Condominio e terzi creditori di Antonio Scarpa

I. Premessa

L’esplicita, per quanto oscura, disciplina della relazione tra condominio e terzi creditori costituisce un aspetto di oggettiva novità nella Riforma della normativa in materia di condominio negli edifici, intrapresa con la legge 11 dicembre 2012, n. 220, e poi già modificata con il decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 145, convertito dalla legge 21 febbraio 2014, n. 9. Dico che si tratta di novità essenzialmente perché nei primi due commi dell’art. 63 disp. att. c.c. compare il riferimento a questo indistinto ceto dei creditori, che sovverte il dibattito sull’imputazione dei rapporti correlati alla gestione degli interessi comuni, in quanto la regolamentazione positiva contenuta begli originari artt. 1117 e ss. c.c.  e 61 e ss. disp. att. c.c.  si preoccupava in via esclusiva di normare diritti ed obblighi correnti soltanto tra i condomini, relegando i contatti tra il condominio ed i terzi all’area del residuale ius excludendi implicito nella complessa situazione soggettiva condominiale, di per sé dissolta nel più semplice diritto di proprietà individuale. E’ questo del legame tra condominio e creditori uno dei contenuti “nuovi” della Riforma del 2012: sta a noi ora comprendere se questo “nuovo” equivalga ad una “creazione”, così manifestandosi la novità assoluta alla quale preesisteva “il nulla”, o se invece esso si riduca in un “divenire”, e cioè in una semplice trasformazione o elaborazione di un dato già esistente, se non, addirittura, in una mera ripetizione o in un ingannevole ritorno.

Anche dall’esatta ricostruzione della categoria dei “creditori”, cui si rivolge l’art. 63, 1 e 2 comma, disp. att. c.c., discende, invero, la possibilità di superare la tradizionale configurazione della situazione di condominio edilizio come risolutiva di un problema di sola attribuzione di beni, sostanziata dalla connessione materiale e dalla relazione di accessorietà correnti tra le porzioni di proprietà esclusiva e lerescomuni. E’ indubbia la “realità” della “situazione soggettiva di condominio”, giacché essa si contrassegna proprio per tale nesso di accessorietà con la proprietà solitaria, nesso che giustifica l’appartenenza, individua l’oggetto del diritto, ne determina il contenuto e delinea i caratteri della partecipazione all’organizzazione del gruppo.  Rimane tuttavia sempre da affrontare il problema di individuare chi sia il titolare di questo diritto di condominio, chi abbia, cioè, i poteri e le facoltà di compiere le azioni necessarie per conseguire dalle cose condominiali interessi giuridicamente vincolanti, e su chi incombano in via diretta e primaria i conseguenti obblighi assunti nei confronti dei terzi.

L’individuazione del profilo soggettivo della situazione di condominio è stata, com’è noto, di recente interessata da una significativa pronuncia delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, proprio alla luce delle novità introdotte dalla legge n. 220 del 2012. Mi riferisco, evidentemente, a Cass. sez. un. 18 settembre 2014, n. 19663, la quale, nel riconoscere al solo amministratore (e non anche ai singoli condomini che non siano stati parte in causa) la legittimazione ad agire per l’equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo promosso dal condominio, ha affermato in motivazione che, se pure non è desumibile nella legge n. 220 del 2012 il riconoscimento della personalità giuridica in favore del condominio, tuttavia non possono ignorarsi gli elementi (tratti dall’art. 1129, comma 12, n. 4, c.c., dall’art. 1135, n. 4, c.c., e, soprattutto, dall’art. 2659, comma 1, n. 1, c.c.) ‹‹che vanno nella direzione della progressiva configurabilità in capo al condominio di una sia pure attenuata personalità giuridica, e comunque sicuramente, in atto, di una soggettività giuridica autonoma›› (al riguardo, non sia intesa come un passo indietro rispetto a questa linea evolutiva la  successiva Cass., sez. 3, 7 novembre 2014, n. 23782, la cui massima ufficiale contiene un’affermazione di principio sull’insussistenza della distinta personalità del condominio, che appare estranea alla ratio decidendi della sentenza). 

Quel che vuol già qui sostenersi, in sede di premessa, è che pure la definizione concettuale di questa nuova figura dei creditori, cui fanno rinvio i commi 1 e 2 dell’art. 63, disp. att. c.c., dovrebbe indurre gli interpreti ad abbandonare ogni remora nel ravvisare diritti ed obblighi riferibili al condominio in quante tale, e non invece sempre e comunque immediatamente imputabili – per l’intero o in proporzione alle rispettive quote – a ciascuno dei condomini. Il fenomeno del condominio di edifici non si esaurisce nella contitolarità delle parti comuni, in quanto regolato da un principio di organizzazione e di unificazione dell’insieme, che si regge su organi aventi competenze esclusive, tali da giustificare un proprio meccanismo di imputazione.

Nell’ambito del complesso delle dinamiche condominiali, vi sono certamente posizioni di natura reale, che vengono per esigenze di semplificazione unitariamente rappresentate dall’amministratore o gestite dall’assemblea “nell’interesse comune”, ma che non possono mai prevaricare il diritto individuale “pro quota” di ciascun condomino in ordine alle parti elencate dall’art. 1117 c.c. ; questa indispensabile coesistenza tra gestione e rappresentanza unitarie e frazionabilità dei poteri sui beni comuni giustifica anche la concorrente legittimazione processuale riconosciuta altresì ai singoli partecipanti per le azioni inerenti all’estensione della proprietà condominiale. Da tale prima cerchia, che comprende tutte quelle situazioni reali le quali necessariamente sono riferibili in via immediata ad ogni condomino in misura proporzionale al valore dalla rispettiva quota, esulano, invero, quei rapporti che concernono non i diritti in sé su beni o servizi comuni, bensì la gestione di essi, in quanto intesi a soddisfare esigenze soltanto collettive della comunità condominiale. In queste ultime fattispecie, non può ravvisarsi alcuna correlazione tra l’interesse direttamente comune  e l’interesse mediato esclusivo di uno o più dei partecipanti. Si pensi, ancora, agli obblighi di manutenzione, riparazione e custodia dei beni di proprietà comune, i quali sono stati individuati come il “contenuto di una situazione soggettiva che si imputa al condominio come tale ed è esercitata attraverso i suoi organi” (Cass. 8 marzo 2003, n. 3522, in Mass. Giust. civ. 2003, 497). Sono, peraltro, innumerevoli già da anni le pronunce che configurano il condominio (per dire, quale committente del contratto d’appalto per la manutenzione dell’edificio condominiale, o quale contraente  assicurato nella polizza per la responsabilità civile contro i danni a terzi) come parte unica, seppur soggettivamente complessa, insensibile alle mutazioni delle persone che la compongono, e dunque centro di imputazione delle posizioni attive o passive  nascenti da un determinato programma contrattuale. Ancor più il sicuro convincimento giurisprudenziale di un’applicazione estensiva dell’art. 2373 c.c., riguardante il conflitto di interessi del socio nelle deliberazioni della società per azioni, ai fini del calcolo delle maggioranze assembleari richieste dall’art. 1136 c.c. , depone per la ravvisabilità di un interesse istituzionale del condominio stesso, distinto dagli interessi individuali dei singoli partecipanti, fondato sull’individuazione di un autonomo centro d’imputazione e sulla funzionalizzazione dei meccanismi deliberativi al perseguimento di uno scopo   comune, con il quale è incompatibile ogni speciale vantaggio personale.

Di fronte alla “collettività organizzata” condominio, l’interprete non dovrebbe, allora,  avvertire il bisogno di moltiplicare i soggetti, aggiungendo alle persone fisiche dei singoli condomini la persona giuridica del condominio, quanto quello di moltiplicare i rapporti, distinguendo, in base al contenuto ed al regime di legge, quelli che i condomini intrattengono come singuli da quelli che gli stessi intrattengono come universi.

La Riforma introdotta con la legge n. 220 del 2012 ha, così, incrementato i già cospicui indici di evidenza normativa di una soggettività attenuata del condominio: alla notevole rilevanza che in ambito condominiale è attribuita al principio di maggioranza, già di per sé espressione di autonomia della struttura organizzata, come alla capacità processuale attiva e passiva conferita all’amministratore, vengono ora ad unirsi altri sintomi dell’attribuzione di una capacità di diritto patrimoniale al condominio, in forza della quale questo acquista la titolarità del diritto di proprietà sulle cose comuni dell’edificio e può rivestire la qualità di parte complessa in rapporti obbligatori assunti nel rispetto delle regole riguardanti la formazione di volontà del gruppo.

