Trib. Brindisi 17.4.2019 (dott. Francesco Cacucci): Questione legittimità costituzionale sospensione ordine carcerazione a seguito di condanna per delitti contro la p.a.

ABSTRACT

   L’art. 1, comma 6°, lett. b) della legge 9.1.2019 n. 3 (c.d. “spazzacorrotti”) ha modificato l’art. 4 bis, comma 1°, della legge 26.7.1975, n. 354, ricomprendendo tra i reati ostativi alla sospensione dell’esecuzione di cui all’art. 656, comma 5°, c.p.p., taluni delitti contro la pubblica amministrazione.

   In assenza di una disciplina transitoria, l’applicazione della citata disposizione è regolata dal principio del “tempus regit actum” e, come tale, è suscettibile di immediata applicazione anche ai delitti commessi in epoca precedente, in quanto sottratta alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall’art. 2 c.p. e dall’art. 25 Cost.

   Le eccezioni stabilite dall’art. 656, comma 9°, lett. a) c.p.p. – attraverso il richiamo all’art. 4 bis L. 354/75 come modificato dall’art. 1, comma 6°, lett. b) L. 3/2019 – alla regola generale della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva prevista dal comma 5° della stessa norma, non incidono esclusivamente sulle “modalità esecutive della pena” ma anche sulla sua effettiva portata e natura, poiché impongono al condannato che si trovi nelle condizioni per accedere ad una misura alternativa alla detenzione carceraria una temporanea anticipazione del regime detentivo in attesa delle decisioni del magistrato di sorveglianza sul possibile accesso ad una di tali misure.

   Ed allora l’art. 4 bis della L. 354/75, richiamato dall’art. 656, comma 9, lett. a) c.p.p., benché “nominalmente” processuale, nella “sostanza” ha un contenuto “afflittivo” per le ricadute sulla libertà personale del condannato, nei termini evidenziati.

   Se, dunque, nella sostanza ci si trova al cospetto di una “norma penale” a tutti gli effetti, l’applicazione della deroga alla sospensione dell’ordine di carcerazione anche per chi abbia subìto condanna per delitti contro la p.a. commessi prima dell’entrata in vigore della L. 3/2019, implica una violazione degli artt. 25, comma 2° e 117, comma 1°, Cost., integrato dall’art. 7 CEDU così come interpretato dalla Corte EDU; diversamente si consentirebbe agli Stati membri di applicare misure che ridefiniscono retroattivamente la portata e la natura della pena inflitta a detrimento della persona condannata.

N. 204/19 G.E.

T R I B U N A L E   D I   B R I N D I S I

S e z i o n e   P e n a l e

O R D I N A N Z A

art. 23 legge cost. 11 marzo 1953 n. 87

   Il Tribunale di Brindisi, in funzione di giudice dell’esecuzione penale, composto dai Magistrati:

   Dott. Francesco CACUCCI    –  Presidente rel.;

   Dott. Maurizio   RUBINO      –  Giudice;

   Dott. Ambrogio COLOMBO –  Giudice;

   letti gli atti del procedimento di esecuzione in epigrafe indicato nei confronti di *****************, difeso di fiducia dagli Avv.ti D. Vitale e S.G. Dellomonaco;

   sentite le parti all’udienza del 17.4.2019;

o   s   s   e   r   v   a

  Premesso in fatto.

   Con sentenza del 25.3.2015 il Tribunale di Brindisi ha condannato il****** alla pena di due anni e quattro mesi di reclusione in relazione ai delitti di cui agli artt. 110, 314, comma 1°, c.p. commesso il 3.8.2011 (Capo B), nonché al delitto di cui agli artt. 110, 81, 56 e 314, comma 1°, c.p. commesso il 22.7.2011 ed il 13.8.2011 (Capo D).

   La sentenza è divenuta irrevocabile il 13.3.2019. 

   In data 5.4.2019 il Pubblico Ministero in sede ha emesso nei confronti del******* – ex art. 656 comma 1° c.p.p. – l’ordine di esecuzione per la carcerazione in relazione alla pena detentiva su indicata, facendo applicazione dell’art. 1, comma 6°, lett. b) della Legge n. 3/2019; in esecuzione di tale ordine il********* risulta attualmente detenuto presso un istituto penitenziario.

    Ha proposto incidente di esecuzione il difensore del*********richiedendo:

  • in via principale dichiararsi “la temporanea inefficacia dell’ordine di carcerazione emesso nei confronti del*********”;
  • in via subordinata, “sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 656 comma 9° c.p.p. come integrato dall’art. 4 bis, comma 1°, dell’ordinamento penitenziario, recentemente modificato dall’art. 1, comma 6°, della L. 3/2019, per contrasto con i parametri di cui agli artt. 3, 25, 27, 111 e 117, comma 2°, della Costituzione”.

