CEDU: Ne bis in idem tributario-penale

CLASSIFICAZIONE

NE BIS IN IDEM – SANZIONI TRIBUTARIE – DOPPIO BINARIO

RIFERIMENTI NORMATIVI

CONVENZIONE EDU, PROTOCOLLO N. 7, art. 4

PRONUNCIA SEGNALATA

– Corte E.D.U., 16 Aprile 2019, ric. n. 72098/14 Bjarni Armannsson contro Islanda

Abstract

La Corte EDU ha emesso una nuova sentenza in tema di ne bis in idem, nello specifico settore del diritto tributario. In esso, l’esistenza del “doppio binario” (procedimento amministrativo e penale) è molto frequente, e per questo il tema è particolarmente delicato, alla luce del noto concetto di “materia penale” elaborato dalla Corte, che include anche procedimenti e sanzioni formalmente amministrativi.

La sentenza si riallaccia esplicitamente alle conclusioni più recenti sviluppate dalla Corte sul “ne bis in idem”, quali A e B c. Norvegia e Johannesson c. Islanda, ed in particolare il fatto che si ha violazione del divieto quando i due procedimenti, qualificati entrambi di natura penale, non sono manifestazione della medesima potestà punitiva da parte dello Stato, ma rappresentano due risposte separate.

Ai fini di tale valutazione, pone in rilievo elementi di puro fatto del caso contingente, quali  la tempistica dei due procedimenti e le modalità di raccolta e valutazione delle prove.

Se questi elementi rivelano una sostanziale coincidenza tra i due procedimenti, si può ritenere che la risposta punitiva sia unica; in caso contrario, come è avvenuto nella specie, si incorre nella violazione del divieto di ne bis in idem.

1. Il caso

La Corte EDU torna nuovamente sul tema del ne bis in idem di cui all’art. 4, protocollo n. 7 della Convenzione. In particolare, vi ritorna in una vicenda che riguarda il rapporto tra sanzioni tributarie e sanzioni penali.

Nella causa Bjarni Armannsson v. Iceland il ricorrente è stato amministratore delegato di una delle più grandi banche islandesi, Glitnir, dal settembre 1997 alla fine di aprile 2007. A partire dal 2009, è stato oggetto di una verifica fiscale relativa ai profitti derivanti dalla cessione di azioni che aveva ricevuto quando era cessato dall’incarico di amministratore della banca suddetta.

La verifica è stata condotta dalle autorità fiscali. In particolare, tra il luglio 2009 e l’ottobre 2010, dalla Direzione delle indagini fiscali che, nell’ottobre 2010, informava il contribuente che i risultati della verifica sarebbero stati trasmessi alla Direzione delle Entrate per la rideterminazione dei redditi. Contestualmente lo informava della possibile rilevanza penale degli esiti della verifica e della possibile apertura di un procedimento penale. Nel novembre 2010, la stessa Direzione delle indagini fiscali informava il contribuente che la decisione sulla eventuale apertura di un procedimento penale sarebbe rimasta in sospeso fino alle valutazione della Direzione Entrate sull’accertamento dei redditi.

Tra il maggio 2011 ed il maggio 2012, si svolgeva il procedimento per l’accertamento dei redditi in contraddittorio con il contribuente che formulava le proprie osservazioni. Nell’ambito dello stesso, la Direzione Entrate rivalutava un primo accertamento e non attribuiva più al contribuente i maggiori redditi derivanti dalla cessione delle azioni ricevute al termine del suo mandato come amministratore di Glitnir. Accertava, però, la mancata dichiarazione di (altri) maggiori redditi a carico del contribuente e gli imponeva una sovrattassa del 25%. Il contribuente provvedeva a pagare sia le maggiori imposte che la sovrattassa e non impugnava la decisione, che nell’agosto 2012 diventava definitiva.

Nel frattempo, l’1 marzo 2012 la Direzione delle indagini fiscali aveva trasmesso il proprio rapporto all’ufficio del Procuratore Speciale, informandone il contribuente, il quale, tramite il proprio avvocato, il 2 marzo 2012 contestava tale trasmissione.

Nel settembre 2012 il contribuente fu interrogato dal procuratore e nel dicembre 2012 fu rinviato a giudizio per infedele dichiarazione.

Il contribuente chiedeva che il procedimento fosse archiviato alla luce dell’art. 4 protocollo 7 della Convenzione, ma il tribunale rigettava l’istanza

Nel giugno 2013, il tribunale lo dichiarava responsabile dei reati ascrittigli e lo condannava alla pena di sei mesi di reclusione, sospesi per due anni, ed alla multa di 38.850.000 corone islandesi (circa 241.000 euro).

Il 15 maggio 2014 la Corte Suprema rigettava il ricorso del contribuente, ed in particolare sia nella parte sulla asserita violazione dell’art. 4 protocollo n. 7, sia nel merito, confermando la sentenza di primo grado ed, anzi, elevando la pena detentiva ad otto mesi di reclusione, sempre con la sospensione condizionale.