II.La morosità ultrasemestrale

L’art. 1129, comma 9, c.c. obbliga l’amministratore ad agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell’esercizio nel quale sia compreso il credito esigibile, a meno che non sia stato espressamente dispensato dall’assemblea. Questa norma duplica il preesistente art. 1130, n. 3), c.c., secondo il quale l’amministratore deve riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell’edificio e per l’esercizio dei servizi comuni.  Il mancato rispetto del termine di sei mesi dalla chiusura dell’esercizio di competenza non fa venir meno la legittimazione dell’amministratore ad agire, sia pure in ritardo, per la riscossione delle somme dovute dai condomini, né opera quale vicenda estintiva del credito. L’unica conseguenza di un promovimento dell’azione di recupero dei crediti condominiali oltre il semestre dalla chiusura dell’esercizio di riferimento, pertanto, non può che essere l’eventuale responsabilità dell’amministratore nei confronti del condominio (PARINI, 123). D’altro canto, lo stesso art. 1129, comma 9, c.c. ammette che l’amministratore possa essere espressamente dispensato dall’assemblea dall’agire per la riscossione entro il ricordato termine: il che, oltre a rimettere all’assemblea una sostanziale possibilità di derogare ad un’ipotesi tipizzata di revoca dell’amministratore, permette altresì al collegio dei condomini di ratificare il tardivo operato dell’amministratore, anche condividendo le ragioni che lo abbiano indotto a non agire tempestivamente per la condanna dei ritardatari. Così, inoltre, si ribadisce implicitamente pure come non rientri tra le attribuzioni dell’amministratore il potere di concedere dilazioni di pagamento ai singoli condomini, senza apposita autorizzazione dell’assemblea, avendo soltanto questa l’effettiva disponibilità delle vicende obbligatorie che si riflettono sulle sfere giuridico – patrimoniali individuali. Per la deliberazione di espressa dispensa ex art. 1129, comma 9, c.c. basta la maggioranza di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 1136 c.c.: oggetto di essa è, del resto, un mero diritto obbligatorio (la riscossione delle somme dovute dagli obbligati) e non un diritto reale dei partecipanti al condominio, sicché può disporne la maggioranza ordinaria per l’esercizio del potere di rinunciare o di rinviare il promovimento della controversia nei confronti dei morosi, impegnando tutti i condomini, anche i dissenzienti, in base alla regola generale enunciata dall’art. 1132 c.c. (cfr. Tribunale Cremona, decreto 19 novembre 2014, in Guida al diritto, 2015, 3, 15 ss.).

 Non si ravvisa alcuna coerenza sistematica dell’indicazione di questo termine semestrale assegnato all’amministratore, decorrente dalla chiusura dell’esercizio di maturazione del credito, giacché il riferimento al semestre appare più consono allo statuto delle società di capitali. Per contro, la gestione condominiale viene piuttosto tutta rapportata alla competenza annuale, visto che l’amministratore è tenuto anno per anno a predisporre il bilancio preventivo ed a far approvare dall’assemblea il bilancio consuntivo. Al fine di individuare l’esercizio in cui sia compreso il credito condominiale, e quindi il dies a quo del termine semestrale, occorre distinguere tra spese necessarie alla manutenzione ordinaria, alla conservazione, al godimento delle parti comuni dell’edificio o alla prestazione di servizi nell’interesse comune, e spese attinenti a lavori che comportino un’innovazione o che comunque comportino, per la loro particolarità e consistenza, un onere rilevante, superiore a quello inerente alla manutenzione ordinaria dell’edificio. Nella prima ipotesi, il credito si deve ritenere sorto non appena si compia l’intervento ritenuto necessario dall’amministratore, e quindi in coincidenza con il compimento effettivo dell’attività gestionale. Nel caso, invece, delle opere di manutenzione straordinaria e delle innovazioni, la deliberazione dell’assemblea, chiamata a determinare quantità, qualità e costi dell’intervento, assumerebbe altresì valore costitutivo della relativa obbligazione in capo a ciascun condomino. In forza dell’art. 63, comma 3, disp. att. c.c. – inoltre, la mora nel pagamento dei contributi condominiali protratta per oltre un semestre legittima l’amministratore a sospendere al condomino l’utilizzazione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato. Non può condividersi, per l’intrinseca limitazione delle attribuzioni degli organi condominali, la tesi che reputa che la sospensione dai servizi condominiali consentirebbe all’amministratore di attuare anche le necessarie operazioni sugli impianti da eseguirsi all’interno della proprietà esclusiva del condomino moroso, il quale sarebbe obbligato a tollerare tali attività (v. Trib. Milano, 19 ottobre 1998). Durante il percorso della Riforma, si era anche ipotizzato che i condomini in ritardo di un semestre nel pagamento dei contributi non avessero più diritto di voto (sul modello di quanto dispone, ad esempio, l’art. 2466 c.c. per il socio moroso). Non avendo più previsto una simile conseguenza la legge, è da escludere che ad identico effetto possa utilmente pervenire una clausola regolamentare, che, del pari, faccia discendere dalla morosità del condomino l’inibizione all’esercizio di voto in assemblea, atteso che una clausola limitativa del diritto di voto del condomino, pur che intenda muoversi in un àmbito di autonomia negoziale, sembrerebbe alterare lo schema essenziale della disciplina legislativa del condominio. Non può, invero, porsi in dubbio che, ai fini del calcolo delle maggioranze necessarie per approvare le delibere, occorra tener conto di tutti i partecipanti e del valore dell’intero fabbricato, compresi i condomini morosi. Una soluzione diversa è adottata, ad esempio, in Spagna, dove l’art. 15, comma 2, della legge n. 49 del 21 luglio 1960, stabilisce che i condomini non in regola coi pagamenti partecipano alla discussione assembleare ma non dispongono del diritto di voto. E’ vero, d’altro canto, che la sospensione del diritto di voto per le quote millesimali pignorate potrebbe gravemente pregiudicare la gestione condominiale, ove si tratti di frazioni notevoli del valore dell’edificio; come sarebbe pericoloso affidare ai restanti condomini il compito di assumere ogni decisione sulle parti comuni, lasciando sia il debitore esecutato che il custode in balia della maggioranza.

Nel testo approvato dell’art. 63, comma 3, disp. att. c.c., è altresì scomparso il temperamento, che era stato fissato in un primo momento durante il percorso parlamentare della legge n. 220/2012, allorché il potere di sospensione dalla fruizione dei servizi era così limitato: “salvo che l’autorità giudiziaria, adita anche in via d’urgenza, riconosca l’essenzialità del servizio per la realizzazione di diritti fondamentali della persona e l’impossibilità oggettiva del ricorso a mezzi alternativi”. La mancata previsione testuale del criterio di valutazione dell’adeguatezza dell’iniziativa inibitoria dell’amministratore non impedirà, peraltro, al giudice di censurare in base ai principi generali la legittimità della stessa, in modo da scongiurare la lesione o anche la minaccia del diritto alla salute, all’incolumità e all’integrità fisica dei condomini privati del godimento del servizio condominiale, o di altri loro diritti soggettivi fondamentali della persona umana, in modo che mai sia oltrepassata quella soglia minima di solidarietà e di rispetto comunque necessaria e doverosa nella gestione dei rapporti di condominio.

III. Le informazioni sulla morosità dovute a condomini e creditori

In forza dell’art. 1130, n. 9), c.c., l’amministratore deve fornire al condomino che ne faccia richiesta attestazione relativa allo stato dei pagamenti degli oneri condominiali e delle eventuali liti in corso.

A sua volta, il comma 7 del riformulato art. 1129 c.c. sancisce il diritto di ciascun condomino di chiedere, per il tramite dell’amministratore, di prendere visione ed estrarre copia della rendicontazione periodica del conto corrente condominiale, su cui devono transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi.

La previsione di cui all’art. 1130, n. 9, c.c. è sostanzialmente in linea con i principi di tutela dei dati personali elaborati in argomento dal Garante della privacy, in base ai quali, anche per esercitare i controlli in ordine all’esattezza dell’importo esigibile a titolo di contributo per la manutenzione delle parti comuni e per l’esercizio dei servizi comuni, ciascun partecipante dovrebbe poter essere informato in ordine all’ammontare della somma dovuta dagli altri. Tali informazioni potranno essere trattate dai condomini, vantando gli stessi un legittimo interesse non soccombente rispetto a quello degli interessati cui si riferiscono i dati, ai sensi dell’art. 24, comma 1, lett.g), del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (c.d. Codice in materia di protezione dei dati personali). Possono, quindi, formare oggetto di trattamento, per le menzionate finalità di amministrazione del condominio, pure dati giudiziari, nella misura indispensabile al perseguimento delle medesime finalità.

Un diritto dei singoli condomini alla conoscenza delle eventuali situazioni individuali di morosità nella riscossione dei contributi può discendere pure dall’obbligo di rendiconto, cui è tenuto l’amministratore in forza del contratto di mandato che intercorre con il gruppo, obbligo che, tuttavia, concerne necessariamente la specificazione non dei dati personali degli inadempienti, quanto dei dati meramente contabili delle entrate, delle uscite e del saldo finale, nonché di tutti gli elementi di fatto funzionali all’individuazione ed al vaglio delle modalità di esecuzione dell’incarico, onde stabilire se l’operato dell’amministratore si sia adeguato, o meno, a criteri di buona amministrazione. Se, pertanto, il rendiconto annuale costituisce la modalità di comunicazione dell’amministratore tipicamente destinata a rendere edotti i singoli condomini degli eventuali inadempimenti di altri partecipanti, questo non è un contenuto irrinunciabile del rendiconto, ben potendo l’assemblea validamente approvare un bilancio di gestione che non presenti, in realtà, alcuna analitica indicazione dei nominativi dei condomini morosi nel pagamento delle quote condominiali e dei corrispondenti importi da ciascuno dovuti, purché le poste attive e passive risultino comunque correttamente iscritte nel loro importo (v. Cass., 28 gennaio 2004, n. 1544).

