La nuova normativa, introdotta dall’art.21 dello schema di decreto attuativo della legge 26.11.21,  prevede espressamente la competenza del notaio rogante per l’autorizzazione alla stipula di atti pubblici o scritture private autenticate, in cui interviene un minore o un soggetto incapace (interdetto, inabilitato, o beneficiario di amministrazione di sostegno). La norma prevede, altresi’, la possibilità per il Notaio di farsi assistere da consulenti, assumere informazioni, sentire i parenti entro il quarto grado e gli affini entro il secondo, nonché  i creditori, nel caso di vendita di beni ereditari. Il notaio può, inoltre, decidere in ordine al reimpiego delle somme spettanti al minore, a seguito degli atti di cui sopra (es. vendita di beni appartenenti  minori), e della concessa autorizzazione da comunicazione, “anche ai fini dell’assolvimento delle formalità pubblicitarie”, alla cancelleria del Tribunale che sarebbe stato competente al rilascio della corrispondente autorizzazione. Tali autorizzazioni possono essere impugnate, nei modi e nelle forme applicabili all’impugnativa del corrispondente provvedimento giudiziale ed acquistano efficacia decorsi venti giorni delle comunicazioni predette, senza che sia stato proposto reclamo. Restano riservate, in via esclusiva, all’autorità giudiziaria  le autorizzazioni per promuovere rinunciare, transigere o compromettere in arbitri giudizi, nonché per la continuazione dell’impresa commerciale.

Invero, la norma in oggetto,  se da un lato ha il vantaggio di comportare uno snellimento dell’attività giudiziaria, determinando una significativa riduzione degli atti prima demandati al Giudice Tutelare o al Tribunale, ai sensi degli artt. 320 c.c., 374 e 375 c.c.,  dall’altro affida ad un organo posto al di fuori della giurisdizione, una funzione di bilanciamento e valutazione degli interessi sottesi al procedimento autorizzativo.

Il Notaio, infatti, va a sostituirsi all’autorità giudiziaria nella valutazione della convenienza dell’operazione per i soggetti incapaci, nell’assunzione di informazioni utili per valutare l’opportunità o meno di un determinato atto, nell’ambito di una sorta di procedimento paragiurisdizionale, deformalizzato, non disciplinato nello specifico. I problemi che potrebbero porsi riguarderanno le modalità di convocazione di informatori (parenti o affini), o di eventuali consulenti, o l’assunzione ad esempio di informazioni presso servizi sociali, attività che normalmente il Giudice tutelare gestisce per il tramite della cancelleria, che invece, a seguito della riforma, sarà destinataria di una mera comunicazione all’esito del procedimento. L’intervento dell’autorità giudiziaria è previsto  solo in un momento eventuale e successivo, a seguito di reclamo, sicchè la valutazione della congruità e opportunità dell’operazione viene sostanzialmente demandata al Notaio rogante, che da organo terzo con competenze limitate ad un controllo tecnico di regolarità formale dell’atto, viene ad essere investito di una funzione che implica l’esercizio di un’attività discrezionale di bilanciamento dei vari interessi in gioco, coinvolgente soggetti vulnerabili, proprio in ragione della loro incapacità, prima affidata all’autorità giudiziaria.

La prassi o interventi successivi di modifica, chiariranno i termini dei rapporti tra il Notaio e l’autorità giudiziaria o la cancelleria, anche al fine di individuare  le modalità attraverso cui il notaio nomina i consulenti, essendo opportuno, ad esempio, che lo stesso disponga dell’albo in uso presso i Tribunali, anche considerato che essendo la presenza degli avvocati, che normalmente svolgono una funzione anche di filtro tecnico,  solo eventuale, anche l’assunzione di informazioni, potrebbe, in concreto presentare problematicità. Si pensi all’individuazione di parenti e affini entro il secondo grado che richiede, quantomeno la produzione di un certificato di famiglia o, ad  altri tipi di indagini, come quelle  a mezzo della polizia Tributaria e dei Servizi Sociali, con cui  l’autorità giudiziaria, a differenza del Notaio, è abituata ad interagire.

Un intervento di riforma che implichi uno spostamento di competenze dall’autorità giudiziaria ad organi diversi, posti al di fuori della giurisdizione, comporta inevitabilmente la perdita delle garanzie connesse alla giurisdizione, seppur in una meritevole ottica di snellimento della stessa  attivita’ giurisdizionale e di riduzione dei tempi di definizione dei giudizi. La possibilità di reclamo e la comunicazione degli atti anche al PM, garantiscono, tuttavia, il recupero di un controllo da parte dell’autorità giudiziaria, seppur in una fase successiva ed eventuale.

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Articolo di SILVIA VITRO’

Le principali regole deontologiche prescritte dal Codice Etico dei magistrati italiani (principio di indipendenza, principio di imparzialità, dovere di aggiornamento professionale) vanno declinate, nel caso di svolgimento della funzione di giudice dell’immigrazione, in modo più attento alla specificità della materia, nella quale l’impegno del giudice deve assolvere anche determinati obblighi di cooperazione istruttoria e di autonoma acquisizione di informazioni, al fine di adeguare la gestione di queste vicende al principio europeo di effettività.

I compiti del giudice dell’immigrazione consistono, principalmente:

-nell’applicare le leggi sull’immigrazione, non mancando di interpretarle alla luce dei principi costituzionali,

-e nel giudicare l’attendibilità dei racconti degli immigrati, ascoltando le loro parole e cooperando nella ricerca di informazioni.

1) Le leggi sull’immigrazione

Sin dalla fine degli anni ’90 si sono succedute varie leggi sull’immigrazione, a volte più restrittive, a volte corrette negli aspetti più incostituzionali dai governi che via via si sono susseguiti.

Il T.U. sull’immigrazione, d.lgs. 286/1998, è stato corretto, fra l’altro, laddove disponeva l’automatica espulsione dell’immigrato irregolare, senza che fossero presi in considerazione vari elementi, tra cui i vincoli familiari.

Fino agli anni 2007/2008 la gestione del fenomeno dell’immigrazione riguardava principalmente l’espulsione di coloro che, non rientrando nelle quote, stabilite annualmente dal Governo, degli aspiranti lavoratori, né potendo beneficiare del ricongiungimento con familiari cittadini italiani o legittimamente residenti in Italia o delle periodiche leggi di regolarizzazione del lavoro irregolare, restavano immigrati irregolarmente soggiornanti sullo Stato italiano.

Negli anni 2007/2008 sono state varate le leggi italiane sulla protezione internazionale (in esecuzione delle Direttive Comunitarie), prevedente la concessione dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria o della protezione umanitaria a coloro che avessero dimostrato di fuggire da persecuzioni politiche, razziali, religiose, ecc., o da Stati in preda  guerre civili, o di essere bisognosi di protezione per gravi motivi umanitari.

Immediatamente tutti gli immigrati sono divenuti richiedenti asilo.

E’ conseguentemente esponenzialmente aumentato il numero dei cittadini extracomunitari che facevano ingresso in Italia.

In esecuzione delle Direttive Comunitarie sono state emanate precise regole sull’accoglienza (e in alcune regioni l’applicazione di queste regole ha funzionato bene attraverso cooperative che hanno provveduto alla sistemazione dei cittadini aventi in corso la domanda per la protezione internazionale, gestendo anche la loro educazione scolastica e professionale).

Di fronte ai numeri crescenti dell’immigrazione, la normativa italiana è passata attraverso restrizioni procedurali (come l’abolizione del grado di appello nella procedura di riconoscimento della protezione internazionale), restrizioni all’ingresso dei cittadini extracomunitari in Italia e modifiche a livello europeo circa la competenza degli Stati europei sulle domande di asilo (le varie Convenzioni Dublino).

E’ evidente come, dal punto di vista politico e legislativo, sia estremamente difficile, a livello nazionale e a livello europeo, gestire un fenomeno epocale come quello dell’emigrazione di migliaia di cittadini principalmente africani, mediorientali, pakistani, bengalesi.

La soluzione relativa alla gestione di questo fenomeno, però, non è compito del giudice dell’immigrazione.

Compito del giudice è quello di applicare le leggi, cercando nel miglior modo di garantire l’effettività della tutela dei diritti dei richiedenti asilo (come meglio viene spiegato nel paragrafo successivo) sia attraverso l’applicazione della legge, sia attraverso l’interpretazione della stessa alla luce dei principi costituzionali (di uguaglianza, di tutela dei vincoli familiari, di tutela della salute, ecc.) sia, nei casi di impossibilità di una tale interpretazione, attraverso la promozione di questioni di costituzionalità davanti alla Corte Costituzionale.

Non può il giudice dell’immigrazione disapplicare discrezionalmente le norme (sia pure con intenti umanitari), laddove le ritenga incostituzionali, senza applicare i canoni interpretativi tradizionali o sottoporre le stesse al vaglio della Corte Costituzionale.

Perché il giudice è soggetto solo alla legge (sia pure con l’obbligo di utilizzare i metodi interpretativi e i rimedi costituzionali previsti dall’ordinamento), senza che lo svolgimento del suo lavoro possa essere influenzato dal suo modo soggettivo e discrezionale di valutare le situazioni o dalle impostazioni politiche che dividono il Paese.

Come esempi di soluzioni interpretative delle leggi sull’immigrazione, alla luce dei principi costituzionali, facendo riferimento alle esperienze acquisite in 16 anni di attività di giudice dell’immigrazione (dal 2003 al 2019), indico:

-il superamento del mero automatismo nel valutare la condizione di espellibilità dell’immigrato irregolare;

-i limiti alla possibilità di trattenimento presso i Cie dei cittadini comunitari;

-il riconoscimento della protezione umanitaria per integrazione economica e sociale del cittadino extracomunitario nel nostro Paese (ai sensi dei principi individuati dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 4455/2018);

-la non retroattività della modifica del regime del permesso umanitario ad opera del decreto legge n. 113/2018.

2)La valutazione della credibilità del richiedente asilo

La citata esperienza nel settore dell’immigrazione mi ha portato a constatare l’esistenza di una percentuale molto alta di dinieghi della protezione internazionale basata sulla non credibilità dei richiedenti asilo.

E’ necessario stabilire un corpus di criteri che possa orientare il processo decisionale in relazione alla valutazione della credibilità del racconto dell’immigrato, anche per evitare troppe soluzioni differenti di casi simili.