      Il difensore istante ha dedotto, al riguardo:

  • che l’art. 1 comma 6°, lett. b)  L. 3/2019, in vigore dal 21.1.2019, ha novellato l’art. 4 bis della L. 354/75 previa inclusione tra i reati ostativi alla sospensione dell’esecuzione dell’ordine di carcerazione anche il delitto di cui all’art. 314, comma 1°, c.p.;
  • che, di conseguenza, il********, pur essendo stato condannato ad una pena inferiore a quattro anni, atteso il rinvio operato dall’art. 656 comma 9 lett. A) c.p.p. all’art. 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, come modificato dall’art. 1, comma 6°, lett. b) della L. 3/2019, non ha visto sospendersi l’ordine di esecuzione della pena nei suoi confronti;
  • che l’art. 1, comma 6°, lett. b) della L. 3/2019 – che ha inserito nell’elenco dell’art. 4 bis Ord. Pen. anche l’art. 314, comma 1°, c.p. – non prevede alcuna norma di diritto intertemporale;
  • che nonostante le norme dell’Ordinamento penitenziario abbiano natura processuale, trattasi in realtà di una norma “sostanziale”, con la conseguenza che la sua applicazione retroattiva – cioè anche in relazione a delitti commessi prima della sua entrata in vigore – comporterebbe una “evidente lesione del principio di affidamento e calcolabilità delle conseguenze penali che è posto a base del principio di irretroattività in materia penale”, come stabilito dall’art. 25, comma 2° Cost., nonché dall’art. 7 CEDU;
  • che “il richiamo esplicito alle forme collaborative previste nel secondo comma dell’art. 323 bis c.p. implica che la norma debba essere interpretata necessariamente come rivolta al futuro, giacché una diversa lettura determinerebbe le lesione di un fondamentale diritto di difesa nei confronti di un soggetto che avendo commesso un reato prima della entrata in vigore della nuova norma, non conosceva né poteva conoscere gli effetti ulteriori riconosciuti in fase esecutiva di una sua eventuale condotta collaborativa nella fase di merito”;
  • che, infine, “la retroattività della disciplina appare in contrasto anche con le regole del giusto processo (art. 111 Cost. e 6 CEDU) ; infatti la modifica retroattiva viola l’affidamento dell’imputato che magari ha optato per il rito ordinario prevedendo che la pena sarebbe rimasta entro i limiti di operatività delle misure alternative”.

   A scioglimento della riserva di cui all’udienza del 17.4.2019, ritiene il Tribunale doversi sollevare questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 24, 25, comma 2°, 117, 1° comma, Cost.,  7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con L. 4.8.1955 n. 848 (d’ora in avanti “CEDU”), come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, con riferimento all’art. 1, comma 6°, lett. b) della Legge 9 gennaio 2019 n. 3, nella parte in cui, modificando l’art. 4 bis comma 1° della Legge 26 luglio 1975 n. 354, norma richiamata dall’art. 656, comma 9°, lett. a) c.p.p., si applica anche al delitto di cui all’art. 314, comma 1°, c.p. commesso anteriormente all’entrata in vigore della medesima legge.

*   *   *   *   *

   In punto di rilevanza della questione, sussistono i presupposti per l’applicazione dell’art. 1, comma 6°, lett. b) della Legge n. 3/2019; infatti:

  • ********* è stato condannato con sentenza del Tribunale di Brindisi del 25.3.2015, irrevocabile il 13.3.2019, alle pena di due anni e quattro mesi di reclusione in relazione a più delitti di cui all’art. 314, comma 1°, c.p. commessi in Brindisi nel luglio e nell’agosto del 2011;
  • in data 5.4.2019 il Pubblico Ministero in sede ha emesso a carico del ******* l’ordine di esecuzione per la carcerazione per la ridetta pena detentiva; ciò ha fatto in virtù dell’art. 4 bis della L. 26 luglio 1975 n. 354 che, come modificato dall’art. 6, comma 1°, lett. b) della L. 9 gennaio 2019 n. 3, ha incluso il delitto di cui all’art. 314, comma 1° c.p. tra i reati ostativi di “prima fascia” che impediscono la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena;
  • senza la modifica operata dall’art. 1, comma 6°, lett. b) della Legge n. 3/2019 – intervenuta, si ribadisce, in epoca successiva alla commissione dei delitti per vi è stata condanna – il********avrebbe potuto richiedere la concessione di una misura extramuraria senza un periodo di osservazione in carcere.

   Osservato, in punto di non manifesta infondatezza della questione.

1 – L’art. 1, comma 6°, lett. b) della legge 9 gennaio 2019 n. 3 ha modificato l’art. 4 bis, comma 1°, della legge 26 luglio 1975, n. 354, ricomprendendo tra i reati ostativi alla sospensione dell’esecuzione di cui all’art. 656, comma 5°, c.p.p., taluni delitti contro la pubblica amministrazione tra i quali quello di peculato, nell’ipotesi di cui al comma 1° dell’art. 314 c.p.

   La condanna per una delle fattispecie elencate non potrà, pertanto, più essere “sospesa” e, per l’effetto, potrà consentire l’accesso alle misure alternative solo a fronte dell’accoglimento – da parte del magistrato di sorveglianza – dell’istanza proposta dal condannato durante l’esecuzione della pena detentiva, accoglimento subordinato alla collaborazione del condannato ai sensi degli artt. 58 ter dell’Ordinamento penitenziario (ossia dopo la condanna definitiva), o dell’art. 323 bis, comma 2°, c.p. (norma, quest’ultima, che prevede come circostanza attenuante “la collaborazione” in relazione alle fattispecie previste dagli artt. 318, 319, 319 ter, 319 quater, 320, 322, 322 bis c.p.; dunque non per il peculato).