Dunque, alla stregua della Riforma, qualsiasi condomino può rivolgere espressa richiesta all’amministratore circa la situazione di morosità degli altri partecipanti; non occorre, in tal caso, premunirsi del consenso espresso, libero, specifico e documentato per iscritto (art. 23 del d.lgs. n. 196/2003) dei condomini inadempienti interessati. La scelta di obbligare normativamente l’amministratore a fornire “al condomino che ne faccia richiesta attestazione relativa allo stato dei pagamenti degli oneri condominiali e delle eventuali liti in corso” è implicata dalla soluzione, adottata nel comma 2 dell’art. 63 disp. att. c.c., per la quale “i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l’escussione degli altri condomini”.  

Ciò detto quanto agli obblighi interni al rapporto di mandato corrente tra amministratore e condomini, l’art. 63, comma 1, disp. att. c.c. dispone invece che l’amministratore è altresì tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi.  Si delinea così un obbligo di cooperazione con il terzo creditore, posto direttamente dalla legge in capo all’amministratore ed esulante dai contenuti del programma obbligatorio interno al rapporto di mandato corrente tra condomini ed amministratore. Se l’amministratore è tenuto a comunicare al creditore i dati dei condomini morosi, l’eventuale sua inerzia diviene sanzionabile. Si tratta per l’amministratore di un dovere legale di salvaguardia dell’aspettativa di soddisfazione dei terzi titolari di crediti derivanti dalla gestione condominiale.

Per la liceità della comunicazione dei dati relativi ai condomini morosi in favore dei terzi creditori, ora così imposta dall’art. 63, comma 1, disp. att. c.c., non occorrerà più, quindi, verificare la sussistenza o del consenso del condomino interessato, o della causa di esonero dal consenso,exart. 24, lett.f), del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, prevista per le ipotesi di trattamento volto a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria. La superfluità del consenso dei condomini inadempienti al trattamento dei loro dati personali discende, infatti, dalle prime due cause di esonero contemplate dal citato art. 24 (v. Cass., 23 gennaio 2013, n. 1593; Cass., 4 gennaio 2011, n. 186).

La Riforma non obbliga, invece, l’amministratore, altrettanto esplicitamente, a fornire al creditore i nomi e le quote dei condomini in regola con i pagamenti, cui quello potrà rivolgersi dopo l’inutile escussione dei morosi. Ai fini del riscontro del limite di liceità abitualmente prescritto dall’Autorità Garante in materia di trattamento di dati personali nell’àmbito dell’amministrazione di condomini, non rivela alcuna funzionalizzazione allo svolgimento delle attività di gestione ed amministrazione delle parti comuni la comunicazione che coinvolga i partecipanti regolarmente adempienti. L’informazione rivolta al creditore dei nomi e delle quote dei condomini “in regola” esula, pertanto, degli obblighi legali e contrattuali dell’amministratore, ed impone, perciò, il consenso,exart. 23 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196. Può in tal caso, soltanto farsi salva l’ipotesi di esonero dal consenso di cui alla lett.f) dell’art. 24 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, volto a favorire la tutela giudiziaria di un diritto.

Dovrà tenersi conto delle prescrizioni più volte indicate dal Garante per la protezione dei dati personali, relative alle operazioni di trattamento di dati personali effettuate nell’àmbito delle attività connesse all’amministrazione dei condomini. Alla luce del principio di liceità, di cui all’art 11 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, possono, invero, formare oggetto di trattamento da parte dell’amministratore di condominio (quale responsabile del trattamento, ai sensi degli artt. 4, comma 1, lett.g, e 29 del medesimo Codice), le sole informazioni personali pertinenti e necessarie rispetto allo svolgimento delle attività di gestione ed amministrazione delle parti comuni ed idonee a determinare le posizioni di dare ed avere dei singoli partecipanti, siano essi proprietari o usufruttuari (v., al riguardo, il Vademecum “Il condominio e la privacy” del 10 ottobre 2013; il provvedimento del Garante 19 maggio 2006; Cass., 4 gennaio 2011, n. 186).

IV.Chi sono i “creditori” e i “condomini morosi” ?

I primi due commi dell’art. 63 disp. att. c.c. poggiano i loro diversi regimi sostanziale e processuale su diversità di condizioni soggettive solo apparentemente univoche: vi si parla di “creditori non ancora soddisfatti”, di “condomini “morosi”, di “obbligati in regola con i pagamenti”, ma le differenze che da tali nozioni discendono in termini di titolarità di diritti e di obblighi, e di conseguenti legittimazioni processuali, chiamano l’interprete a tentare di fare chiarezza. La nozione di “condomino moroso” torna, invero, nel comma 4 dell’art. 63 disp. att. c.c., prima analizzato, e qui viene identificata con la situazione in cui versa l’obbligato la cui mora nel pagamento dei contributi “si sia protratta per un semestre”; manca, tuttavia, una definizione univoca, sull’esempio di quanto fa, ad esempio, il codice civile per delineare la figura del socio moroso nell’eseguire il pagamento della quota di capitale sottoscritta. Ora, i creditori, di cui ai primi due commi dell’art. 63 disp. att. c.c. (categoria del tutto nuova per la disciplina codicistica delle relazioni condominiali), non sono certamente i creditori personali di uno o più partecipanti, ma, piuttosto, i creditori del condominioin quanto tale, avendo riguardo unicamente ai rapporti di gestione di interesse comune. Occorre considerare come, ogni qual volta l’amministratore contragga con un terzo, coesistono distinte obbligazioni, concernenti, rispettivamente, l’intero debito e le singole quote, facenti capo la prima al condominio, rappresentato appunto dall’amministratore, e le altre ai singoli condomini, tenuti in ragione e nella misura della partecipazione al condominio ai sensi dell’art. 1123 c.c. Le diverse azioni di adempimento – quelle nei confronti del condominio, e per l’intero debito, in via diretta, e quelle, invece, pro quota, verso i singoli condomini – possono essere proposte anche cumulativamente, fondandosi su diversi presupposti: ovvero, rispettivamente, il contratto che lega il condominio al terzo creditore e l’obbligo ex lege  gravante sui singoli condomini di contribuire alle spese comuni. Come si vedrà nelle prossime pagine, l’art. 63, comma 2, disp. att. c.c., pone a presidio degli obblighi pro quota gravanti sui singoli  un meccanismo di beneficio di escussione in favore di coloro che siano in regola coi pagamenti.

Inoltre, agli effetti sempre dei commi 1 e 2 dell’art. 63 disp. att. c.c. (obbligo di comunicazione dei dati e sussistenza, o meno, del beneficium excussionis), e dunque nel rapporto con il terzo, possono intendersi “condomini morosi” (e di conseguenza, all’opposto, “obbligati in regola coi pagamenti”), quei partecipanti che non abbiano versato (ovvero, che abbiano pagato) all’amministratore la loro quota di contribuzione alla spesa necessaria per il pagamento di quel creditore:anche se il condomino sia in ritardo nell’adempimento di debiti condominiali derivanti da distinte annualità di gestione o da distinte delibere di approvazione, lo stesso non può ritenersi debitore per un’unica causa, ma per una pluralità di rapporti di obbligatori, aventi titoli differenti, tant’è che gli spetta la facoltà di imputazione riconosciuta dall’art. 1193 c.c. (v. Cass., 28 febbraio 2013, n. 5038). Diverso, giacché apparentemente sganciato dallo specifico titolo del maturato debito per i contributi (e, dunque, dalla correlazione della mora con la fruizione di quel determinato servizio condominiale che si intenda sospendere) è, invece, il concetto di “condomino moroso” di cui all’art. 63, comma 3, disp. att. c.c.

Da quando il condomino può intendersi “moroso”? Sin dal momento di esigibilità di quella spesa derivante dal vincolo obbligatorio contratto con il terzo? O assume rilievo, anche nei confronti del terzo creditore, l’ultrasemestralità della mora nel pagamento, come ai fini della sospensione dalla fruizione dei servizi comuni (art. 63, comma 3, disp. att. c.c.) o dell’obbligo di agire per la riscossione dell’amministratore (art. 1129, comma 9, c.c.)?