Anche se è inevitabile un margine di discrezionalità nelle procedure di determinazione della protezione internazionale, la valutazione della credibilità della domanda di asilo, ancorata dalla legge a parametri comunque alquanto generici, deve essere il più possibile sottratta ad una eccessiva soggettività del decisore ed essere supportata dall’esame, obiettivo e scevro da fraintendimenti (dettati da pietismo o, al contrario, da sentimenti di intolleranza e razzismo), della testimonianza orale dell’immigrato e dalla acquisizione di tutta la documentazione possibile.

Insomma, nel diritto d’asilo, ai decisori vengono richiesti sforzi e soprattutto competenze differenti da quelle utilizzabili in casi che riguardano soggetti nazionali, dovendo essi sforzarsi di comprendere la narrazione esposta dall’immigrato, collaborare nell’acquisizione di informazioni dalle Coi (country of origin informations) circa la situazione dei paesi di origine, senza la possibilità di rivolgersi alle autorità si tali paesi (potendo le stesse essere coinvolte nelle persecuzioni asseritamente subite dal richiedente asilo).

Nell’espletare questi compiti si sostanziano i doveri deontologici del giudice dell’immigrazione, tenuto a valutare la credibilità della domanda di asilo in modo equo ed imparziale, attraverso un aggiornamento costante riguardo alle condizioni di provenienza del medesimo e tramite, altresì, un continuo confronto e dibattito scientifico e interdisciplinare con gli altri cultori del diritto dell’immigrazione.

Più specificamente, l’insieme dei fatti presenti e passati allegati dal richiedente vanno valutati in relazione alla loro coerenza interna (verificando se appaiono discrepanti rispetto ad altre prove fornite dal richiedente) ed esterna (se in linea con le informazioni sul Paese o con il parere di un esperto).

Inoltre, circa la coerenza interna, il decisore deve tenere in considerazione la totalità dei fatti presentati evitando di basare il giudizio su singoli eventi; mentre nel caso della coerenza esterna vanno attentamente valutate le informazioni aggiornate sul Paese ed eventuali altre prove documentali da acquisire autonomamente.

Particolarmente delicata è la valutazione dell’«attendibilità generale» o personale del richiedente (Direttiva 2004/83/EC, art. 4, par. 5, lett. e)). Il giudizio di credibilità però è uno strumento probatorio, non di valutazione della meritevolezza della persona, e deve vertere sulle singole circostanze di fatto allegate che possono esser ritenute dimostrate in tutto o in parte.

Difficile è anche l’applicazione del criterio della plausibilità.

Mentre altri criteri riguardano la precisione dei dettagli e la valutazione della coerenza del racconto, il criterio della plausibilità è quello più frequentemente basato su credenze soggettive, stereotipi o intuizioni personali dei decisori.

È condiviso nel diritto d’asilo il riconoscimento delle insidie giocate dalla memoria nella produzione del racconto di persecuzione.

Versioni differenti della storia rese da uno stesso richiedente possono dipendere da molti fattori (il lungo lasso di tempo intercorso tra diverse interviste, il sostegno psicologico ricevuto, la presenza di traumi, la sfiducia nell’interprete) che non implicano necessariamente la falsità del racconto.

Varie ricerche contribuiscono a mostrare quanti siano i fattori che ingenerano sospetto quando si valuta l’attendibilità personale a partire dalla sola testimonianza orale.

Durante l’intervista, davanti all’autorità, l’intervistato tende a sovrapporre l’intervistatore con l’istituzione che rappresenta, necessariamente interpretandone le intenzioni e plasmando le proprie risposte di conseguenza, con confusione tra vita vissuta, vita come percepita e vita raccontata.

Fattori di natura storica, relazionale, sociale e culturale possono alterare il racconto.

La differenza poi dei canoni culturali tra intervistatori e richiedenti asilo può facilmente condurre a valutare come inattendibile un racconto (per esempio per ravvisata assenza di emozioni durante l’intervista da parte dell’intervistato).

Senz’altro necessaria è l’audizione diretta del richiedente asilo da parte del giudice, non potendosi lo stesso basarsi solo sul verbale dell’audizione, dal momento che la linguistica antropologica ha mostrato che nessuna trascrizione, per quanto completa, può riportare ogni parola proferita nello scambio comunicativo. Soprattutto nei casi in cui un solo decisore deve contemporaneamente porre le domande, ascoltare e trascrivere le risposte, questi opererà una selezione spesso inconsapevole di quanto ascolta finendo per trascrivere ciò che ha meglio compreso, che sente più vicino alle proprie convinzioni, o che meglio conosce.

La difficoltà di comprendere sottili questioni culturali, di genere, di comportamento e linguistiche si assomma alle personali idee di «verità», o di cosa sia «normale» e dunque plausibile per i decisori.

Poiché il problema della lontananza dei mondi culturali tra richiedenti e decisori/avvocati è ciò che crea maggiori incomprensioni e rende non plausibile un racconto, va prestata particolare attenzione – attraverso la raccolta di informazioni specifiche o pareri esperti − proprio a quegli elementi che suonano maggiormente estranei, meno familiari.

È il caso, per esempio, della stregoneria, dove con maggiore evidenza si trovano decisioni negative fondate sulle opinioni soggettive del decisore, nonostante che la stregoneria faccia parte della vita quotidiana di milioni di persone in Africa, Nepal, India, Indonesia, Papua Nuova Guinea e America centrale, ed è ricordata in almeno 3 Linee guida dell’Unhcr.

In definitiva, come osserva l’Unhcr (alto commissariato onu per i rifugiati), la valutazione della credibilità del richiedente asilo non può basarsi sull’approccio soggettivo, gli assunti, le impressioni o l’intuizione del decisore.

Pertanto, il compito deontologico del giudice dell’immigrazione è quello di accettare un diverso approccio procedurale a questa materia rispetto alle altre materie giuridiche e di sforzarsi di applicare il principio europeo di effettività nella valutazione (seria e nello stesso tempo avulsa da eccessivo soggettivismo) della credibilità del richiedente asilo.

Bibliografia

H. Cabot, Rendere un rifugiato riconoscibile: performance, narrazione e intestualizzazione in una Ong Ateniese. Lares LXXVII (1), pp. 113-134, 2011.

R. Grillo, Anthropologists Engaged with the Law (and Lawyers), Antropologia Pubblica,2(2), pp. 3-24, 2016.

B. Sorgoni, Storie dati e prove. Il ruolo della credibilità nelle narrazioni di richiesta di asilo, ParoleChiave, 46, pp. 115-33, 2011; Storie vere. L’inevitabile ambiguità all’esame del giudice dell’asilo, 3/6/2019.

M. Veglio, Vite a rendere, in Fondazione Migrantes (a cura di) Il diritto d’asilo. Report 2017, Todi: Tau editrice, pp. 109-43, 2017a.

M. Veglio, Uomini tradotti. Prove di dialogo con i richiedenti asilo, Diritto, Immigrazione e cittadinanza, fasc. 2, 2017b.

Articolo di Michele Guernelli – App. Bologna

Sommario: 1. Precedenti misure per le crisi bancarie, responsabilità dell’emittente – 2. Responsabilità dell’intermediario – 3. La sentenza TERCAS – 4. Il decreto CARIGE – 5. Il FIR

1. Precedenti misure per le crisi bancarie, responsabilità dell’emittente

L’ulteriore vicenda di CARIGE e i cambiamenti del quadro politico hanno recentemente arricchito di nuove puntate la narrazione giuridica (e non) delle crisi bancarie italiane nel contesto europeo, su cui già sono esercitati continuativamente il legislatore, gli interpreti (1) e più sporadicamente qualche giudice.

A partire dalla nota vicenda delle “quattro banche”(2) in risoluzione poi in LCA, passando per MPS e per le “banche venete”, il mutato contesto europeo con il controverso bail in (direttiva 2014/59/UE cd. BRRD, d.leg. 180 e 181/2015) ha infatti costretto il legislatore nazionale e le autorità di settore ad una rincorsa e un adattamento immediati e disagevoli per cercare di tutelare il sistema bancario e i risparmiatori-investitori confrontandosi con concetti estranei alle categorie giuridiche tradizionali interne, e talvolta anche poco comprensibili in sé (3) .

Vi è poi stato un consistente numero di crisi bancarie che pure non sono state governate da interventi normativi specifici, ma da provvedimenti dell’Autorità di vigilanza, e ordinari rimedi di mercato (acquisizioni più o meno pilotate), pur con gli inevitabili strascichi giudiziari di azioni di responsabilità, sanzioni amministrative, contenzioso con i clienti. Per quanto qui di interesse, basterà ricordare che dopo l’intervento “successivo” per le “quattro banche” (d.l. 183/2015 confluito nella l. di stabilità 208/2015 art.1, c. da 842 a 854), già istitutivo di un “Fondo di solidarietà” per i piccoli investitori titolari di obbligazioni subordinate (poi art. 1 c. da 855 a 861 l. 208/2015), con il d.l. 18/2016 è stata introdotta la garanzia dello Stato sulla cartolarizzazioni (senior) delle sofferenze.

E’ stato da più parti rilevato infatti che il punto maggiormente critico della nuova disciplina di “azzeramento delle passività” concerne la legittimazione passiva delle prospettabili azioni dei clienti investitori: prospetticamente vuote di contenuto quelle nei confronti delle banche emittenti azioni e obbligazioni subordinate in LCA; foriere di oneri economici temuti insopportabili quelle nei confronti delle banche “salvate” o acquirenti; posizioni sulle quali anche la dottrina è divisa (4).

Nel “Fondo di solidarietà” sopra citato (finanziato e gestito dal FITD, e quindi dal sistema bancario) con determinati requisiti soggettivi e patrimoniali di accesso, vi erano due percorsi alternativi: una procedura arbitrale di cui alla medesima legge e al d.m. 9.5.2017 n. 83, ovvero l’erogazione diretta di un “indennizzo forfetario” fino all’80% del capitale ex artt. 8 e ss d.l. 59/2016 (conv. dalla l. 119/2016), per coloro che avessero acquistato i titoli entro il 12 giugno 2014. Le prestazioni erano limitate a chi aveva acquistato gli strumenti finanziari ex c. 855 della l. 208/2015 “nell’ambito di un rapporto negoziale diretto con la banca in liquidazione che li ha emessi”. Rimaneva comunque il diritto al risarcimento del danno nelle sedi ordinarie “nei confronti del soggetto ritenuto responsabile”, salva (art. 1 c. 860 della l. cit.) la surroga del Fondo per le somme erogate in caso di domanda di indennizzo forfettario, mentre l’azione rendeva improcedibile l’arbitrato (art. 4 d.m. cit.). Con la legge 205/2017 (legge di bilancio) art. 1 c. da 1106 a 1108 (modificati con d.l. 91/2018 , art. 11 conv. l. 108/2018) è stato poi istituito un “Fondo di ristoro finanziario” con una dotazione finanziaria per la prima volta a carico dell’Erario di 25 milioni di euro per ciascuno degli anni 2018, 2019, 2020 e 2021 per l’erogazione di misure di ristoro in favore di risparmiatori che hanno subìto un danno ingiusto, riconosciuto con sentenza del giudice, o con pronuncia arbitrale, in ragione della violazione degli obblighi di informazione, diligenza, correttezza e trasparenza previsti dal TUF, nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento relativi alla sottoscrizione e al collocamento di strumenti finanziari emessi da banche aventi sede legale in Italia sottoposte ad azione di risoluzione o comunque poste in LCA dopo il 16 novembre 2015 e prima della data di entrata in vigore della medesima legge (1.1.2018).

