Dieci domande a Renato Balduzzi su Costituzione, servizio sanitario e rapporto Stato–Regioni al tempo del coronavirus.

a cura di Fulvio Troncone

1. – Caro Professor Balduzzi, buongiorno. Nel dibattito pubblico si levano più voci che chiedono al termine della emergenza che si dia luogo a una nuova Costituente repubblicana che insieme al Parlamento coinvolga «rappresentanti di sindaci e presidenti di Regioni, per modernizzare le istituzioni, rendendole compatibili con la complessità e l’internazionalità in cui ci troviamo ad operare».  Quale ordinario di diritto costituzionale e alla luce della sua lunga e variegata esperienza di uomo delle Istituzioni, è d’accordo con questa proposta oppure reputa, invece, che la Costituzione del 1948 nel suo assetto fondamentale contenga tutti gli strumenti giuridici e assiologici per affrontare la post-modernità?

La ringrazio per la domanda e per il suo stile. Personalmente continuo a trovare assai deboli, quando non pericolose, le proposte di una nuova Costituente e gli argomenti che le sostengono. Proviamo a elencarli. Occorre, si dice, modernizzare le istituzioni che sarebbero impreparate a fare fronte a emergenze complesse e internazionali come Covid-19. Che vi sia stata impreparazione (degli scienziati, della politica, di ciascuno di noi) è fuori dubbio, ma che le cause di questa risalgano alla Costituzione mi sembra in verità un po’ balzano e mi ricorda vecchi argomenti addotti a difesa di revisioni costituzionali tentate in passato e regolarmente bocciate dal corpo elettorale, che imputavano alla Costituzione talune disfunzioni le cui cause, pacificamente, stavano nelle leggi elettorali, nei regolamenti parlamentari, nei comportamenti della politica. Abbiamo la fortuna di avere una Costituzione da sempre aperta alla complessità, alla solidarietà e all’internazionalizzazione, a partire da quel fondamentale art. 11 e dall’ancora più fondamentale art. 3, secondo comma, che dà alla Repubblica un compito, quello di favorire l’eguaglianza sostanziale, che mi sembra l’essenza di un’autentica post-modernità che non voglia ridursi alla celebrazione dell’io senza legami sociali. Non abbiamo, è vero, una norma costituzionale che disciplini nel dettaglio lo stato di emergenza, ma siamo sicuri che una tale norma sia proprio necessaria e non corra invece il rischio di diventare un passepartout per avventurismi costituzionali? Non mi pare che Paesi che conoscono clausole siffatte (Germania, Francia) stiano affrontando l’emergenza meglio di noi. Se poi l’invocazione di un’Assemblea costituente significa soltanto la volontà di cambiare la maggioranza di governo o di allargarla alle opposizioni, allora mi sembra una discussione tutta interna alla politique politicienne, su cui, in sede scientifica e culturale, non è il caso di spendere troppe parole: ci penserà, appunto, il dibattito politico. Mi pare poi davvero singolare l’invocazione di una Costituente: potrei capirla se proviene da chi non ha mai fatto mistero di volere cambiare la nostra forma di Stato costituzionale e democratica, la capisco molto meno oggi quando proviene da altri settori politico-culturali. In un’Europa nella quale alcuni Paesi (Polonia, Ungheria, ma non solo essi) hanno imboccato la strada della rottura rispetto al nesso tra garanzia dei diritti e separazione dei poteri, da un lato, e alla lettura universalistica dei diritti dell’uomo, dall’altro, un’Assemblea costituente avrebbe un senso soltanto se si volesse imboccare anche noi la direzione delle cosiddette “democrazie illiberali” (nozione quanto mai ambigua). Se non è questo che vogliamo, faremmo bene a evitare di aprire discussioni che inevitabilmente porterebbero a rimettere in discussione il rapporto, assai equilibrato, tra le varie parti della Costituzione e all’interno di ciascuna di esse, considerato uno dei punti di forza della nostra carta costituzionale. Se infine il problema è quello di coinvolgere parlamento, regioni e comuni in una discussione su come meglio praticare la leale collaborazione tra centro e periferie, ricordo che abbiamo una norma di rango costituzionale, contenuta nella revisione costituzionale del 2001 e inattuata dopo quasi vent’anni, che prevede l’integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali con rappresentanti delle regioni e degli enti locali e che fa derivare da questa integrazione conseguenze assai interessanti per il funzionamento armonico delle istituzioni: perché non ci proviamo?