Occorre considerare come il debito per le spese condominiali sia soggetto alle generali regole delle obbligazioni pecuniarie, contenute negli artt. 1182, comma 3, e 1277, comma 1, c.c., per le quali le obbligazioni aventi per oggetto somme di danaro devono adempiersi al domicilio del creditore e con moneta di corso legale (salva l’applicabilità dell’art. 15, comma 4, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito dalla l. n. 221/2012, che impone anche all’amministratore condominiale,in quanto soggetto che effettua attività di prestazione di servizi professionali, di accettare altresì pagamenti effettuati attraverso carte di debito). In questa prospettiva, nell’esercizio dei suoi poteri di rappresentanza, compresi quelli correlati alla gestione amministrativa del condominio, quale, appunto, la riscossione dei contributi, l’amministratore è da reputarsi domiciliato nel luogo od ufficio a ciò specificamente destinato nell’àmbito dell’edificio o degli edifici in condominio. In difetto, il domicilio del condominio, che non ha una sua sede nel senso previsto dall’art. 46 c.c., coincide con quello della persona fisica dell’amministratore che lo rappresenta (v. Trib. Salerno, 8 giugno 2010). Ai fini dell’applicabilità dell’appena richiamato art. 1182, comma 3, c.c., occorre convenire sulla premessa che l’obbligazione di pagamento delle spese condominiali è un’obbligazione “portabile”, in quanto ha per oggetto una somma di danaro già determinata nel suo ammontare, o  comunque determinabile in base ad un semplice calcolo aritmetico, sicché la mora del singolo condomino debitore si determina, ai sensi dell’art. 1219, comma 2, n. 3), c.c.,alla scadenza del termine in cui il pagamento deve essere eseguito(mora ex re). Tuttavia, diversamente la giurisprudenza, quanto alla decorrenza della prescrizione stabilita dall’art. 2948, n. 4), c.c., correla l’esigibilità del credito in ogni caso alla data di approvazione del rendiconto e del relativo stato di riparto (v. Cass., 25 febbraio 2014, n. 4489; Cass., 5 novembre 1992, n. 11981).

Fin quando il “condomino moroso” rimane “moroso”? Cosa avviene, cioè, se, comunicati dall’amministratore al creditore i dati del condomino a quella data moroso, quest’ultimo poi provveda a pagare nelle mani del primo le quote arretrate quando, semmai, il creditore abbia ormai intrapreso la sua azione diretta verso l’originario inadempiente?

E come è da qualificare (“moroso” o “obbligato in regola con i pagamenti”) il partecipante che avesse versato direttamente nelle mani del creditore del condominio, privo di titolo esecutivo, la sua quota di contribuzione alla spese (v., in proposito, Cass., 17 febbraio 2014, n. 3636)? Questi certamente è ancora in mora nel pagamento dei contributi condominiali, eppure ha soddisfatto quale debito pro quota che tanti scrivono lo leghi direttamente al terzo creditore.

Non potrebbe certo sostenersi, in ogni caso, che la condizione di morosità del condomino, convenuto dal creditore senza sobbarcarsi la preventiva escussione degli altri morosi, debba sussistere soltanto al momento dell’introduzione del giudizio, incidendo, essa, piuttosto, sul diritto del terzo ad ottenere una sentenza di condanna, sicché è indispensabile che la stessa permanga nel momento in cui la lite viene decisa.

IV. L’azione del creditore nei confronti dei condomini morosi

I primi commenti alla Riforma del condominio non sembrano disposti ad abbandonare il presupposto assiomatico, su cui radicano pure i primi due commi dell’art. 63 disp. att., c.c., della diretta riferibilità ai singoli condomini delle obbligazioni assunte dall’amministratore nell’àmbito delle sue attribuzioni e nell’adempimento degli obblighi di mandato a lui affidati dal condominio mandante (v. Cass., 17 aprile 1993, n. 4558; Cass., 14 dicembre 1982, n. 6866; Cass., 21 marzo 1979, n. 1626; Cass., 11 novembre 1971, n. 3235).

Deve invece assumersi che il singolo condomino non è titolare di alcun credito e di alcun debito di natura sinallagmatica nei confronti del terzo contraente prescelto dall’amministratore o dall’assemblea. L’obbligo di pagamento degli oneri condominiali da parte del singolo partecipante ha causa immediata nella disciplina del condominio, e cioè nelle norme di cui agli artt. 1118 e 1123 ss. c.c. (che fondano il regime di contribuzione alle spese per le cose comuni) e non in un rapporto contrattuale con il terzo, rapporto che obblighi una controparte ad una controprestazione.

Così come il condomino non è legittimato ad agire direttamente contro il terzo per ottenere l’adempimento dell’obbligazione che questi abbia contratto nei confronti del condominio, dovrebbe venir parimenti facile negare al terzo, creditore della gestione condominiale, la legittimazione ad agire, in via diretta, nei confronti dei singoli condomini.

La stessa giurisprudenza ha chiarito che l’obbligo del singolo partecipante di pagare al condominio le spese dovute e le vicende debitorie del condominio verso i suoi appaltatori o fornitori rimangono del tutto indipendenti. Tant’è che il condomino non può ritardare il pagamento delle rate di spesa in attesa dell’evolvere delle relazioni contrattuali tra condominio e soggetti creditori di quest’ultimo, né può utilmente opporre all’amministratore che il pagamento sia stato da lui effettuato direttamente al terzo, in quanto, si assume, ciò altererebbe la gestione complessiva del condominio: sicché il singolo deve sempre e comunque pagare all’amministratore, salva l’insorgenza, in sede di bilancio consuntivo, di un credito da rimborso per gli avanzi di cassa residuati (così Cass., 29 gennaio 2013, n. 2049). Se, dunque, il pagamento effettuato dal singolo condomino direttamente nelle mani del terzo creditore del condominio non libera il solvens nei confronti dell’amministratore, esso deve configurarsi come un indebito soggettivo ex latere accipientis, in quanto il debito di colui che ha eseguito il versamento esiste, ma non verso colui che lo ha ricevuto; e, per converso, questo significa pure che il terzo, appaltatore o fornitore, non è titolare di un credito diretto verso il singolo condomino e non dovrebbe avere legittimazione primaria ad agire nei confronti di quest’ultimo. Il concetto della legittimazione processuale ad agire o contraddire è notoriamente correlato al potere sostanziale di disporre ed obbligarsi. Non basta evidenziare che sussiste un concreto interesse del terzo creditore ad agire a tutela delle proprie ragioni nei confronti del singolo partecipante: occorre che tale interesse si soggettivizzi in capo al medesimo creditore ed al condomino debitore. Poiché il singolo condomino non può, di regola, disporre del rapporto intercorrente con il creditore della gestione collettiva, non avendone “competenza dispositiva”, egli non deve avere nemmeno la correlata legitimatio ad causam.

Sempre la giurisprudenza (v. Cass., 17 febbraio 2014, n. 3636) ha affermato il principio secondo il quale, ponendosi il condominio, nei confronti dei terzi, come soggetto di gestione dei diritti e degli obblighi dei singoli condomini attinenti alle parti comuni, l’amministratore di esso assume la qualità di necessario rappresentante della collettività dei condomini, e ciò sia nella fase di assunzione degli obblighi verso i terzi per la conservazione delle cose comuni, sia, all’interno della medesima collettività condominiale, in quanto unico referente dei pagamenti ad essi relativi; se ne è fatta discendere la conclusione secondo cui il pagamento diretto eseguito dal singolo partecipante a mani  del creditore del condominio non è idoneo ad estinguere il debito pro quota dello stesso relativo ai contributiexart. 1123 c.c., a meno che il terzo creditore non si sia già munito di titolo esecutivo nei confronti del singolo condomino.

Se allora il pagamento al terzo creditore deve indispensabilmente avvenire per il tramite dell’amministratore, dovrebbe per minima coerenza negarsi che il singolo condomino sia immediato debitore di quello, facendosi salva l’ipotesi in cui il terzo si sia ormai premunito di un titolo esecutivo verso quel determinato partecipante. Ove si ritenesse ancora che ciascun condomino sia direttamente obbligato verso il creditore della gestione condominiale, non si potrebbe obliterare l’interesse di quel debitore ad adempiere spontaneamente pro quota nelle mani del terzo, in modo da procurarsi la liberazione dal vincolo anche invito creditore, senza dover attendere, per assurdo, che questi consegua dapprima un titolo esecutivo, con modificazione aggravativa del debito (in relazione alla maturazione degli accessori), contrasto con il principio di correttezza e buona fede, nonché lesione del principio costituzionale del giusto processo, traducendosi l’ineliminabile soggezione del condomino alla domanda giudiziale del terzo, diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria, in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte pur sempre nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale.

Ai terzi creditori potrebbe dirsi accordata soltanto un’azione surrogatoriaex art. 2900 c.c., in luogo dell’amministratore, rimasto inerte nell’adempiere al suo dovere di riscossione. L’art. 63, comma 1, disp. att. c.c. va correlato all’art. 1129, comma 9, c.c., il quale – come visto – vincola l’amministratore ad agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dai singoli condomini obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell’esercizio annuale in cui sia maturata la spesa. Quella nei confronti dei morosi si configurerebbe come azione surrogatoria, giacché diretta appunto a consentire al terzo creditore della gestione condominiale di prevenire e neutralizzare gli effetti negativi che possano derivare alle sue ragioni dall’inerzia del condominio debitore, il quale, in persona dell’amministratore a tanto deputato, ometta di esercitare le opportune azioni dirette alla riscossione delle somme dovute dai condomini inadempienti, e perciò non si curi di incrementare il suo patrimonio.Se tale sia la corretta ricostruzione della nuova fattispecie, qualora l’amministratore non risulti più inerte, per aver posto in essere comportamenti idonei e sufficienti a far ritenere utilmente intrapreso il recupero delle somme dovute dai morosi, verrebbe a mancare il presupposto perché a lui possa sostituirsi il creditore. Può essere significativo ricordare come una versione provvisoria del comma 1 dell’art. 63 disp. att. c.c., poi abbandonata nel corso dell’iter della Riforma, obbligasse l’amministratore “a comunicare ai creditori del condominio non ancora soddisfatti” anche “l’eventuale ricorso a strumenti coattivi di riscossione ai sensi dell’articolo 1129, nono comma, del codice” civile.

