versato alla medesima all’esito della transazione, con la aggiunta di una ulteriore posta di danno (riconosciuta a titolo equitativo) da ascriversi alle mutate (e più favorevoli) condizioni in cui versava la CIR all’indomani del deposito del lodo: considerato ancora quanto dovuto dalla convenuta per spese legali e lesione di immagine, il quantum risarcitorio venne  definitivamente determinato in Euro 749.955.611;- riconobbe infine all’attrice il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, da liquidarsi in separato giudizio, sotto il duplice aspetto della lesione del diritto (costituzionale) ad un giudizio reso da un giudice imparziale e di quella del diritto alla propria integrità, onorabilità e reputazione di persona giuridica.

La Corte d’Appello di Milano, investita delle impugnazioni proposte dalle parti,  accolse, per quanto di ragione sia l’appello principale che quello incidentale e per l’effetto, in parziale riforma della sentenza 11786/2009 , determinò in Euro 540.141.059  l’importo dovuto dalla convenuta alla data del 3.10.2009, quale risarcimento di danno immediato e diretto, e pertanto condannò Fininvest s.p.a. a pagare in favore di Cir s.p.a. tale somma, oltre agli interessi legali da detta data al saldo; dichiarò compensate per un quarto tra le parti le spese processuali di entrambi i gradi di giudizio; pose definitivamente  a carico di ciascuna parte per la metà i già liquidati costi della CTU; confermò nel resto la sentenza impugnata.

Per quanto qui interessa, la corte di appello confermò la legittimità della richiesta “frazionata” di risarcimento non patrimoniale (in applicazione del principio di diritto espresso da Cass. n. 2869 del 2003), nonché la statuizione di primo grado in relazione alla sola violazione degli artt. 24 e 111 Cost., ritenendo leso, nella specie, il diritto costituzionalmente garantito ad un giudizio reso da un giudice imparziale, ed escludendo, per converso, la lesione all’onore e alla reputazione della persona giuridica Cir, poiché la sentenza Metta non appariva in alcun modo riconducibile a canoni espressivi infamanti nei suoi argomenti e nelle sue statuizioni, trattando di questioni societarie squisitamente tecniche. La decisione del Collegio di appello venne sottoposta ad impugnazione dinanzi al giudice di legittimità che definì il ricorso con la sentenza n. 21255 del 17 settembre 2013 (decisione della sezione III civile, Pres. Trifone, est. Travaglino). La Suprema Corte accolse il solo il tredicesimo motivo di ricorso e rigettò i restanti motivi. In conseguenza dell’accoglimento del tredicesimo motivo, cassò senza rinvio il capo della sentenza di appello contenente la liquidazione del danno in via equitativa come stimata nella misura del 15% del danno patrimoniale già liquidato. Confermò nel resto l’impugnata sentenza.

 FATTO E DIRITTO

Con atto di citazione ritualmente notificato  la CIR, in questa sede,  ha chiesto  la liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., accertato, con pronuncia di condanna generica, nelle pregresse fasi giudiziali, con statuizioni passate in giudicato: invoca, una quantificazione del danno pari ad euro 32.000.000,00 oltre interessi e rivalutazione monetaria dall’evento dannoso (24 gennaio 1991).

La Fininvest si è costituita contestando le pretese attoree e, in via riconvenzionale, ha svolto istanza per la  condanna della CIR al pagamento del maggior  danno ex art. 1224 c.c., nonché  alla restituzione  di importi pagati a titolo di IVA, qualora la Cir non dimostrasse  la non detrazione della stessa ( domanda poi abbandonata dalla convenuta). 

Questioni preliminari

All’udienza ex art. 183 comma VII c.p.c. del 3 ottobre 2014  entrambe le parti hanno richiesto fissarsi udienza di precisazione delle conclusioni. Con ordinanza emessa in pari data il giudice ha  fissato l’udienza per la precisazione e, successivamente, trattenuto la causa in decisione.