2. – L’emergenza nazionale di questi giorni ha, tuttavia evidenziato le criticità della riforma del Titolo V, che, invero, già si comprendono da una lettura della giurisprudenza costituzionale sul rapporto fra Stato e Regioni. Lei che è uomo del Nord, ma, da piemontese, con una grande consapevolezza della necessità e utilità di salvaguardare l’unità nazionale, avrà rilevato il declamato pericolo che la pandemia si espanda al Sud in quanto le strutture sanitarie, a differenza di quelle del lombardo–veneto, non sono in grado di reggerne l’impatto. Non è che si è introiettato come acquisito e hegelianamente razionale il dato di fatto della disparità sul territorio nazionale dei differenti servizi sanitari erogati dalle Regioni? È compatibile con i principi fondanti la Repubblica che nel territorio vi sia una speranza di vita differenziata a seconda di dove si viva?

Credo che sulla revisione del Titolo V occorra, almeno in campo sanitario, rimediare a un falso storico, che purtroppo viene perpetuato anche da fonti autorevoli. La regionalizzazione in sanità non è il frutto della legge costituzionale n. 3 del 2001. L’affidamento alle regioni della competenza legislativa concorrente (dunque nell’ambito cioè dei principi fondamentali fissati dalle leggi statali) sull’assistenza sanitaria e ospedaliera fu la scelta del costituente nel 1946/47, confermata nella riforma sanitaria del 1978 e rafforzata dalle “riforme della riforma” (1992, 1993, 1999). Il nuovo Titolo V, che assegna alle regioni la potestà legislativa concorrente in materia di tutela della salute, non ha cambiato, in sanità, la situazione precedente: neanche la formula “tutela della salute” comporta un’estensione  della competenza regionale, perché già la legislazione e la giurisprudenza avevano inteso in senso estensivo la materia dell’assistenza sanitaria e ospedaliera. Anche la più larga autonomia data alle leggi regionali, non più soggette a controllo preventivo, non ha comportato, in sanità, né diminuzione della sfera di applicazione della normativa statale sul Ssn (come ha dimostrato la riforma sanitaria del 2012), né sostanziale ampliamento della legislazione regionale. Dunque il Titolo V non porta responsabilità nella regionalizzazione. Di più: il Ssn è fondato sul principio di solidarietà: chi è sano sostiene chi è malato, chi più ha sostiene chi meno ha (questo è il senso del finanziamento attraverso la fiscalità generale, e non attraverso meccanismi assicurativi). Ma la solidarietà deve esistere anche tra territori. Lo stiamo constatando nel modo con cui si sta affrontando la pandemia, e, più in generale, il Servizio sanitario nazionale ha come obiettivo la riduzione delle disparità territoriali, e gli stessi piani di riqualificazione e rientro hanno questo obiettivo come centrale. La mia regione da due anni è in testa nella graduatoria della qualità sanitaria sulla base della griglia dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) che Ministero della salute e regioni compilano annualmente: ma l’obiettivo è assicurare a tutti il godimento dei Lea, e qualche risultato in termini di avvicinamento tra territori quella griglia lo mostra. La speranza di vita è diversificata, ma lei sa bene che dipende in misura modesta dai soli servizi sanitari.

3. – C’è chi anche chiede che la Sanità torni in mano al Governo, come prima riforma da fare. E ciò in quanto non è possibile un sistema sanitario ove si parlano 21 lingue diverse. Di qui la prospettata ipotesi di riprendere la clausola di supremazia prevista dalla riforma del 2016, ovvero di un ritorno delle competenze sanitarie allo Stato centrale.  In prospettiva, questa può essere la soluzione?  Oppure sarebbe più opportuno lasciare intatta la sanità che funziona e centralizzare la sanità che non funziona, nell’intento di marginalizzare quelle classi dirigenti locali che non hanno ben gestito l’autonomia e superare quell’intrinseco conflitto d’interesse che si manifesta con il fenomeno del cd. “turismo sanitario”, che ha davvero dei numeri impressionanti  (cfr. https://www.truenumbers.it/turismo-sanitario/)?