Il contribuente adiva la Corte lamentando il fatto che, con l’imposizione della sovrattassa prima, e la condanna penale poi, egli era stato processato e punito due volte per lo stesso fatto, in violazione dell’art. 4 del protocollo n. 7 alla Convenzione.

In particolare, egli ha prospettato che la sovrattassa costituisse sanzione penale, avendo funzione deterrente ai sensi della normativa fiscale interna (art. 108 legge sulla imposizione sui redditi). Il fatto per il quale è stato sanzionato nel procedimento fiscale ed in quello penale era lo stesso, ed il procedimento penale è, di fatto, iniziato nel settembre 2012, quando egli fu interrogato per la prima volta, allorché il termine per impugnare il provvedimento sanzionatorio fiscale era spirato, ed il relativo procedimento era definitivamente chiuso.

I due procedimenti non si configuravano, pertanto, come sufficientemente connessi sia temporalmente che da un punto di vista sostanziale, e non erano stati condotti in parallelo. A conferma di ciò, la stessa Corte Suprema aveva confermato che la Procura aveva rinviato a giudizio il contribuente sulla base di un’autonoma indagine. Inoltre, l’apertura di un’indagine penale era del tutto imprevedibile a seguito della dismissione delle principali imputazioni che in sede fiscale gli erano state mosse.

Il Governo islandese ha contestato l’asserita violazione del principio del divieto del ne bis in idem.

2. Violazione dell’art. 4 protocollo n. 7 CEDU

 I giudici di Strasburgo hanno riconosciuto la fondatezza delle censure mosse dal ricorrente condannando lo Stato islandese per la riscontrata violazione dell’art. 4 del protocollo n. 7 della CEDU.

La Corte afferma che per la decisione del caso è necessario analizzare quattro aspetti: a) se il procedimento per l’imposizione della sovrattassa abbia natura penale, b) se il fatto per il quale il ricorrente è stato condannato in sede penale e per il quale gli è stata applicata la sovrattassa sia lo stesso (concetto di “idem”), c) se vi è stato un giudizio definitivo, d) se vi è stata duplicazione di procedimenti (concetto di “bis”).

2.1. Natura della sovrattassa

Alla luce dei “criteri Engel” e richiamando propria giurisprudenza (A e B contro Norvegia, Johannesson e altri contro Islanda), la Corte ritiene che il procedimento di imposizione della sovrattassa è di natura “penale” non solo ai sensi dell’art 6 della Convenzione, ma anche ai fi fini dell’art. 4 del protocollo n. 7

2.2. Concetto di idem

Nel caso di specie, non è mai stato contestato che i fatti per i quali il ricorrente è stato sottoposto a procedimento penale ed assoggettato alla sovrattassa siano gli stessi; inoltre la Corte ha rilevato tale identità anche in relazione al periodo di tempo contestato ed all’importo di tasse evaso, concludendo nel senso che nel caso di specie ricorre il concetto di “idem”

2.3. Definitività di un procedimento

La Corte non ha ritenuto necessario valutare se uno dei due procedimenti, ed in particolare quello fiscale, fosse divenuto definitivo, con decisione non più impugnabile, non essendo requisito imprescindibile per valutare la duplicazione di procedimenti

2.4. Duplicazione di procedimenti (bis)

La Corte conclude nel senso che vi è stata duplicazione di procedimenti.

Per giungere a tale esito ripercorre gli approdi più recenti in tema di ne bis in idem, in particolare quelli emergenti dalle sentenze A e B contro Norvegia e Johannesson contro Islanda.

Nel primo (A e B contro Norvegia) la Corte aveva ribadito e specificato il concetto per cui non si ha violazione del divieto del bis in idem quando la risposta dello Stato alla violazione è unitaria, è espressione della medesima potestà punitiva. La migliore manifestazione di tale risposta unitaria, allorché una condotta è sanzionata sia sotto il profilo amministrativo che penale, sarebbe quella dello svolgimento di un unico procedimento per l’applicazione delle sanzioni (“a single-track procedure”). Peraltro, aveva specificato la Corte in tale sentenza, il principio del “doppio binario” (dual proceedings), non è di per sé contrario all’art. 4 del protocollo 7, a condizione che i due procedimenti siano sufficientemente ravvicinati nel tempo e nella sostanza (“sufficiently closely connected in substance and in time”).

In altri termini, un procedimento “integrato” (anche se materialmente articolato in procedimenti distinti), che copra in maniera contestuale tutto il possibile spazio sanzionatorio interessato da una violazione punita sia a livello amministrativo che penale, non è certamente in contrasto con il divieto del ne bis in idem.

Se, poi, il fatto che l’azione repressiva possa coprire non solo l’aspetto amministrativo, ma anche quello penale, sia prevedibile fin dall’inizio dalla persona interessata, ciò contribuisce ancor più ad escludere la violazione del suddetto divieto.

I problemi, invece, sorgono quando, a fronte di una sanzione formalmente amministrativa, ma sostanzialmente penale, manchino i requisiti di cui sopra. Quando, in altri termini, per lo stesso fatto non solo si hanno due risposte entrambe sostanzialmente penali, ma quando queste sono applicate, di fatto, all’esito di due procedimenti sostanzialmente distinti.