Il d.l. 237/2016 (5) ha concesso la garanzia dello Stato sulle passività delle banche e sui finanziamenti della Banca d’Italia per fronteggiare crisi di liquidità, a seguito di domanda delle banche interessate e la possibilità di sottoscrivere o acquistare azioni di banche italiane da parte del Ministero dell’Economia per esigenze di rafforzamento patrimoniale; come poi avvenuto per MPS, per il quale lo Stato è arrivato a detenere il 68,25% . Il salvataggio è avvenuto previo accordo con la Commissione UE che prevedeva che la ricapitalizzazione con denaro dei contribuenti fosse precauzionale, limitata e sufficientemente remunerata.

Nel d.l. 237/2016 conv. dalla l. 15/2017 per la crisi MPS si è previsto che lo Stato ha facoltà di acquistare le azioni di nuova emissione – previa presentazione di un “programma di rafforzamento patrimoniale” (necessario a seguito di stress tests) – frutto di conversione forzata o azzeramento delle passività subordinate cui viene condizionata la sottoscrizione, “con l’obiettivo di contenere il ricorso ai fondi pubblici”, sempre da parte dello Stato, delle azioni dell’emittente, anche in caso di transazione fra l’emittente e gli azionisti “convertiti”, purché la transazione preveda “la rinuncia dell’azionista a far valere ogni altra pretesa relativa alla commercializzazione degli strumenti finanziari convertiti”. Una pretesa risarcitoria è dunque possibile, ma solo nei confronti della banca “salvata” con il contributo statale, e si cerca di attutire l’impatto del possibile contenzioso con ulteriori incentivi pubblici.

Nel d.l. 99/2017 conv. in l. 121/2017 (6) , il problema della legittimazione passiva viene risolto escludendo chiaramente che l’acquirente possa essere ritenuto responsabile delle passività pregresse non comprese nel perimetro della cessione (art. 3 c. 1 e 2) e quindi agli azionisti e obbligazionisti subordinati. Sul versante pubblico viene esplicitamente estesa la tutela del suddetto Fondo di solidarietà ai creditori subordinati (art. 6), e vengono concesse garanzie statali per circa 12 mld di euro “sul finanziamento della massa liquidatoria dei due istituti da parte di Intesa Sanpaolo” 7 : in realtà anche con imponenti interventi diretti a favore del cessionario (art. 4).

2 – Responsabilità dell’intermediario

Sul versante della responsabilità dell’intermediario diverso dall’emittente azioni od obbligazioni subordinate di banche in crisi invece nihil sub sole novi, nel senso che la CONSOB ha da tempo emesso disposizioni specifiche per adeguare il comportamento degli intermediari alle nuove regole del bail in (comunicazione 0090430 del 24.11.2015), per circondare di cautele il collocamento di prodotti potenzialmente illiquidi, quali in prospettiva anche le obbligazioni bancarie (comunicazione 9019104 del 2.3.2009), classificato come prodotti complessi e quindi non raccomandabili alla clientela retail “i prodotti finanziari per i quali, al verificarsi di determinate condizioni o su iniziativa dell’emittente, sia prevista la conversione in azioni o la decurtazione del valore nominale”.

La vera novità consiste piuttosto nel recepimento della MiFID II (direttiva 2014/65 UE), e del Regolamento delegato UE 2017/565, con alcune nuove disposizioni del TUF (d.leg. 129/2017) e il nuovo regolamento Intermediari CONSOB 20307/2018 (questo con perplessità sul nuovo regime e il richiamo al reg. 2017/565 quanto a idoneità/adeguatezza/appropriatezza dei prodotti finanziari). Soprattutto però vanno menzionati i nuovi art. 23 e 25 bis TUF dopo il d. leg. 129/2017: il primo al suo c. 4 conferma che “Le disposizioni del titolo VI, del T.U. bancario (8) non si applicano: a) ai servizi e attività di investimento; b) al collocamento di prodotti finanziari; c) alle operazioni e ai servizi che siano componenti di prodotti finanziari assoggettati alla disciplina degli articoli 25-bis e 25-ter ..”.

Il secondo stabilisce ora al c. 1 che “ Gli articoli 21, 23 e 24-bis si applicano all’offerta e alla consulenza aventi ad oggetto depositi strutturati e prodotti finanziari, diversi dagli strumenti finanziari, emessi da banche”.

Va però ricordato che secondo il TUF sono (art. 1 c. 1 lett. u) “prodotti finanziari” gli strumenti finanziari e ogni altra forma di investimento di natura finanziaria (non costituiscono prodotti finanziari i depositi bancari o postali non rappresentati da strumenti finanziari). Sono (art. 1 c.2) “strumenti finanziari” qualsiasi strumento riportato nella Sezione C dell’Allegato I (valori mobiliari, strumenti del mercato monetario, quote di un organismo di investimento collettivo, derivati; gli strumenti di pagamento non sono strumenti finanziari). Sono (art. 1 c. 1 bis) “valori mobiliari”: azioni, obbligazioni, derivati.

La conseguenza è che ora azioni, obbligazioni e derivati emessi da banche non sono più sottoposti alla tutela “basilare” del TUF di cui agli artt. 21 e 23 TUF (lo erano secondo il previgente art. 25 bis TUF (9)), ma non sono neppure sottoposti, nella fase del collocamento o se compravenduti nell’ambito di servizi e attività di investimento di cui all’art. 1 c. 5 TUF (10), alla tutela del TUB.

Questo vuoto di tutela non sembra affatto conseguenza della normativa UE, e poco credibile appare anche imputarlo ad una svista.

3. La sentenza TERCAS

Merita un riferimento la sentenza del Tribunale di primo grado dell’Unione Europea (19 marzo 2019, cause riunite T-98/16, T-196/16, T-198/16 Repubblica italiana c/ Commissione) che ha accolto il ricorso dell’Italia contro la decisione della Commissione UE 23.12.2015 che aveva ritenuto “aiuto di Stato” vietato ex art. 107 c. 1 TFUE l’intervento del FITD autorizzato dalla Banca d’Italia e richiesto dalla Popolare di Bari per acquisire la TERCAS, allora in A.S. dal 2012, consistente in un contributo di 265 milioni a copertura del deficit patrimoniale della Tercas; la prestazione di garanzie per 35 e 30 milioni, a copertura del rischio di credito e dei costi derivanti dal trattamento fiscale del contributo (11).

La ricapitalizzazione tramite il FITD venne quindi sostituita da un meccanismo di intervento volontario per consentire alle banche aderenti di trasferire nuovamente capitale a TERCAS. Il Tribunale UE ha ritenuto non dimostrato che le misure fossero imputabili allo Stato e presupponessero l’uso di risorse statali, poiché il FITD è un ente privato di natura consortile che aveva agito in modo autonomo, e non era sufficientemente provato che i fondi concessi fossero controllati dalle autorità pubbliche italiane.

Queste avevano affermato che il FITD ex art. 96 bis TUB e art. 29 del suo statuto poteva intervenire a favore delle banche consorziate, ove sia prevedibile un minore onere rispetto all’intervento in caso di LCA, e quindi discrezionalmente, al di fuori dell’obbligo (mandato pubblico) di rimborsare i depositanti col limite di 100.000 euro in caso di LCA.

La pronuncia è stata retrospettivamente ritenuta significativa perché l’intervento (mancato) del FITD comportò la necessità di porre in (improvvisa) risoluzione le “quattro banche”, con i costi sociali conseguenti, e apre la possibilità – anche se la Commissione l’ha impugnata avanti la CGUE – di scenari più “morbidi” rispetto a crisi bancarie future (12).

4. Il decreto CARIGE

Prima della sentenza TERCAS era tuttavia venuta alla ribalta la crisi di CARIGE, in A.S. su disposizione della BCE dal gennaio 2019.

La soluzione legislativa adottata in sostanza ricalca, nonostante le vivaci discussioni politiche e giornalistiche, quella già presa per MPS (non menzionato nel d.l. 237/2016 apparentemente “generale”; CARIGE è invece citata), con il medesimo determinante sostegno pubblico, come sempre con l’avallo presupposto dell’UE.

Infatti il d.l. 1/2019 (conv. con l. 16/2019) prevede ugualmente la garanzia dello Stato su passività di nuova emissione (all’art. 1 con lo stesso preambolo dell’art. 1 d.l. 237/2016), con i medesimi limiti e caratteristiche (artt. 2 e 3 dei rispettivi d.l.), ora con la sola condizione (già prima presente) dello svolgimento della “attività in modo da non abusare del sostegno ricevuto né conseguire indebiti vantaggi per il tramite dello stesso, in particolare nelle comunicazioni commerciali rivolte al pubblico..

E’ ugualmente di nuovo prevista (art. 9) la “erogazione di liquidità di emergenza” (garanzia statale per integrare il collaterale, o il suo valore di realizzo, stanziato da banche italiane a garanzia di finanziamenti erogati dalla Banca d’Italia per fronteggiare gravi crisi di liquidità), previa presentazione di un piano di ristrutturazione.

Inoltre è ancora prevista (art. 12 “Intervento dello Stato”, cfr. art. 13 d.l. MPS) la sottoscrizione da parte del Ministro dell’Economia di azioni di nuova emissione, previa presentazione di un “programma di rafforzamento patrimoniale”, nel rispetto delle norme UE e positiva decisione della Commissione. Non sono ripetute però le disposizioni in materia di transazione degli azionisti “convertiti”.

L’art. 20 ripete in sostanza la “condivisione degli oneri” (in sostanza, il burden sharing attraverso il bail in) preliminare rispetto alla sottoscrizione delle azioni da parte dello Stato, con modalità analoghe a quelle dell’art. 22 del decreto MPS.