Precisando le conclusioni esse  non hanno reiterato le eventuali istanze istruttorie: ne consegue che tali istanze sono da intendersi definitivamente abbandonate, come pure abbandonata è da ritenersi ogni domanda che non sia stata riprodotta nelle conclusioni.

Viene così circoscritto  ex art.112 cpc l’ambito del decidere.

Con la memoria di replica, parte attrice ha prodotto nuova documentazione: in particolare, una decisione del Tribunale di Bologna, del 10 ottobre 2014. La produzione è manifestamente inammissibile poiché versata in atti oltre ogni sbarramento decadenziale e senza alcuno spiraglio difensivo per la controparte, che non ha potuto svolgere alcun rilievo in merito alla produzione. La stessa deve, quindi, essere espunta dalla piattaforma probatoria.

Oggetto del giudizio e frazionamento del credito risarcitorio

Il codice civile, pur disciplinando il caso dell’adempimento parziale da parte del debitore non regola  il caso opposto, in cui sia il creditore ad esigere un adempimento frazionato. A livello strutturale, nel primo caso è l’adempimento ad essere scomposto in diversi momenti esecutivi; nel secondo caso, è lo stesso rapporto obbligatorio ad essere disarticolato perché il creditore mette in esecuzione distinte porzioni del credito, con comportamenti distinti. La questione giuridica è, allora, se sia consentito al creditore chiedere giudizialmente l’adempimento frazionato di una prestazione originariamente unica, perché fondata sullo stesso rapporto.

Sul tema si sono registrate due tesi opposte, ma con sentenza a  Sezioni Unite ( n. 23726/2007)  la Corte di Cassazione  ha considerato vietata la parcellizzazione del credito unitario.  Con la predetta  decisione la Corte  ha rimeditato la soluzione alla luce di in un quadro normativo evolutosi nella duplice direzione sia di una sempre più accentuata e pervasiva valorizzazione della regola di correttezza e buona fede – con riferimento ,  nel  contesto del rapporto obbligatorio,  ” al dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art.2 della Costituzione”, risolvendosi  in un abuso del processo – sia in relazione al canone del “giusto processo”, di cui al novellato art. 111 della Costituzione.

Secondo le Sezioni Unite in tal senso < si  impone una lettura “adeguata” della normativa di riferimento (in particolare dell’art. 88 c.p.c.), nel senso del suo allineamento al duplice obiettivo della “ragionevolezza della durata” del procedimento e della “giustezza” del “processo”, inteso “come risultato finale (della risposta cioè alla domanda della parte), che “giusto” non potrebbe essere ove frutto di abuso, appunto, del processo, per esercizio dell’azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione dell’attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi >.

E’ ancora intervenuta la Cassazione  con sentenza n.28286/2011, affermando che ”  In tema di risarcimento dei danni da responsabilità civile, non è consentito al danneggiato, in presenza di un danno derivante da un unico fatto illecito, riferito alle cose ed alla persona, già verificatosi nella sua completezza, di frazionare la tutela giurisdizionale mediante la proposizione di distinte domande, parcellizzando l’azione extracontrattuale ………… e ciò neppure mediante riserva di far valere ulteriori e diverse voci di danno in altro procedimento, in quanto tale disarticolazione dell’unitario rapporto sostanziale nascente dallo stesso fatto illecito, oltre ad essere lesiva del generale dovere di correttezza e buona fede, per l’aggravamento della posizione del danneggiante-debitore, si risolve anche in un abuso dello strumento processuale”; e tale  divieto di frazionamento  è stato esteso alla tutela giurisdizionale, nel processo esecutivo: “è illegittima la condotta del creditore che abbia inteso azionare, in base ad un titolo esecutivo in origine indiscutibilmente unitario, ben tre distinti processi esecutivi ossia uno per la sorta capitale, uno per gli accessori ed altro per le spese” (Cass. 8576/2013).