Anche l’affermazione secondo cui avremmo 21 sistemi sanitari diversi e non possiamo permettercelo è un’altra deformazione della realtà. Il Servizio sanitario nazionale è il complesso dei Servizi sanitari regionali e degli enti e istituzioni di rilievo nazionale (per es., Istituto superiore di sanità, Agenas, Istituto nazionale migrazione e povertà, ecc.) ed è unitario: la lungimiranza dei costituenti capì che i servizi sanitari sono meglio organizzabili e gestibili lasciando spazi di autonomia alle regioni, ma dentro una cornice unitaria. Si obietta: ma così abbiamo sanità diversamente efficienti a seconda delle regioni, con diverse velocità e qualità dei servizi. Mi chiedo: è corretto confrontare sanità di territori dove tutto è diverso, oppure il confronto vero dovrebbe essere tra diversi settori (sanità, istruzione, trasporti, assistenza ecc.) all’interno del medesimo territorio, per verificare se comunque la sanità regionalizzata non sia, anche in territori svantaggiati, il settore che comparativamente funziona meglio? Lei ricorda, correttamente, il turismo sanitario, ma dobbiamo chiederci quanta parte di esso sia legata alla reale differenza di qualità delle prestazioni sanitarie e quanta legata alla storia dei singoli territori. Faccio un esempio. Gli Irccs (istituti di ricovero e cura a carattere scientifico) sono i fiori all’occhiello della sanità italiana, gli ospedali dove si fa ricerca e la si trasferisce nell’assistenza. In tutta Italia sono 50, dei quali 18 nella sola Lombardia! In queste settimane la sanità lombarda ha mostrato talune criticità nel rapporto tra assistenza ospedaliera e assistenza territoriale, ma è del tutto evidente che ciò non scalfirà, tornati a una normalità almeno relativa, la capacità attrattiva dei suoi diciotto Irccs. La sua domanda, tuttavia, aveva anche un altro obiettivo, quello di porre la questione sulla opportunità di fare “ritornare” allo Stato centrale le competenze in tema di sanità. Anche su questo punto occorre fare chiarezza e smetterla di accontentarsi dei sentito dire: prima del 1978 la sanità non era in mano allo Stato centrale, ma frammentata nell’arcipelago inefficiente e discriminatorio delle mutue; con la legge n. 833 sono i comuni a fare la parte del leone, sino a quando la cosiddetta regionalizzazione del 1992 non sposta il baricentro in capo all’ente regione. I poteri statali non vengono meno, anzi l’attuazione delle leggi Bassanini e la riforma sanitaria del 1999 li vengono a precisare, e altrettanto quella del 2012, e nemmeno si può dire che il venire meno del limite dell’interesse nazionale a seguito della revisione del Titolo V li abbia compromessi, e dunque sia necessario il ripristino della cosiddetta clausola di supremazia statale: tutto il sistema normativo del Ssn è incentrato sui poteri di coordinamento, impulso, affiancamento e sostituzione da parte del ministero e degli enti nazionali, e pertanto l’esistenza o meno di una tale clausola non muterebbe il quadro, come bene sanno gli specialisti del diritto sanitario. Se poi il lamento circa i supposti scarsi poteri del governo centrale si riferisce alle situazioni di emergenza pandemica, sarei ancora più severo: per cortesia, studiamo prima di parlare.

4. – Lei ha avuto modo di precisare il punto in uno scritto pubblicato qualche giorno fa sulla rivista “Corti Supreme e Salute”. Purtuttavia, professore, la situazione di queste settimane evidenzia un certo grado di confusione tra iniziative del Governo nazionale e prese di posizione di qualche presidente di regione …