Ad oggi (13) comunque risulta l’esistenza di un accordo quadro vincolante per una “soluzione privata” con il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (FITD), lo Schema Volontario di Intervento del FITD (SVI), la Cassa Centrale Banca – Credito Cooperativo Italiano (CCB), la Società per la Gestione delle Attività (SGA) e altre istituzioni finanziarie con un aumento di capitale da 700 milioni di euro, emissione di warrant e un nuovo prestito subordinato Tier 2 per 200 milioni.

5. Il FIR

Più pregnanti novità sul fronte dei clienti investitori cd. “truffati”.

Dopo il Fondo di solidarietà (per gli “investitori”, e finanziato dal FITD) di cui si è prima accennato e il Fondo di ristoro finanziario è stato introdotto il FIR (Fondo indennizzo risparmiatori) dalla legge di bilancio 2019 (art. 1 c. 493-507 l. 145/2018, modificati dall’art. 36 d.l. 34/2019 conv. con l. 58/2019) con una dotazione finanziaria di ben 525 milioni per ciascun anno dal 2019 al 2021.

“Per la tutela del risparmio e per il rispetto del dovere di disciplinare, coordinare e controllare l’esercizio del credito”, il nuovo Fondo eroga indennizzi a favore dei risparmiatori “che hanno subìto un pregiudizio ingiusto da parte di banche… poste in liquidazione coatta amministrativa dopo il 16 novembre 2015 e prima del 1° gennaio 2018 (14), in ragione delle violazioni massive degli obblighi di informazione, diligenza, correttezza, buona fede oggettiva e trasparenza” ai sensi del TUF.

Il FIR sostituisce il Fondo di ristoro finanziario (a carico dello Stato ma con dotazioni di molto inferiori), ma non il Fondo di solidarietà gestito dal FITD, che quindi si deve ritenere affianchi. Il “ristoro” è infatti al netto di ogni altro rimborso o transazione (comma 499).

Non sono scomparsi nel FIR i riferimenti all’acquisto di azioni e obbligazioni subordinate, ma spostati ai commi 494, 496, 497; è introdotto il concetto di “violazioni massive” del TUF quale condizione per l’erogazione.

I presupposti soggettivi appaiono duplici: nel comma 494 sono individuate persone fisiche, imprenditori individuali, associazioni e microimprese; nel comma 502 bis si prevede l’erogazione dell’indennizzo forfettario determinato secondo i commi 496 e 497 (30% per gli azionisti, 95% per gli obbligazionisti subordinati col limite di 100.000 euro) senza il procedimento di cui al comma 501 (accertamento delle “violazioni massive”, nesso di causalità col danno, ecc. (15)) per le persone fisiche con reddito inferiore a 35.000 euro, ovvero patrimonio mobiliare inferiore a 100.000 euro.

Nel comma 501 si stabilisce – con previsione di più che dubbia legittimità – che “La prestazione di collaborazione nella presentazione della domanda e le attività conseguenti non rientrano nell’ambito delle prestazioni forensi e non danno luogo a compenso.“ (16)

Quanto ai presupposti oggettivi, è importante il decreto attuativo (d.m. 10.5.2019), che definisce (art. 2 c. 1 lett. g) le “violazioni massive” le “violazioni individuali o di portata generale, di natura contrattuale o extracontrattuale, poste in essere anche con carattere di ripetitività e sistematicità, degli obblighi di informazione, diligenza, correttezza, buona fede oggettiva e trasparenza”, ai sensi del TUF.

Le specifica ulteriormente (art. 7 c. 1 lett. c) e d) demandandone la verifica alla Commissione tecnica , precisando che devono aver “causato un pregiudizio ingiusto agli aventi diritto da parte di banche in liquidazione ai risparmiatori e, per conseguenza, agli altri eventuali aventi diritto”, con “acquisizione d’ufficio di apposita documentazione bancaria o amministrativa o giudiziale, tra cui sentenze di giudizi penali o civili, pronunce emesse da arbitrati promossi dalle parti…, provvedimenti sanzionatori o atti ispettivi della Banca d’Italia o della Consob, documenti ricognitivi dei commissari delle liquidazioni coatte amministrative, documenti acquisiti dalla «Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema bancario e finanziario» prodotti dai soggetti intervenuti, documentazione bancaria sulla profilatura e informativa della clientela e sui contratti di acquisto”. La Commissione poi “stabilisce criteri generali e linee guida per la tipizzazione delle violazioni massive, individuali o di portata generale, di natura contrattuale o extracontrattuale… in presenza dei quali, anche tenendo conto delle diverse tipologie di violazione in concreto prese in esame, sussistono il danno subito da ciascun istante e il nesso causale tra le suddette violazioni e tale danno. “

Alcune fattispecie di violazioni massive sono già tipizzate, e vi sono fatte rientrare diverse condotte violative o fraudolente già emerse nella casistica anche giudiziaria o nell’attività ispettiva delle Autorità di vigilanza (17).

Quanto all’esonero dal “procedimento” ex c. 501 e 502 bis citati, il decreto lo limita alla possibilità di non presentare copia di eventuale documentazione bancaria o amministrativa o giudiziale utile ai fini dell’accertamento delle violazioni massive del T.U.F. che hanno causato il danno ingiusto ai risparmiatori; introducendo per converso l’obbligo di autocertificazione dei limiti di reddito e patrimonio.

Da un primo esame della normativa suddetta – che pure ha un evidente positivo effetto deflattivo dell’imponente potenziale contenzioso – emergono plurime perplessità: le più evidenti si collegano alla evidente disparità di trattamento tra una ben determinata e limitata categoria di clienti investitori “truffati” e moltitudini di altri investitori che furono in tesi oggetto nei decenni precedenti di violazioni altrettanto “massive”; alla decisione di addossare alla fiscalità generale, in tutto o in parte, gli esiti di condotte sbrigativamente etichettate, quando è nota la casistica giudiziaria nella quale in molti casi il cliente non è affatto “truffato”, ma assume consapevolmente rischi a fronte di più alti rendimenti, per poi addossare agli emittenti/intermediari l’esito infausto dell’investimento e cercare di rifarsi in qualche modo delle perdite.

Questi aspetti sono tanto più critici ove si consideri da un lato che il dichiarato presupposto dell’indennizzo sarebbe “la tutela del risparmio” e “il rispetto del dovere di disciplinare, coordinare e controllare l’esercizio del credito”, che si assumono evidentemente omessi o trascurati dalle pubbliche Autorità nei casi in questione, senza che però vi siano state percepibili conseguenze nei confronti di eventuali presunti responsabili pubblici; e dall’altro che l’indennizzo appare tanto meno giustificato in quanto erogato sulla base di una sorta di class action amministrativa (e i relativi piani di riparto), con tipizzazioni dei presupposti oggettivi operate per decreto ministeriale o per scelta di una singola Commissione, sulla base di casi anche solo analoghi.

A ciò va aggiunto il vuoto di tutela conseguente alla modifica dell’art. 25 bis del TUF come sopra delineata; infatti per l’investitore “ordinario” è esclusa già dal d.leg. 129/2017 (ma quindi anche per i “risparmiatori” di cui al FIR “truffati” dopo il nuovo art. 25 TUF) per le azioni e obbligazioni bancarie sia la normativa sulla trasparenza del TUB sia quella degli artt. 21 e 23 TUF e gli è precluso l’indennizzo: tanto comporta inoltre che l’acquirente dalle note banche in LCA avrà avanti a sé solo l’indennizzo a spese del contribuente e nessuna alternativa ove sottoposto al d.leg. 129/2017, mentre entrambe le strade (o dell’indennizzo FITD) le avrà l’acquirente in epoca precedente.

(1) Sia consentito rinviare a M. Guernelli, Crisi bancarie: responsabilità dell’emittente e dell’intermediario, in Banca Impresa Società, 3/2017 e ai relativi riferimenti bibliografici .

(2) CARIFE, Banca Marche, Carichieti, Popolare Etruria.

(3) A. CASTIELLO D’ANTONIO, L’amministrazione straordinaria delle banche nel nuovo quadro normativo. Profili sistematici, in Banche in crisi: chi salverà i depositanti?, a cura di R. LENER, U. MORERA, F. VELLA in Analisi Giuridica dell’Economia, 2/2016, p.551 e ss.

(4) Per le contrapposte posizioni, v. R. LENER, Bail-in bancario e depositi bancari fra procedure concorsuali e regole di collocamento degli strumenti finanziari, BBTC, 3, 2016, 287 e ss. e P. FIORIO, La responsabilità delle good banks per la vendita delle azioni e delle obbligazioni risolte e le procedure di indennizzo a carico del fondo di solidarietà, Riv. Dir. Banc., 2, 2016

(5) “Al fine di evitare o porre rimedio a una grave perturbazione dell’economia e preservare la stabilità finanziaria, ai sensi dell’articolo 18 del decreto legislativo 16 novembre 2015, n. 180 e dell’articolo 18, paragrafo 4, lettera d), del regolamento (UE) n. 806/2014”

(6) Salvataggio di Popolare di Vicenza e Veneto Banca in LCA mediante acquisizione da parte di Intesa Sanpaolo.

(7) Precedenti misure per fronteggiare le crisi bancarie, Studi Camera -Finanze -Focus 14 gennaio 2019, in www.camera.it .

(8) Trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti con i clienti (9) Che disponeva: “Gli articoli 21 e 23 si applicano alla sottoscrizione e al collocamento di prodotti finanziari emessi da banche e da imprese di assicurazione”.

(10) “Per “servizi e attività di investimento” si intendono i seguenti, quando hanno per oggetto strumenti finanziari:a) negoziazione per conto proprio; b) esecuzione di ordini per conto dei clienti; c) assunzione a fermo e/o collocamento sulla base di un impegno irrevocabile nei confronti dell’emittente; c-bis) collocamento senza impegno irrevocabile nei confronti dell’emittente; d) gestione di portafogli; e) ricezione e trasmissione di ordini; f) consulenza in materia di investimenti; g) gestione di sistemi multilaterali di negoziazione; g-bis) gestione di sistemi organizzati di negoziazione”; c. 5-bis. “Per “negoziazione per conto proprio” si intende l’attività di acquisto e vendita di strumenti finanziari, in contropartita diretta.”

(11) La sentenza del tribunale di primo grado UE sull’operazione di acquisto di TERCAS, Studi Camera – Affari Comunitari -focus 20.3.2019, in www.camera.it.

