Sistema elettorale per l’elezione del C.S.M. di Salvo Leuzzi

  1. Il fallimento del sistema elettorale vigente.

Ancorchè mirata a circoscrivere l’egemonia correntizia nella gestione delle candidature e nel governo delle susseguenti dinamiche elettorali, la l. 28 marzo 2002, n. 44 ha tangibilmente mancato il proprio bersaglio. I gruppi associativi all’ANM hanno finito per essere, non tanto rafforzati, quanto sottoposti ad una mutazione genetica, tanto di senso, quanto di prospettiva. Infatti, sono state indotte ad assumere un impronosticato ruolo di “centri di potere”, al quale erano ontologicamente persino impreparate.

La matrice culturale e valoriale dei gruppi, tesa a guidare un approccio critico e consapevole dei singoli alle questioni connesse all’esercizio della giurisdizione, è tragicamente sbiadita. A scolorirla, nell’immaginario collettivo, è stata l’assunzione, a monte, ad opera delle correnti, di compiti di controllo sulla designazione dei candidati per il CSM – sempre riconducibili organicamente ad esse – e di incombenze “contabili” sui voti necessari a condizionare favorevolmente gli esiti della competizione, se non a prepararla “a tavolino”.

A valle, è grevemente venuta in auge una chiave di approccio ai compiti correlati all’autogoverno, infettata in misura esiziale da condotte di carattere lottizzatorio o di “smistamento” di ruoli, nomine, designazioni.

Le ragioni di una divaricazione tanto netta fra scopo della legge e risultato raggiunto non sono, se si guarda al contesto premesso, di disagevole lettura.

Di certo, ha inciso la drastica riduzione, da 20 a 16, dei seggi elettivi assegnati ai magistrati togati, resa ancor più deleteria dalla relativa suddivisione per fasce. La prima di tali storture viene efficacemente corretta dal ddl in itinere; la seconda si presta ad essere raddrizzata dalla soluzione che appresso si proporrà.

Nel novero delle cause del tracollo del sistema elettorale in vigore si è poi iscritto, a pieno titolo, il conio di un unico collegio nazionale, la diretta conseguenza del quale si è sostanziata nell’innalzamento del quorum necessario all’elezione. Ciò ha finito per imporre agli aspiranti candidati l’esigenza di fare appello all’appoggio di gruppi organizzati sul piano nazionale, come tali in grado di aggregare – quindi sostanzialmente di “pilotare” – i suffragi indispensabili, sul presupposto dell’appartenenza alla corrente, prima che sul piano (ormai recessivo) della credibilità personale e della statura professionale del singolo nel contesto di provenienza e di riferimento.

Senza il supporto “strutturato” della corrente, in un ambito territoriale lungo e largo quanto la penisola, utopisticamente un candidato, pure localmente apprezzato per le proprie qualità personali e professionali, ma giustamente lontano dalle ribalte giornalistiche e televisive, è in grado di ottenere i consensi sufficienti alla nomina e, a ben guardare, addirittura di sostenere economicamente una campagna elettorale in giro per l’Italia.

Gli elettori, dal canto loro, in quanto chiamati ad eleggere candidati geograficamente distanti, sono stati indotti ad affidarsi alle indicazioni “di schieramento”, più che al voto d’opinione che sorge dalla consapevolezza del curriculum e del valore di candidati eleggibili a loro finanche ignoti.

  • La riforma come occasione da cogliere.

L’attenuazione del proprio peso specifico in rapporto all’autogoverno è per le correnti un’occasione da cogliere, non uno scotto che la congiuntura storica impone.

Il futuro dei gruppi associativi fa fulcro su due concomitanti e irrinunciabili premesse: la prima coincide con la negazione, nell’immagine e nello stile, della magistratura più tetra, che è quella disvelata dai cortocircuiti consiliari e dai corridoi paraconsiliari; la seconda attiene al recupero doveroso della dimensione delle origini, quella che vedeva nelle correnti altrettante comunità, a loro modo custodi delle buone regole per tutti, con addosso un sentimento civile della giurisdizione vissuto come moralmente impegnativo.