Le Sezioni Unite del 2007 non hanno detto quali conseguenze pratico-applicative si ricolleghino alla condotta del creditore che agisca a tutela del proprio credito unitario frazionando la domanda.

Nel silenzio delle SS.UU., è possibile rintracciare almeno due tesi giurisprudenziali, l’una che sancisce la improponibilità, ovvero inammissibilità, delle domande aventi ad oggetto una frazione soltanto dell’unico credito, l’altra che  postula la riunificazione delle domande stesse e la decisione sulle spese che tenga conto del comportamento scorretto. Quest’ultima tesi  è stata ribadita in tempi recenti dalla Suprema Corte, la quale , con  sentenza n. 5491/2015,  ha ribadito che la scissione strumentale del contenuto dell’obbligazione si pone il contrasto con il principio di buona fede e con il principio di ragionevole durata del processo,  ha disatteso gli  indirizzi espressi in Cassazione di improponibilità ed  inammissibilità)  ritenendo che “essendo illegittimo non lo strumento adottato ma la modalità della sua utilizzazione” debba operarsi su un altro piano, in particolare quello della liquidazione delle spese di lite; da riguardarsi come se il procedimento fosse stato unito fin dall’origine (così anche Cass. 9488/2014).  Questua soluzione non è, tuttavia, applicabile nel caso di “porzione del credito” già oggetto di pronuncia passata in giudicato. In simile  ipotesi il tema della infrazionabilità del credito unitario richiama l’attenzione  sull’oggetto del processo e apre la strada all’affermazione dell’ autorevole teorizzazione di una minima unità strutturale azionabile nel procedimento: la c.d. «minima unità strutturale» costituisce sostanzialmente l’oggetto del processo ed, alla luce dell’interpretazione degli artt. 24 Cost., 99 c.p.c. e 2907 c.c., è costituito dal diritto soggettivo nella sua integrità sostanziale, con la conseguenza che la decisione deve necessariamente investire la situazione sostanziale nella sua interezza, anche per rispetto del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Tale tesi si fonda essenzialmente su due argomenti: 1) l’interpretazione restrittiva del principio dispositivo, secondo cui quest’ultimo contempla la possibilità di scelta se adire o meno l’autorità giudiziaria, ma non la capacità di configurare ad libitum l’oggetto del giudizio, frazionando l’unitario diritto soggettivo in più parti processualmente distinte; 2) l’unicità della situazione soggettiva nel senso che l’attore, anche quando agisce per una frazione del suo credito, traduce tutto il suo diritto e non limita oggettivamente la sua domanda, bensì compie un’ allegazione incompleta che circoscrive in pari misura l’entità della condanna. Vale a dire, l’attore sottopone sempre a tutela processuale il diritto nella sua integralità e provoca una sentenza che sul diritto fa stato. La conseguenza di tale tesi è che il giudicato impedisce all’attore di agire per il residuo, atteso che il nuovo giudizio ha ad oggetto un rapporto già definito, e ciò in base al fatto che il giudicato investe comunque tutto il rapporto, implicitamente dedotto con la domanda giudiziale – pur se questa ha avuto per oggetto solo una parte del credito. Applicando la teoria della minima unità strutturale del processo, alla luce di una interpretazione che contrasti l’abuso del processo, si perviene ad una razionale giustificazione della falcidia in rito a fronte della domanda frazionata: è l’infrangersi della domanda giudiziale contro il giudicato che comporta la sua paralisi in rito senza accesso al merito.

E si arriva, così, alla questione oggetto dell’odierna lite: quid juris in caso di azione del creditore/danneggiato che, a fronte di un medesimo fatto illecito generatore di danno, richieda, quanto al pregiudizio patrimoniale, la sentenza di accertamento e condanna e quanto al nocumento non patrimoniale, la condanna generica per avere la liquidazione in separato giudizio?  E’ convincimento di questo Tribunale, che a questa domanda debba rispondere, con efficacia di giudicato, il giudice dell’ “an” del risarcimento al quale compete, nel momento genetico di disarticolazione del credito, di intervenire per sanzionare il frazionamento o, invece, legittimarlo.