   In assenza di una disciplina transitoria, l’applicazione della disposizione in commento è regolata dal principio del “tempus regit actum”; infatti, per consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione non riguardano l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, bensì le “modalità esecutive della stessa” e, pertanto, nel caso in cui manchi una disciplina intertemporale, sono suscettibili di immediata applicabilità anche ai fatti commessi in epoca precedente, in quanto sottratte alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall’art. 2 c.p. e dall’art. 25 Cost.

   Questo principio è stato espressamente affermato da Cass. SS.UU. n. 24561 del 30.5.2006:

   “Le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive della stessa, non hanno carattere di norme penali sostanziali e pertanto (in assenza di una specifica disciplina transitoria), soggiacciono al principio “tempus regit actum”, e non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall’art. 2 cod. pen., e dall’art. 25 della Costituzione. (In applicazione di tale principio, le S.U. hanno ritenuto che, in un caso in cui vi era stata condanna per il delitto di violenza sessuale, la sopravvenuta inclusione di tale delitto, per effetto dell’art. 15 della legge 6 febbraio 2006 n. 38, tra quelli previsti dall’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario in quanto tali, e non più soltanto come reati-fine di un’associazione per delinquere, comportasse l’operatività, altrimenti esclusa, del divieto della sospensione dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 656, comma nono lett. a), cod. proc. pen., non essendo ancora esaurito il relativo procedimento esecutivo al momento dell’entrata in vigore della novella legislativa)”; nello stesso senso cfr.: Cass. n. 37578 del 3.2.2016; Cass. n. 52578 dell’11.11.2014; Cass. n. 6910 del 14.10.2011; Cass. n. 11580 del 5.2.2013; Cass. n. 46924 del 9.12.2009; Cass. n. 29155 del 10.6.2008; Cass. n. 34040 del 22.9.2006;  Cass. n. 33062 del 19.9.2006; Cass. n. 25113 dell’11.7.2006; Cass. n. 24767 del 5.7.2006; Cass. n. 31430 del 22.7.2006; Cass. n. 30792 del 6.6.2006.

   Per opportuna completezza si segnala che la Corte d’Appello di Milano (ordinanza del 27.3.2019) , proprio in adesione al richiamato consolidato orientamento della S.C., dovendo fare applicazione della nuova disciplina introdotta dalla L. 3/2019, ha ritenuto “priva di rilevanza ogni questione di legittimità che muova dal presupposto che non può trovare applicazione retroattiva una legge che modifichi in senso sfavorevole al reo la disciplina di istituti che in vario modo incidano sul trattamento penale”.

2 – Secondo il “diritto interno”, quindi, le disposizioni che disciplinano l’esecuzione della pena e le misure alternative alla detenzione non attengono né alla cognizione del reato né all’irrogazione della pena, bensì alle modalità esecutive di questa, tanto da non essere soggette, in caso di successione di norme diverse, alle regole stabilite dall’art. 2 c.p. né al principio di irretroattività delle modifiche in peius, bensì a quelle vigenti al momento della loro applicazione.

   Il Tribunale ritiene, tuttavia, che le eccezioni stabilite dall’art. 656, comma 9°, lett. a) c.p.p. – attraverso il richiamo all’art. 4 bis L. 354/75 come modificato dall’art. 1, comma 6°, lett. b) L. 3/2019 – alla regola generale della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva prevista dal comma 5° della stessa norma, non incidano esclusivamente sulle “modalità esecutive della pena” ma anche sulla sua effettiva portata e natura, poiché impongono al condannato che si trovi nelle condizioni per accedere ad una misura alternativa alla detenzione carceraria una temporanea anticipazione del regime detentivo (“un assaggio di pena”, è stato detto con espressione icastica), in attesa delle decisioni del magistrato di sorveglianza sul possibile accesso ad una di tali misure; il tutto, peraltro, con possibili frizioni con la finalità rieducativa della pena prevista dall’art. 27 Cost.

   Vale osservare, su quest’ultimo punto, che come di recente ribadito da C. Cost. n. 41/2018, la sospensione automatica dell’ordine di esecuzione è conseguente alla sentenza n. 569/1989 con cui il Giudice delle leggi estese a chi si trovava in stato di libertà la possibilità di accedere all’affidamento in prova, riservato in precedenza alla sola popolazione carceraria; “il legislatore allora si avvide che sarebbe stato in linea di principio incongruo disporre temporaneamente la carcerazione di chi avrebbe poi potuto godere di una misura specificamente pensata per favorire la risocializzazione fuori dalle mura del carcere e giunse a perseguire al massimo grado l’obiettivo di risparmiare il carcere al condannato, sostituendo, con la legge 27 maggio 1998, n. 165 (Modifiche all’articolo 656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni), l’art. 656 cod. proc. pen. e introducendo l’automatica sospensione dell’esecuzione della pena detentiva, entro un limite pari a quello previsto per godere della misura alternativa”.  