(12) A. Pezzuto, La sentenza del tribunale dell’UE sulla vicenda TERCAS, in www.tidona.com; ; A. Baglioni, Crisi bancarie: questa sentenza è una lezione per l’Europa, in www.lavoce.info.

(13) Comunicato stampa CARIGE 9.8.2019 in www.gruppocarige.it.

(14) Quindi Banca Etruria, Banca delle Marche, Cassa di risparmio della Provincia di Chieti, Cassa di risparmio di Ferrara, Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca e le loro controllate.

(15) Tramite una Commissione tecnica di nove membri, con compenso annuo globale di ben 1,2 milioni di euro.

(16) Con l’immediata conseguenza non solo di limitare le spese dei “truffati”, ma di escludere dal “mercato” i professionisti a favore delle associazioni sindacali, consumeristiche e non, talune a loro volta anche indirettamente sovvenzionate dallo Stato, e che comunque possono lucrare per il loro intervento quote associative.

(17) “(i) la vendita o il collocamento di azioni o altri strumenti finanziari… senza l’osservanza dei presidi informativi o valutativi idonei ad assicurare la consapevolezza e l’adeguatezza dell’acquirente rispetto al profilo di rischio dei suddetti strumenti finanziari”; (ii) la realizzazione delle suddette strategie di vendita o collocamento di cui al precedente punto (i) in connessione con uno o più dei seguenti elementi: l’erogazione di finanziamenti o altre forme di credito, anche a soggetti diversi dall’acquirente o il sottoscrittore ma collegati con esso, da parte della medesima banca ovvero società del gruppo (le cc.dd. operazioni baciate), includendo anche i casi in cui il controvalore versato per le azioni e gli altri strumenti finanziari sia significativamente inferiore all’entità dei finanziamenti o delle altre forme di credito; la carente informazione o profilatura della clientela, ad esempio tramite l’assegnazione ai clienti di un grado di rischio e di un orizzonte temporale di investimento incongruo rispetto all’età ovvero alla composizione del loro patrimonio immobiliare o mobiliare, in particolare qualora quest’ultimo risulti concentrato in misura pari o superiore al 50% in strumenti di capitale o altri strumenti finanziari della banca o del gruppo bancario, ovvero in misura pari o superiore al 30% nel caso di prestazione del servizio di gestione di portafogli da parte della banca emittente o di società del gruppo; la variazione in aumento del profilo di rischio del cliente assegnato dalla banca contestualmente o in prossimità all’operazione di vendita o collocamento; operazioni di disinvestimento di strumenti finanziari non emessi dalla banca, presenti sul conto titoli presso la banca emittente o società del gruppo, in tempi di poco anteriori all’acquisto di strumenti di capitale o debito subordinato emessi dalla banca; (iii) la produzione e pubblicazione o divulgazione da parte di una banca o di un gruppo bancario di dati fuorvianti per l’investitore in relazione alla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della banca o del gruppo bancario, sia nel corso dell’ordinaria amministrazione sia in connessione con operazioni di aumento di capitale. “

[CLASSIFICAZIONE]

CONVENZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO E DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI – SANZIONI AMMINISTRATIVE PREVISTE DAL  T.U.F. A CARATTERE SOSTANZIALMENTE PENALE SECONDO I CRITERI ENGELS – ARTT. 187 BIS E 187 TER T.U.F. – IRRETROATTIVITÀ DELLA LEX MITIOR – ILLEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE.

CONVENZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO E DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI – SANZIONI AMMINISTRATIVE PREVISTE DAL  T.U.F. NON AVENTI  CARATTERE SOSTANZIALMENTE PENALE SECONDO I CRITERI ENGELS – ART. 191 T.U.F. – IRRETROATTIVITÀ DELLA LEX MITIOR – QUESTIONE DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE – IRRILEVANZA.

CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA – RAPPORTO CON LA COSTITUZIONE ITALIANA – CONTROLLO ACCENTRATO DI COSTITUZIONALITA’ – POTERE DEL GIUDICE COMUNE DI PROCEDERE AL RINVIO PREGIUDIZIALE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA E DI NON APPLICARE LE DISPOSIZIONI NAZIONALI IN CONTRASTO CON I DIRITTI SANCITI DALLA CARTA, ANCHE DOPO IL GIUDIZIO INCIDENTALE DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE  – SUSSISTENZA.

[RIFERIMENTI NORMATIVI]

Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU): art. 7

Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: art. 49

Patto internazionale di New York  sui diritti civili e politici: art. 15

Costituzione: artt. 3, 11, 117

L. n. 689/1981: art. 1

D.lgs. n. 58/1998 (T.U.F.): artt. 187 bis, 187 ter, 190 bis, 191

D.lgs. n. 72/2015: artt. 5 e 6

[SENTENZE SEGNALATE]

C. cost. sent. n. 63 del 21 marzo 2019

Cass., Sez. II civ., sent. n. 8047 del 21 marzo 2019

Abstract

Con le due sentenze in rassegna, entrambe pubblicate il 21 marzo 2019, la Corte costituzionale e la Corte di cassazione  affrontano il tema dell’applicabilità alle sanzioni amministrative del principio della retroattività della lex mitior desumibile dagli articoli 3 Cost., 7 CEDU, 15, comma 1, del Patto internazionale di New York  sui diritti civili e politici e 49, paragrafo 1,  CDFUE. Entrambe le sentenze valorizzano l’elaborazione della Corte EDU sulla qualificazione  delle sanzioni amministrative come sostanzialmente penali quando ricorrano i presupposti indicati dalla sentenza della Corte EDU 8 giugno 1976, Engel. Sulla scorta di questo comune presupposto, la questione di legittimità costituzionale del secondo comma dell’articolo 6 del decreto legislativo 12 maggio 2015 n. 72 – che esclude la retroattività in mitius della disciplina sanzionatoria introdotta da tale decreto per le violazioni finanziarie contemplate dal Testo unico sulla  intermediazione finanziaria (T.U.F.) – è stata accolta dalla Corte costituzionale con riferimento al trattamento sanzionatorio (ritenuto sostanzialmente penale) dell’abuso di informazione privilegiata (art. 187 bis T.U.F.) ed è stata giudicata priva di rilevanza dalla Corte di cassazione con riferimento al trattamento sanzionatorio (non ritenuto sostanzialmente penale)  della violazione delle disposizioni generali o particolari emanate dalla Consob (art. 191, secondo comma, TUF).

La sentenza della Corte costituzionale si segnala anche per alcune  rilevanti evoluzioni rispetto al quadro disegnato dalla sentenza C. cost. n. 269/17 in tema di rapporti tra giudice comune,  Corte costituzionale e Corte di Giustizia  rispetto all’applicazione delle disposizioni della CDFUE.

Nella sentenza della Corte di cassazione, per altro verso, va segnalato il superamento dell’orientamento che limitava la portata  dei principi convenzionali enunciati dalla Corte EDU nella sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens, alla sola prospettiva del giusto processo di cui all’articolo  6 della CEDU.

1. Per una adeguata comprensione delle questioni in esame, è opportuno premettere che il decreto legislativo 12 maggio 2015 n. 72 ha largamente innovato la disciplina  degli illeciti amministrativi previsti dal decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di seguito T.U.F.), modificando anche il relativo trattamento sanzionatorio. L’articolo 6, secondo comma, di tale decreto legislativo prevede, peraltro, che «Alle violazioni commesse prima della data di entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia continuano ad applicarsi le norme della parte V del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 vigenti prima della data di entrata in vigore del presente decreto legislativo».

2.1 Nel caso portato all’esame della Corte costituzionale, concernente l’opposizione ad una sanzione amministrativa pecuniaria di € 100.000 (pari al minimo edittale) irrogata dalla CONSOB per un abuso di informazioni privilegiate, la corte di appello di Milano aveva dubitato della legittimità costituzionale dell’articolo 6, secondo comma, d.lgs. n. 72/2015,  in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU), nella parte in cui esso esclude la retroattività in mitius del più favorevole trattamento sanzionatorio prevista dal terzo comma del medesimo articolo per l’ illecito amministrativo di cui all’art. 187-bis  T.U.F., ossia, appunto,  l’illecito di abuso di informazioni privilegiate.

2.2 La Corte costituzionale ha  ritenuto l’ articolo  6, secondo comma,  d.lgs. n. 72/2015 costituzionalmente illegittimo, per contrasto sia con l’articolo  3 che con l’articolo 117 della Costituzione, laddove esclude la retroattività in mitius del più favorevole trattamento sanzionatorio prevista dal terzo comma del medesimo articolo  per l’ illecito amministrativo di cui all’art. 187-bis  T.U.F. (abuso di informazioni privilegiate); la stessa Corte, inoltre, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87/1953, ha esteso la  declaratoria di illegittimità costituzionale dell’ articolo  6, secondo comma,  d.lgs. n. 72/2015 anche alla mancata previsione della retroattività delle modifiche apportate dal terzo comma dello stesso articolo 6 alle corrispondenti sanzioni amministrative previste per l’illecito di cui all’art. 187-ter (manipolazione del mercato).

A tale esito decisionale la Corte costituzionale è pervenuta sulla base del  seguente sviluppo argomentativo:

2.2.1 ha riaffermato la propria giurisprudenza che assegna rango costituzionale al principio  della retroattività della lex mitior della legge penale tanto sulla base del parametro interno dell’articolo 3 Cost. quanto sulla base dei parametri interposti (rilevanti per il tramite degli articoli 11 e  117, primo comma,  Cost.) dell’articolo 7 CEDU, dell’articolo 15, comma 1, del Patto internazionale di New York  sui diritti civili e politici e dell’articolo 49, paragrafo 1, CDFUE (sentenze nn. 393/2006, 394/2006 e 236/2011); con la precisazione che, mentre l’irretroattività in peius della legge penale, presidiata dal parametro interno dell’articolo 25 Cost.,  costituisce un valore assoluto e inderogabile, la regola della retroattività in mitius è suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli (C. cost. n. 236 del 2011);

2.2.2  ha stabilito che  – se non sussiste alcun vincolo di matrice convenzionale che imponga di trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative la regola dell’ applicazione della legge successiva più favorevole (C. cost. 193/2016) – tale regola deve tuttavia ritenersi operante in relazione a quelle  specifiche  sanzioni amministrative alle quali debba riconoscersi, pur in assenza di precedenti specifici nella giurisprudenza della Corte EDU, natura e finalità punitiva;

2.2.3 ha ascritto natura punitiva (sostanzialmente penale) alla sanzione amministrativa pecuniaria prevista per l’abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 187-bis T.U.F., richiamando i propri precedenti con cui aveva riconosciuto  natura punitiva alla confisca per equivalente prevista per il medesimo illecito amministrativo (sentenze n. 223 del 2018 e n. 68 del 2017);

2.2.4 ha escluso che la deroga alla retroattività in mitius stabilita dall’art. 6, comma 2, d.lgs. n. 72 del 2015 superi  il «vaglio positivo di ragionevolezza», giudicando tale deroga irragionevolmente lesiva del diritto degli autori dell’illecito di abuso di informazioni privilegiate a vedersi applicare una sanzione proporzionata al disvalore del fatto, secondo il mutato apprezzamento del legislatore.

