D.L. 12 settembre 2014 n. 132, convertito, con modificazioni, in l. 10 novembre 2014 n. 162: Compensazione spese processuali ed interessi moratori

a cura di Andrea Penta

1.     Premessa.

Il d.l. n. 132/2014, come emendato a seguito della legge di conversione n. 162/2014, ha introdotto delle modifiche finalizzate a realizzare una migliore “efficienza” del processo di cognizione.

In particolare, il legislatore della riforma appare mosso da un duplice scopo: a) quello di rendere più efficiente e snello il detto processo e quello di esecuzione, onde ridurre la convenienza di strategie processuali basate su tattiche ostruzionistiche; b) quello di disincentivare le parti dal rivolgersi all’autorità giudiziaria, favorendo o, talvolta, anche imponendo come obbligatorio il ricorso ai mezzi alternativi di composizione della lite.

Nella prima direzione si muovono le misure dirette alla tutela del credito. In quest’ottica, da un lato, quanto al giudizio di cognizione, è stato elevato in maniera considerevole il saggio degli interessi moratori da computare dopo la proposizione della domanda giudiziale, e, dall’altro lato, quanto al processo di esecuzione, sono stati potenziati in modo significativo gli strumenti per la individuazione dei beni da espropriare. In entrambi i casi si è al cospetto di mezzi che rendono assai meno conveniente la resistenza dilatoria del debitore in mala fede.

Si nutrono forti dubbi in ordine alla possibilità di realizzare l’obiettivo della ragionevole durata dei giudizi incentivando il ricorso ai mezzi di Alternative Dispute Resolution, in quanto la parte che è consapevole di essere nel torto ha tutto l’interesse ad allungare i tempi del processo (e, quindi, ad evitare accordi con l’avversario) e, di riflesso, a ritardare l’adempimento alle proprie obbligazioni.

Tra le misure che, invece, possono favorire una più rapida definizione del giudizio vi è quella che ha elevato il tasso degli interessi moratori, anche se si presta anch’essa ad usi strumentali, se solo si considera che il titolare del diritto, consapevole della fondatezza delle sue ragioni, potrebbe, per assurdo, avere interesse a continuare (recte,a protrarre) la lite giudiziaria in modo da conseguire vantaggi (gli elevati interessi moratori) cui giammai potrebbe aspirare ricorrendo al sistema bancario.

2.     Il saggio degli interessi moratori.

L’art. 17 del menzionato decreto legge, intitolato “Misure per il contrasto del ritardo nei pagamenti”, ha aggiunto all’articolo 1284 del codice civile dopo  il  terzo  comma  le seguenti disposizioni:

«Se le parti non ne hanno  determinato  la  misura,  da  quando  ha inizio un procedimento di cognizione il saggio degli interessi legali e’ pari a quello previsto dalla  legislazione  speciale  relativa  ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. La disposizione del quarto comma si applica anche all’atto con  cui si promuove il procedimento arbitrale.».

In estrema sintesi, per evitare che il processo civile sia strumentalizzato in ragione dell’applicazione del tasso legale d’interesse ed in coordinamento con la disciplina sui ritardi nei pagamenti relativi alle operazioni commerciali, si incrementa il saggio di interesse moratorio durante la pendenza della lite, prevedendosi che dal momento della proposizione della domanda giudiziale (ovvero dall’atto con il quale si promuove l’arbitrato) il tasso degli interessi legale deve considerarsi pari a quello previsto dalle disposizioni in tema di ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali (art. 5, co. 3, d.lgs. 9.10.2002, n. 231) [1].

Come si è già anticipato, il fatto che il saggio degli interessi applicato dal giudice nel pronunciare le condanne fosse inferiore a quello per accedere al credito induceva il debitore a non adempiere spontaneamente, ma a resistere in giudizio il più possibile, anche al fine di lucrare la differenza tra la misura degli interessi.

La nuova disposizione introduce di fatto un regime giuridico differenziato per il saggio degli interessiper le obbligazioni pecuniarie che costituiscono oggetto di condanna giudiziale, estendendo il tasso stabilito dal d.lgs. n. 231/2002 [2] a qualsiasi rapporti di debito-credito di cui venga chiesta la tutela in un procedimento di cognizione, anche se non rientrante nell’ambito di applicazione del menzionato decreto (per non attenere ad una “transazione commerciale”).

Si tratta di una notevole innovazione a tutela del credito controverso o, comunque, non soddisfatto spontaneamente dall’obbligato, tenuto conto che tale importo è stato fissato, per il semestre in corso, all’8,15% su base annua[3], mentre il tasso degli interessi legali è attualmente pari all’1% (ai sensi dell’art. 1284, co. 1, c.c., come modificato dall’art. 2, comma 185, l. 23 dicembre 1996, n. 662, il tasso è stato così fissato dal Ministero dell’Economia con d.m. 12 dicembre 2013, in G.U. n.

392 del 13 dicembre 2013), sempre su base annua. Ovviamente, tale regola di determinazione degli interessi opera soltanto qualora le parti non ne abbiano determinato convenzionalmente la misura[4].

Come è noto, soltanto gli interessi compensativi sulle somme liquidate a titolo di risarcimento da atto illecito, costituendo una componente del risarcimento del danno, possono essere attribuiti anche in assenza di espressa domanda della parte creditrice, mentre, in tutti gli altri casi, gli interessi, avendo un fondamento autonomo e integrando obbligazioni distinte rispetto a quelle principali, attinenti alle somme alle quali si aggiungono, possono essere riconosciuti solo su espressa domanda degli aventi diritto (cfr., infra alios, Cassazione civile, sez. II, 18/01/2007, n. 1087, in Giust. civ. Mass. 2007, 1). Pertanto, finora, il giudice, solo se richiesto, doveva condannare la parte soccombente al pagamento di quanto dovuto, oltre interessi legali dal momento della costituzione in mora e fino al soddisfo. Ora, invece, i nuovi commi dell’art. 1284 c.c., essendo disposizioni di legge, troveranno applicazione d’ufficio, senza la necessità che siano specificamente invocati, tuttavia, in forza del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (di cui all’art. 112 c.p.c.), occorrerà comunque che sia formulata una espressa domanda di condanna al pagamento degli interessi maturati dalla proposizione della domanda giudiziale. Questa impostazione è in linea con la disciplina, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, contenuta nel d.lgs. n. 231 del 2002, che ha dettato una minuziosa disciplina della decorrenza degli interessi moratori[5] stabilendone la automatica decorrenza (senza, quindi, la necessità della costituzione in mora del debitore) alla scadenza del termine legale, variamente individuato, con riferimento ad una pluralità di fatti, quali la data di ricevimento della fattura da parte del debitore, o quella di ricevimento “di una richiesta equivalente di pagamento”, o quella di altri eventi (ricevimento delle merci o della prestazione dei servizi o dell’accettazione o della verifica ai fini della conformità delle merci o dei servizi rispetto alle previsioni contrattuali), finanche quando “non è certa la data di ricevimento della fattura o della richiesta equivalente di pagamento” (art. 4).

La prima domanda che occorre porsi concerne l’individuazione del momento a partire dal quale il giudizio debba ritenersi pendente e, quindi, possano essere riconosciuti i predetti interessi.