La legittimazione primaria dell’amministratore di condominio ad incassare le somme dovute dai partecipanti e la legittimazione derivativa, o secondaria, del terzo ad agire nei confronti dei morosi, in forza del trasferimento surrogatorio offertogli dall’art. 63, comma 2, disp. att. c.c. vanno, del resto, necessariamente coordinate fra loro, ad evitare che il singolo possa essere destinatario di un’inammissibile duplicazione di condanne, e perciò di titoli esecutivi, l’una verso il condominio, l’altra verso il creditore. Dunque, l’inerzia ultrasemestrale dell’amministratore nel riscuotere i contributi dovuti dai condomini potrebbe intendersi variamente considerata nella l. n. 220/2012: essa sembrerebbe delineare il presupposto dell’inerzia indispensabile per l’esercizio dell’azione surrogatoria intentata dal terzo creditore nei confronti dei morosi, i cui dati l’amministratore deve comunicargli; rappresenta, poi, un’esemplificazione di grave irregolarità che legittima la revoca giudiziale dell’amministratore, ai sensi dell’art. 1129, comma 12, n. 6), c.c., ove lo stesso abbia “omesso di curare diligentemente l’azione e la conseguente esecuzione coattiva”; può, infine, generare una responsabilità dell’amministratore nei confronti del medesimo terzo creditore. Sia chiaro che il testo dell’art. 63 disp. att. c.c. non contiene alcuna espressa qualificazione dell’azione del terzo creditore nei confronti dei morosi come azione surrogatoria: a ciò si perviene unicamente sulla base della configurazione della struttura del rapporto obbligatorio corrente tra il creditore e il condominio, del convincimento di una distinta ed autonoma imputazione dello stesso alla collettività organizzata, piuttosto che a ciascuno dei membri di quest’ultima, e delle opportunità che disvela siffatta ricostruzione come azione surrogatoria rispetto a numerose esigenze della pratica. Il creditore, ad esempio, a norma dell’art 2900, comma 2, c.c., dovrebbe citare anche l’amministratore del condominio al quale intenda surrogarsi, stanti il litisconsorzio necessario fra creditore, condomino inadempiente e condominio, nonché l’inscindibilità della causa a cui i tre devono partecipare; gravi sarebbero, altrimenti, i pregiudizi che il condominio subirebbe ove si formasse, in sua assenza, un giudicato di accertamento negativo del debito di contribuzione alle spese del partecipante moroso, così come, per converso, il moroso, debitor debitoris,si troverebbe, in mancanza dell’integrazione del contraddittorio, ad ottenere un’eventuale vittoria nel processo interpreso dal terzo creditore che non lo rassicurerebbe dal rischio di essere nuovamente convenuto dall’amministratore per il pagamento di quelle stesse spese. Troverebbe, inoltre, applicazione l’art. 23 c.p.c., il quale introduce un foro speciale esclusivo ed attribuisce la competenza per territorio al giudice del luogo in cui si trova l’immobile condominiale anche per le liti inerenti al pagamento dei contributi relativi alle cose comuni, in quanto il terzo creditore, che agisca in surroga nei confronti del moroso in luogo dell’amministratore di condominio, proprio debitore, esercita il medesimo diritto di credito che sarebbe spettato a quest’ultimo. Si è autorevolmente detto di recente che la riferibilità diretta dei debiti condominiali ai singoli partecipanti sia imposta ancora dalla carenza di personalità giuridica del condominio (TRIOLA 2014, 212). Ora, a parte i tanti sintomi di evidenza normativa di una soggettività nel condominio presenti nella Riforma del 2013, ed a parte i chiari segnali di entificazione del condominio stesso che provengono (forse, però, non del tutto consapevolmente) dalla stessa giurisprudenza, non sembra decisivo, per smentire l’autonoma imputazione del rapporto obbligatorio al condominio, individuare, o meno, in questo una persona, un soggetto, un ente diverso da quello dei singoli partecipanti. Quel che appare, invece, determinante, è verificare se il rapporto obbligatorio assunto dall’amministratore di condominio o deliberato dall’assemblea abbia davvero lo stesso identico contenuto dell’obbligazione individuale dei singoli; o se, per contro, esso non sia sottoposto ad uno speciale regime normativo. Mi pare che soltanto ostacoli di ordine concettuale impediscono di ravvisare nell’obbligazione della collettività condominiale qualcosa di essenzialmente diverso da altrettante obbligazioni solidali o parziarie riferibili ai singoli condomini. Indagando, in particolare, l’aspetto della fattispecie procedimentale di formazione dei contratti che obbligano il condominio, se da un lato si ricava conferma del tratto unificante postulato dal principio di organizzazione dell’insieme dei partecipanti, dall’altro ci si convince che la fonte costitutiva delle obbligazioni contrattuali, di volta in volta assunte per la gestione delle cose comuni, non risiede comunque nell’accordo tra i condomini, né nella delibera dell’assemblea (la quale resta elemento esterno al contratto concluso con il terzo). Ora, ad una tale unitarietà della fattispecie obbligatoria dovrà, per coerenza sistematica, corrispondere una equipollente unitarietà sotto il profilo degli effetti e dei rapporti che dagli stessi contratti condominiali derivano. In tal senso, si può negare che l’obbligazione contratta in nome e per conto del condominio dia luogo ad una pluralità di debiti e di crediti, tanti quanti sono i singoli condomini, individuando, per contro, in essa un rapporto unico, ovvero il “contenuto di una situazione soggettiva che si imputa al condominio come tale ed è esercitata attraverso i suoi organi” (così Cass., 8 marzo 2003, n. 3522). Ciò già permette di ravvisare nel condominio una autonoma “parte negoziale”, intesa come centro di imputazione delle posizioni attive o passive nascenti dal contratto concluso per la gestione delle parti comuni, avente carattere soggettivamente complesso, e perciò insensibile alle mutazioni attinenti ai soggetti che la costituiscono; riflettendosi tale insensibilità anche sulle rispettive posizioni obbligatorie che dal contratto derivano.

Si aggiunge criticamente dalla stessa dottrina che il comma 2 dell’art. 63 disp. att. c.c. parla di “obbligati in regola con i pagamenti”, sicché questo confermerebbe che i condomini siano, appunto, obbligati nei confronti dei terzi creditori; in verità, questa norma non dice “verso chi” quelli siano obbligati, e potrebbe comunque intendersi “obbligati” verso il condominio, visto che di “obbligati” parlano pure, e proprio in questa direzione, l’art. 1129, comma 9, c.c. e l’art. 63, comma 5, disp. att. c.c. D’altro canto, sembra significativo, esattamente all’inverso, che la norma diversifichi il grado di meritevolezza delle aspettative del terzo creditore facendo riferimento a due denominazioni (“morosi” ed “obbligati in regola coi pagamenti”) che hanno senso soltanto nei confronti della gestione condominiale, e nulla affatto nei confronti di quel terzo; anzi, la diretta riferibilità del rapporto obbligatorio ai singoli condomini, che si vuole confermare secondo la tradizionale interpretazione, dovrebbe indurre a definire tutti i partecipanti come unanimemente morosi rispetto al creditore insoddisfatto.  È giusto notare che l’art. 63, comma 1, disp. att. c.c. non qualifica per nulla l’azione come surrogatoria; ma è altrettanto giusto che questa norma neppure prevede un’azione diretta del creditore verso i morosi, anzi non dice proprio a che scopo l’amministratore debba comunicare al terzo i dati degli inadempienti. E se inutile sarebbe stato ribadire in tale sede quel che già consentirebbe l’art. 2900 c.c., tanto più inutile risulterebbe aver riaffermato l’esistenza di una banale azione diretta, fondata su una legittimazione creditoria primaria. Infine, è vero che, di regola, la surrogatoria è data al creditore per agire verso i terzi al fine di acquisire al patrimonio del debitore inerte risultati utili; non mancano però opinioni che ritengono il creditore surrogante legittimato a ricevere per sé la prestazione altrimenti spettante al debitore surrogato, quel che appunto sarebbe consentito al creditore del condominio.

V. L’azione del creditore nei confronti dei condomini in regola coi pagamenti

All’azione attribuita al creditore nei confronti dei condomini morosi, il comma 2 dell’art. 63 disp. att. c.c. somma una legittimazione del medesimo creditore ad agire nei confronti dei condomini che siano in regola con i pagamenti, dopo, però, l’escussione degli altri condomini.

