Senza una “missione collettiva” contro l’emergenza, la confusione non si placherà

di Francesco Clementi [1]

Quando l’emergenza della pandemia del coronavirus è arrivata, il nostro Paese è stata la prima democrazia a dover individuare una strategia di contenimento e di riduzione di un’epidemia – che poi sarebbe stata definita una pandemia – che rispettasse, a differenza di altre realtà ordinamentali del mondo già contagiate, i valori e i principi dello Stato di diritto, a partire dalla tutela delle garanzie costituzionali e della articolazione pluralistica e dialogante dei nostri poteri.

Una sfida non da poco. Soprattutto perché – a differenza di altri ordinamenti, anche europei – “l’emergenza” nel nostro ordinamento non ha un suo chiaro “statuto”.

I poteri di emergenza, infatti, come accurati studi anche di recente non hanno mancato di sottolineare (da quello di Paolo Bonetti, a quello di Andrea Cardone a quello di Edoardo Raffiotta), trovano fondamento in norme e disposizioni sparse, le principali delle quali attengono, nel nostro sistema delle fonti, come noto innanzitutto intorno a due disposizioni costituzionali: l’art. 77 riguardo al decreto legge e, per altro verso – pure non poco invocato in questi giorni, non a caso – riguardo ai poteri di guerra previsti all’art. 78 della Costituzione.

Forse poco, davvero troppo poco, per consentirci oggi di essere all’altezza della sfida rispettando pienamente, cioè senza smagliature né sgrammaticature, lo Stato di diritto così come delineato nel nostro ordinamento. Ma anche poco, davvero troppo poco, per evitare un domani – quando l’emergenza sarà terminata – di affrontare con piena consapevolezza la sfida di un ammodernamento, anche su questo punto, delle nostre Istituzioni. Se non altro perché, come ebbe a segnalare in tempi non sospetti anche lo stesso Presidente della Repubblica Cossiga in un messaggio alle Camere nel 1991, il rischio è la perdita «di identità delle Istituzioni, quasi che il cammino compiuto dal 1946 ad oggi, anziché concorrere a puntualizzare e a precisare i caratteri ed i ruoli delle varie istituzioni, avesse invece in qualche modo contribuito ad accrescere, intorno a questi caratteri e a questi ruoli, ambiguità, dubbi, contraddizioni.».

E quella confusione, cioè il cammino dentro una crescente “zona d’ombra” almeno in parte – non nascondiamocelo – è avvenuta.

La prova di ciò è emersa, d’altronde, proprio nel momento in cui, a quasi due mesi dalla delibera dello stato di emergenza da parte del Governo, si è venuta a chiudere sostanzialmente la prima fase della gestione dell’emergenza con l’adozione del decreto legge n. 19 del 2020, che è stata una sostanziale “sanatoria” di tutti i provvedimenti adottati; a questo atto – ancora una volta a sanatoria – si sono poi aggiunte, peraltro, pure le parole del Presidente del Consiglio nella conferenza stampa e nella conseguente informativa urgente alla Camera dei Deputati del 25 marzo, che hanno sottolineato e ribadito la promessa di venire a riferire in Parlamento una volta ogni quindici giorni.

Insomma, qualcosa non ha funzionato nell’interpretazione dei poteri di emergenza nel nostro ordinamento. Ed è stato assai corretto porvi rimedio, non da ultimo per evitare, pro-futuro, anche precedenti poco in linea con la nostra tradizione costituzionale.

Eppure, se da un lato il contenuto del decreto legge n. 19 del 2020 sistematizza e fa ordine all’interno dei numerosi e diversi tipi di provvedimenti emanati in queste settimane, rimane ancora comunque pienamente operativa la strategia di politica del diritto adottata dal Governo: quella che trova nell’uso del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri lo strumento privilegiato per la decisione da un lato, e, dall’altro, quella che privilegia un debole coordinamento tra lo Stato e le Regioni nella gestione presente e futura dell’emergenza.