In termini generali, trattandosi di un nuovo effetto sostanziale della domanda giudiziale, anche alla luce dell’art. 39, co. 3, c.p.c., dovrebbe guardarsi, a seconda dei casi, al momento della notificazione dell’atto di citazione o del deposito del ricorso introduttivo. Tuttavia, è controverso se l’effetto sostanziale di interruzione del termine di prescrizione (ex art. 2943, co. 1, c.c.) necessiti o meno della ricezione dell’atto giudiziario da parte del destinatario. In particolare, si discute se il predetto effetto si produca, con riferimento ai processi introdotti con atto di citazione, già a partire dalla consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario (così Cassazione civile, sez. III, 19/08/2009, n. 18399, in Vita not. 2009, 3, 1453, che, in applicazione del principio della scissione del momento perfezionativo della notificazione per il richiedente e per il destinatario, sostiene che l’esigenza che la parte non subisca le conseguenze negative di accadimenti sottratti al proprio potere d’impulso sussista non solo in relazione agli effetti processuali, ma anche a quelli sostanziali dell’atto notificato) oppure se all’uopo occorra altresì la ricezione effettiva dello stesso nelle mani del destinatario (così Cassazione civile, sez. I, 29/11/2013, n. 26804, in Giustizia Civile Massimario 2013, rv. 629041, in un caso di azione revocatoria fallimentare, secondo cui la regola della differente decorrenza degli effetti della notificazione per il notificante e il destinatario, sancita dalla giurisprudenza costituzionale, si applica solo agli atti processuali, e non anche a quelli sostanziali, né agli effetti sostanziali dei primi)[6].

La complessità della questione è acuita dall’indirizzo che ormai sembra decisamente prevalente in tema di effetti processuali della domanda, che propende per privilegiare, ai fini dell’applicazione del criterio della prevenzione di cui all’art. 39, co. 3, c.p.c., il momento in cui la notifica dell’atto di citazione si perfeziona con la consegna al destinatario[7].

In realtà, solo in materia di decadenza appare condivisibile l’orientamento (Cass. Sez. Un. 14.4.2010, n. 8830) secondo cui, ove l’atto tipico richiesto per l’esercizio del potere sia un atto recettizio (si pensi all’impugnazione del licenziamento), ciò non implicaex seche sia necessaria la ricezione per la produzione di ogni effetto impeditivo della decadenza, perché, al contrario, di regola l’atto esiste già nella sua compiutezza ed assume una propria rilevanza giuridica ai fini dell’impedimento della decadenza, mentre la condizione di efficacia della ricezione (cioè che pervenga nella sfera di conoscibilità del destinatario) costituisce, a tali fini, un elemento estrinseco alla fattispecie decadenziale. Pertanto, è sufficiente che l’atto impeditivo della decadenza sia spedito entro il termine previsto (dalla legge o dal contratto). La necessità della ricezione è stata, invece, ritenuta in relazione al termine per l’accettazione della proposta contrattuale (art. 1326, co. 2, c.c.), per la revoca della proposta contrattuale, per la prelazione ed il riscatto agrario da parte dell’affittuario (art. 8 l. n. 590/1965) e per la disdetta del contratto in cui la legge (o specifiche clausole contrattuali) attribuisce alla comunicazione dell’atto una funzione di preavviso (in materia di locazione, di appalto).

Orbene, sia nel caso di procedimenti instaurati con ricorso (si pensi alle controversie laburistiche o a quelle aventi ad oggetto i rapporti indicati nell’art. 447 bis c.p.c.) sia nell’ipotesi di giudizio introdotto con atto di citazione, si deve ritenere che gli effetti sostanziali della domanda giudiziale (tra cui deve annoverarsi anche la decorrenza degli interessi) si producano solo dalla notificazione, rispettivamente, della citazione e del ricorso unitamente al pedissequo decreto giudiziale[8] (cioè dal momento dell’effettiva instaurazione del contraddittorio con la controparte), pur essendo a tal fine sufficiente che l’atto sia entrato nella sfera di conoscenza (recte,conoscibilità) legale del convenuto.

Da ultimo, così come per quanto concerne la domanda riconvenzionale, occorre far riferimento al deposito in cancelleria, all’atto della costituzione tempestiva, della comparsa di risposta che la contiene, nell’ipotesi di mutatio libelli il dies a quo è rappresentato dal deposito della relativa memoria. Solo nell’evenienza in cui la controparte sia contumace, il calcolo degli interessi moratori deve partire dal momento della notifica, ai sensi dell’art. 292 c.p.c., della comparsa che contiene la domanda nuova o riconvenzionale.
 

2.1.L’ambito di applicazione del comma 4 dell’art. 1284 cod. civ.

La nuova norma, in assenza di limitazioni espresse, si applica avanti a qualsiasi giudice (ordinario, amministrativo, contabile, tributario) ed a qualsiasi tipologia di procedimento giurisdizionale che sia rivolto all’accertamento del diritto (e conseguente condanna) al pagamento di una somma di danaro.

Autorevole dottrina[9] sostiene condivisibilmente che la norma in esame si applichi anche nei confronti delle pubbliche amministrazioni, ovviamente sempre per mancato pagamento di prestazioni pecuniarie[10].

Altra questione delicata è rappresentata dall’effettivo ambito di applicazione delle disposizioni di nuovo conio.

A tal riguardo, si discute anzitutto sulla estensibilità del nuovo tasso di interesse legale moratorio anche ad obbligazioni di natura non contrattuali (quali quelle ex lege e quelle derivanti da responsabilità aquiliana, da negozi unilaterali o da successioni). In definitiva, ci si domanda se il detto tasso sia applicabile a prescindere dalla natura (di valuta o di valore) e dal titolo del credito (contrattuale, da contatto sociale od extracontrattuale). Probabilmente, occorre partire da una considerazione preliminare: il principio secondo cui gli interessi sulle somme di denaro, liquidate a titolo risarcitorio, decorrono dalla data in cui il danno si è verificato è applicabile solo in tema di responsabilità extracontrattuale da fatto illecito, in quanto, ai sensi dell’art. 1219, comma 2, c.c., il debitore del risarcimento del danno è in mora (mora ex re) dal giorno della consumazione dell’illecito; invece, se l’obbligazione risarcitoria derivi da inadempimento contrattuale, gli interessi decorrono dalla domanda giudiziale, che è l’atto idoneo a porre in mora il debitore, siccome la sentenza costitutiva, che pronuncia la risoluzione, produce i suoi effetti retroattivamente dal momento della proposizione della detta domanda[11]. Da ciò dovrebbe trarsi la conseguenza che gli interessi moratori de quibus possano estendersi solo alle obbligazioni traenti origine da un inadempimento contrattuale, anche se dei dubbi potrebbero nutrirsi con riferimento ai casi in cui, pur essendosi in presenza di un debito di valuta, la mora sia automatica (art. 1219, co. 2, nn. 1, 2 e 3)[12].

L’art. 17 è applicabile alle cause da celebrarsi non solo secondo il rito ordinario a cognizione piena (artt. 163 ss. c.p.c. e da 31 a 33 del d.lgs. 1.9.2011, n. 150), ma anche secondo il processo del lavoro (artt. 409, 442 e 447 bis c.p.c. e da 6 a 13 del d.lgs. n. 150/2011), il processo sommario di cognizione (artt. 183 bis e 702 bis c.p.c. e da 14 a 30 d.lgs. citato), nonché qualsiasi altro procedimento speciale.