   D’altra parte, nemmeno pare ultroneo ricordare che il legislatore aveva limitato l’applicabilità “ai soli reati commessi successivamente all’entrata in vigore della legge” in sede di emanazione del d.l. 13 maggio 1991 n. 152, convertito nella l. 12 luglio 1991 n. 203, che circoscrisse l’applicabilità della norma limitativa della concessione dei benefici penitenziari per taluni delitti (di cui all’art. 58 quater, 4° comma, della l. 354/1975); la previsione, in quel caso, di una specifica disciplina intertemporale equivale all’implicito riconoscimento del principio di irretroattività di una norma meno favorevole, anche se “concernente l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione”. 

   Ed allora l’art. 4 bis della L. 354/75, richiamato dall’art. 656, comma 9, lett. a) c.p.p., benché “nominalmente” processuale, nella “sostanza” ha un contenuto “afflittivo” per le ricadute sulla libertà personale del condannato, nei termini evidenziati.

3 –     Se, dunque, nella sostanza ci si trova al cospetto di una “norma penale” a tutti gli effetti, l’applicazione della deroga alla sospensione dell’ordine di carcerazione anche per chi abbia subìto condanna per il delitto di peculato commesso prima dell’entrata in vigore della L. 3/2019, implica una violazione degli artt. 25, comma 2° e 117, comma 1°, Cost., integrato dall’art. 7 CEDU così come interpretato dalla Corte EDU; diversamente si consentirebbe agli Stati membri di applicare misure che ridefiniscono retroattivamente la portata e la natura della pena inflitta a detrimento della persona condannata.

      Come già rilevato nelle ordinanze che hanno sollevato analoga questione di legittimità costituzionale (Tribunale di Sorveglianza di Venezia, ordinanza dell’8.4.2019; Corte di Appello di Lecce, ordinanza del 4.4.2019; Giudice per le indagini preliminari di Napoli, ordinanza del 2.4.2019), ai fini del riconoscimento delle garanzie convenzionali la CEDU attribuisce alla nozione di ““pena” una connotazione “sostanzialistica”, privilegiando alla qualificazione formale assegnata dall’ordinamento una valutazione in ordine al tipo, alla durata, agli effetti nonché alle modalità di esecuzione della sanzione o della misura applicata.

   In particolare, l’esigenza della verifica dell’effettivo carattere “sostanziale” della norma oggetto di scrutinio e, come tale, suscettibile di rientrare “nella protezione offerta dall’art. 7 CEDU”, è stata affermata dalla Corte EDU nella sentenza 21 ottobre 2013, “Del Rio Prada c/ Spagna”.

   Nell’occasione, chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità con l’art. 7 CEDU della c.d. “doctrina Parot” (si trattava di un diverso e successivo orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità spagnola circa l’applicazione di alcuni benefici penitenziari), la Corte di Strasburgo ha evidenziato che: “per rendere effettiva la protezione offerta dall’articolo 7, la Corte deve rimanere libera di andare oltre le apparenze e valutare da sola se una particolare misura equivale in sostanza a una “pena” ai sensi di questa disposizione”; conseguentemente, la Corte ha riconosciuto rilevanza anche al mutamento giurisprudenziale riguardante un istituto qualificabile come “liberazione anticipata” in quanto suscettibile di comportare effetti peggiorativi, giungendo a sostenere che “ai fini del rispetto del principio dell’affidamento del consociato circa la prevedibilità della sanzione penale, occorre avere riguardo non solo alla pena irrogata ma anche alla sua esecuzione”.

4 – La stessa Corte Costituzionale ha, in più occasioni, esteso la garanzia del regime di “retroattività”, sancito dall’art. 25, comma 2°, Cost. a varie disposizioni a carattere “intrinsecamente punitivo”, ciò in linea con la giurisprudenza della Corte EDU che da tempo sottolinea la necessità di “andare al di là delle qualificazioni giuridiche” per valutare “se una determinata misura costituisce pena” (CEDU, 9 febbraio 1995, Welch c. Regno Unito); ne costituiscono esempi le sentenze n. 196/2010 e n. 223/2018.

   Con la prima pronuncia la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, “per violazione dell’art. 117, primo
comma, Cost., dell’art. 186, comma 2, lett. c ), cod. strada, come
modificato dall’art. 4, comma 1, lett. b ), del d.l. 23 maggio 2008,
n. 92, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della
legge 24 luglio 2008, n. 125, limitatamente alle parole “ai sensi
dell’articolo 240, secondo comma, del codice penale”;
infatti, “la confisca in esame, al di là della sua qualificazione formale, ha natura essenzialmente sanzionatoria, e non di misura di sicurezza in senso proprio, e riveste una funzione meramente repressiva e non preventiva”; conseguentemente, “il riferimento all’art. 240, secondo comma, cod. pen. – contenuto nella censurata disposizione, che prevede, in caso di condanna o di patteggiamento per il reato di guida sotto l’influenza dell’alcool, l’obbligatoria confisca del veicolo con il quale è stato commesso il reato, salvo che il veicolo stesso appartenga a persona estranea al reato – determina l’applicazione retroattiva della confisca anche a fatti commessi prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 92 del 2008, secondo il regime proprio delle misure di sicurezza che, ai sensi dell’art. 200 cod. pen., sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro
applicazione”.
Tuttavia, “l’applicazione retroattiva di una misura propriamente sanzionatoria viola il principio di irretroattività della pena sancito dall’art. 7 della CEDU ed esteso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo”.