Nel caso di specie, è pacifico  che nel giudizio di prime cure originario l’attrice aveva chiesto  il risarcimento dei danni nella somma di euro 468.882.841,02 oltre rivalutazione monetaria ed interessi dalla data della produzione del danno, svolgendo  domanda generica per i danni non patrimoniali sofferti a causa della corruzione, con riserva di quantificarli in separato giudizio. A fronte di  tale domanda – invero presentata in epoca anteriore alla pronuncia delle Sezioni Unite del 2007- , il giudice adito non aveva sollevato  alcuna questione d’ufficio (art. 101 c.p.c.) e, anzi, aveva provveduto in conformità. In particolare il giudice di prime cure, ritenuto che detta domanda di accertamento del danno non patrimoniale soltanto sull’an fosse nella fattispecie ammissibile, nonostante il  principio della non frazionabilità dei danni risarcibili derivati da un unico fatto illecito e  richiamando la sentenza della Cassazione   n. 2869/ 2003, aveva, con motivazione espressa, rigettato l’eccezione relativa alla non frazionabilità dei danni risarcibili derivati da un unico fatto illecito (v. sentenza di primo grado, pag. 139).

La Corte di Appello di Milano, investita della questione con il nono motivo di appello, aveva confermato la statuizione  ed aveva riconosciuto alla CIR il danno non patrimoniale da lesione del diritto costituzionalmente garantito ad un giudizio reso da un giudice imparziale e ciò in violazione dei principi costituzionali di cui agli articoli 24 e 111. La Corte, nel contempo, aveva respinto  la richiesta afferente al danno non patrimoniale da lesione all’onore ed alla reputazione della persona giuridica.

All’esito del giudizio di legittimità, la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21255 del 2013, aveva statuito da un lato, il diritto della CIR di ottenere il risarcimento del danno da lesione del diritto a un giudicato imparziale, dall’altro il diritto della medesima CIR di ottenere la liquidazione del pregiudizio, in separato giudizio civile.

Il giudicato, pertanto, impone di prendere atto che è accertato in modo incontrovertibile 1)  che la CIR ha subito un danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. (an debeatur),  2)  che il citato pregiudizio deve  essere risarcito a seguito di autonoma azione civile (ora qui sub iudice).

Ogni questione ulteriore è, dunque, inammissibile in questa sede. Al riguardo, questo giudice non può, dunque, esaminare la sussistenza di eventuali profili di rito ostativi alla liquidazione del pregiudizio che dovevano trovare spazio (ed eventualmente riconoscimento) nel giudizio definito dalla Suprema Corte di Cassazione. In particolare, non è possibile affrontare la legittimità (rectius:ammissibilità) della domanda di condanna generica che provochi il frazionamento del credito risarcitorio unitario. Sul punto, come si è già detto, il giudicato formatosi a seguito dell’intervento dei giudici dell’an è di segno favorevole.

Danno non patrimoniale

Va precisato, così respingendosi ogni diversa richiesta della parte attrice, che si è formato il giudicato sul tipo di danno che è ammesso a ristoro nell’odierno processo. Infatti, non ogni lesione è stata stimata esistente dal giudice della pregressa fase di cognizione. In particolare, nell’ottica della condanna generica, il giudice di merito ha enucleato (art. 2059 c.c. e art. 185 c.p.), <da un fatto di corruzione in atti giudiziari una potenzialità dannosa non eccentrica, ma perfettamente consonante, sul piano del danno non patrimoniale, rispetto all’uso abnorme del processo conseguente alla consumazione di un delitto che, dal punto di vista della persona offesa, era idoneo ad integrare “in modo emblematico” (e dunque, sul piano della presunzione semplice) la lesione dell’interesse costituzionale al giusto processo (e, prima ancora, alla tutela effettiva dei propri diritti). Non era, di converso, compito del giudice dell’an l’accertamento in concreto del danno nella sua definitiva determinazione, essendo tale compito (…) successivamente riservato al giudice del quantum debeatur> (Cass. civ. già cit). In particolare, quel procedimento di merito ha accertato “il danno non patrimoniale da lesione del diritto costituzionalmente garantito ad un giudizio reso da un giudice imparziale”.