Ancora una volta, non dobbiamo fare l’errore di scambiare ragioni di carattere politico-partitico con elementi del sistema costituzionale e legislativo. Lo hanno ricordato in questi giorni con chiarezza, tra gli altri, Sabino Cassese e Cesare Pinelli. Alcuni comportamenti di queste settimane mi sembrano improntati, più che al principio costituzionale di leale collaborazione tra le istituzioni, a quello di disfattismo sleale. La nostra Costituzione e la nostra legislazione non consentono dubbi circa il soggetto cui spetti di governare una tale emergenza. Per quanto attiene al livello costituzionale, il giudice delle leggi ha avuto recentemente modo di precisare (Corte cost., sent. n. 5 del 2018, in tema di vaccini; v. anche la sent. n. 186 del 2019) che “la profilassi per la prevenzione della diffusione delle malattie infettive richiede necessariamente l’adozione di misure omogenee su tutto il territorio nazionale” e che in proposito rileva la competenza legislativa esclusiva statale in tema di profilassi internazionale ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. q, Cost. Proprio quest’ultima competenza, d’altro canto, è stata appunto oggetto di una salvaguardia in sede di revisione costituzionale nel 2001, che contiene altresì la clausola sul potere sostitutivo statale in caso di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, da esercitarsi nel rispetto del principio di sussidiarietà e di leale collaborazione. Per quanto concerne il livello della legislazione ordinaria, è assai significativo (e, curiosamente, poco richiamato in queste settimane: vale il rilievo fatto sopra circa l’esigenza che gli studiosi facciano bene il loro mestiere…) che la competenza statale sia stata fatta salva proprio nell’ultimo organico trasferimento di funzioni alle regioni, realizzato, in epoca anteriore rispetto alla legge cost. n. 3/2001, appunto con il d.lgs. n. 112/1998, e dunque in una stagione della nostra vita pubblica fortemente caratterizzata in senso regionalistico e autonomistico, almeno nelle intenzioni. Dalle disposizioni di questo decreto legislativo (cui, se si vuole, è possibile affiancare anche l’art. 47-ter del d.lgs. n. 300/1999, sulle conseguenti attribuzioni del ministero della salute) ricaviamo, tra l’altro, che la competenza ad adottare provvedimenti d’urgenza dipende dalla dimensione dell’emergenza e dall’eventuale interessamento di più ambiti territoriali regionali, e che pertanto, quando a essere interessato sia l’intero territorio nazionale, la competenza all’adozione di tali provvedimenti (“ivi compresa la costituzione di centri e organismi di referenza o assistenza”) spetti allo Stato (art. 117), e che spettano allo Stato “la sorveglianza e il controllo di epidemie ed epizozie di dimensioni nazionali o internazionali” (art. 112, comma 3, lett. g), e il coordinamento dell’attività di costituzione di scorte di medicinali di uso non ricorrente, di sieri, vaccini e presidi profilattici (art. 115, comma 4), mentre l’art. 118, comma 1, lett. e) impone alle regioni obblighi di comunicazione concernenti, tra l’altro, l’insorgenza e la diffusione di malattie umane o animali. Come dire, v’è sovrabbondanza di riferimenti normativi, tutti univoci. Da questo punto di vista, allora, le timidezze del Governo della Repubblica rispetto a forzature o stonature di questa o quella regione, più che a debolezza o incertezza politica – e qui la mia valutazione è diversa da quella, sopra richiamata, di Cesare Pinelli –, possono essere inquadrate sotto il segno della volontà governativa di derogare il meno possibile sia alla nostra forma di Stato, evitando un eccessivo accentramento di poteri all’esecutivo centrale (altro che i pieni poteri del primo ministro ungherese!), sia al nostro tipo di Stato regionale, insistendo sulla leale collaborazione anche nei confronti di chi non la pratichi o la irrida e facendo altresì applicazione del principio di sussidiarietà, che implica un margine ineliminabile di apprezzamento in capo al soggetto minore circa la specificazione della misura restrittiva. Volontà che appare ancora più comprensibile se pensiamo alla velocità di modificazione di tali provvedimenti per fare fronte a una situazione in continuo movimento, tale da sconsigliare di sollevare contenziosi su norme per definizione temporanee, se non ultra-temporanee, e ciò anche quando (si pensi ai provvedimenti calabresi e lucani di chiusura del territorio regionale) l’eccesso di competenza era evidente, ai sensi dell’art. 120 Cost. Insomma, governare non è sempre necessariamente mostrare i muscoli, ma portare i governati verso le soluzioni reputate ottimali. È poi pur vero che, ad esempio, nella decisione sui criteri di esecuzione dei tamponi e sulla loro tipologia avrebbe consentito di ottenere dati più affidabili sul contagio, ma una tale omogeneità avrebbe presupposto una chiarezza sulla conoscenza del virus e sulle strategie di contrasto che nessuno aveva, e in parte ancora ha.

5. – Guardando ciò che accade in altre Nazioni si è rilevato che il sistema sanitario pubblico e universalista, ossia quello disegnato dalla legge n. 833 del 1978, sembra essere quello più in grado di rispondere a emergenze del tipo che stiamo vivendo, che a prima vista possono apparire eccezionali, ma in realtà potrebbero essere ricorrenti, se non tempestivamente contenute (vedi Sars e così via). Ne conviene? Come inquadrare in tale ambito il cd. privato convenzionato?