A tal ultimo proposito, rientrano sotto l’egida della novità normativa i procedimenti di ingiunzione (sin dalla fase monitoria), quelli di convalida di sfratto con pagamento dei canoni [art. 664 c.p.c.; in difetto di domanda di pagamento di una somma di denaro, infatti, le nuove norme sono inapplicabili (es.: intimazione di licenza o di sfratto per finita locazione)], i provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c. (ove abbiano ad oggetto il pagamento di una somma di denaro; cfr. art. 669 quaterdeciesc.p.c.), i procedimenti di separazione e divorzio (relativamente alle condanne di pagamento di somme pecuniarie) ed i processi di classe di cui all’art. 140 del codice del consumo.

Vanno esclusi, invece, dall’alveo delle nuove disposizioni i provvedimenti resi per la risoluzione delle controversie in sede di concorso dei creditori nell’espropriazione forzata ex art. 512 c.p.c. (trattandosi di procedimenti che hanno contenuto non autenticamente di condanna, ma, in realtà, di ripartizione del ricavato), quelli di accertamento dello stato passivo ex artt. 93 ss. l.f., quelli di omologazione degli accordi di ristrutturazione ovvero dei concordati preventivi o fallimentari (anche se questi ultimi due potrebbero, in teoria, convenzionalmente prevedere l’applicazione del saggio di interesse de quo).

In conclusione, fermo restando che l’art. 1284, commi 4 e 5, c.c., al pari dell’art. 96 c.p.c., ha finalità all’evidenza deflattive, lo scopo del legislatore è quello di contrastare i ritardi nei pagamenti, costringendo i debitori a formulare offerte reali, anziché puramente verbali (quali quelle contemplate nell’art. 91, co.1, seconda parte, c.p.c. ai fini delle spese di lite).

Sul piano del requisito soggettivo, va ricordato che, in base alla direttiva Ce 2000/35, il debitore non deve essere considerato responsabile di ritardi a lui non imputabili. In altri termini, in materia di lotta ai ritardi nel pagamento delle transazioni commerciali, si esclude il pagamento di interessi moratori, qualora il ritardo nel pagamento non sia conseguenza del comportamento del debitore che abbia diligentemente tenuto conto dei tempi normalmente necessari per l’esecuzione di un bonifico bancario[13]. Una parte della dottrina[14], tuttavia, partendo dalla configurazione della sanzione degli interessi moratori “aggravati” come una sanzione civile punitiva (id est, come una pena privata), dubita che, in caso di mora non imputabile al debitore (per non essere egli nelle condizioni di poter onorare il proprio debito), non trovi applicazione la nuova normativa.

Da ultimo, premesso che, quanto alla disciplina transitoria della nuova disciplina, l’art. 17, co. 2, del decreto, precisa che l’art. 1284, commi 4 e 5, c.c., produce i suoi effetti rispetto ai procedimenti

giudiziali o arbitrali iniziati a decorrere dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della legge di conversione (ossia rispetto alle azioni processuali intraprese a far data dal giorno 11 dicembre 2014), dovrebbe pervenirsi alla conclusione che, per quanto riguarda i procedimenti già iniziati e non ancora conclusi, si dovrebbe continuare ad applicare la precedente normativa (e, quindi, il tasso degli interessi legali) anche per il periodo di tempo successivo all’entrata in vigore del nuovo art. 1284 c.c. E’ evidente, però, che in tal guisa ragionando si realizza di fatto una evidente sperequazione, a tal punto che potrebbero ricorrere i presupposti per sollevare una questione di legittimità costituzionale della norma ai sensi dell’art. 3 Cost.

3.     La compensazione delle spese processuali: considerazioni preliminari.

Prima di analizzare le novità introdotte nell’art. 92 c.p.c. in tema di compensazione, è opportuno operare un rapido excursus sulla disciplina complessiva delle spese processuali.

In primo luogo, il giudice è in alcuni casi tassativi vincolato nella liquidazione delle spese. Invero, in base al quarto comma dell’art. 91 c.p.c., nelle cause previste dall’art. 82, co. 1, c.p.c. (e, quindi, in quelle davanti al giudice di pace di valore non eccedente l’importo di euro 1.100,00) le spese ed i compensi liquidati non possono superare il valore della domanda. Inoltre, nei giudizi per prestazioni previdenziali, le stesse voci non possono superare il valore della prestazione dedotta in giudizio (art. 152  disp. att. c.p.c.). Infine, alla luce dell’art. 8 del d.m. n. 140/2012, nelle controversie di lavoro il cui valore non superi 1.000,00 euro, il compenso è ridotto, di regola, fino alla metà.

In secondo luogo, l’applicazione della regola della soccombenza, per quanto sia priva di qualsivoglia connotazione sanzionatoria, non richiede una specifica motivazione, prescindendo dalla valutazione dell’elemento soggettivo. L’unico limite è rappresentato dal divieto di porre per intero le spese a carico della parte totalmente vittoriosa.

Incertezze sussistono, però, in ordine alla esatta individuazione dei contorni della figura del soccombente. Di regola, si sostiene che tale sia la parte le cui domande non sono state accolte, sia pure per motivi diversi dal merito (ad esempio, per incompetenza), o che, non avendo proposto alcuna domanda, vede accolte le domande della controparte. Si tende a ritenere che la riduzione, anche sensibile, della somma inizialmente richiesta con la domanda giudiziale non integri il requisito della soccombenza.

L’altro criterio sulla cui base si identifica il soccombente è rappresentato dal principio di causalità. In virtù di quest’ultimo, è parte soccombente quella che, resistendo con argomenti ed in forma non rispondenti al diritto o azionando una pretesa poi rivelatasi come infondata, abbia dato causa alla lite. A tal proposito, rileva anche il comportamento tenuto fuori e prima del processo; applicando questo principio, anche il convenuto soccombente rimasto contumace deve essere condannato al rimborso delle spese sostenute dalla parte vittoriosa (Cass. 13.1.2015, n. 373).

L’individuazione della parte soccombente deve essere, in ogni caso, operata con riguardo all’esito finale del processo. Occorre, cioè, effettuare una valutazione globale ed unitaria, per la quale non rilevano né l’esito delle varie fasi del procedimento (se vi sono stati più gradi del giudizio) né la pronuncia emessa su singoli oggetti della domanda (si pensi alle spese relative al grado di cassazione quando vi sia stato il successivo giudizio di rinvio). Trattasi del principio di globalità, di recente ribadito da Cass. ord. 21.1.2015, n. 930. Tuttavia, occorre altresì tener presente che, così come nel caso in cui vi siano stati più gradi del giudizio, non è ammissibile una liquidazione cumulativa, nell’ipotesi di riunione di cause la liquidazione deve essere operata in relazione ad ogni singolo giudizio.

Vi sono dei casi in cui l’applicazione automatica della regola della soccombenza è esclusa:

a) il rinunciante, in genere, è tenuto a rimborsare le spese alle altre parti; le spese vanno poste a carico del rinunciante solo nell’evenienza in cui la controparte, già costituita, abbia accettato la rinuncia (art. 306, co. 4, c.p.c.);

b) in caso di conciliazione, salvo diverso accordo, le spese si intendono compensate (art. 92, co. 3, c.p.c.);

c)  nell’ipotesi di estinzione per inattività, le spese restano a carico delle parti che le hanno anticipate (art. 310, ult. co., c.p.c.);

d) laddove si verifichi la cessazione della materia del contendere, trova applicazione il principio della soccombenza virtuale;

e)  in base all’art. 91, co. 1, c.p.c., se il giudice accoglie la domanda in misura non superiore (nel caso opposto, trova, invece, applicazione la regola generale per cui le spese seguono la soccombenza) all’eventuale proposta conciliativa, al di là della possibilità di compensazione integrale o parziale (nell’evenienza in cui una delle parti abbia “ragionevolmente” rifiutato la proposta), condanna d’ufficio la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la detta proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la sua formulazione[15].