Per stabilire, allora, se si sia verificata una violazione del divieto del bis in idem diventa essenziale l’esame delle circostanze di fatto del caso concreto.

Nel caso di specie, la Corte individua alcuni elementi chiave per giungere alla conclusione nel senso che vi è stata violazione dell’art. 4 del protocollo 7. Questi possono individuarsi in:

  1. Lo svolgimento del procedimento “amministrativo” (sostanzialmente penale) e di quello formalmente penale in due momenti temporali diversi, senza coincidenza degli stessi
  2. Il fatto che le prove sia state autonomamente raccolte e valutate in ciascuno dei due procedimenti, cioè l’assenza di unitarietà di raccolta e valutazione della prova
  3. Il fatto che nel procedimento penale non sia emerso in maniera chiara, per mancanza di motivazione specifica, se e in che misura l’applicazione della sanzione amministrativa abbia inciso sulla determinazione dell’ammontare della sanzione pecuniaria penale; in altri termini, le due sanzioni pecuniarie sono apparse slegate tra loro, rafforzando l’idea di una applicazione indipendente ed autonoma in ciascun procedimento, lasciando intendere che ciò crea problemi anche sotto il profilo della proporzionalità della risposta sanzionatoria.

     Sotto il primo profilo, la Corte evidenzia che l’arco temporale dell’intera vicenda processuale (amministrativa e penale) è stato di quattro anni e dieci mesi: ebbene, in tutto questo periodo, i due procedimenti si sono svolti in parallelo solo per cinque mesi, da marzo ad agosto 2012. Dopo la chiusura definitiva del procedimento amministrativo, quello penale è proseguito ancora per un anno e cinque mesi.

       Inoltre, sul piano penale l’indagine è stata svolta in maniera autonoma ed indipendente da quella amministrativa, non vi è stato trasferimento delle prove da un livello all’altro, tanto che anche la sanzione pecuniaria penale non ha dato conto dell’incidenza di quella amministrativa già applicata.

      Sulla base di tutto ciò, la Corte ha ritenuto che nel caso di specie la persona fosse stata sottoposta a due procedimenti e sanzioni sostanzialmente penali per lo stesso fatto, ravvisando così la violazione dell’art. 4 del protocollo n. 7.

3. Conclusioni

       Occorre chiedersi come si collochi questa sentenza nel percorso che ormai da tempo la Corte EDU sta seguendo per definire i contorni del ne bis in idem, come evidenziato nella apposita scheda che la Corte stessa ha redatto e che è stata oggetto di una precedente segnalazione.       

      In tal senso, questa decisione appare un’applicazione concreta di quanto stabilito nella già citata A e B contro Norvegia, in particolare per l’accenno al concetto di “proporzionalità” della sanzione, e per la verifica alla luce delle circostanze concrete del caso del concetto di “connessione temporale e sostanziale sufficientemente stretta” tra procedimento amministrativo (sostanzialmente penale) e penale.

       Viene, poi, sviluppato maggiormente un altro criterio che, sebbene già menzionato in altre precedenti pronunce, e quindi non del tutto estraneo all’analisi sul ne bis in idem, qui appare particolarmente valorizzato: quello dell’autonomia tra i due giudizi nella raccolta e valutazione della prova.

       Questo tentativo, però, non porta necessariamente chiarezza, ed anzi dimostra come la soluzione del problema sia sempre più difficilmente definibile sulla base di principi astratti, ma debba essere vista ed analizzata dalla Corte EDU caso per caso, sulla base dell’esame di elementi molto concreti relativi alla situazione contingente e specifica.

      Altro elemento di interesse di questa sentenza è il fatto che essa operi nel settore tributario, dove la coesistenza di procedimenti sanzionatori amministrativi e penali è frequente. In particolare, questo è uno dei settori dove meglio è apprezzabile la differenza nella valutazione del concetto di ne bis in idem nel sistema convenzionale ed in quello dell’Unione Europea, cui lo stesso appartiene in virtù della previsione dell’art. 50 della Carta dei Dritti fondamentali, di tal che anche la Corte di Giustizia si è confrontata con esso.

       Emblematica è in tal senso una delle principali sentenza della Corte di Giustizia sul tema specifico, e cioè quella nella causa C-617/10, Åkerberg Fransson. In essa, in particolare, la Corte, prendendo quale riferimento il solo art. 50 della Carta, ha stabilito che il principio del divieto di bis in idem ivi espresso “non osta a che uno Stato membro imponga, per le medesime violazioni di obblighi dichiarativi in materia di IVA, una sanzione tributaria e successivamente una sanzione penale”, proseguendo che – e qui emerge un diverso modo di procedere rispetto alla Corte EDU – spetta al giudice del rinvio valutare alla luce dei criteri elaborati dalla giurisprudenza europea (qualificazione giuridica, natura dell’illecito e grado di severità della sanzione), la natura penale della prima sanzione e l’effettività delle modalità previste per evitare un effetto punitivo eccessivo.