Condivido pienamente. Basta pensare al marasma in corso negli Stati Uniti, che ha ragioni strutturali e non soltanto riconducibili all’ondivaga gestione politica della vicenda. Ma il suo accenno mi dà l’occasione di fare una precisazione. Il nostro Servizio sanitario nazionale ha sempre incontrato opposizioni, fin dalla sua nascita. Il che non stupisce, perché la sanità è un comparto articolato e importante, che attira appetiti e interessi, e la scelta di un sistema fondato sui principi della universalità dei destinatari, della globalità delle prestazioni e del finanziamento attraverso la fiscalità generale non poteva non generare avversioni, tentativi di snaturamento, richieste di un cosiddetto secondo pilastro. Tali opposizioni riuscirono anche, a un certo punto, nella stesura originaria del d.lgs. n. 502 del 1992, a scardinare quei tre principi, ma siamo riusciti a sventare l’attacco, già l’anno seguente, con il d.lgs. n. 517, e poi con la riforma del 1999, confermata nel 2012. Ancora recentemente, non è difficile individuare le forme nuove in cui si è sostanziato questo rinnovato attacco: nell’editoriale del n. 2/2019 della rivista “Corti Supreme e Salute”, a proposito del cosiddetto regionalismo differenziato, ho provato a dimostrare che il combinato disposto tra le richieste avanzate, più o meno consapevolmente, da alcune regioni, di avere competenza esclusiva in tema di fondi sanitari integrativi, di ticket e di attività libero professionale dei sanitari, avrebbe comportato una pressoché certa  destrutturazione del Servizio sanitario nazionale. La “lezione” del Coronavirus indurrà al ritiro di tali proposte? Ce lo auguriamo: tra i  paradigmi che dovremo rafforzare a seguito della pandemia, quello della sanità pubblica come valore di coesione nazionale mi sembra centrale. Se tuttavia osservo la storia lunga della sanità italiana, non posso non constatare la permanenza, pervicace e tignosa, di idee e comportamenti volti a stravolgere quei tre principi di sanità pubblica che costituiscono l’ossatura del Servizio sanitario nazionale. E dunque probabilmente la battaglia, culturale e politica, continuerà.

6. – Medici, infermieri, tecnici e personale sanitario in genere sono in prima fila nella lotta all’epidemia. Nondimeno, c’è chi, pure in questa contingenza, si propone per intraprendere azioni legali nei loro confronti.  Alcuni, pertanto, reputano necessaria l’introduzione di una sorta di scudo immunizzante per il personale sanitario? Ha un’idea in proposito?

Più che di immunità, che potrebbe essere fonte di controindicazioni e di abusi, parlerei di serenità da rafforzare e di comportamenti contrari alla deontologia professionale da reprimere. Credo, ma è soltanto un esempio, che l’Ordine degli Avvocati debba, e prima lo fa meglio è, porsi il problema di sanzionare quei professionisti che, in forme plateali e spesso sgangherate, si pongono al servizio non del diritto alla salute conculcato, ma di azioni giudiziarie caratterizzate da avidità e temerarietà. Detto questo, a mio parere – e mi fa particolare piacere dirlo su questa rivista – il rafforzamento della serenità del professionista sanitario passa attraverso la conferma, da parte della giurisprudenza di merito, degli orientamenti prevalsi negli ultimi anni in sede di Cassazione, specie in campo penale (penso soprattutto alle sentenze Franzese del 2002 e Vessichelli del 2017), ma anche in campo civile (e qui non posso non citare le “sentenze di san Martino” del novembre 2019, in particolare in tema di perdita di chance, risarcibile soltanto ove la perduta possibilità sia apprezzabile, seria e consistente). Tenere ferma la barra della colpa grave, e dunque circoscrivere la punibilità ai casi di imperizia non grave, destinerebbe la maggior parte delle denunce temerarie in sede penale a un esito sfavorevole al denunciante, e nel contempo permetterebbe uno spazio adeguato di istruttoria e trattazione per le denunce davvero fondate. In sede civile, gli artt. 7, 10 e 12 della legge n. 24 del 2017, nel normare, rispettivamente, la natura della responsabilità civile, l’obbligo di assicurazione delle strutture e degli esercenti le professioni sanitarie e l’azione diretta del danneggiato nei confronti della compagnia assicuratrice di quest’ultimi, delineano nel complesso un assetto normativo che richiede una particolare attenzione da parte degli operatori giuridici, specie in questo delicato momento. In effetti, la qualificazione della responsabilità del medico strutturato come extracontrattuale, con i conseguenti oneri di prova a carico del danneggiato in punto di nesso di causalità ed elemento psicologico e noti limiti temporali di azionabilità, la predeterminazione di limiti massimi dell’azione di rivalsa della struttura, la mancata previsione dell’azione diretta del paziente nei confronti della compagnia assicuratrice dei singoli esercenti la professione sanitaria potrebbero già di per sé, ove rigorosamente applicate, favorire la fuga da quelle tentazioni deresponsabilizzanti più volte denunciate in letteratura. Il che vale ancor di più in un contesto quale quello di Covid-19, caratterizzato, come si è accennato sopra, da una grandissima incertezza quanto a origine, natura e trattamento del virus, oltre che da una generalizzata impreparazione rispetto ad esso da parte tanto degli scienziati, quanto della politica e di ciascuno di noi, anche il riferimento alle linee guida, coonestato dal legislatore nazionale (art. 3 d.-l. n. 158/2012; art. 5 legge n. 24/2017), viene ad assumere, ancora di più che nell’ordinario, il significato di “un sapere valutato nel concreto farsi del trattamento”, secondo una meritatamente celebre definizione giurisprudenziale. La parola, dunque, alla giurisprudenza e alla sua capacità di confermare orientamenti sviluppati nel solco di interventi legislativi i quali, nel 2012 e nel 2017 (con modalità e approcci diversi, ma con intenzioni e indirizzi non dissimili), hanno dimostrato che un legislatore attento e determinato può concorrere, anche in campi dove storicamente l’apporto giurisprudenziale è stato determinante, a scuotere orientamenti consolidati e, forse, eccessivamente pietrificati.