I gruppi sopravvivono solo se tornano ad essere luoghi di confronto permanente tra i magistrati; contesti indispensabili di approfondimento delle questioni interpretative e problematiche organizzative connesse alla giurisdizione; mezzi formidabili di maturazione di sensibilità individuali, quindi pure collettive; ambiti necessari di conoscenza plurale delle interazioni tra i fenomeni sociali ed economici e l’attività giudiziaria. L’efficienza della giurisdizione, l’efficacia dei controlli di legalità, l’effettività della tutela dei diritti trovano solo in questa rinnovata prospettiva il proprio imprescindibile baricentro sistemico.

In un quadro siffatto, è perfino fisiologico che le correnti circoscrivano il raggio della propria incidenza sull’autogoverno, sol che si consideri la rispondenza di quest’ultimo a finalità che – costituzionalmente – sono altre e radicalmente diverse rispetto a quelle dianzi espresse.

  • Una possibile soluzione.

Un’opzione percorribile postula il mantenimento di un solo collegio nazionale esclusivamente con riferimento ai due magistrati di legittimità da eleggere. Costoro, d’altronde, appartengono all’unico ufficio a giurisdizione nazionale: la Suprema Corte di Cassazione. Pertanto, è naturale che i seggi di legittimità sèguitino ad essere attribuiti con sistema maggioritario su un collegio ritagliato sui confini dello Stato, secondo il regime già in atto vigente.

Avuto riguardo, per converso, ai seggi da attribuirsi ai magistrati di merito, si addiverrà alla composizione di collegi elettorali in numero corrispondente a quello dei giudici e/o dei pubblici ministeri da nominare.

È opportuno, secondo una prospettiva di semplificazione e di neutralità di accosto ai delicatissimi compiti consiliari, che nel singolo collegio uninominale possa indifferentemente candidarsi un pubblico ministero o un giudice.

In tal senso, la ridefinizione del sistema elettorale passa per la soppressione del collegio unico nazionale dei pubblici ministeri. Quest’ultimo ha dato plasticamente pessima prova di sé, nella misura in cui ha concretamente svilito l’ultima tornata elettorale, dissolvendola in un simulacro imbarazzante di competizione fra quattro magistrati per quattro posti: i candidati sono stati in tal modo proclamati vincitori dal “cartello” fra le correnti, di fatto in anticipo rispetto alla vigilia del voto.

Il riallineamento del regime elettorale alle previsioni anteriori all’entrata in vigore della novella ex l. n. 44 del 2002 consentirà a ciascun magistrato di merito in quanto tale, quali che siano in atto le funzioni esercitate, di accedere alla competizione. Il sistema verrà in tal modo depurato dalla ambigua ed endemica tendenza del singolo candidato a rispondere, anziché alle esigenze di efficienza dell’autogoverno e della giurisdizione in sé e per sé considerati, ad una scala precostituita, se non preconcetta di priorità, correlate all’appartenenza all’uno anziché all’altro ambito giurisdizionale, secondo un’impostazione affatto contemplata dalla Carta costituzionale.

I collegi uninominali di nuova introduzione saranno comprensivi di una cifra complessiva di elettori tendenzialmente equivalente ed omogenea nei 18 collegi previsti dal ddl di riforma, il quale opportunamente riporta a 20 complessivi gli attuali 16 seggi previsti dalla l. n. 44 del 2002.

In tal guisa, i titolari del diritto di elettorato attivo di ciascun collegio assommeranno a 500 unità circa, con conseguente abbassamento del quorum utile all’elezione. Dal che deriverà, per attributo congenito, un ampliamento degli spazi di partecipazione diretta dei magistrati nella selezione dei candidati, i quali verranno supportati e “promossi” sulla base del prestigio e delle qualità personali, piuttosto che “blindati” dall’esibita appartenenza correntizia.

In virtù della dimensione geograficamente circoscritta dei collegi, gli elettori potranno apprezzare il collega candidato in base ad un rapporto fiduciario, giammai condizionato da logiche di schieramento. Ne discenderà, in convergenza, una compressione dell’impatto dei gruppi associativi nelle dinamiche elettorali, le quali ultime saranno di fatto depurate dal congegno dei “travasi” di voti da un “territorio” all’altro al fine di favorire il “militante” di corrente.