E’ questa (e solo questa) la lesione che deve trovare ristoro monetario nella presente  sede. Nemmeno può tenersi conto di altre voci di danno “in via indiretta” (ciò costituirebbe elusione di giudicato): coglie nel segno l’eccezione della Fininvest là dove contesta il fatto che la CIR chieda che si tenga conto delle ricadute negative sulla immagine della danneggiata (voce di pregiudizio espressamente esclusa nel giudizio sull’an, come si è già detto). Identica considerazione valga  per la presunta lesione dell’onore e della reputazione, come pure per tutti i  riferimenti a fatti o circostanze del tutto estranei al terreno risarcitorio oggetto dell’odierno procedimento, come la presunta caduta del titolo CIR in borsa (  pure esclusi nel giudizio sull’an) .

Il Tribunale stima  risarcibile il danno non patrimoniale in parola. Come è noto, nelle prime interpretazioni che sono state fornite dell’art. 2059 cod. civ. – nella parte in cui prevede tale forma di risarcimento soltanto nei casi previsti dalla legge – si riteneva che la legge richiamata fosse esclusivamente quella penale. In questa prospettiva, diretta a valorizzare il profilo sanzionatorio del danno non patrimoniale – inteso come danno morale soggettivo (sentenza n. 184 del 1986) – era, pertanto, necessario che la condotta posta in essere integrasse gli estremi di un fatto penalmente illecito.  La successiva giurisprudenza della Consulta (sentenza n. 233 del 2003) e anche della Corte di cassazione (Cass. SSUU n. 26972/2008) – dopo avere spostato il centro dell’analisi sul danneggiato, e dunque sui profili restitutori, e dopo avere identificato l’esatta natura del danno non patrimoniale come avulsa da qualunque forma di rigidità dommatica legata all’impiego di etichette o fuorvianti qualificazioni – ha allargato le maglie del risarcimento del danno non patrimoniale, affermando che esso deve essere riconosciuto, fermo restando la sussistenza di tutti gli altri requisiti richiesti ai fini del perfezionamento della fattispecie illecita, oltre che nei casi specificamente previsti dal legislatore, quando viene leso un diritto della persona costituzionalmente tutelato. In definitiva, l’attuale sistema della responsabilità civile per danni alla persona, fondandosi sulla risarcibilità del danno patrimoniale ex art. 2043 cod. civ. e non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ., è, pertanto, essenzialmente un sistema bipolare. La Corte di Cassazione, riconducendo ad organicità tale sistema, ha, inoltre, elaborato taluni criteri, legati alla gravità della lesione, idonei a selezionare l’area dei danni effettivamente risarcibili (citata sentenza n. 26972 del 2008). Di significativo rilievo, in particolare, sono le considerazioni che le Sezioni Unite hanno espresso in ordine al fatto: 1) che la lesione debba riguardare un interesse di rilievo costituzionale; 2) che l’offesa sia  grave, nel senso che debba superare una soglia minima di tollerabilità; 3) che  il danno debba essere risarcito quando non sia futile, vale a dire riconducibile a mero disagio o fastidio. Questi principi trovano applicazione anche in favore del danneggiato che non sia persona fisica bensì Ente (v. Corte Costituzionale n. 355/2010; Cass. n. 4542/2012;  Cass. n.18082/2013). Orbene, nel caso in esame, il pregiudizio discende non solo dalla commissione di un delitto (accertata in concreto), ma anche dalla lesione di un diritto costituzionalmente tutelato.