7. – All’inizio della pandemia si è assunta l’idea che essa fosse letale solo per le persone anziane di modo che la malattia, anziché minacciare tutti, riguardasse soltanto una certa fascia di popolazione sopra una determinata età. Oggi si è inteso che non è così: infatti la Catalogna ha scelto chi intubare e chi no e ultimi sono gli ottantenni. Si tratta di darwinismo sociale o una scelta tragica giustificata dallo stato di necessità di salvaguardare chi teoricamente ha più futuro davanti nell’interesse della specie?

Sono convinto che, anche nelle situazioni più drammatiche, vi sia da invocare una responsabilità comune per far fronte a quello che possiamo chiamare il limite del possibile. Speriamo ovviamente di non dover mai arrivare a compiere, almeno su larga scala, scelte tragiche: il nostro sistema costituzionale si oppone a un razionamento a priori delle prestazioni a tutela della salute, a maggior ragione se salvavita, e la deontologia medica deve essere ovviamente sempre coerente con il dettato costituzionale. Porre criteri astratti – che hanno sempre una certa arbitrarietà – a monte di una valutazione da farsi luogo per luogo, unità operativa per unità operativa, così come per ogni singolo malato, non mi sembra coerente con il quadro costituzionale, nel cui ambito la necessità stessa può diventare in certi casi rilevante nel dettare regole. Ma, va ribadito, si tratta sempre di una necessità che deve inserirsi dentro un sistema. Per questo è fondamentale che le valutazioni difficili non siano lasciate alla solitudine degli operatori direttamente interessati, ma che sia coinvolta l’intera struttura sanitaria e altresì i comitati etici. Come ho accennato prima, in un’emergenza come quella che stiamo attraversando più che invocare improbabili, almeno per ora, linee guida, conviene agire con trasparenza, coinvolgendo la famiglia del paziente, dimostrando di aver fatto tutto per trovare una soluzione alternativa laddove ci sia un problema di assoluta insufficienza delle strutture.

8.- Il virus non distingue fra il ricco e il povero, il colto e l’inclita, il potente e chi non conta nulla, colpisce tutti, indistintamente. Non conosce immunità di censo, di palazzo o di funzione. Le differenze, semmai, vengono dopo: nella diagnosi e cura tempestiva. È pregno di un qualche significato ciò?  Ci deve far riflettere anche per il dopo?