Il collegio uninominale permetterebbe, inoltre, di salvaguardare il tessuto delle esperienze maturate dal candidato nel territorio di provenienza e la conoscenza, da parte sua, di problematiche giurisdizionali e organizzative che hanno, sovente, una declinazione caratteristicamente locale. Per rifrazione, verrebbe assicurata una rappresentanza stabile e capillare di tutte le realtà territoriali, le quali vivono e scontano problemi articolati, peculiari ed eterogenei.

La necessità di correggere la distorsione di sistema rappresentata da candidati “calati dall’alto” per deliberazione dei gruppi associativi (se del caso attraverso trasferimenti extradistrettuali “tattici” del designato o passaggi “strategici” da una funzione all’altra nell’imminenza della competizione elettorale), presuppone l’inserimento tra i requisiti di eleggibilità del magistrato della permanenza per almeno un triennio in uno in uno o più degli uffici ricompresi nel collegio uninominale di presentazione della candidatura. 

Nell’opportunità di neutralizzare il condizionamento dell’elettorato attivo sulla base della maggiore esposizione mediatica dei magistrati del pubblico ministero, che consegna a costoro (pure involontariamente) una più spiccata notorietà, spendibile alla bisogna per finalità elettorali, costoro potranno candidarsi nel distretto di appartenenza solo qualora vi abbiano esercitato le funzioni per almeno un triennio (al pari dei giudici), ma per non oltre otto anni complessivi.

In un’ottica di depotenzialmento ulteriore delle correnti, i magistrati di ciascun collegio uninominale presenteranno candidature singole, fermi gli adempimenti previsti dall’art. 25, comma 3, l. 195 del 1958. Rimane ferma e impregiudicata la facoltà del candidato di affiancare al proprio nome, anziché un logo bianco e/o vuolo ovvero di fantasia, il simbolo del proprio gruppo associativo, valendo ciò a a segnalarne in modo nitido e acconcio il profilo e percorso culturale e ideale. 

Non saranno previsti voti di lista, ma solo voti di preferenza sul singolo candidato, il che consentirà un ulteriore affievolimento della centralità delle correnti, che in tanto verrebbe conservata in quanto venisse suggellato il meccanismo del voto di lista e per liste contrapposte, nel cui quadro il numero dei consensi complessivamente ottenuti da una di esse ridonderebbe a vantaggio dei suoi appartenenti, determinando, in cifra globale, il numero dei seggi a ciascuna attribuibili.

Il regime elettorale sarà, di poi, impostato sul meccanismo del doppio turno, che si contraddistingue per l’estrema semplicità e per l’attitudine, da un lato, a determinare vincitori rappresentativi di aree geografiche ben definite, dall’altro, a diminuire l’influenza delle negoziazioni tra i candidati.

Su queste basi, nel prefigurato nuovo sistema dovrà risultare eletto al primo dei due turni quello, fra i candidati, che avrà ottenuto il 51% dei consenti validi.

Qualora nessuno tra i canditati abbia raggiunto il quorum anzidetto, accederanno al secondo turno di voto i due candidati più votati.

Sarà, infine, eletto quello fra costoro che, in esito al turno di ballottaggio, abbia conseguito il maggior numero di preferenze.

Nel caso in cui al primo turno, nel singolo collegio uninominale, si presenti un solo candidato, non si procederà al voto e il seggio verrà assegnato al candidato che, risultato perdente nel turno di ballottaggio di altro collegio uninominale, abbia conseguito il miglior quoziente elettorale in rapporto al numero dei voti espressi. Ove la competizione elettorale si sia esaurita al primo turno in tutti i collegi, sarà eletto il candidato non eletto che abbia conseguito detto miglior quoziente al primo turno di votazione.

In ipotesi in cui al primo turno si presentino soltanto due candidati, tra costoro si procederà direttamente al ballottaggio e risulterà eletto quello che avrà raggiunto il maggior numero di suffragi.