   Con la sentenza n. 223/2018, il Giudice delle leggi ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 6, della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), nella parte in cui stabilisce che la confisca per equivalente prevista dall’art. 187-sexies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), si applica, allorché il procedimento penale non sia stato definito, anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della stessa legge n. 62 del 2005, quando il complessivo trattamento sanzionatorio conseguente all’intervento di depenalizzazione risulti in concreto più sfavorevole di quello applicabile in base alla disciplina previgente”.

   Questa conclusione si fonda sulla premessa secondo cui:   

   “È generalmente riconosciuto che dall’art. 25, secondo comma, Cost. («Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso») discende un duplice divieto: un divieto di applicazione retroattiva di una legge che incrimini un fatto in precedenza penalmente irrilevante; e un divieto di applicazione retroattiva di una legge che punisca più severamente un fatto già precedentemente incriminato. Tale secondo divieto è, del resto, esplicitato nelle parallele disposizioni delle carte internazionali dei diritti umani e, più in particolare, nell’art. 7, paragrafo 1, secondo periodo, della CEDU («Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso»); nell’art. 15, paragrafo 1, secondo periodo, della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, firmata a New York il 16 dicembre 1966, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881 (Patto internazionale sui diritti civili e politici), («Così pure, non può essere inflitta una pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso»); nonché nell’art. 49, paragrafo 1, seconda proposizione, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 (CDFUE), che riproduce in modo identico la formulazione contenuta nella CEDU. Entrambi i divieti in parola trovano applicazione anche al diritto sanzionatorio amministrativo, al quale pure si estende, come questa Corte ha già in più occasioni riconosciuto (sentenze n. 276 del 2016 e n. 104 del 2014), la fondamentale garanzia di irretroattività sancita dall’art. 25, secondo comma, Cost., interpretata anche alla luce delle indicazioni derivanti dal diritto internazionale dei diritti umani, e in particolare dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa all’art. 7 CEDU. Anche rispetto alle sanzioni amministrative a carattere punitivo si impone infatti la medesima esigenza, di cui tradizionalmente si fa carico il sistema penale in senso stretto, di non sorprendere la persona con una sanzione non prevedibile al momento della commissione del fatto”.

5 –   La modifica in senso sfavorevole della disposizione della cui legittimità costituzionale si dubita, inoltre, vanifica il legittimo ”affidamento” del condannato per il delitto di peculato commesso sotto la vigenza dell’originario art. 4 bis L. 354/75, a vedersi sospeso l’ordine di esecuzione della pena detentiva nel caso – come quello in scrutinio – di condanna inferiore a quattro anni di reclusione.

   L’incidenza della modifica normativa in oggetto sull’affidamento da parte dell’imputato/condannato ad una regola di giudizio accessibile e prevedibile – da apprezzarsi in termini di violazione degli artt. 117 Cost. e 7 CEDU – è stata evidenziata dalla Corte di Cassazione; in un obiter della sentenza n. 12541 del 14 marzo 2019, i giudici di legittimità hanno affermato che: 

   “non parrebbe manifestamente infondata la prospettazione difensiva secondo la quale, l’avere il legislatore cambiato in itinere le “carte in tavola” senza prevedere alcuna norma transitoria presenti tratti di dubbia conformità con l’art. 7 CEDU e, quindi, con l’art. 117 Cost., là dove si traduce…..nel passaggio “a sorpresa” – e, dunque, non prevedibile – da una sentenza patteggiata senza “assaggio di pena” ad una sanzione con necessaria incarcerazione, giusta il già rilevato operare del combinato disposto degli artt. 656, comma 9, lett. a), c.p.p. e 4 bis ord. pen. D’altronde in precedenza il legislatore aveva adottato disposizioni transitorie finalizzate a temperare il principio di immediata applicazione delle modifiche all’art. 4 bis, comma 1°, L. 23 dicembre 2002 n. 279 (che inseriva i reati di cui agli artt. 600, 601 e 602 c.p. nell’art. 4 bis cit.) limitandone l’applicabilità ai soli reati commessi successivamente all’entrata in vigore della legge””(nell’occasione la questione è stata dichiarata non rilevante poiché non afferente l’impugnazione della sentenza di applicazione della pena oggetto di quel giudizio).

6 – Da queste premesse discende che il procedimento di esecuzione riguardante l’ordine di carcerazione adottato ai sensi dell’art. 656 comma 1° c.p.p. in relazione ad una condanna per uno dei reati ostativi introdotti dall’art. 1, comma 6°, lett. b) L. 3/2019 – tra cui, come detto, il delitto di peculato – ha titolo per rientrare nel raggio di azione dell’art. 6 CEDU in materia di “processo equo”; ciò in considerazione dello stretto legame tra la nozione di “pena” di cui all’art. 7 della Convenzione e quella di “accusa in materia penale” ex art. 6 citato.