Quanto alla diffusione del contagio, non v’è dubbio che il virus non guardi in faccia a nessuno. Diversamente, per quanto attiene agli effetti del medesimo, nel senso della probabilità di sviluppare malattie respiratorie anche mortali, in quanto a essere colpita è soprattutto la popolazione anziana e più fragile, con una netta prevalenza di quella maschile: per dirla con il manzoniano don Abbondio, una scopa, certo, ma molto selettiva. Ne segue che una strategia per il futuro, per il “dopo”, dovrà prendere nel conto la tutela delle fragilità, esattamente l’opposto rispetto a quanto avanzato qualche settimana fa da alcune centrali politico-culturali anglosassoni. Può darsi che il futuro ci riservi sfide altrettanto difficili, ma concernenti altre fasce di popolazione: una corretta strategia dovrà allora prendere in considerazione anche questa eventualità. Serve dunque un’agenda affidabile contro le emergenze. Provo a sintetizzarne i capitoli principali. In testa all’agenda deve starci, lo stiamo comprendendo a fatica, il coordinamento planetario: abbiamo dato poteri significativi a strutture come il Fondo monetario internazionale o la Banca mondiale, dovremo dare almeno analoghi poteri all’Organizzazione mondiale della sanità e creare un’analoga istituzione per la tutela dell’ambiente: ambiente e salute vanno insieme. Ma un coordinamento planetario ha bisogno di soggetti autorevoli che lo propongano con convinzione, e qui viene in rilievo il ruolo dell’Unione europea: un suo ulteriore indebolimento a vantaggio di egoismi nazionali di breve termine priverebbe la strada verso un coordinamento planetario delle emergenze del soggetto che, per storia, interesse e centralità geopolitica, meglio potrebbe svolgere un ruolo propulsivo. A livello nazionale, oltre a praticare quella leale collaborazione su cui già ci siamo intrattenuti (e valorizzata ripetutamente dalla Corte costituzionale: si veda, da ultimo, la sent. n. 62 del 2020, depositata il 10 aprile u.s.), dobbiamo avviare subito una sorta di revisione delle narrazioni, di telling review se mi si passa un neologismo; superando le letture e i messaggi, non sempre onesti, di questo o quel politico, o degli stessi mondi professionali, dobbiamo muovere da un complesso di dati e di analisi minimamente condivisa, pena il cumulo di una montagna di falsi o di mezze verità. Pensiamo alla polemica sui cosiddetti tagli: è un fatto che il numero dei posti di terapia intensiva non solo non è mai stato tagliato (sono oltre 500 in più dal 2010), ma che siamo al terzo posto nel mondo per posti letto rispetto alla popolazione, e chee i nostri standard ospedalieri sono, in generale, un modello per i Paesi vicini. A noi non si applicano le considerazioni che un recente articolo pubblicato su Civiltà Cattolica riserva genericamente ai Paesi occidentali: l’Italia ha preservato un Ssn che offre molto anche in condizioni economico-finanziarie critiche, dotato di standard, capace di conoscere e valutare i propri esiti. Gli standard, appunto. La sanità non migliora semplicemente perché le si danno più risorse, ma quando queste risorse sono gestite in modo appropriato ed efficiente. Se no, sono soldi buttati, che possono generare, invece che tutela della salute, maggiori inefficienze e diseguaglianze territoriali, e fomentare corruzione. Ma ci vogliono anche standard per l’attività sanitaria territoriale: non è accettabile che in un distretto il contrasto al Covid-19 venga organizzato e gestito con un mix efficiente di domiciliarità, nelle prime fasi della malattia, e di ospedalizzazione nei casi più gravi mentre, nel distretto vicino (sto parlando non tra regione e regione, e neanche tra Asl e Asl, ma dentro la medesima Asl!), tutto ciò non avvenga o avvenga in misura molto più modesta e inefficiente. Senza contare che, accanto gli standard di personale e di organizzazione, dovremo pensare di più a come formare medici e infermieri per prevenire il contagio, e a disporre di un quantitativo adatto di dispositivi di protezione, in una parola, curare di più la logistica. Che è anche un problema di cultura.

9. – E qui veniamo al rapporto tra cultura e sistema giuridico. Secondo lei, a valle della pandemia, dovremo pensare a una nuova riforma sanitaria?