3.1. La sentenza della Corte costituzionale n. 63/19 si segnala altresì perché, in sede di scrutinio di ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, enuncia alcune rilevanti precisazioni dei principi affermati nella nota sentenza C. cost. n. 269/17 in tema di poteri di applicazione delle norme della CDFUE da parte del giudice comune.

3.2. In particolare  la sentenza n. 63/19, dopo aver affermato il potere della Corte costituzionale  di sindacare le questioni  di c.d. “doppia pregiudizialità” sia con riferimento ai parametri interni sia in relazione alle norme della CDFUE che tutelano i medesimi diritti (evocate dal giudice rimettente come norme interposte nella questione riferita all’art. 117 Cost.), aggiunge come rimanga fermo, in ogni caso, «il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta».

3.3 Tali affermazioni sembrano segnare un supermento dei principi enucleabili dalla sentenza n. 269 del 2017, giacché:

3.3.1 per un verso, affermano (in continuità con C. cost. n. 20 del 2019) che il giudice comune può sollevare il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia anche per gli stessi profili su cui si sia già pronunciata la Corte Costituzionale (e non solo per “altri profili”, come pareva suggerire la sentenza n. 269/17);

3.3.2 per altro verso, riconoscono espressamente che il giudice comune, pur dopo che la Corte costituzionale si sia pronunciata (evidentemente giudicando la questione di costituzionalità  infondata, giacché, diversamente, la disposizione interna contrastante con la CDFUE sarebbe stata espunta dall’ordinamento) conserva il potere non soltanto di  sollevare il rinvio pregiudiziale ma anche (all’esito, sembra doversi ritenere, di tale rinvio) di disapplicare la disposizione interna dichiarata costituzionalmente legittima dalla Corte costituzionale, ove giudicata dalla Corte di Giustizia in contrasto con la CDFUE, senza necessità di un secondo incidente di costituzionalità;

3.3.3. per altro verso ancora, dando espressamente atto del potere del giudice comune di procedere al rinvio alla Corte di Giustizia «anche dopo» l’ incidente di costituzionalità, sembrano  ammettere che il rinvio possa essere sollevato “anche prima” (e, quindi, indipendentemente)  da tale incidente; se questa lettura della portata dell’inciso «anche dopo» fosse corretta, risulterebbe del tutto sovvertito il principio  espresso nella sentenza n. 269/17 alla cui stregua, nei casi di doppia pregiudizialità,  il giudice comune deve investire per prima la Corte costituzionale, onde garantire l’esercizio del controllo accentrato di  costituzionalità di cui all’articolo 134 Cost.

4.1 Il caso portato all’esame della Corte di cassazione riguardava il funzionario di un istituto di credito nei cui confronti la CONSOB aveva irrogato  la sanzione amministrativa pecuniaria di € 5.000, ai sensi dell’ articolo 191, secondo comma, T.U.F., per avere il medesimo diffuso tra la clientela informazioni inerenti ad un prodotto finanziario non coerenti con le informazioni contenute nel prospetto informativo relativo al prodotto stesso, in violazione delle disposizioni generali dettate dalla CONSOB con il Regolamento Emittenti (e, in particolare, del disposto dell’articolo 34 decies, primo comma, lett. a), di detto Regolamento). Il funzionario, ricorrente per cassazione avverso la sentenza che aveva rigettato la sua opposizione alla delibera della CONSOB,  deduceva l’illegittimità della sanzione irrogatagli e invocava l’applicazione retroattiva dell’ articolo 191, comma 2 -bis, del decreto legislativo n. 58/1998 (T.U.F.), introdotto dal decreto legislativo n. 72/2015, alla cui stregua, quando il soggetto su cui grava l’osservanza delle disposizioni violate sia una società o un ente, la sanzione cade sulla società o sull’ ente e non – salve ipotesi specifiche, nella specie non ricorrenti – sugli esponenti aziendali e sul personale. Il ricorrente sollevava quindi il dubbio di legittimità costituzionale dell’articolo 6, secondo comma,  d. lgs. n. 72/2015, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU), laddove detta disposizione esclude la retroattività del (per lui) più favorevole trattamento sanzionatorio dettato dall’ articolo 191, comma 2 -bis, del decreto legislativo n. 58/1998 alle violazioni commesse prima della data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 72/2015.

4.2 La Cassazione ha in primo luogo sottolineato che il disposto  del secondo comma dell’articolo 6 d. lgs. 72/2015 non consente di applicare retroattivamente la legge più favorevole successiva alla commissione degli illeciti e, d’altra parte, che tale disposto risulta coerente il tradizionale insegnamento giurisprudenziale alla cui stregua il principio del favor rei, di matrice  penalistica, non si estende, in assenza di una specifica disposizione normativa, alla materia delle sanzioni amministrative, la quale invece soggiace al distinto principio, emergente  dall’articolo 1 della legge n. 689/81,  del tempus regit actum (cfr.  Cass. n. 29411/11, Cass. n. 4114/16, Cass. n. 13433/16, Cass. n. 20689/18).

4.3.1 Esclusa la possibilità di pervenire ad un’applicazione retroattiva della disciplina più favorevole per via interpretativa, la Cassazione ha affrontato  la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente con riferimento alla irretroattività della legge più favorevole disposta dall’articolo 6, secondo comma,  d. lgs. n. 72/2015 ed ha giudicato la stessa priva di rilevanza  in base al rilievo che alla sanzione contemplata dall’ articolo 191, secondo comma, T.U.F.   non può riconoscersi natura sostanzialmente penale secondo i criteri Engel.

4.3.2 Per giungere a tale conclusione la sentenza in esame innanzi tutto  richiama i numerosi precedenti della seconda sezione civile  (sentt. nn. 1621/18, 8805/18, 8806/18, 27365/18) che affermano che le sanzioni previste dall’articolo 191 T.U.F. non sono equiparabili a quelle previste per la manipolazione del mercato ex art. 187-ter T.U.F. (la cui natura sostanzialmente penale è stata affermata dalla Corte EDU nella sentenza Grande Stevens), in ragione dalla «diversa tipologia, severità, nonché incidenza patrimoniale e personale, di queste ultime rispetto alle prime, dovendosi a tal fine tenere conto anche dell’assenza di sanzioni accessorie e della mancata previsione di una confisca  obbligatoria (elementi presenti nella fattispecie scrutinata dalla Corte EDU)».

4.3.3 Per quanto poi concerne specificamente la sanzione di cui al secondo comma del ripetuto articolo 191 T.U.F. (compresa, nel testo applicabile ratione temporis,  tra il minimo edittale di € 5.000 ed il massimo edittale di € 500.000 e non corredata da sanzioni accessorie né da confisca) il Collegio ha argomentato  che – se è vero che i criteri Engel sono alternativi e non cumulativi (Grande Stevens, § 94) e che, ai fini dell’applicazione del criterio della  gravità della sanzione, deve aversi riguardo alla misura della sanzione di cui è a priori passibile la persona interessata e non alla gravità della sanzione alla fine inflitta (Grande Stevens, § 98) – deve tuttavia considerarsi che la valutazione sull’afflittività economica di una sanzione non può essere svolta in termini astratti, ma va necessariamente rapportata al contesto normativo nel quale la disposizione sanzionatoria si inserisce; contesto che, nella materia finanziaria, contempla sanzioni penali finanche detentive, nonché sanzioni amministrative pecuniarie che, come quelle per gli abusi di mercato,  possono ascendere a molti milioni di euro. Donde, conclusivamente, la ritenuta natura non sostanzialmente penale della sanzione di cui all’articolo 191, secondo comma, T.U.F., con conseguente inapplicabilità del principio della retroattività in mitius della legge penale.

5.1 La sentenza n. 8047/19, si segnala, peraltro, perché si pone in esplicito dissenso con le sentenze della prima sezione civile nn. 4114/16 e 13433/16 (poi seguite anche da diverse pronunce della seconda sezione civile), laddove le stesse escludono la retroattività in mitius della disciplina recata dal decreto legislativo d.lgs. n. 72 del 2015 – in relazione alle violazioni di cui all’ articolo 191 T.U.F. e, rispettivamente, alle violazioni di cui all’ articolo 190 TUF, affermando che tale esclusione non violerebbe i principi convenzionali enunciati dalla Corte EDU nella sentenza Grande Stevens, non potendo tali principi – calibrati nella specifica ottica del giusto processo – «portare a ritenere sempre sostanzialmente penale una disposizione qualificata come amministrativa dall’ordinamento interno».

5.2 La sentenza Cass. n. 8047/19 giudica la suddetta argomentazione inidonea  ad escludere la possibilità di frizione tra l’ordinamento convenzionale e l’esclusione della retroattività della lex mitior in materia di sanzioni amministrative; ciò in quanto, alla stregua dei principi enunciati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 43/17,  la qualificazione di una sanzione amministrativa come sanzione sostanzialmente penale, secondo i criteri Engel, trascina con sé tutte le garanzie previste dalle pertinenti disposizioni della Convenzione e, pertanto, non soltanto il diritto fondamentale al giusto processo, garantito dall’articolo 6 CEDU (sui cui si è pronunciata la sentenza Grande Stevens), ma anche il diritto fondamentale a non essere assoggettati ad una sanzione più grave di quella prevista dalla legge vigente al momento del giudizio, garantito dall’articolo 7 CEDU, nell’interpretazione offertane dalla Corte EDU nella sentenza Scoppola c. Italia del 17 settembre 2009.

5.3 In definitiva la sentenza n. 8047/19 ha affermato che la verifica della  eventuale riconducibilità di una specifica sanzione amministrativa nell’ambito delle sanzioni “sostanzialmente penali” secondo i criteri Engel è necessaria non soltanto per stabilire se il procedimento per la relativa irrogazione debba rispettare le garanzie fissate dall’articolo 6 CEDU, ma anche per stabilire se la successione nel tempo di diverse diposizioni sanzionatorie soggiaccia al disposto dell’articolo 7 CEDU.