Può, dunque, procedersi alla quantificazione del danno non patrimoniale, premettendo, tuttavia, quanto segue.

Nel caso di specie, deve farsi necessariamente riferimento alla valutazione  equitativa di cui all’art. 1226 c.c.. Ma  nell’attuale assetto  l’equità cd. pura, scollata da ogni parametro o riferimento, non appare più in sintonia con i principi costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza. Come hanno avuto modo di precisare i giudici di legittimità, nel settore del danno alla salute (che pure è un danno ex art. 2059 c.c.), l’equità assolve anche alla fondamentale funzione di “garantire l’intima coerenza dell’ordinamento, assicurando che casi uguali non siano trattati in modo diseguale”, con eliminazione delle “disparità di trattamento” e delle “ingiustizie”, a tale stregua venendo ad assumere il significato di “adeguatezza” e di “proporzione” (Cass. n. 14402/ 2011; Cass. n. 12408/2011).

L’utilizzo dell’ equità deve, quindi, evitare di tradursi in ingiustificate disparità di trattamento e deve tendere ad assumere, come riferimento liquidatorio, parametri oggettivi e, se possibile, di portata generale per una serie indeterminata e astratta di casi.

Procedendo in questa traccia interpretativa, stima questo Tribunale che, oggi, l’Ordinamento preveda espressamente dei criteri risarcitori “base” per il processo che sia ingiusto, come lo è quello viziato dal dolo del giudizio. Infatti, la lesione del diritto costituzionalmente garantito ad un giudizio reso da un giudice imparziale costituisce una lesione del più ampio diritto al “giusto processo” che si sostanzia, per l’appunto, nel principio del giudice imparziale. Si tratta, cioè, di una lesione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali e dell’art. 111 Cost.

Ebbene, in linea con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ,  la Legge n. 89/2001, come risultante per effetto delle modifiche introdotte dal D.L. n.35/ 2013, n. 35, convertito con modificazioni nella Legge n. 64/ 2013 e  dal D.L. n.83/ 2012, convertito con modificazioni nella Legge n.134/ 2012, n. 134, prevede espressamente un criterio di “ristoro” del danno da “processo ingiusto”. A tale titolo, infatti, il giudice può liquidare una somma di denaro non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro annuale (art. 2-bis, l. 89 del 2001).

Nel caso in esame può, quindi,  stimarsi utilizzabile, come metro di misura neutro cui riferirsi nel calcolo del danno, l’importo base  di € 1.500,00. Questa somma è quella che, secondo un indice di riferimento autorevole come quello offerto dalla giurisprudenza dei diritti fondamentali (v. Cass. n. 1630/ 2006 che richiama la CEDU), mira a coprire la sofferenza che un individuo abbia accusato per avere subito un procedimento ingiusto.

Su detto  importo, devono poi essere applicati dei correttivi nel senso della personalizzazione e della aderenza al caso concreto. In primo luogo, nella ipotesi di specie, il processo è risultato ingiusto per la commissione di un reato: il giudice è stato oggetto di scambio corruttivo al fine di manipolare la propria funzione pubblica in aderenza agli interessi egoistici di una delle parti. Ne consegue un primo adattamento, tenendo presente la  fattispecie illecita che ha dato origine al  danno,  sorretta da un coefficiente di partecipazione soggettiva di  ampia intensità quale il dolo: si stima necessario pervenire alla somma base di € 15.000,00. Invero la percezione dell’altrui intenzionalità amplifica la sofferenza del danneggiato, il quale apprende che la lesione ai suoi diritti è stata arrecata con il precipuo fine di danneggiarlo; o, comunque, il danno è la conseguenza indiretta che il danneggiante accettava si verificasse. Deve, poi, considerarsi l’ efficacia offensiva del delitto: nel caso di specie, per effetto della corruzione, il “giudice parziale” ha  rovesciato la “decisione giusta” e offerto un risultato  opposto a quello che spettava, secondo Giustizia.