Vi sono poi delle fattispecie particolari, in ordine alle quali la disciplina delle spese è peculiare. Da questo punto di vista, meritano di essere segnalate le ipotesi della domanda di ingiunzione proposta in carenza delle condizioni di ammissibilità prescritte dagli artt. 633 ss. c.p.c. (nel qual caso il giudice dell’opposizione ha la facoltà di non porre a carico dell’opponente soccombente nel merito le spese riguardanti la fase monitoria, ma solo quelle della fase a cognizione piena) e dei procedimenti camerali, tutte le volte in cui occorra ristorare la parte vittoriosa degli oneri inerenti il dispendio di attività processuale legata da nesso causale con l’iniziativa dell’avversario (si pensi al caso della revoca dell’amministratore di condominio).

E’ bene ricordare che la condanna alle spese può essere emessa anche d’ufficio, in assenza di specifica domanda di parte.

La mancata statuizione sulle spese integra gli estremi di un vizio di omissione di pronuncia, che può essere fatto valere con gli ordinari mezzi di impugnazione (laddove non si potrebbe all’uopo ricorrere alla procedura di correzione degli errori materiali).

Mentre il convenuto soccombente può essere condannato alle spese sopportate dalla parte vittoriosa anche quando sia rimasto contumace, la condanna alle spese non può essere pronunciata in favore del contumace vittorioso.

La palese infondatezza della domanda di garanzia proposta dal convenuto nei confronti del terzo chiamato comporta l’applicabilità del principio della soccombenza nel rapporto processuale instaurato tra convenuto e terzo chiamato, anche quando l’attore principale sia a sua volta soccombente nei confronti del convenuto. Se, invece, viene accolta la domanda di garanzia proposta dal convenuto nei confronti di un terzo, quest’ultimo deve rifondere, oltre alle spese sostenute dall’attore, anche quelle occorse per la sua chiamata.

3.1. La soccombenza reciproca.

L’art. 92 c.p.c. fissa una serie di criteri che consentono di correggere e mitigare il rigore della regola fondamentale contenuta nell’art. 91, co. 1, c.p.c., quando l’applicazione di essa possa apparire iniqua o inopportuna.

Il d.l. 132/14, convertito, con modificazioni, dalla l. 10 novembre 2014 n. 162, è intervenuto modificando il 2° comma dell’art. 92 c.p.c., dedicato al tema della compensazione delle spese di lite nel processo civile. Non è la prima volta che il legislatore modifica il 2° comma dell’art. 92 c.p.c.

Originariamente il testo recitava che, «se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti».

La fattispecie più frequente al verificarsi della quale il giudice può compensare in tutto o in parte le spese processuali è quella della soccombenza reciproca. In termini generali, quest’ultima si realizza quando siano state rigettate la domanda principale e quella riconvenzionale; quando le domande di entrambe le parti siano state in parte accolte ed in parte respinte; quando siano state accolte solo alcune delle domande proposte da un’unica parte. Può giustificare la compensazione, almeno parziale, anche l’accoglimento in parte (nel caso in cui la domanda sia stata articolata in più capi e solo alcuni di essi siano stati accolti) o la riduzione sensibile (in tal caso la parzialità dell’accoglimento della domanda articolata in un solo capo è esclusivamente quantitativa) dell’unica domanda proposta.

Nessuna norma, peraltro, prevede un criterio di valutazione della prevalenza della soccombenza dell’una o dell’altra parte basato sul numero delle domande accolte o respinte per ciascuna di esse, dovendo essere valutato l’oggetto della lite nel suo complesso (Cass. ord. 21.1.2015, n. 930).

Si ritiene, in proposito, che, ai fini del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente, il valore della controversia vada fissato sulla base del criterio del disputatum (ossia di quanto richiesto nell’atto introduttivo del giudizio ovvero nell’atto di impugnazione parziale della sentenza); peraltro, ove il giudizio di secondo grado abbia per oggetto esclusivo la valutazione della correttezza della decisione di condanna di una parte alle spese del giudizio di primo grado, il valore della controversia, ai predetti fini, è dato dall’importo delle spese liquidate dal primo giudice, costituendo tale somma il disputatum posto all’esame del giudice di appello (Cassazione civile, sez. III, 12/01/2011, n. 536, in Giust. civ. Mass. 2011, 1, 44). Si tende ad escludere che la ‘soccombenza reciproca’ consista nella riduzione del quantum debeatur preteso dall’attore (ancorchè in misura esorbitante rispetto al decisum), dovendosi liquidare le spese di lite a carico del soccombente in misura proporzionata alla somma statuita come dovuta (disputatum), piuttosto che avendo riguardo a quella richiesta (dal che deriva una riduzione dei compensi liquidabili per minore scaglione di valore).

3.2. I giusti motivi.

In passato, la valutazione dell’opportunità della compensazione rientrava nei poteri discrezionali del giudice di merito e non richiedeva una specifica motivazione (Cass. 6.10.2011, n. 20457). La decisione era censurabile in cassazione (ex art. 360, n. 5, c.p.c.) solo se i (giusti) motivi fossero stati esplicitati e fossero risultati palesemente illogici o erronei[16]. Ciò nonostante, la decisione di compensazione giustificata da generici “motivi di opportunità e di equità” si riteneva determinasse una violazione di legge. Parimenti, erano considerati insufficienti i riferimenti al “valore esiguo della causa” ed alla particolare complessità degli aspetti sia sostanziali che processuali[17].

Avuto riguardo alla indicazione dei motivi, l’utilizzo dell’avverbio “esplicitamente” (in luogo di “specificamente”) induceva, poi, a ritenere che non fosse idonea una motivazione operata con riferimento alla motivazione della sentenza (vale a dire, per relationem).

Va tenuto presente che, quando si potevano invocare i giusti motivi, la compensazione poteva essere disposta (in applicazione del principio di causalità) anche nei confronti della parte totalmente vittoriosa, non presupponendo la reciproca soccombenza. Gli stessi potevano riguardare tanto il merito della controversia, quanto aspetti processuali o preprocessuali delle parti, con riguardo alla necessità o meno della lite.

Senza pretese di esaustività, ricorrevano i giusti motivi nei seguenti casi: a) ingiustificato rifiuto della proposta transattiva, proveniente dalla controparte, per una somma superiore a quella poi riconosciuta dal giudice d’appello; b) l’aver il convenuto adottato posizioni difensive concilianti o di parziale contestazione degli assunti avversari; c) la particolare complessità e novità delle questioni trattate (Cass. nn. 18352/2003, 8210/2003, 22231/2011); d) la mancanza, al momento della proposizione della domanda giudiziale, di un’interpretazione giurisprudenziale consolidata di una determinata norma giuridica (Cass. n. 3218/2008)[18]; e) la non univocità della giurisprudenza, soprattutto di merito (Cass. n. 316/2012, ord.); f) la sussistenza di obiettive difficoltà interpretative del dato contrattuale; g) la sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità di una norma di legge; h) la natura della controversia.