   Ad esempio, nella sentenza Gurguchiani c/ Spagna del 15.12.2009, la Corte EDU ha qualificato come “pena” – ex art. 7 della Convenzione – la sostituzione della pena detentiva con quella dell’espulsione con divieto di reingresso per dieci anni nel territorio dello Stato applicata, in forza di una legge sopravvenuta rispetto alla condanna definitiva, ad un imputato che stava espiando una pena detentiva; conseguentemente, la Corte ha riscontrato una violazione dell’art. 6 CEDU:

   “è dunque possibile concludere che al pari della pena comminata in occasione della condanna dell’interessato, si configuri come pena anche la sostituzione della pena detentiva di diciotto mesi, inflitta al ricorrente, con la misura dell’espulsione e del divieto di ingresso nel territorio per la durata di dieci anni, senza che il medesimo fosse stato interrogato e senza tener conto di circostanze diverse dall’applicazione quasi automatica della nuova versione dell’articolo 89 del codice penale in vigore dal 2003”.

   La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha già avuto modo di ritenere in contrasto con la garanzia convenzionale stabilita dall’art 6 citato taluni procedimenti giurisdizionali previsti dalla legislazione italiana (le censure riguardavano la mancata previsione della pubblicità delle udienze); ciò è avvenuto con riguardo al procedimento applicativo delle misure di prevenzione (sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza c/ Italia; sentenza 17 maggio 2011, Capitani e Campanella c/ Italia; sentenza 2 febbraio 2010, Leone c/ Italia; sentenza 5 gennaio 2010, Bongiorno c/ Italia; sentenza 8 luglio 2008, Perre c/ Italia) ed al procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione (sentenza 10 aprile 2012, Lorenzetti c/ Italia).

   Quanto alla possibilità di attribuire al procedimento di esecuzione penale la natura di giudizio che verte sul fondamento di un’”accusa penale”, gli organi della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo avevano distinto tra la procedura relativa all’”esecuzione della sentenza” (che esulerebbe dall’ambito applicativo dell’art. 6; cfr. decisione del 7 maggio 1990 Aldrian c/Austria) e la procedura riguardante la “fissazione della misura della condanna già inflitta” (che, viceversa, vi rientrerebbe; cfr. sentenza CEDU 5 luglio 2001 Phillips c/ Regno Unito).    

   Sull’argomento, con la già citata sentenza nel caso Del Rio Prada c/ Spagna, la Grande Camera della CEDU – seppure in relazione all’applicabilità dell’art. 7 CEDU con riferimento a mutamenti giurisprudenziali suscettibili di incidere sull’esecuzione della pena e sull’ottenimento di benefici penitenziari – ha operato “una distinzione tra la misura che costituisce in sostanza una «pena» e la misura relativa all’«esecuzione» o all’«applicazione» della pena. Di conseguenza, quando la natura e lo scopo di una misura riguardano la riduzione di una pena o un cambiamento nel sistema di liberazione condizionale, tale misura non fa parte integrante della «pena» ai sensi dell’articolo 7 (si vedano, tra le altre, Hosein c. Regno Unito, nn. 26293/95, decisione della Commissione del 28 febbraio 1996, Grava c. Italia, n. 43522/98, § 51, 10 luglio 2003, Kafkaris, sopra citata, § 142, Scoppola c. Italia (n. 2) [GC], n. 10249/03, § 98, 17 settembre 2009, e M. c. Germania, n. 19359/04, § 121, 17 dicembre 2009)”.

   La Corte, tuttavia, non ha mancato di rilevare che “nella pratica la distinzione tra le due non è sempre netta (Kafkaris, sopra citata, § 142, e Gurguchiani”).

    Ed invero, come è stato condivisibilmente evidenziato in dottrina, non vi sarebbero ostacoli ad estendere le garanzie dell’art. 6 CEDU anche ad istituti rientranti nel “procedimento di esecuzione” che concorrono a determinare l’effettiva durata della privazione della libertà da scontare;tra questi ultimi possono annoverarsi, oltre al procedimento di cui all’art. 671 c.p.p. relativo all’applicazione della continuazione in sede esecutiva, anche quelli in cui si discuta della validità e/o dell’efficacia del titolo esecutivo o dell’ordine di carcerazione, apparendo, diversamente, irragionevole offrire all’imputato  tutta una serie di garanzie nel processo di cognizione, per poi sottrargliele proprio nella fase in cui devono essere determinati gli effetti sulla sua persona dell’eventuale condanna.

7 – La Corte Costituzionale ha offerto utili indicazioni in ordine alla qualificazione di una misura come “pena” o come relativa all’”esecuzione” o all’”applicazione” della pena, in funzione dell’estensione delle garanzie sul “processo equo”; ci si riferisce alle questioni di legittimità costituzionale riguardanti procedimenti camerali in cui sia “in gioco” un bene primario dell’individuo quale la libertà personale.