Indicativa della situazione di sofferenza  del danneggiato  è la decisione di non coltivare il giudizio in Cassazione ed accettare la transazione che, come noto, ha provocato  un ingente danno patrimoniale: la “fuga” dal sistema pubblico di risoluzione delle controversie, in coincidenza con la sentenza frutto di dolo, mette  in risalto la condizione soggettiva della CIR.

Un altro elemento che merita positivo apprezzamento è quello relativo alla collocazione storica della vicenda, nel suo complesso. In questo caso, infatti, la sofferenza è stata  amplificata dall’ ampia risonanza nazionale (e non solo) che la notizia ha avuto a mezzo di tutti i più importanti canali di informazione:  il singolo accadimento, diventato fatto di cronaca in cima ad ogni rassegna di stampa, ha assunto una dimensione estesa ed allargata e la  visibilità della vicenda a mezzo degli organi di informazione ha funzionato, in un certo senso, come cassa di risonanza dell’illecito,  analizzato  nei dettagli e nelle sue dinamiche storiche.

Ne discende,  a parere del Tribunale,  un ulteriore adeguamento che porta la somma ad € 75.000,00,  somma considerata già equa alla data del fatto illecito. Ad essa devono essere aggiunti gli interessi e la rivalutazione monetaria. Costituendo l’obbligazione di risarcimento del danno un’obbligazione di valore sottratta al principio nominalistico, la rivalutazione monetaria è dovuta a prescindere dalla prova della svalutazione monetaria da parte dell’investitore danneggiato ed è quantificabile dal giudice, anche d’ufficio, tenendo conto della svalutazione sopravvenuta fino alla data della liquidazione. È altresì risarcibile il nocumento finanziario (lucro cessante) subito a causa del ritardato conseguimento della somma riconosciuta a titolo di risarcimento del danno, con la tecnica degli interessi computati non sulla somma originaria né su quella rivalutata al momento della liquidazione, ma sulla somma originaria rivalutata anno per anno (v. SS.UU. sent. n. 1712/95). All’esito del calcolo, il pregiudizio alla attualità è pari ad € 246.000,00.

Non si stima riconoscibile una somma maggiore, se non frustrando la funzione stessa della responsabilità civile o modellandola non già in base alla lesione effettiva, ma in ragione della “qualità del danneggiato”, quasi ad affermare che una parte con maggior patrimonio possa soffrire di più. Invero il risarcimento del danno si colloca, sistematicamente, nell’ambito delle sanzioni civili riparatorie. Si tratta di una tutela rimediale con carattere compensativo (e non punitivo) in quanto tende a reintegrare il danno provocato dalla violazione della situazione giuridica soggettiva: conseguentemente, per la vittima è “pecuniariamente” indifferente non patire il danno, ovvero patire il danno ma intascare il risarcimento (cd. principio di indifferenza). La matrice squisitamente compensativa della tutela rimediale esclude che il danneggiato possa trarre vantaggio dal fatto illecito essendogli precluso di incamerare più di quanto sia necessario per ricondurlo allo status quo ante (ossia la situazione precedente l’illecito). Taluni sostengono che, accanto alla tipica funzione reintegratrice, la tutela risarcitoria avrebbe anche una funzione di general deterrence con ricadute pratico-applicative in punto di quantificazione della somma riparatoria: ma non è questa la funzione del risarcimento del danno. Ma  gli studi più recenti e la giurisprudenza costante assegnano  alla tutela del risarcimento una vocazione reintegratrice ritenendo che il danno abbia lo scopo di sostituire un’ utilità perduta con un equivalente pecuniario equitativamente scelto. Questo procedimento di «monetizzazione delle perdite» non può essere  parametrato a dati che si collochino fuori dalla lesione: peraltro un ente soffre, in genere, il danno morale a causa di un fatto delittuoso diversamente da come lo soffrirebbe una persona fisica, cioè con minore impatto lesivo.