Vista la formulazione della norma in esame, ha sinceramente poco senso chiedersi ancora oggi se i debiti contratti con i terzi dal condominio per il godimento di beni e servizi comuni abbiano attuazione solidale o parziaria nei confronti dei singoli condomini.

È affermato in maniera ineludibile che l’obbligo di pagamento delle quote dovute dai morosi, posto in capo ai condomini in regola nella contribuzione alle spese, vada subordinato alla preventiva escussione di questi ultimi. Sembra certamente impossibile sostenere che gli uni e gli altri (cioè, i morosi e i condomini in regola) siano condebitori solidali in senso proprio per la totalità della medesima prestazione (secondo la nozione spiegata dall’art. 1292 c.c.) a vantaggio del creditore. Poiché la Riforma ha voluto che i creditori possano agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti dopo soltanto l’escussione degli altri condomini, non può intendersi che l’obbligazione di gestione condominiale sia vista dal legislatore come vicenda costitutiva dell’insorgenza del debito di una stessa prestazione per l’intero a carico dei partecipanti al condominio, restando salvi i criteri di ripartizioneexart. 1123 c.c. nei soli rapporti interni fra condomini. Semmai, l’obbligo sussidiario di garanzia del condomino solvente risulta limitato in proporzione alla rispettiva quota del moroso, secondo un criterio di “doppia parziarietà”.

Si è diversamente sostenuto che “la regola delle obbligazioni dei condomini è la parziarietà, ribadita dal meccanismo dell’art. 63 citato, per cui l’escussione del singolo nei limiti della quota costituisce il necessario presupposto per il recupero del residuo”, ma nel senso che i condomini solventi sarebbero tenuti a pagare “soltanto quanto non è stato corrisposto: vale a dire, quanto risulta dalla sottrazione tra l’intero dovuto [da tutti] e l’ammontare già sborsato [da lui e dagli altri condebitori]” (così CORONA 2013, 148). Questa ricostruzione, tuttavia, rivelerebbe un’obbligazione che nasce parziaria, ma che poi, ove si verifichi l’inadempimento di uno dei condomini al proprio debito pro quota, si trasforma in solidale per i soli condomini in regola con i pagamenti, tenuti all’intero “residuo”.

Si è anche affermato che il condomino in regola con i pagamenti risponda del debito dei condomini morosi non per intero, ma solo nei limiti della propria quota (TRIOLA 2014, 210). La tesi non appare convincente, poiché l’obbligo posto a carico del condomino in regola discende da un’autonoma garanzia ex lege, che non ha la natura delle spese regolate dall’art. 1123, comma 1, c.c., in ragione della quota come conseguenza dell’appartenenza in comune delle cose, degli impianti e dei servizi.

L’art. 63, comma 2, disp. att., c.c., configura, in capo ai condomini che abbiano regolarmente pagato la loro quota di contribuzione alle spese condominiali, ed in favore del terzo che sia rimasto creditore (per non avergli l’amministratore versato l’importo necessario a soddisfarne le pretese), un’obbligazione sussidiaria ed eventuale, favorita dal beneficium excussionis,avente ad oggetto non l’intera prestazione imputabile al condominio, quanto unicamente le somme dovute dai morosi. Condomini morosi e condomini solventi, pur essendo condebitori responsabili verso il terzo creditore per il saldo dovuto, si trovano in posizione non paritetica, sussistendo una graduazione in ordine al relativo pagamento.

Non è stata quindi affatto superato, e semmai data per scontata dalla l. n. 220/2012, la ricostruzione operata da Cass. S.U., 8 aprile 2008, n. 9148, secondo la quale – com’è noto – non avendo la solidarietà tra i condomini per i debiti nei confronti dei terzi alcun fondamento normativo, e prevalendo, anzi, al riguardo l’intrinseca parziarietà dell’obbligazione, il creditore avrebbe potuto procedere all’esecuzione individualmente nei confronti dei singoli condomini soltanto nei limiti della rispettiva quota di ciascuno e giammai per l’intero.

Si insegna che il debitore sussidiario – sia quando risulti vincolato ad eseguire una prestazione diversa da quella dovuta dall’obbligato principale, sia quando debba adempiere la stessa prestazione inutilmente attesa dal debitore principale – è sempre da considerarsi come tenuto ad un’obbligazione del tutto autonoma e distinta da quella principale. La sussidiarietà è, del resto, eccezione rilevante alla regola posta dall’art. 1292 c.c., in quanto il creditore, pur in presenza di più debitori responsabili per l’intera prestazione da lui vantata, non può indifferentemente rivolgersi ad uno qualsiasi di loro per chiedere l’adempimento della totalità. “Quando la legge dice che il creditore può pretendere l’intero da ciascun debitore, in ciò è implicito anche che il creditore può scegliere liberamente il debitore a cui rivolgersi per primo” (RUBINO, 163; v. anche AMORTH, 14; BUSNELLI, 60; MAZZONI, 612). L’obbligo del debitore sussidiario, pur avendo contenuto identico a quello del debitore principale, funziona essenzialmente come strumento di garanzia del diritto del creditore nei confronti di quest’ultimo, e soltanto perciò, una volta adempiuto il primo, si estinguerebbe di riflesso anche il secondo.

Così impostato il problema, il riconoscimento normativo di una relazione di sussidiarietà tra il debito del condomino moroso e quello del condomino solvente non depone affatto per la sussistenza di un nesso di solidarietà tra gli stessi. È più corretto ravvisare, in favore del creditore, distinte posizioni obbligatorie e perciò anche distinte azioni di adempimento, l’una per l’intero debito, esperibile nei confronti dell’amministratore, e le altre nei limiti della rispettiva quota, verso i singoli condomini, rendendosi poi ammissibile l’eventualità di pretendere da un partecipante il pagamento del debito originariamente dovuto da un altro condomino solo in seguito all’infruttuosa escussione del patrimonio di quest’ultimo.

L’art. 63, comma 2, disp. att. c.c. si spiega come fonte di un’obbligazione legale di garanzia di ogni condomino per le quote non sue. La diversità tra l’obbligo principale e l’obbligo sussidiario si radica nel difetto della eadem causa obligandi, diverse essendo le fonti stesse delle obbligazioni azionate, giacché l’obbligazione per la propria quota ha origine negli artt. 1123 ss. c.c., mentre quella sussidiaria con funzione di garanzia trae origine dall’art. 63, comma 2, disp. att. c.c.

Ravvisare un nesso di sussidiarietà, invece che di solidarietà, tra i debiti dei condomini solventi e quelli dei condomini morosi non è questione meramente teorica, in quanto l’assunto escluderebbe, ad esempio, ai fini dell’estensione dell’efficacia dell’atto interruttivo della prescrizione, la diretta applicazione dell’art. 1310 c.c. (per il quale l’atto interruttivo contro uno dei condebitori in solido determina l’interruzione permanente della prescrizione anche nei confronti dei condebitori). Se ci si convince che il debito del condomino moroso ed il debito di garanzia del condomino in regola derivano da obbligazioni distinte ed indipendenti, sarebbe del tutto ovvia la resistenza ad accettare che l’atto che interrompe la prescrizione nei confronti di un condebitore possa spiegare effetto pure nei confronti dell’altro condebitore. Non è operante per il condomino garante, in regola con i suoi pagamenti, l’art. 1297, comma 1, c.c., limitativo della proponibilità delle eccezioni personali del condomino moroso. Né opera l’art. 1298 c.c., circa il riparto nei rapporti interni, non potendosi certo sostenere che il debito per la quota del moroso si divida in parti uguali con il condomino solvente. Vi sono estranei, ancora, gli artt. 1300, 1301, 1302 e 1303 c.c., non apparendo credibile che, ove vicende estintive diverse dall’adempimento abbiano riguardato il condomino moroso, il condomino garante in regola con i pagamenti sarebbe comunque liberato per la parte del debitore primario. Non si applicano al condomino in regola, che abbia pagato al creditore la quota dovuta dai morosi, le regole che limitano il diritto di regresso nell’àmbito dei rapporti fra condebitori solidali con riferimento alla corrispondente parte di debito (art. 1299 c.c.); piuttosto, il condomino solvente, garantendo l’adempimento del contributo imposto al moroso, ovvero un debito altrui, una volta effettuato il pagamento, avrà azione di regresso per l’intero nei confronti del debitore principale e si surroga nei diritti del creditore. Resterebbero, probabilmente, a regolare pure l’ipotesi di solidarietà impropria corrente tra debito del moroso e debito del condomino a posto con i pagamenti le disposizioni concernenti la transazione col creditore (art. 1304 c.c.), il giuramento (art. 1305 c.c.), la sentenza (art. 1306 c.c.) e il riconoscimento del debito proveniente da uno dei due obbligati (art. 1309 c.c.).

In favore dei condomini in regola con i pagamenti è previsto dal comma 2 dell’art. 63disp. att. c.c. non solo un onere per il creditore di chiedere in primo luogo l’adempimento  dei morosi (c.d. beneficio d’ordine), quanto la più gravosa condizione di escutere preventivamente il patrimonio degli stessi partecipanti inadempienti (c.d.beneficium excussionis).