   In ben tre circostanze la Consulta ha, infatti, esteso le garanzie previste dall’art. 6 CEDU a procedimenti di “esecuzione penale”, ossia disciplinati dagli artt. 666 e ss.gg. c.p.p.;  con le sentenze n. 93/2010 e 135/2014, la Corte ha, infatti, dichiarato costituzionalmente illegittime – per contrasto con l’art. 117, 1° comma, Cost. – le disposizioni relative al procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione (art. 4 L. 1423/56) ed al procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza (artt. 666, comma 3°, 678, comma 1°, 679, comma 1° c.p.p.) nella parte in cui non consentono, su istanza degli interessati, che le procedure si svolgano nelle forme dell’udienza pubblica; sulla stessa linea si colloca la sentenza n. 97/2015, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 666, comma 3°, 678, comma 1°, c.p.p., nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento davanti al Tribunale di Sorveglianza, nelle materie di sua competenza, si svolga nelle forme dell’udienza pubblica.

   L’avere ricondotto i richiamati procedimenti camerali nel solco della norma convenzionale sul “processo equo” sottintende e presuppone, necessariamente, l’affermazione che tali procedure hanno natura di giudizi che vertono sul fondamento di un’”accusa penale”; non a caso la Corte ha evidenziato:

  • che “si tratta di un procedimento all’esito del quale il giudice è chiamato ad esprimere un giudizio di merito, idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su un bene primario dell’individuo, costituzionalmente tutelato, quale la libertà personale” (sentenza n. 135/2014);
  • che “si tratta di provvedimenti in tema di esecuzione della pena distinti ed ulteriori rispetto a quelli adottati in sede di cognizione – anche se ad essi ovviamente collegati – i quali incidono, spesso in modo particolarmente rilevante, sulla libertà personale dell’interessato” (sentenza n. 95/2017).

  Atteso il già evidenziato stretto legame tra la nozione di “accusa in materia penale” ex art. 6 CEDU e quella di “pena” ex art. 7 CEDU, ove al procedimento di esecuzione penale azionato ex art. 666 c.p.p. avverso l’ordine di carcerazione emesso dal Pubblico ministero ai sensi dell’art. 656 c.p.p. si riconosca la natura di un giudizio che verte sul fondamento di un’”accusa penale”, natura “penale” non potrebbe conseguentemente che assegnarsi alla disposizione di cui all’art. 656, comma 9 lett. a), così come integrato dall’art. 1, comma 6°, lett. b) L. 3/2019 che ha modificato l’art. 4 bis della L. 354/75 nei termini suindicati.

   Non è revocabile in dubbio, invero, che anche in relazione agli effetti derivanti dalla disposizione in scrutinio la “posta in gioco” – per usare l’efficace espressione contenuta nelle sentenze della Corte Costituzionale 134/2015 e 97/2015 – sia particolarmente elevata; come premesso, infatti, le conseguenze dell’applicazione di tale norma si traducono in una anticipazione della pena detentiva che comporta la privazione della libertà personale attraverso la carcerazione, anche se il condannato risulterà meritevole di una misura alternativa.

8 – Da ultimo, è stato condivisibilmente evidenziato che l’applicazione retroattiva della disposizione peggiorativa potrebbe comportare una violazione del diritto di difesa (art. 24 Cost.) in ordine alla effettuazione di strategie processuali che non siano vanificate o alterate da successive modifiche delle “regole del gioco”; si pensi al caso di chi, imputato per il delitto di cui all’art. 314, comma 1°, c.p., abbia optato per un rito alternativo confidando su di una condanna a pena rientrante nella soglia della sospensione dell’ordine di carcerazione e che per effetto della novella potrebbe inoltrare una richiesta di misura alternativa solo in corso di esecuzione della detenzione carceraria.

9 – E’ noto che le sentenze della Corte EDU non sono equiparabili a quelle della Corte di Giustizia del Lussemburgo, adita in via pregiudiziale o nell’ambito di una procedura di infrazione.

   Il giudice ordinario, quindi, non può risolvere il contrasto tra legge interna e norma convenzionale evidenziato dalla Corte di Strasburgo, provvedendo egli stesso a disapplicare la prima, presupponendo ciò il riconoscimento di un primato delle norme contenute nella Convenzione e/o delle sentenze della Corte EDU, analogo a quello conferito al diritto dell’Unione Europea ed alle sentenze della Corte di Giustizia, che incidono direttamente nell’ordinamento nazionale e possono determinare addirittura la disapplicazione delle norme interne eventualmente contrastanti.

   La giurisprudenza costituzionale, a partire dalle sentenze 348 e 349 del 2007, è costante nell’affermare che “le norme della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione e applicazione (art. 32, 1, della Convenzione) – integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall’ art. 117, comma 1°, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali” (sentenze n. 1 e 113 del 2011; nn. 138, 187 e 196 del 2010; nn. 311 e 317 del 2009; n. 39 del 2008).