I. Premessa

L’esplicita, per quanto oscura, disciplina della relazione tra condominio e terzi creditori costituisce un aspetto di oggettiva novità nella Riforma della normativa in materia di condominio negli edifici, intrapresa con la legge 11 dicembre 2012, n. 220, e poi già modificata con il decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 145, convertito dalla legge 21 febbraio 2014, n. 9. Dico che si tratta di novità essenzialmente perché nei primi due commi dell’art. 63 disp. att. c.c. compare il riferimento a questo indistinto ceto dei creditori, che sovverte il dibattito sull’imputazione dei rapporti correlati alla gestione degli interessi comuni, in quanto la regolamentazione positiva contenuta begli originari artt. 1117 e ss. c.c.  e 61 e ss. disp. att. c.c.  si preoccupava in via esclusiva di normare diritti ed obblighi correnti soltanto tra i condomini, relegando i contatti tra il condominio ed i terzi all’area del residuale ius excludendi implicito nella complessa situazione soggettiva condominiale, di per sé dissolta nel più semplice diritto di proprietà individuale. E’ questo del legame tra condominio e creditori uno dei contenuti “nuovi” della Riforma del 2012: sta a noi ora comprendere se questo “nuovo” equivalga ad una “creazione”, così manifestandosi la novità assoluta alla quale preesisteva “il nulla”, o se invece esso si riduca in un “divenire”, e cioè in una semplice trasformazione o elaborazione di un dato già esistente, se non, addirittura, in una mera ripetizione o in un ingannevole ritorno.

Anche dall’esatta ricostruzione della categoria dei “creditori”, cui si rivolge l’art. 63, 1 e 2 comma, disp. att. c.c., discende, invero, la possibilità di superare la tradizionale configurazione della situazione di condominio edilizio come risolutiva di un problema di sola attribuzione di beni, sostanziata dalla connessione materiale e dalla relazione di accessorietà correnti tra le porzioni di proprietà esclusiva e lerescomuni. E’ indubbia la “realità” della “situazione soggettiva di condominio”, giacché essa si contrassegna proprio per tale nesso di accessorietà con la proprietà solitaria, nesso che giustifica l’appartenenza, individua l’oggetto del diritto, ne determina il contenuto e delinea i caratteri della partecipazione all’organizzazione del gruppo.  Rimane tuttavia sempre da affrontare il problema di individuare chi sia il titolare di questo diritto di condominio, chi abbia, cioè, i poteri e le facoltà di compiere le azioni necessarie per conseguire dalle cose condominiali interessi giuridicamente vincolanti, e su chi incombano in via diretta e primaria i conseguenti obblighi assunti nei confronti dei terzi.

L’individuazione del profilo soggettivo della situazione di condominio è stata, com’è noto, di recente interessata da una significativa pronuncia delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, proprio alla luce delle novità introdotte dalla legge n. 220 del 2012. Mi riferisco, evidentemente, a Cass. sez. un. 18 settembre 2014, n. 19663, la quale, nel riconoscere al solo amministratore (e non anche ai singoli condomini che non siano stati parte in causa) la legittimazione ad agire per l’equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo promosso dal condominio, ha affermato in motivazione che, se pure non è desumibile nella legge n. 220 del 2012 il riconoscimento della personalità giuridica in favore del condominio, tuttavia non possono ignorarsi gli elementi (tratti dall’art. 1129, comma 12, n. 4, c.c., dall’art. 1135, n. 4, c.c., e, soprattutto, dall’art. 2659, comma 1, n. 1, c.c.) ‹‹che vanno nella direzione della progressiva configurabilità in capo al condominio di una sia pure attenuata personalità giuridica, e comunque sicuramente, in atto, di una soggettività giuridica autonoma›› (al riguardo, non sia intesa come un passo indietro rispetto a questa linea evolutiva la  successiva Cass., sez. 3, 7 novembre 2014, n. 23782, la cui massima ufficiale contiene un’affermazione di principio sull’insussistenza della distinta personalità del condominio, che appare estranea alla ratio decidendi della sentenza). 

Quel che vuol già qui sostenersi, in sede di premessa, è che pure la definizione concettuale di questa nuova figura dei creditori, cui fanno rinvio i commi 1 e 2 dell’art. 63, disp. att. c.c., dovrebbe indurre gli interpreti ad abbandonare ogni remora nel ravvisare diritti ed obblighi riferibili al condominio in quante tale, e non invece sempre e comunque immediatamente imputabili – per l’intero o in proporzione alle rispettive quote – a ciascuno dei condomini. Il fenomeno del condominio di edifici non si esaurisce nella contitolarità delle parti comuni, in quanto regolato da un principio di organizzazione e di unificazione dell’insieme, che si regge su organi aventi competenze esclusive, tali da giustificare un proprio meccanismo di imputazione.

Nell’ambito del complesso delle dinamiche condominiali, vi sono certamente posizioni di natura reale, che vengono per esigenze di semplificazione unitariamente rappresentate dall’amministratore o gestite dall’assemblea “nell’interesse comune”, ma che non possono mai prevaricare il diritto individuale “pro quota” di ciascun condomino in ordine alle parti elencate dall’art. 1117 c.c. ; questa indispensabile coesistenza tra gestione e rappresentanza unitarie e frazionabilità dei poteri sui beni comuni giustifica anche la concorrente legittimazione processuale riconosciuta altresì ai singoli partecipanti per le azioni inerenti all’estensione della proprietà condominiale. Da tale prima cerchia, che comprende tutte quelle situazioni reali le quali necessariamente sono riferibili in via immediata ad ogni condomino in misura proporzionale al valore dalla rispettiva quota, esulano, invero, quei rapporti che concernono non i diritti in sé su beni o servizi comuni, bensì la gestione di essi, in quanto intesi a soddisfare esigenze soltanto collettive della comunità condominiale. In queste ultime fattispecie, non può ravvisarsi alcuna correlazione tra l’interesse direttamente comune  e l’interesse mediato esclusivo di uno o più dei partecipanti. Si pensi, ancora, agli obblighi di manutenzione, riparazione e custodia dei beni di proprietà comune, i quali sono stati individuati come il “contenuto di una situazione soggettiva che si imputa al condominio come tale ed è esercitata attraverso i suoi organi” (Cass. 8 marzo 2003, n. 3522, in Mass. Giust. civ. 2003, 497). Sono, peraltro, innumerevoli già da anni le pronunce che configurano il condominio (per dire, quale committente del contratto d’appalto per la manutenzione dell’edificio condominiale, o quale contraente  assicurato nella polizza per la responsabilità civile contro i danni a terzi) come parte unica, seppur soggettivamente complessa, insensibile alle mutazioni delle persone che la compongono, e dunque centro di imputazione delle posizioni attive o passive  nascenti da un determinato programma contrattuale. Ancor più il sicuro convincimento giurisprudenziale di un’applicazione estensiva dell’art. 2373 c.c., riguardante il conflitto di interessi del socio nelle deliberazioni della società per azioni, ai fini del calcolo delle maggioranze assembleari richieste dall’art. 1136 c.c. , depone per la ravvisabilità di un interesse istituzionale del condominio stesso, distinto dagli interessi individuali dei singoli partecipanti, fondato sull’individuazione di un autonomo centro d’imputazione e sulla funzionalizzazione dei meccanismi deliberativi al perseguimento di uno scopo   comune, con il quale è incompatibile ogni speciale vantaggio personale.

Di fronte alla “collettività organizzata” condominio, l’interprete non dovrebbe, allora,  avvertire il bisogno di moltiplicare i soggetti, aggiungendo alle persone fisiche dei singoli condomini la persona giuridica del condominio, quanto quello di moltiplicare i rapporti, distinguendo, in base al contenuto ed al regime di legge, quelli che i condomini intrattengono come singuli da quelli che gli stessi intrattengono come universi.

La Riforma introdotta con la legge n. 220 del 2012 ha, così, incrementato i già cospicui indici di evidenza normativa di una soggettività attenuata del condominio: alla notevole rilevanza che in ambito condominiale è attribuita al principio di maggioranza, già di per sé espressione di autonomia della struttura organizzata, come alla capacità processuale attiva e passiva conferita all’amministratore, vengono ora ad unirsi altri sintomi dell’attribuzione di una capacità di diritto patrimoniale al condominio, in forza della quale questo acquista la titolarità del diritto di proprietà sulle cose comuni dell’edificio e può rivestire la qualità di parte complessa in rapporti obbligatori assunti nel rispetto delle regole riguardanti la formazione di volontà del gruppo.

II.La morosità ultrasemestrale

L’art. 1129, comma 9, c.c. obbliga l’amministratore ad agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell’esercizio nel quale sia compreso il credito esigibile, a meno che non sia stato espressamente dispensato dall’assemblea. Questa norma duplica il preesistente art. 1130, n. 3), c.c., secondo il quale l’amministratore deve riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell’edificio e per l’esercizio dei servizi comuni.  Il mancato rispetto del termine di sei mesi dalla chiusura dell’esercizio di competenza non fa venir meno la legittimazione dell’amministratore ad agire, sia pure in ritardo, per la riscossione delle somme dovute dai condomini, né opera quale vicenda estintiva del credito. L’unica conseguenza di un promovimento dell’azione di recupero dei crediti condominiali oltre il semestre dalla chiusura dell’esercizio di riferimento, pertanto, non può che essere l’eventuale responsabilità dell’amministratore nei confronti del condominio (PARINI, 123). D’altro canto, lo stesso art. 1129, comma 9, c.c. ammette che l’amministratore possa essere espressamente dispensato dall’assemblea dall’agire per la riscossione entro il ricordato termine: il che, oltre a rimettere all’assemblea una sostanziale possibilità di derogare ad un’ipotesi tipizzata di revoca dell’amministratore, permette altresì al collegio dei condomini di ratificare il tardivo operato dell’amministratore, anche condividendo le ragioni che lo abbiano indotto a non agire tempestivamente per la condanna dei ritardatari. Così, inoltre, si ribadisce implicitamente pure come non rientri tra le attribuzioni dell’amministratore il potere di concedere dilazioni di pagamento ai singoli condomini, senza apposita autorizzazione dell’assemblea, avendo soltanto questa l’effettiva disponibilità delle vicende obbligatorie che si riflettono sulle sfere giuridico – patrimoniali individuali. Per la deliberazione di espressa dispensa ex art. 1129, comma 9, c.c. basta la maggioranza di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 1136 c.c.: oggetto di essa è, del resto, un mero diritto obbligatorio (la riscossione delle somme dovute dagli obbligati) e non un diritto reale dei partecipanti al condominio, sicché può disporne la maggioranza ordinaria per l’esercizio del potere di rinunciare o di rinviare il promovimento della controversia nei confronti dei morosi, impegnando tutti i condomini, anche i dissenzienti, in base alla regola generale enunciata dall’art. 1132 c.c. (cfr. Tribunale Cremona, decreto 19 novembre 2014, in Guida al diritto, 2015, 3, 15 ss.).