3.3. Le gravi ed eccezionali ragioni.

A seguito dell’intervento normativo operato dalla l. 18.6.2009, n. 69, è stata introdotta, accanto alla “soccombenza reciproca” ed in luogo dei “giusti motivi”, l’alternativa delle “gravi ed eccezionali ragioni”. Ciò avrebbe dovuto comportare una forte riduzione della possibilità di compensare le spese. Tuttavia, si era consapevoli che l’art. 92, co. 2, c.p.c., nella parte in cui permetteva la compensazione delle spese di lite allorché concorrevano “gravi ed eccezionali ragioni”, costituiva una norma elastica, quale clausola generale che il legislatore aveva previsto per adeguarla ad un dato contesto storico-sociale o a speciali situazioni, non esattamente ed efficacemente determinabili a priori, ma da specificare in via interpretativa da parte del giudice del merito. Ciò nonostante, era stato ritenuto insufficiente il mero richiamo alla formula generica ed apodittica “in considerazione delle questioni trattate”, non altrimenti specificate e senza che vi fosse soccombenza reciproca tra le parti (Cassazione civile, sez. VI, 13/07/2011, n. 15413, in Giust. civ. Mass. 2011, 7-8, 1061).

In particolare, anche la novità delle questioni affrontate integrava la suddetta nozione, ma se ed in quanto fosse sintomo di un atteggiamento soggettivo del soccombente, ricollegabile alla considerazione delle ragioni che lo avevano indotto ad agire o resistere in giudizio e, quindi, da valutare con riferimento al momento in cui la lite era stata introdotta o era stata posta in essere l’attività che aveva dato origine alle spese (la valutazione era, dunque,ex ante), sempre che si fosse trattato di questioni sulle quali si era determinata effettivamente la soccombenza, ossia di questioni decise (Cassazione civile, sez. un., 22/02/2012, n. 2572, in Giust. civ. Mass. 2012, 2, 193; conf. Cassazione civile, sez. VI, 10/02/2014, n. 2883, in Giustizia Civile Massimario 2014, rv. 629612).

Le “gravi ed eccezionali ragioni”, da indicarsi esplicitamente nella motivazione, in presenza delle quali il giudice poteva compensare, in tutto o in parte, le spese del giudizio non potevano, poi, essere tratte dalla struttura del tipo di procedimento contenzioso applicato né dalle particolari disposizioni processuali che lo regolavano, ma dovevano trovare riferimento in specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa (Cassazione civile, sez. VI, 15/12/2011, n. 26987, in Giust. civ. Mass. 2011, 12, 1775). A tal fine non poteva ritenersi sufficiente il mero riferimento alla “natura processuale della pronuncia”, che, in quanto tale, poteva trovare applicazione in qualunque lite che venisse risolta sul piano delle regole del procedimento (Cassazione civile, sez. VI, 11/07/2014, n. 16037, in Giustizia Civile Massimario 2014, rv. 631930).

Parimenti non erano configurabili quando il giudice avesse compensato le spese “per motivi di equità”, non altrimenti specificati (Cass. n. 21821/2010).

Infine, le dette ragioni non potevano essere ravvisate nella oggettiva “opinabilità della soluzione accolta”, in quanto la precisa individuazione del significato di un testo normativo in relazione alla fattispecie concreta a cui deve essere applicato costituisce il nucleo della funzione giudiziaria, sicché l’ordinario esercizio nell’esegesi del testo normativo non poteva essere valutato come evento inusuale, almeno finché non fossero state specificamente identificate le ragioni per le quali la soluzione assegnata al dubbio interpretativo assurgeva (per la sua contrarietà alla consolidata prassi applicativa, ovvero per la del tutto insolita connotazione lessicale e sintattica del tessuto letterale della norma) a livello di eccezionale gravità (Cassazione civile, sez. VI, 09/01/2014, n. 319, in Giustizia Civile Massimario 2014, rv. 629101).

Viceversa, l’oggettiva opinabilità ed oscillante soluzione in giurisprudenza in ordine alle questioni giuridiche affrontate nel giudizio integrava una ‘grave ed eccezionale ragione’ che giustificava la compensazione delle spese di lite (Cassazione civile, sez. VI, 10/02/2014, n. 2883, cit., anche in Diritto & Giustizia 2014, con nota di Valerio, con riferimento ad un caso in cui la questione dell’autonoma impugnabilità del provvedimento di fermo non poteva intendersi, dal punto di vista giurisprudenziale, definitivamente risolta).

4.     L’intervento riformatore: la novità delle questioni trattate.

Con l’ennesimo intervento riformatore (art. 13, co. 1, d.l. 12.9.2014, convertito, con modificazioni, nella legge 10.11.2014, n. 162)[19], il secondo comma dell’art. 92 c.p.c. è stato modificato nei termini che seguono: “Se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di novità della questione trattata o mutamento di giurisprudenza, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti”.

Premesso che tale disposizione trova applicazione non solo nei processi civili ordinari, ma anche in quelli tributari ed amministrativi, è evidente la ratio di circoscrivere il più possibile le pronunce di compensazione delle spese, onerando l’organo giudicante del dovere di motivare esplicitamente ogni deroga dal principio generale della soccombenza.

Per quanto concerne gli effetti, viene eliminata quasi completamente il potere discrezionale del giudice e vengono fissati esclusivamente e tassativamente[20] tre casi in cui la compensazione (totale o parziale) delle spese può essere disposta: a) la soccombenza reciproca; b) l’assoluta novità della questione trattata; c) il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti della causa.

Con riferimento alla “novità delle questioni trattate”, nel richiamare quanto detto in ordine alle ‘gravi ed eccezionali ragioni’, va qui aggiunto che, per la configurabilità del presupposto, occorre che il giudice, al fine di decidere la causa, si trovi a dover affrontare una o più questioni nuove, da considerarsi tali per l’assenza di precedenti editi sulle stesse in giurisprudenza. Potrebbe anche ritenersi all’uopo sufficiente la presenza di precedenti non univoci, ma tra loro in contrasto[21]. La presenza di un pacifico orientamento giurisprudenziale, ancorchè formato esclusivamente da decisioni di merito, è sufficiente per escludere che la questione sia ‘nuova'[22].

E’ a dubitarsi che sia sufficiente la circostanza che il giudice sia chiamato a decidere sulla questione per la prima volta.

In ogni caso, anche al cospetto di una questione che si profila come completamente nuova, il giudice sarà tenuto a vagliare la non manifesta infondatezza delle difese avanzate dalla parte, dovendo trovare applicazione il principio della soccombenza se le argomentazione della parte soccombente siano prive di qualsiasi pregio.

Indubbiamente, potrebbe giustificare la compensazione, oltre che una quaestio mai dibattuta in passato, una legge nuova da poco approvata e criptica in alcuni passaggi rilevanti.