Non penso sia necessaria un’altra e nuova riforma, ma che sia doveroso attuare quelle che sono già state fatte. È, ad esempio (ma è un esempio di importanza cruciale), semplicemente scandaloso che, a quasi otto anni dalla riforma della medicina di famiglia, condivisa, almeno a parole, con regioni e professionisti interessati, non sia ancora stata siglato il nuovo e coerente accordo collettivo nazionale. Una medicina di base efficiente sarebbe stata e sarebbe, in questo frangente, la garanzia di un contrasto vero alla pandemia, attraverso unità di cure primarie in grado di supportare pazienti già noti ai sanitari interessati, di fornire informazioni certe agli specialisti che operano in ospedale, di rassicurare i pazienti e nel contempo di non abbandonarli a se stessi. Insomma, non vi sarebbe stato bisogno (art. 4-bis del recentissimo decreto-legge “Cura Italia”) di imporre alle regioni di istituire entro dieci giorni le Unità speciali di continuità assistenziali… So bene che vi sono medici di famiglia che hanno compiuto e compiono in queste settimane gesti di autentico eroismo, ma la buona attuazione del disegno organizzativo della riforma del 2012 avrebbe probabilmente evitato o ridotto i decessi di operatori sanitari e permetterebbe di sperimentare al meglio quei rimedi farmacologici che tanti gruppi di ricerca in queste settimane hanno avviato nel nostro Paese. Cominciamo a studiare il “dopo”, allora, senza dimenticare tuttavia che la battaglia è ancora in corso e soprattutto pensiamo al dopo nella consapevolezza che ciò che facciamo ora, le prassi che seguiamo, le risposte che diamo, sono la prefigurazione del dopo. La medicina dei disastri è una disciplina non nuova, che ha come campo di azione non soltanto le grandi catastrofi naturali, ma che sempre di più si trova e si troverà a fare i conti con epidemie e pandemie. E la medicina dei disastri avrebbe dovuto renderci più consapevoli che è fondamentale proteggersi e proteggere, a partire dal personale sanitario e sociosanitario. Insisto su questo punto: il sistema ha mostrato debolezze quanto al controllo di alcuni luoghi strategici (strutture sanitarie, case di riposo, rsa, residenze protette) e all’approvvigionamento di devices e materiale di protezione. Lo sforzo adesso – oltre che sulla ricerca: penso ai tanti trial in corso sull’idrossiclorochina, sperimentalmente proposta come profilassi al personale sanitario – dev’essere quello di operare nell’oggi per preparare il dopo, così da essere meno impreparati.

10. – Un’ultima domanda, caro professore. Qualche anno fa uscì un libro dal titolo: il tramonto della città pubblica, dedicato all’abnorme espansione urbanistica di Roma e alla prevalenza degli interessi economico-finanziari sulle necessità pubbliche con effetti pesantemente distorsivi sulla vita concreta delle persone. Parallelamente, ritiene che l’esperienza di questa pandemia perimetri i limiti oggettivi dello sviluppo capitalistico affidato ai soli “spiriti animali” e delinei la necessità di coltivare “i beni comuni” e di dare ulteriore vigore anche a una certa giurisprudenza costituzionale che fissa alcune spese costituzionalmente necessarie in quanto tali non dipendenti nell’an dalle esigenze di bilancio (es. da ultimo la sentenza n. 83 del 2019)? E, passando dall’astratto al concreto, reputa comunque fattibile tale azione di alta politica, di cui è espressione il messaggio del Presidente Mattarella reso in occasione della giornata mondiale della salute, in un mondo estremamente globalizzato dove la produzione di valore si è in gran parte spostata sul Pacifico e che vede l’Europa (per non parlare dell’Italia) come un continente anziano e per certi versi marginale e, quindi, non in grado di sostenere economicamente politiche di welfare pubblico?

Papa Francesco, tra le tante perle di una catechesi giornaliera che moltissimi, credenti e non, ormai seguono con costanza, ha detto qualche giorno fa che bisogna evitare che vi sia chi, nel momento del dolore, pensa al proprio guadagno. Credo che ciò valga anche per politici e amministratori: guai a utilizzare la pandemia per piazzare propri amici qua e là, per strappare qualche consenso elettorale in più, per mostrare i muscoli. Ma forse vale anche in generale, come invito ad andare oltre all’interesse personale e di gruppo. Così operando, saremo in grado di riavvicinarci a una nozione, quella di bene comune, intesa come bene di tutti e di ciascuno, che troppo spesso viene confusa con quella di interesse generale: il bene comune non giustifica che qualcuno venga lasciato per strada, venga scartato. Leggerei così la giurisprudenza costituzionale che lei menziona: c’è un nucleo incomprimibile dei diritti fondamentali (in particolare, per le persone con maggiore fragilità) che va assicurato, anche se il suo quantum può variare con l’andamento del ciclo economico. Ma la sua domanda mi provoca non soltanto “sul” bene comune, ma “sui” beni comuni, e dunque sulla sostenibilità del modello socio-economico che ha prevalso in questi decenni. Che la salute sia un bene comune, in questa seconda accezione, non v’è dubbio: ma non lo scopriamo noi oggi, come qualche anima candida pensa, lo sapevano talmente bene i nostri costituenti da averla qualificata come “diritto fondamentale e interesse della collettività”. Dentro la vecchia Europa, c’è chi queste cose le ha nel proprio dna costituzionale e può offrirle al mondo, purché si riesca a superare la sindrome del “first me”: saremo anche anziani, ma non marginali, a meno che non si reputi che i modelli da seguire siano quelli autoritari o, come si usa dire oggi, illiberali.  Mi permette di chiudere con un “no, grazie”?