Insomma, “messo il punto” – come si dice- non si è andati però a capo, evitando dunque di perpetuare definitivamente un comportamento poco in linea con il senso del testo costituzionale e i principi ispiratori dell’ordinamento.

Al contrario, invece, si è continuato tanto nell’uso dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri come strumenti principali dell’emergenza quanto, del pari, nell’evitare di favorire – a maggior ragione di fronte all’assenza di una clausola di supremazia nell’art. 117 della Costituzione – un forte dialogo basato sui principi di leale cooperazione, di proporzionalità e di sussidiarietà con le autonomie, dando pieno rispetto a quanto previsto dall’art. 114 della Costituzione così come, inutile dirsi, a quell’equi-ordinazione tra Regioni e Stato delineata dall’art. 117 della Costituzione. Quest’ultima è una scelta, peraltro, che sembra essere troppo debole anche semplicemente se si tiene conto di quanta unità, condivisione e fiducia reciproca sembra essere necessaria, invece, per sconfiggere oggi questo virus.

Gli effetti allora di quelle ambiguità denunciate, inevitabilmente, continueranno a permanere, a partire da un potenziale aggiramento del Parlamento e delle sue prerogative. In fondo – nonostante i tentativi e le ipotesi di forme di presenza dei parlamentari anche nuove di fronte all’emergenza del coronavirus, come può essere il voto a distanza adottato da altre democrazie (cfr. il primo report della rivista scientifica “Federalismi”) – non ci sarà molto da lavorare se si continuerà da parte del Governo nell’uso della normativa secondaria rispetto alla fonte legislativa propria di queste situazioni, ossia il decreto legge. Non può essere, insomma, il timore di essere accusati di adottare – anche intensamente – i provvedimenti che la Costituzione prevede proprio per i casi di “straordinaria necessità ed urgenza” a porre in difficoltà il Governo. Il timore, al contrario, deve essere un altro: quello di allargare la falla già da molti denunciata nell’ordinamento, continuando a privilegiare gli strumenti della normativa secondaria, a partire dal decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, per gestire l’emergenza della pandemia del coronavirus.

Così come tornerà a riproporsi il problema che la scelta del Governo di un coordinamento debole tra lo Stato e le Regioni, inevitabilmente, determinerà. Infatti sarà difficile per i vari Presidenti delle Regioni – come si è visto dapprima del Nord e poi di tutto il Paese – decidere smettere di adottare, come è già avvenuto, spesso con “garibaldina” autonomia, delle ordinanze più cogenti e restrittive; quelle che hanno determinato non pochi problemi di comprensione da parte di cittadini e imprese, smarriti e incerti sul loro agire quotidiano in ragione di disposizioni spesso confuse e contraddittorie.

Eppure, è stato così evidente il fatto che quanto più si è diffusa la pandemia tra i cittadini tanto più si è diffusa l’asimmetria delle soluzioni e dei provvedimenti adottati su tutto il territorio nazionale, determinando una situazione che andava capita, interpretata e sanata invece che, al contrario, ancora, ciecamente, proseguita.

Che fare oggi, dunque?

Dentro questa situazione la migliore risposta, a mio avviso, al di là delle scelte normative e di comportamenti che il Governo e gli esecutivi delle autonomie sceglieranno di adottare, sarà ancora una volta quella di sollecitare quanto prima una “missione collettiva” contro l’emergenza, cercando di scatenare quell’autentico moltiplicatore sociale che, in casi come questi, trasforma i cittadini, rendendoli davvero consapevoli delle responsabilità che personalmente hanno, e che rende le norme concrete, via via “messe a terra”, al di là della forma juris o del soggetto dal quale provengono, chiaramente intellegibili ma pure positivamente tollerabili.


[1] Francesco Clementi è professore di diritto pubblico comparato – Università degli Studi di Perugia.