 La preventiva escussione richiede, comunque, l’esaurimento effettivo della procedura esecutiva individuale in danno del condomino moroso, prima di potere pretendere l’eventuale residuo insoddisfatto al condomino in regola. Essa comporta non soltanto il dovere del terzo di iniziare le azioni contro il moroso, ma anche di continuarle con diligenza e buona fede: dunque, il creditore del condominio deve dapprima agire contro i partecipanti che siano in ritardo nei pagamenti delle spese per ottenere la condanna, ovvero un titolo esecutivo che permetta di dar corso all’espropriazione dei beni di quello; deve, inoltre, compiere ogni atto cautelare contro i beni stessi, per salvaguardarne l’indisponibilità durante il giudizio diretto alla condanna. Si reputa generalmente che il beneficio di preventiva escussione non opera in via diretta, per efficacia della previsione di legge, ma pur sempre in via di tempestiva eccezione dilatoria in senso stretto. L’eccezione sarà rilevabile non soltanto se in concreto sussistano beni da sottoporre ad esecuzione al momento della scadenza del credito, ma sempre che tale esecuzione sia giuridicamente possibile, ipotesi che non si riscontra, ad esempio, con il fallimento del condomino moroso, evento che per definizione esclude la sussistenza di beni da poter sottoporre ad esecuzione individuale.

La lettera dell’art. 63, comma 2, disp. att. c. c. (“i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola”) lascia pensare che il condomino in regola, convenuto in giudizio dal terzo per il pagamento del restante credito condominiale, possa paralizzare, in via di eccezione, l’azione del creditore, con l’opporre utilmente il beneficio della preventiva escussione del patrimonio del condomino moroso, senza dover perciò necessariamente chiamare in causa quest’ultimo. Sembra, dunque, da negare che la disposizione sul beneficio di escussione abbia efficacia limitatamente alla fase esecutiva. Se così altrimenti funzionasse, al terzo creditore non sarebbe impedito di richiedere sùbito stragiudizialmente la prestazione al condomino in regola, per provocarne l’adempimento diretto; né di agire in sede di cognizione per munirsi di uno specifico titolo esecutivo nei confronti pure del condomino adempiente, onde poter iscrivere ipoteca giudiziale sugli immobili di quest’ultimo, oppure poter procedere in via esecutiva contro di lui, senza ulteriori indugi, una volta che il patrimonio del moroso risulti incapiente o insufficiente al soddisfacimento del credito vantato. Per come qui intesa, l’eccezione della mancata escussione del condomino moroso tende, però, al fine diretto della reiezione della domanda di condanna, opponendo al diritto di credito fatto valere dall’attore un diritto idoneo a paralizzarlo. Sono, tuttavia, destinati a riproporsi a proposito del comma 2 dell’art. 63 disp. att. c.c. quei contrasti interpretativi sul beneficio di escussione in senso tecnico, che da decenni animano il dibattito sull’altra ipotesi in cui esso certamente era già presente nel nostro ordinamento, segnata dall’art. 1944, comma 2, c.c. in tema di obblighi del fideiussore. Potrebbe dunque sostenersi, con non minore forza persuasiva, che il beneficio di preventiva escussione genera non soltanto un’eccezione, ma esclude come attualmente esistente l’azione del creditore verso il condomino in regola, il che varrebbe a differire l’insorgenza, o quanto meno l’esigibilità, del debito di garanzia di quest’ultimo fino al momento dell’esito infruttuoso dell’azione nei confronti del condomino moroso: l’essere l’infruttuosa esecuzione fatto costitutivo della pretesa del creditore verso il condomino in regola con i pagamenti, ovvero oggetto di mera eccezione, comporta intuibili differenze, ad esempio, in ordine agli effetti della costituzione in mora di quest’ultimo compiuta prima ancora dell’escussione del moroso, come in ordine alla ripetibilità del pagamento della quota spettante al moroso eseguito nelle mani del creditore dal condomino in regola anteriormente alla preventiva aggressione di quello.

Al condomino in regola con i pagamenti, escusso dal terzo creditore per la parte dovuta dai morosi, dovrà consentirsi di avvalersi, oltre che dell’azione di regresso verso il debitore principale inadempiente, altresì della surrogazione legale (in forza dell’art. 1203, n. 3, c.c.), senza, peraltro, mai esperire contemporaneamente i due rimedi. Com’è noto, mentre il regresso, che ha per oggetto il rimborso di quanto sia stato pagato a titolo di capitale, interessi e spese, consiste in un diritto che sorge per la prima volta in capo al condebitore adempiente (sulla base del c.d. aspetto interno dell’obbligazione plurisoggettiva), la surrogazione implica, invece, con il subentrare del condebitore adempiente nell’originario diritto del creditore soddisfatto (oltre che negli accessori, ivi comprese le eventuali garanzie), l’acquisizione della stessa posizione giuridica del creditore e dà luogo, quindi, ad una vicenda successoria. Il condomino che, adempiuto il debito sussidiario verso il terzo per la quota dovuta dai morosi, faccia valere il suo diritto alla surrogazione legale a norma dell’art. 1203, n. 3), c.c. può, pertanto, vedersi opporre non solo le eccezioni relative al rapporto interno tra i condomini, ma anche quelle opponibili allo stesso terzo creditore, relative a limitazioni, decadenze e prescrizioni inerenti al credito. In tale azione, inoltre, il termine di inizio della prescrizione coincide con quello in cui il debitore in solido abbia adempiuto l’intera obbligazione.

Appare, in definitiva, plausibile concludere nel senso che la posizione del condomino in regola con i pagamenti, chiamato dal creditore a rispondere delle quote dovute dai morosi, dopo la preventiva escussione degli stessi, sia assimilabile a quella di un fideiussore, sia pure ex lege.Il condomino solvente garantisce l’adempimento del contributo imposto al moroso, ovvero un debito altrui

 Ciascun condomino è realmente obbligato (in via primaria verso l’amministratore, e in via surrogatoria verso il creditore) soltanto per la quota di debito proporzionata al valore della sua porzione, ed è invece garante per le quote dei condomini inadempienti, restando i rispettivi rapporti obbligatori distinti perché generati da cause normativamente distinte. L’obbligo del condomino puntuale nei pagamenti, essendo accessorio ed ausiliario di quello del condomino moroso, nonché diretto ad adempiere a quello che quest’ultimo manca di soddisfare, è, in tal senso, condizionato a quell’inadempimento e commisurato alla rispettiva quota non versata.
 

VI. Creditori e conto corrente condominiale

L’art. 1129, comma 7, c.c. obbliga

“l’amministratore a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, nonché quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio”,

aggiungendo che

“ciascun condomino, per il tramite dell’amministratore, può chiedere di prendere visione ed estrarre copia, a proprie spese, della rendicontazione periodica”.

Tra le ipotesi tipizzate di gravi irregolarità, legittimanti la revoca dell’amministratore, figurano, conseguentemente,

i casi della “mancata apertura ed utilizzazione del conto intestato al condominio”,

o anche 

“la gestione secondo modalità che possono generare possibilità di confusione tra il patrimonio del condominio e il patrimonio personale dell’amministratore o di altri condomini” (art. 1129, co. 12°, nn. 3 e 4, c.c.).

La Riforma del 2012, dunque, esplicita un riferimento alla nozione di “patrimonio del condominio”, in modo da tenerlo separato da quello dell’amministratore e dei singoli condomini.

È noto, al riguardo, come la diffusa convinzione del difetto di soggettivazione dell’organizzazione condominiale, e della discendente imputazione immediata in capo ai singoli delle obbligazioni assunte dall’amministratore per le parti comuni, nonché della correlata responsabilità, discendesse proprio dal mancato rinvenimento nella disciplina codicistica del condominio di un patrimonio autonomo o di un fondo comune ricollegati al gruppo. Oltre alla generale impossibilità di individuare un debitore inadempiente in un soggetto sprovvisto di un elemento patrimoniale in grado di soddisfare anche coattivamente l’interesse del creditore, si è fatta sempre rilevare, al fine di escludere la responsabilità del condominio, la peculiare insuscettibilità all’espropriazione ed alla vendita delle cose, degli impianti e dei servizi condominiali (Capponi, 201). In sostanza, veniva affermato che il condominio intanto si sarebbe potuto dire debitore  se fosse stato dotato di suoi beni, e cioè di un patrimonio che garantisse l’adempimento, assorbendo le ricadute dell’eventuale inadempimento, in base alla regola generale posta dall’art. 2740 c.c. Così, la struttura delle obbligazioni assunte dall’amministratore è stata costantemente desunta non dall’esame della fattispecie costitutiva del vincolo, ma dall’esigenza di allocare economicamente gli effetti di quella fattispecie. Il bisogno di riferire al singolo condomino gli effetti dell’obbligazione scaturente dalla deliberazione assembleare o dall’attività dell’amministratore sorgeva dal calcolo degli inconvenienti legati alla tutela della garanzia del terzo creditore, che avesse dapprima contratto con il condominio e andasse poi alla ricerca di un patrimonio da assoggettare all’azione esecutiva. In verità, la mancanza di un patrimonio autonomo già non sembrava argomento decisivo nella ricostruzione della struttura delle obbligazioni assunte dall’amministratore per la gestione delle cose comuni. Andrebbe ancora aggiunto che, per il vero, l’ordinamento del condominio conosce pure la possibilità di costituire un proprio “fondo speciale”. Ci si riferisce all’obbligo (e non più facoltà), imposto all’assemblea dall’art. 1135, n. 4) c.c., di predisporre un fondo speciale per le opere di manutenzione straordinarie e le innovazioni, di importo pari all’ammontare dei lavori.