   La Consulta ha anche chiarito che “l’art. 117 Cost, comma 1°, ed in particolare l’espressione “obblighi internazionali” in esso contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10 ed 11 Cost. Così interpretato, l’ art. 117, comma 1° Cost., ha colmato la lacuna prima esistente rispetto alle norme che a livello costituzionale garantiscono l’osservanza degli obblighi internazionali pattizi. La conseguenza è che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della CEDU, si traduce in una violazione dell’art. 117 comma 1° Cost.” (sentenza n. 311/2009, richiamata nella sentenza n. 236/2011).

   In presenza di un contrasto tra una norma interna e una norma della CEDU, però, “il giudice nazionale comune deve preventivamente verificare la praticabilità di una interpretazione della prima conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica” (sentenze n. 113/2011, n. 93/2010, nn. 239 e 311 del 2009).

   L’esito negativo di tale verifica e il contrasto non componibile in via interpretativa impongono al giudice ordinario – che non può disapplicare la norma interna né farne applicazione, per il ritenuto contrasto con la CEDU e quindi con la Costituzione – di sottoporre alla Consulta la questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 117, comma 1°, Cost. (sentenza n. 113 del 2011, n. 93 del 2010 e n. 311 del 2009), attraverso un rinvio pregiudiziale, con la conseguenza che l’eventuale operatività della norma convenzionale, così come interpretata dalla Corte di Strasburgo, deve passare attraverso una declaratoria d’incostituzionalità della normativa interna di riferimento o, se del caso, l’adozione di una sentenza interpretativa o additiva.

   Competerà, inoltre, al Giudice delle leggi, ove accerti il denunciato contrasto tra norma interna e norma della CEDU, non risolvibile in via interpretativa, verificare se la seconda, che si colloca pur sempre ad un livello sub-costituzionale, si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Carta fondamentale, ipotesi questa che porterà ad escludere l’idoneità della norma convenzionale ad integrare il parametro costituzionale considerato (sentenze nn. 113 e 303 del 2011; n. 93 del 2010; n. 311 del 2009; nn. 348 e 349 del 2007).

10 – Delineati i rapporti tra CEDU e diritto interno, tornando al tema oggetto di scrutinio, ritiene il Tribunale che non sia superabile in via interpretativa il riscontrato contrasto tra l’art. 7 CEDU e  l’art. 1, comma 6°, lett. b) della Legge 9 gennaio 219 n. 3, nella parte in cui, modificando l’art. 4 bis comma 1° della Legge 26 luglio 1975 n. 354 – norma richiamata dall’art. 656, comma 9°, lett. a) c.p.p. – si applica anche al delitto di cui all’art. 314, comma 1°, c.p. commesso anteriormente all’entrata in vigore della medesima legge.

   A questa conclusione si perviene sulla base della considerazione che, come evidenziato in premessa, per il “diritto vivente” consolidato in numerose e costanti pronunce della Suprema Corte, le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione non riguardano l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, sicché sfuggono “alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo……dall’art. 25 della Costituzione”.

   Tale principio è stato affermato dalla S.C. nel suo più autorevole consesso, la cui funzione nomofilattica – è opportuno evidenziare – è stata notevolmente accentuata a seguito della recente riforma operata con la L. 23 giugno 2017 n. 103, attraverso le modifiche introdotte con i commi 1 bis ed 1 ter dell’art. 618 c.p.p. 

   Pertanto, la rigorosa applicazione del principio del tempus regit actum, che secondo il “diritto interno” dovrebbe regolare la materia in un contesto di affermata compatibilità con l’art. 25 Cost., risulta superabile solo attraverso una pronuncia della Corte Costituzionale che, intervenendo sulla norma censurata, limiti l’applicazione della novella ai soli fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore.

   Da ultimo, non può accedersi alla richiesta – proposta in via subordinata – di dichiarare la temporanea inefficacia dell’ordine di carcerazione, poiché l’art. 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87 dispone unicamente la “sospensione del giudizio”, non anche la sospensione dell’efficacia del provvedimento adottato in forza di una disposizioni di legge della cui legittimità costituzionale si dubita.

P.   Q.   M.

visto l’art. 23 della legge n. 87/1953;

dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 24, 25, comma 2°, 117, 1° comma, Cost.,  7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con L. 4.8.1955 n. 848 (d’ora in avanti “CEDU”), come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, con riferimento all’art. 1, comma 6°, lett. b) della Legge 9 gennaio 2019 n. 3, nella parte in cui, modificando l’art. 4 bis comma 1° della Legge 26 luglio 1975 n. 354 – norma richiamata dall’art. 656, comma 9°, lett. a) c.p.p. – si applica anche al delitto di cui all’art. 314 c.p. commesso anteriormente all’entrata in vigore della medesima legge.

Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale e la sospensione del presente procedimento di esecuzione.

Dispone che la presente ordinanza sia notificata al Sig. Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata al Sig. Presidente del Senato ed al Sig. Presidente della Camera dei Deputati; dispone, altresì, la comunicazione della presente ordinanza a tutte le parti processuali.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti.

Brindisi, 17 aprile 2019

                                                                                                 Il Presidente estensore

                                                                                              Dott. Francesco CACUCCI