In passato la Suprema Corte (Cassazione civile, sez. lav., 20/01/2003, n. 770, in DeG – Dir. e giust.2003, 6, 107) aveva precisato che la complessità e la novità delle questioni trattate permangono fino a che non si formi su di esse un orientamento di legittimità, essendo, invece, irrilevante la circostanza che le stesse questioni siano state decise in una molteplicità di cause, con pronunce di primo grado conformi a quella investita di gravame

4.1. Il mutamento della giurisprudenza: il cd.overruling.

In merito alla species “mutamento della giurisprudenza”, in termini generali, la stessa è configurabile ove la decisione della causa si fondi su una o più questioni che, pur essendo vecchie, siano state decise in modo difforme rispetto al passato (discostandosi, cioè, dall’orientamento giurisprudenziale, sia soltanto di merito, sia, eventualmente, di legittimità, che si era formato).

In siffatta evenienza il giudice dovrebbe ritenersi obbligato ad operare la compensazione delle spese, atteso che non potrebbe muoversi alcun rimprovero alla parte che abbia fatto affidamento sull’orientamento giurisprudenziale esistente al momento della proposizione della propria difesa.

Questo non vuol dire che, in caso di mutamento di giurisprudenza, il giudice non goda di alcun margine di discrezionalità, diversamente da quanto avvenga nell’ipotesi di questione nuova; in entrambi i casi, infatti, il giudice è investito di ampi poteri discrezionali, dovendo stabilire se disporre la compensazione totale o parziale sulla base della complessiva valutazione dell’esito dell’insieme delle questioni affrontate e decise.

A ben vedere, il tema involge la delicata questione del cd.overruling.

Nel caso di vero e proprio overruling (vale a dire, quello interpretativo rispetto ai precedenti orientamenti della giurisprudenza), la parte che sia incorsa in decadenza o in una preclusione ha il mezzo per ovviare all’errore oggettivamente scusabile (dato dalla rimessione in termini)[23].

Come è noto, il menzionato fenomeno si ha al cospetto del radicale mutamento di un consolidato orientamento ad opera del giudice della nomofilachia, al quale si deve negare efficacia retroattiva, in modo da non travolgere gli atti processuali già compiuti alla luce della soluzione poi ribaltata[24]. Non va ricompreso nel detto alveo l’interpretazione con la quale si sia, invece, semplicemente composto un contrasto di opposti indirizzi di giurisprudenza. Solo nel caso di mera composizione di contrasti il mutamento della propria precedente interpretazione della norma processuale da parte del giudice della nomofilachia, il quale porti a ritenere esistente, in danno di una parte del giudizio, una decadenza od una preclusione prima escluse, opera come interpretazione correttiva che si salda alla relativa disposizione di legge processuale « ora per allora », nel senso di rendere irrituale l’atto compiuto o il comportamento tenuto dalla parte in base all’orientamento precedente.

Affinché, invece, un orientamento del giudice della nomofilachia non sia retroattivo, come invece dovrebbe essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali, ovvero affinché si possa parlare di “prospective overruling”, devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: a) che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; b) che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; c) che il suddetto “overruling” comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte (cfr., in tal senso, Cassazione civile, sez. lav., 11/03/2013, n. 5962; vedi anche: Cass. civ., sez. un., 30 marzo 2007 n. 7880, Cass. civ., sez. lav., 17 gennaio 2011 n. 897)[25].

Ed allora può essere importante chiarire che per “overruling” deve intendersi il mutamento di giurisprudenza nell’interpretazione di una norma giuridica o di una sistema di norme dal carattere se non repentino, quanto meno inatteso o privo di preventivi segni anticipatori del suo manifestarsi; segnali che possono essere quelli di un pur larvato dibattito dottrinale o di qualche intervento giurisprudenziale sul temo oggetto di indagine (Cassazione civile, sez. un., 12/10/2012, n. 17402). E’ utile sul tema altresì sapere che, in tema di overrulling, non ricorrono i presupposti per escludere l’applicazione di una decadenza processuale ove dal deposito della pronuncia che ha mutato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità siano trascorsi sei mesi, poiché, pur tenendo conto dei normali tempi tecnici di memorizzazione di tale precedente nella banca dati della Suprema Corte di cassazione consultabile in rete, deve ritenersi che la parte (ed a maggior ragione il giudice) abbia avuto a sua disposizione un arco temporale sufficiente a tener conto della nuova giurisprudenza e, conseguentemente, a prevenire il verificarsi della menzionata decadenza (Cassazione civile, sez. lav., 28/02/2012, n. 3042).

Il carattere della novità o la circostanza del sopravvenuto mutamento di giurisprudenza deve essere valutato non con riguardo al momento della pronuncia della decisione, bensì della proposizione della difesa[26]. Pertanto, se nelle more tra gli atti introduttivi del grado di giudizio e la decisione muta la giurisprudenza, può comunque essere disposta la compensazione delle spese per quel grado di giudizio, atteso che al momento della proposizione della domanda la questione era comunque da considerarsi nuova o la giurisprudenza era orientata nel senso sostenuto dalla domanda.

5.     Conclusioni.

Le misure che si sono analizzate vanno salutate positivamente in un’ottica di deflazionare il contenzioso, anche sotto forma di disincentivo ad instaurare un giudizio. Sicuramente, tra i vari strumenti introdotti dal legislatore della riforma, la previsione di un elevato tasso di mora degli interessi ed il contenimento dei casi di compensazione integrale o parziale delle spese processuale, unitamente ad alcune novità inserite nel corpo del processo esecutivo (avuto particolare riguardo agli strumenti di ricerca dei beni da pignorare), sembrano garantire una maggiore efficienza del sistema giustizia.

Tuttavia, non può non evidenziarsi che l’applicazione del tasso di mora ha ragion d’essere solo nel caso in cui la parte convenuta, pur essendo consapevole ab initio di essere nel torto, resista ciò nonostante all’avversa domanda; laddove dubbi esistono sulla bontà della scelta nei casi (che rappresentano la stragrande maggioranza) in cui una parte sia convinta della fondatezza delle sue difese o, comunque, non imposti una strategia difensiva meramente dilatoria. Senza tralasciare l’evenienza, di frequente verificazione, in cui una parte, le cui ragioni siano fondate nel merito, perda la causa in virtù di un errore processuale imputabile al suo difensore.

Al contempo, la drastica contrazione dei presupposti in presenza dei quali il giudice potrà compensare le spese, se da un lato, avvicina maggiormente la loro regolamentazione alla regola oggettiva della soccombenza, dall’altro lato priverà l’organo giudicante di un valido mezzo per tener conto delle numerose variabili che connotano i giudizi, non sempre preventivabili al momento della loro introduzione. Invero, con la precedente formulazione, le spese, al termine del processo, si sarebbero potute liquidare tenendo in considerazione il comportamento delle parti, la buona fede nel sostenere le reciproche posizioni, l’onestà intellettuale dei litiganti e persino le loro condizioni economiche o qualità personali.

Inoltre, si allargheranno le maglie delle impugnazioni. A tal riguardo, premesso che nemmeno la novità della questione, se non assoluta, così come il mutamento di giurisprudenza, se non avente ad oggetto una questione dirimente, saranno in grado di autorizzare il giudice alla compensazione delle spese, oggi, se il giudice compensa le spese fuori dei casi tipicamente individuati dal legislatore, commette violazione di legge e la pronuncia può essere così riformata o cassata a prescindere dalla congruità della motivazione[27].

Ma tant’è: dura lex sed lex!