Ora, per effetto della Riforma del 2012, si avrà necessariamente “uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio”, nonché un “patrimonio del condominio”.

Il conto intestato al condominio potrà allora rappresentare la misura della responsabilità patrimoniale dei condomini per le obbligazioni di gestione delle cose comuni. Non sarebbe più inevitabile ritenere che i singoli partecipanti siano obbligati diretti verso i terzi creditori, passando i loro debiti di contribuzione attraverso il conto corrente ed il patrimonio comune, nei limiti determinati dall’art. 1123 c.c. Laddove i fondi a disposizione dell’amministratore si rivelassero insufficienti per l’adempimento delle obbligazioni contratte, questi sarebbe l’unico legittimato a richiedere in via primaria ai condomini il pagamento dei contributi necessari; ai terzi creditori sarebbe concessa invece un’azione surrogatoria, in luogo dell’amministratore, rimasto inerte nell’adempiere al suo dovere. Così si spiegherebbe anche il nuovo art. 63, co. 1° e 2°, disp. att. c.c.

Non è decisivo replicare che il conto corrente intestato al condominio, formato con i contributi dei condomini, non viene sottoposto a misure di conservazione, in modo da concentrarvi la garanzia dei creditori. Alcun vincolo sorge, si obietta da alcuni, dall’apertura del conto corrente al soddisfacimento delle obbligazioni connesse alla gestione condominiale, il che renderebbe possibile in ogni momento la distrazione delle somme raccolte e la loro restituzione ai singoli. Ora, è innegabile che il conto corrente intestato al condominio, a norma dell’art. 1129, co. 7°, c.c., non è inquadrabile fra i patrimoni separati, in quanto la stessa previsione normativa non imprime ad esso alcun vincolo di destinazione; ciò però non significa che il conto condominiale non svolga, comunque, una funzione di garanzia e di responsabilità, allo scopo di assicurare i terzi creditori del condominio. Trattandosi di garanzia generica, come del resto la responsabilità patrimonialeexart. 2740 c.c., essa non è provvista di forza di esclusione o di prelazione; né, una volta allestito il conto, può essere sottratta ai condomini la libera disponibilità dello stesso, rimanendo al creditore di azionare gli strumenti di tutela preventiva o successiva della sua garanzia.

Tutti i contributi versati dai partecipanti devono transitare sul conto corrente intestato al condominio, confondendosi con le altre somme già ivi esistenti, e andando perciò ad integrare quel saldo che è ad immediata disposizione del correntista “condominio”, secondo l’art. 1852 c.c., senza che mantenga alcun rilievo lo specifico titolo dell’annotazione a credito, né la provenienza della provvista dall’uno o dall’altro condomino. Quando, così, un creditore del condominio sottoponga a pignoramento le somme risultanti presso l’istituto bancario ove il condominio intrattiene il rapporto di conto corrente e sul quale affluiscono anche le rate del fondo per la manutenzione straordinaria e le innovazioni, il credito del debitore che viene pignorato è il credito alla restituzione delle medesime somme depositate, il quale trova causa, appunto,  nel rapporto di conto corrente, rimanendo del tutto prive di significato le ragioni per le quali le singole rimesse siano state effettuate, come la provenienza delle stesse dall’uno o dall’altro condomino. Si assume da alcuni che, pignorando il creditore le somme giacenti sul conto corrente intestato al condominio, ove si siano determinate morosità tra i partecipanti con riguardo a quella determinata spesa, lo stesso creditore verrebbe così ad aggirare il “beneficium excussionis” posto dall’art. 63, co. 2°, disp. att., aggredendo in via diretta la disponibilità bancaria creata proprio dai soli obbligati in regola coi pagamenti. Occorre tuttavia ricordare come, ogni qual volta la gestione condominiale contragga con un terzo, coesistono distinte obbligazioni, concernenti, rispettivamente, l’intero debito e le singole quote, facenti capo la prima al condominio, rappresentato dall’amministratore, e le altre ai singoli condomini, tenuti in ragione e nella misura della partecipazione al condominio ai sensi dell’art. 1123 c.c. ed agli effetti dell’art. 63, co. 1° e 2°, disp. att. c.c. (Cass. 27 settembre 1996, n. 8530). Le diverse azioni di adempimento –  quelle nei confronti del condominio, e per l’intero debito, in via diretta, e quelle, invece, pro quota, verso i singoli condomini, in via surrogatoria – possono essere proposte anche cumulativamente, fondandosi su diversi presupposti: ovvero, rispettivamente, il contratto che lega il condominio al terzo creditore e l’obbligo ex lege gravante sui singoli condomini di contribuire alle spese comuni. Il pignoramento del saldo di conto corrente condominiale da parte del creditore è allora volto a soddisfare in via esecutiva la sola obbligazione per l’intero gravante  sull’amministratore e non interferisce col meccanismo del beneficio di escussione ex art. 63, co. 2°, disp. att. c.c., il quale è posto a presidio unicamente dei distinti obblighi pro quota spettanti ai singoli.

VII. Deliberazioni dell’assemblea e creditori

Dovrebbero qualificarsi nulle tutte le deliberazioni dell’assemblea, prese a maggioranza, che abbiano l’effetto di far insorgere in capo ai condomini, in regola coi pagamenti delle spese, l’obbligo di sopperire all’inadempimento dei morosi, ampliandone la responsabilità patrimoniale sussidiaria rispetto al meccanismo di garanzia e preventiva escussione stabilito dall’art. 63, comma 2, disp. att. c.c.

Appare, invero, estranea  alle attribuzioni della assemblea la delibera con cui la maggioranza dei partecipanti provveda a ripartire tra i condomini non morosi il debito delle quote condominiali dei condomini morosi, oppure ad istituire un fondo cassa ad hoc, non sussistendo in capo ai condomini in regola coi versamenti delle quote di rispettiva pertinenza alcun vincolo di solidarietà passiva in senso proprio nei confronti del terzo creditore, e non potendosi, perciò, prefigurare alcuna urgenza derivante dalla possibile esecuzione individuale, la quale è subordinata all’infruttuosa esecuzione nei confronti degli inadempienti (così già Trib. Salerno, 6 giugno2009, in Arch. loc. e cond. 2009,  459, superando Cass., 5 novembre 2001, n. 13631, alla stregua dell’insegnamento di Cass., 8 aprile 2008, n. 9148; ma la validità di una simile delibera è ancora condivisa da Cass., 18 aprile 2014, n. 9083).

Così nulla (occorrendo a tale scopo, altrimenti, una convenzione presa all’unanimità) è la delibera di approvazione di interventi di manutenzione straordinaria o di innovazioni che disponga di non costituire il preventivo fondo speciale di importo pari all’ammontare dei lavori, ovvero, se sia così previsto dal contratto, il fondo pari ai singoli pagamenti dovuti in funzione del progressivo stato di avanzamento delle opere. L’art. 1135 n. 4 c. c. (anch’esso modificato dal citato d. l. n. 145 del 2013) postula, infatti, che l’allestimento anticipato del fondo speciale per gli indicati lavori (che sono poi quelli di più rilevante importo e perciò di maggiore esposizione patrimoniale) soddisfi l’interesse anche del singolo condomino a veder escluso il proprio rischio di dover garantire al terzo creditore il pagamento dovuto dai morosi, secondo quanto ora previsto dal comma 2 dell’art. 63 disp. att. c.c., essendo il versamento anticipato delle somme da parte di tutti i partecipanti condizione di legittimità della delibera di approvazione delle opere.

Un identico argomentare può portare a sostenere la nullità della deliberazione assembleare volta alla stipula di un mutuo giustificata dall’urgenza di trarre “aliunde” le somme necessarie per la gestione comune, in maniera da soddisfare i terzi creditori del condominio ovviando alla carenza di liquidità cagionata dall”inadempimento dei morosi. L’apertura del finanziamento bancario, rendendo esposto verso l’istituto di credito ciascun singolo condomino mutuatario per l’intera somma data in prestito, amplia gli obblighi di contribuzione alla gestione condominiale dello stesso singolo rispetto a quelli gravanti in base ai criteri di proporzionalità fissati nell’art. 1123 cod. civ., nonché alla garanzia voluta dall’art. 63, comma 2, disp. att., c.c., e perciò impone il conferimento di un apposito mandato a contrarre all’amministratore, ovvero una convenzione da adottare all’unanimità (per la sufficienza dell’autorizzazione dell’assemblea del condominio al fine di contrarre un mutuo per il pagamento delle spese di gestione, Cass., 5 marzo 1990, n. 1734).

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