[6]. Domande riconvenzionali della Fininvest

La domanda della Fininvest, di restituzione del maggior danno ex art. 1224 c.c., a seguito della riforma del quantum del risarcimento del danno patrimoniale, ad opera della Suprema Corte di Cassazione, sarebbe inammissibile per incompetenza funzionale: la convenuta, infatti, avrebbe dovuto presentare le proprie richieste davanti al giudice che ha pronunciato la sentenza cassata, ex art. 389 c.p.c.

Tuttavia, la domanda non merita accoglimento “nel merito” e il rigetto consente il superamento di tutte le altre questioni, anche di  rito ( Cass. SSUU n. 9936/2014), in applicazione del principio  della cd. ragione più liquida, in base al quale la domanda può essere respinta sulla base della soluzione di una questione assorbente già pronta, senza che sia necessario esaminare previamente tutte le altre.

Ebbene l’art. 1224 c.c. presuppone che il debitore abbia ritardato l’adempimento ed, in presenza di taluni presupposti, riconosce al creditore anche un pregiudizio da svalutazione. La Fininvest sostiene che il danno derivi dalla mancata disponibilità della somma oggetto di restituzione, ma, in tal  modo, propone una domanda che esula completamente dall’orbita dell’art. 1224 c.c.:  infatti  il “titolo” per ottenere la restituzione della somma di circa euro 72 milioni è da individuare  nella sentenza della Corte di Cassazione e, dopo la decisione, la CIR ha restituito l’importo,  in esecuzione della stessa, né avrebbe dovuto farlo se non dal momento successivo al deposito della pronuncia di Cassazione. La domanda è, quindi, infondata.

Spese del processo

A fronte della somma richiesta da parte attrice, si rileva che la riduzione operata in sentenza, pur non integrando gli estremi della soccombenza reciproca, ugualmente può giustificare la compensazione totale o parziale delle spese (Cass. n. 22388/2012).

Tenuto conto della eccedente domanda della  Cir e della  soccombenza della  Fininvest sulla domanda riconvenzionale, si stima equo compensare tra le parti le spese processuali nella misura di un terzo, ponendo a carico  della convenuta il residuo.

Si rimanda la liquidazione in dispositivo,  rilevando la  mancanza della fase istruttoria.

Va, però, fatta una precisazione: il principio di adeguatezza e proporzionalità impone una costante ed effettiva relazione tra la materia del dibattito processuale e l’entità degli onorari per l’attività professionale svolta. Il decisum prevale, quindi, sul disputatum (Cass. SSUU n. 19014/2007),  salvo il caso in cui vi sia rigetto integrale della domanda attorea ove consegue che il valore della controversia sia quello corrispondente alla somma domandata dall’attore (Cass. n. 5381/2006). Nel caso in esame, dunque, il valore della controversia, su cui calcolare le spese di lite, è di € 246.000,00; gli importi vengono liquidati nel valore intermedio tra i medi e i massimi.

P.Q.M.

il Tribunale definitivamente pronunciando, contrariis reiectis,

  • dichiara l’inutilizzabilità del documento prodotto dalla parte attrice con la memoria di replica (sentenza del Tribunale di Bologna, del 10 ottobre 2014);
  • condanna la Fininvest  al risarcimento del danno non patrimoniale in favore di CIR  liquidato in complessivi € 246.000,00 oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo;
  • respinge la domanda riconvenzionale  proposta dalla Fininvest ex art. 1224 c.c.;
  • dichiara la compensazione delle spese processuali tra le parti nella misura di un terzo e condanna la Fininvest alla rifusione in favore di Cir del residuo, che si liquida in  € 8.000,00  per compensi ed € 983,00 per spese, oltre 15% per rimborso forfettario, IVA e CPA.

Così deciso in Milano il 9.7.2015

Il Giudice

Dott. Nadia Dell’Arciprete