[1] Sulla disciplina speciale degli interessi moratori per il ritardo nei pagamenti delle transazioni commerciali, v. M. GRADI, Inefficienza della giustizia civile e “fuga dal processo”, su Judicium.it, 29.12.2014; E. RUSSO, La nuova disciplina deiritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Contratto e impr., 2003, p. 445 ss.; V. PANDOLFINI, Il nuovo tasso di interesse legale per i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (art. 5 d.leg. n. 231/2002), in Giur. it., 2003, p. 2414 ss.; ID., Le modifiche alla disciplina sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Corr. merito, 2013, p. 378 ss.; ID., I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali dopo il d.leg. 9 novembre 2012 n. 192, Torino, 2013.

[2] Peraltro, questo istituto di matrice comunitaria fa sì che per i soggetti interessati l’applicazione del tasso maggiorato dell’interesse legale di mora dipenda dal semplice ritardo dell’adempimento e non necessiti affatto della pendenza del processo (e, quindi, di una domanda giudiziale) per attivarsi.

[3] A decorrere dal 1° gennaio 2013, il tasso degli interessi legali di mora è stato, infatti, innalzato dal 7% all’8%, ai sensi del d.lgs. 9 novembre 2012, n. 192, che ha recepito la direttiva 2011/7/UE, cui va aggiunto il tasso di riferimento fissato di volta in volta dal Ministero dell’Economia, che per il secondo semestre dell’anno 2014 è pari allo 0,15%.

[4] Quanto alla negoziazione tra imprese, la possibilità di concordare un diverso tasso di interesse è espressamente consentita dall’art. 5 d.lgs. 231/02 (ancorché nei limiti stabiliti dal successivo art. 7).

[5] Si segnala, sul punto, Cassazione civile, sez. I, 29/07/2004, n. 14465, in Foro amm. CDS 2004, 2490.

[6] Alla stregua di questa più recente pronuncia, tale regolamentazione non si pone in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., dal momento che il principio della scissione degli effetti della notificazione tutela l’interesse del notificante a non vedersi addebitato l’esito intempestivo della notifica, mentre la prescrizione incide sul diverso profilo sostanziale del diritto, rispetto al quale si pone, in via prevalente, la tutela della certezza del diritto del destinatario.

[7] In particolare, Sez. U, ord. n. 23675 del 06/11/2014 (Rv. 632845), ha statuito che, per determinare la litispendenza ai fini della prevenzione tra cause in rapporto di continenza, una iniziata con ricorso monitorio ed una iniziata con citazione, per quest’ultima si deve aver riguardo al perfezionamento del procedimento di notificazione tramite consegna dell’atto al destinatario, non operando la scissione soggettiva del momento perfezionativo per il notificante e il destinatario, che vale solo per le decadenze non addebitabili al notificante; né può invocarsi il principio di uguaglianza tra gli attori, in rapporto alla pendenza della lite monitoria già al momento del deposito del ricorso, atteso che la maggiore o minore incidenza dell’impulso di parte nell’individuazione del giudice naturale della controversia è solo l’effetto indiretto della differente disciplina processuale, discrezionalmente prevista dal legislatore. Con questa pronuncia i giudici di legittimità si sono allineati ad altra precedente (Cassazione civile, sez. un., 19/04/2013, n. 9535, in Giustizia Civile Massimario 2013, rv 625806) la quale, in tema di notificazioni, aveva escluso che il principio della scissione soggettiva del momento perfezionativo del procedimento notificatorio per il notificante ed il destinatario (che si impone ogni qual volta dall’individuazione della data di notificazione possano discendere decadenze, o altri impedimenti, distintamente a carico dell’una o dell’altra parte) operasse, esulando da un tale ambito la corrispondente questione, per la determinazione della pendenza della lite rilevante ai fini del riparto di giurisdizione, che non può che farsi coincidere con il momento in cui il procedimento di notificazione dell’atto introduttivo della causa si è completato, necessariamente corrispondente, quindi, con quello nel quale la notifica si è perfezionata mediante la consegna dell’atto al destinatario o a chi sia comunque abilitato a riceverlo.

[8] Nel senso che, in caso di domanda proposta nelle forme del processo del lavoro, il mero deposito del ricorso presso la cancelleria del giudice non produce un effetto interruttivo, restando escluso – ove la domanda giudiziale non sia il solo mezzo previsto dall’ordinamento per l’interruzione della prescrizione di un determinato diritto – che ciò consenta di dubitare, in riferimento all’art. 3 Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 2943 c.c. in relazione all’art. 414 c.p.c. e all’art. 2934 c.c., cfr. Cassazione civile, sez. lav., 11/06/2009, n. 13588, in Giust. civ. Mass. 2009, 6, 909.

[9] C. CONSOLO, Un d.l. processuale in bianco e nerofumo sullo equivoco della «degiurisdizionalizzazione», su Danno e Responsabilità 10/2014, p. 1182.

[10] Per quanto riguarda il d.lgs. n. 231/2002, poiché lo stesso costituisce espressione dei principi fissati nella direttiva comunitaria 2000/35/CE, finalizzata a contenere entro limiti ragionevoli (in chiave di tutela del regolare svolgimento delle operazioni di mercato) il fenomeno dei ritardi nel pagamento delle obbligazioni, è a ritenersi che le relative disposizioni nazionali trovino attuazione ad ogni pagamento previsto a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale, senza alcuna particolare limitazione di carattere soggettivo e, quindi, anche per i contratti in cui è parte una p.a.. Per Consiglio di Stato, sez. V, 01/04/2010, n. 1885, in Il civilista 2012, 1, 61, con nota di Santi Di Paola, la direttiva n. 2000/35/CE (556), recepita in Italia con il d.lgs. n. 231/2002, sulla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, contiene norme imperative, applicabili anche alle p.a., che non sono derogabili mediante la tacita accettazione delle condizioni difformi con la presentazione di una offerta in una gara pubblica di appalto. Conf. T.A.R. Liguria Genova, sez. II, 01/02/2005, n. 126, in Ragiusan 2005, 259-260, 149.

[11] Cfr., inter ceteros, Cassazione civile, sez. III, 20/04/2009, n. 9338, in Giust. civ. Mass. 2009, 4, 646,

[12] Contra Pardolesi – Sassani, Il decollo del tasso di interesse: processo e castigo, su Foro it., 2015, 55, secondo cui l’area di applicazione dell’automatico aumento dell’interesse alla proposizione della domanda andrebbe esteso anche alle obbligazioni extracontrattuali, indipendentemente dai soggetti coinvolti.

[13] Cfr. Corte giustizia UE, sez. I, 03/04/2008, n. 306, in Diritto e Giustizia online 2008.

[14] M. GRADI,Inefficienza della giustizia civile e “fuga dal processo”,cit.

[15] Premesso che tale regola non si applica ai tentativi di conciliazione obbligatori stragiudiziali ed alle procedure conciliative stragiudiziali volontarie (ma solo alle conciliazioni avvenute in sede giudiziale), va ricordato che l’art. 4, co. 5, del d.m. n. 140/2012 (che disciplina i nuovi compensi spettanti agli avvocati) prevede che, quando il procedimento si conclude con una conciliazione, il compenso del difensore è aumentato fino al 25% rispetto a quello normalmente liquidabile. La disposizione era stata in qualche modo anticipata da Cassazione civile, sez. lav., 14/12/2010, n. 25250, in Giust. civ. Mass. 2010, 12, 1601, per la quale il provvedimento di compensazione per giusti motivi delle spese del giudizio di primo grado è adeguatamente motivato ove si fondi sull’ingiustificato rifiuto della proposta transattiva, proveniente dalla controparte, per una somma superiore a quella successivamente riconosciuta dal giudice d’appello, assumendo rilievo tale condotta quale comportamento processuale idoneo a fondare la decisione sulle spese.

[16] Così Cassazione civile, sez. lav., 23/06/1997, n. 5607, in Giust. civ. Mass. 1997, 1041, a tenore della quale i giusti motivi che inducono a compensare le spese processuali corrispondono ad una valutazione discrezionale del giudice di merito della massima ampiezza e non necessitano di specifiche enunciazioni, con la conseguenza della incensurabilità in Cassazione del relativo potere; tuttavia, ove il giudice di merito espliciti i motivi della propria decisione, essi non sfuggono a censura quando la loro enunciazione risulti erronea e illogica.

[17] Ad esempio, Cassazione civile, sez. I, 30/05/2008, n. 14563, in Giust. civ. Mass. 2008, 5, 848, ha escluso che concorressero giusti motivi in un caso in cui la compensazione si era basata sulla “peculiarità della fattispecie”, in quanto una simile formula era del tutto criptica e non consentiva il controllo sulla motivazione e sulla congruità delle ragioni poste dal giudice a fondamento della sua decisione.

[18] Contra, in dottrina, G. CHIOVENDA, La condanna nelle spese giudiziali, 2ª ed., Roma, 1935, pp. 167 e 337 ss., il quale nega che fra i giusti motivi di compensazione possa rientrare l’ipotesi della causa dubbia, intesa come questione incerta e discutibile, vuoi per l’esistenza di un contrasto di giurisprudenza in ordine alla quaestio iuris, vuoi per le difficoltà relative all’accertamento dei fatti rilevanti per la controversia.

[19] Per l’evoluzione della disciplina positiva sul punto, v. P. NAPPI, subart. 92, in Codice di procedura civile commentato, 5ª ed., diretta da C. CONSOLO, Torino, 2013, vol. I, p. 1046 ss.

[20] In ogni altro caso il giudice non potrà più compensare le spese, ma dovrà procedere alla condanna del soccombente alla rifusione delle stesse ai sensi dell’art. 91 c.p.c.

[21] Contra M. GRADI, Inefficienza della giustizia civile e “fuga dal processo”,cit., per il quale, nell’ipotesi di soluzione di un contrasto di giurisprudenza, la parte, pur in buona fede convinta del suo diritto, “litiga con il rischio di dover pagare le spese processuali all’avversario in caso di sconfitta”. Ma, in senso opposto, si pensi all’ipotesi in cui l’incertezza dei fatti si mantenga anche dopo l’esito dell’istruttoria ed il giudice si veda costretto a decidere con il criterio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c.

[22] Per l’accuratezza della disamina con la quale sono state distinte la questione nuova e quella complessa, si segnala Tribunale Bari, sez. III, 28/03/2011, n. 1104, in Giurisprudenzabarese.it 2011 (sia pure con riferimento ad una fattispecie soggetta ratione temporis alla precedente disciplina), della cui motivazione si riporta uno stralcio: <<È arduo sostenere, già in termini generali, che possa giustificare la totale compensazione delle spese di lite l’affermazione che la complessità delle questioni trattate costituisca giustificato motivo per la loro integrale compensazione in entrambe le fasi del giudizio. Tanto è sostenibile al limite in relazione a questioni di notevole complessità in punto di fatto e/o di diritto, anche in relazione alla loro novità, o ad un quadro giurisprudenziale ondivago ed incerto, oppure ancora comunque altrimenti controvertibili, in ordine alle quali possa risultare arduo per il giudice stabilire la ragione di una parte ed il torto dell’altra. Diversamente, laddove, il provvedimento non spieghi assolutamente in che cosa consistesse l’assunta complessità delle questioni trattate, non trapelando minimamente né dal testo del provvedimento né, comunque, “ex actis”, comporta che in tali considerazioni di per sé considerate, non v’è nulla di complesso, da ciò deducendosi che la motivazione offerta per tentare di giustificare la completa compensazione delle spese è all’evidenza assolutamente illogica e praticamente in contraddizione con quanto emerge dal testo dello stesso provvedimento, e finisce inoltre con l’essere in contrasto, non solo con il principio della causalità-soccombenza in tema di spese processuali ex art. 91 c.p.c., ma anche con la previsione dell’art. 92 c.p.c. circa la compensazione delle spese, anche secondo il testo vigente ante riforma del 2009, in quanto, è noto che in seguito quest’ultima disciplina è stata progressivamente sempre più inasprita dal legislatore in ordine ai motivi che possono fondare la compensazione, oltre che all’esposizione degli stessi motivi. Di conseguenza, proprio la circostanza dell’integrale conferma del provvedimento gravato quanto al rigetto disposto doveva indurre il giudicante innanzitutto a ribadire la condanna alle spese già decisa in favore del resistente vittorioso in prime cure, e, quindi, a condannare ulteriormente il soccombente anche al pagamento delle ulteriori spese per la fase di gravame.>>. E’ evidente il salto di qualità rispetto a Cassazione civile, sez. lav., 01/12/2003, n. 18352, in Giust. civ. Mass. 2003, 12, a mente della quale <<La decisione del giudice di merito di compensare, in tutto o in parte, le spese di lite è incensurabile in sede di legittimità qualora sia motivata espressamente con riferimento a giusti motivi ravvisati della peculiarità e della complessità delle questioni trattate.>>.

[23] Si segnala di recente, sul tema, Cass. ord. 9.1.2015, n. 174.

[24] Si pensi a Cassazione civile, sez. un., 09/09/2010, n. 19246, la quale, dopo il noto reviremented anticipando l’intervento normativo chiarificatore, aveva statuito che nell’opposizione a decreto ingiuntivo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto fossero automaticamente ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale.

[25] Ad esempio, l’orientamento giurisprudenziale, consolidatosi dopo la sentenza delle Sezioni Unite della S.C. n. 8203 del 2005, secondo cui, nei giudizi instaurati dopo il 30 aprile 1995, con riguardo alla produzione di nuovi documenti in grado di appello, il comma 3 dell’art. 345 c.p.c. va interpretato nel senso che esso fissa il principio dell’inammissibilità di mezzi di prova nuovi (cioè non richiesti in precedenza) e, quindi, anche delle produzioni documentali (indicando, nello stesso tempo, i limiti di detto principio ed i requisiti che tali documenti devono presentare per poter trovare ingresso in sede di gravame) non ha dato luogo ad una fattispecie di overruling, in quanto preceduto da decisioni dello stesso segno, con conseguente inapplicabilità della regola per la quale mantiene validità l’atto processuale compiuto secondo le forme e i termini previsti dal diritto vivente al momento del suo compimento, in caso di successivo mutamento giurisprudenziale relativo a quelle forme ed a quei termini (Cassazione civile, sez. II, 21/01/2013, n. 1370).

[26] Contra Scarselli, Il nuovo art. 92, 2° comma, c.p.c., in Foro it., 2015, 43, secondo cui il mutamento di giurisprudenza deve avvenire, evidentemente, in corso di causa, poiché i mutamenti di giurisprudenza anteriori all’instaurazione della lite non varranno ai fini dell’applicazione del 2° comma dell’art. 92 c.p.c.

[27] In questi termini si è espresso Scarselli, Il nuovo art. 92, 2° comma, c.p.c.,cit., 42.

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