 Non si ravvisa alcuna coerenza sistematica dell’indicazione di questo termine semestrale assegnato all’amministratore, decorrente dalla chiusura dell’esercizio di maturazione del credito, giacché il riferimento al semestre appare più consono allo statuto delle società di capitali. Per contro, la gestione condominiale viene piuttosto tutta rapportata alla competenza annuale, visto che l’amministratore è tenuto anno per anno a predisporre il bilancio preventivo ed a far approvare dall’assemblea il bilancio consuntivo. Al fine di individuare l’esercizio in cui sia compreso il credito condominiale, e quindi il dies a quo del termine semestrale, occorre distinguere tra spese necessarie alla manutenzione ordinaria, alla conservazione, al godimento delle parti comuni dell’edificio o alla prestazione di servizi nell’interesse comune, e spese attinenti a lavori che comportino un’innovazione o che comunque comportino, per la loro particolarità e consistenza, un onere rilevante, superiore a quello inerente alla manutenzione ordinaria dell’edificio. Nella prima ipotesi, il credito si deve ritenere sorto non appena si compia l’intervento ritenuto necessario dall’amministratore, e quindi in coincidenza con il compimento effettivo dell’attività gestionale. Nel caso, invece, delle opere di manutenzione straordinaria e delle innovazioni, la deliberazione dell’assemblea, chiamata a determinare quantità, qualità e costi dell’intervento, assumerebbe altresì valore costitutivo della relativa obbligazione in capo a ciascun condomino. In forza dell’art. 63, comma 3, disp. att. c.c. – inoltre, la mora nel pagamento dei contributi condominiali protratta per oltre un semestre legittima l’amministratore a sospendere al condomino l’utilizzazione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato. Non può condividersi, per l’intrinseca limitazione delle attribuzioni degli organi condominali, la tesi che reputa che la sospensione dai servizi condominiali consentirebbe all’amministratore di attuare anche le necessarie operazioni sugli impianti da eseguirsi all’interno della proprietà esclusiva del condomino moroso, il quale sarebbe obbligato a tollerare tali attività (v. Trib. Milano, 19 ottobre 1998). Durante il percorso della Riforma, si era anche ipotizzato che i condomini in ritardo di un semestre nel pagamento dei contributi non avessero più diritto di voto (sul modello di quanto dispone, ad esempio, l’art. 2466 c.c. per il socio moroso). Non avendo più previsto una simile conseguenza la legge, è da escludere che ad identico effetto possa utilmente pervenire una clausola regolamentare, che, del pari, faccia discendere dalla morosità del condomino l’inibizione all’esercizio di voto in assemblea, atteso che una clausola limitativa del diritto di voto del condomino, pur che intenda muoversi in un àmbito di autonomia negoziale, sembrerebbe alterare lo schema essenziale della disciplina legislativa del condominio. Non può, invero, porsi in dubbio che, ai fini del calcolo delle maggioranze necessarie per approvare le delibere, occorra tener conto di tutti i partecipanti e del valore dell’intero fabbricato, compresi i condomini morosi. Una soluzione diversa è adottata, ad esempio, in Spagna, dove l’art. 15, comma 2, della legge n. 49 del 21 luglio 1960, stabilisce che i condomini non in regola coi pagamenti partecipano alla discussione assembleare ma non dispongono del diritto di voto. E’ vero, d’altro canto, che la sospensione del diritto di voto per le quote millesimali pignorate potrebbe gravemente pregiudicare la gestione condominiale, ove si tratti di frazioni notevoli del valore dell’edificio; come sarebbe pericoloso affidare ai restanti condomini il compito di assumere ogni decisione sulle parti comuni, lasciando sia il debitore esecutato che il custode in balia della maggioranza.

Nel testo approvato dell’art. 63, comma 3, disp. att. c.c., è altresì scomparso il temperamento, che era stato fissato in un primo momento durante il percorso parlamentare della legge n. 220/2012, allorché il potere di sospensione dalla fruizione dei servizi era così limitato: “salvo che l’autorità giudiziaria, adita anche in via d’urgenza, riconosca l’essenzialità del servizio per la realizzazione di diritti fondamentali della persona e l’impossibilità oggettiva del ricorso a mezzi alternativi”. La mancata previsione testuale del criterio di valutazione dell’adeguatezza dell’iniziativa inibitoria dell’amministratore non impedirà, peraltro, al giudice di censurare in base ai principi generali la legittimità della stessa, in modo da scongiurare la lesione o anche la minaccia del diritto alla salute, all’incolumità e all’integrità fisica dei condomini privati del godimento del servizio condominiale, o di altri loro diritti soggettivi fondamentali della persona umana, in modo che mai sia oltrepassata quella soglia minima di solidarietà e di rispetto comunque necessaria e doverosa nella gestione dei rapporti di condominio.

III. Le informazioni sulla morosità dovute a condomini e creditori

In forza dell’art. 1130, n. 9), c.c., l’amministratore deve fornire al condomino che ne faccia richiesta attestazione relativa allo stato dei pagamenti degli oneri condominiali e delle eventuali liti in corso.

A sua volta, il comma 7 del riformulato art. 1129 c.c. sancisce il diritto di ciascun condomino di chiedere, per il tramite dell’amministratore, di prendere visione ed estrarre copia della rendicontazione periodica del conto corrente condominiale, su cui devono transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi.

La previsione di cui all’art. 1130, n. 9, c.c. è sostanzialmente in linea con i principi di tutela dei dati personali elaborati in argomento dal Garante della privacy, in base ai quali, anche per esercitare i controlli in ordine all’esattezza dell’importo esigibile a titolo di contributo per la manutenzione delle parti comuni e per l’esercizio dei servizi comuni, ciascun partecipante dovrebbe poter essere informato in ordine all’ammontare della somma dovuta dagli altri. Tali informazioni potranno essere trattate dai condomini, vantando gli stessi un legittimo interesse non soccombente rispetto a quello degli interessati cui si riferiscono i dati, ai sensi dell’art. 24, comma 1, lett.g), del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (c.d. Codice in materia di protezione dei dati personali). Possono, quindi, formare oggetto di trattamento, per le menzionate finalità di amministrazione del condominio, pure dati giudiziari, nella misura indispensabile al perseguimento delle medesime finalità.

Un diritto dei singoli condomini alla conoscenza delle eventuali situazioni individuali di morosità nella riscossione dei contributi può discendere pure dall’obbligo di rendiconto, cui è tenuto l’amministratore in forza del contratto di mandato che intercorre con il gruppo, obbligo che, tuttavia, concerne necessariamente la specificazione non dei dati personali degli inadempienti, quanto dei dati meramente contabili delle entrate, delle uscite e del saldo finale, nonché di tutti gli elementi di fatto funzionali all’individuazione ed al vaglio delle modalità di esecuzione dell’incarico, onde stabilire se l’operato dell’amministratore si sia adeguato, o meno, a criteri di buona amministrazione. Se, pertanto, il rendiconto annuale costituisce la modalità di comunicazione dell’amministratore tipicamente destinata a rendere edotti i singoli condomini degli eventuali inadempimenti di altri partecipanti, questo non è un contenuto irrinunciabile del rendiconto, ben potendo l’assemblea validamente approvare un bilancio di gestione che non presenti, in realtà, alcuna analitica indicazione dei nominativi dei condomini morosi nel pagamento delle quote condominiali e dei corrispondenti importi da ciascuno dovuti, purché le poste attive e passive risultino comunque correttamente iscritte nel loro importo (v. Cass., 28 gennaio 2004, n. 1544).

Dunque, alla stregua della Riforma, qualsiasi condomino può rivolgere espressa richiesta all’amministratore circa la situazione di morosità degli altri partecipanti; non occorre, in tal caso, premunirsi del consenso espresso, libero, specifico e documentato per iscritto (art. 23 del d.lgs. n. 196/2003) dei condomini inadempienti interessati. La scelta di obbligare normativamente l’amministratore a fornire “al condomino che ne faccia richiesta attestazione relativa allo stato dei pagamenti degli oneri condominiali e delle eventuali liti in corso” è implicata dalla soluzione, adottata nel comma 2 dell’art. 63 disp. att. c.c., per la quale “i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l’escussione degli altri condomini”.  

Ciò detto quanto agli obblighi interni al rapporto di mandato corrente tra amministratore e condomini, l’art. 63, comma 1, disp. att. c.c. dispone invece che l’amministratore è altresì tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi.  Si delinea così un obbligo di cooperazione con il terzo creditore, posto direttamente dalla legge in capo all’amministratore ed esulante dai contenuti del programma obbligatorio interno al rapporto di mandato corrente tra condomini ed amministratore. Se l’amministratore è tenuto a comunicare al creditore i dati dei condomini morosi, l’eventuale sua inerzia diviene sanzionabile. Si tratta per l’amministratore di un dovere legale di salvaguardia dell’aspettativa di soddisfazione dei terzi titolari di crediti derivanti dalla gestione condominiale.

Per la liceità della comunicazione dei dati relativi ai condomini morosi in favore dei terzi creditori, ora così imposta dall’art. 63, comma 1, disp. att. c.c., non occorrerà più, quindi, verificare la sussistenza o del consenso del condomino interessato, o della causa di esonero dal consenso,exart. 24, lett.f), del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, prevista per le ipotesi di trattamento volto a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria. La superfluità del consenso dei condomini inadempienti al trattamento dei loro dati personali discende, infatti, dalle prime due cause di esonero contemplate dal citato art. 24 (v. Cass., 23 gennaio 2013, n. 1593; Cass., 4 gennaio 2011, n. 186).

La Riforma non obbliga, invece, l’amministratore, altrettanto esplicitamente, a fornire al creditore i nomi e le quote dei condomini in regola con i pagamenti, cui quello potrà rivolgersi dopo l’inutile escussione dei morosi. Ai fini del riscontro del limite di liceità abitualmente prescritto dall’Autorità Garante in materia di trattamento di dati personali nell’àmbito dell’amministrazione di condomini, non rivela alcuna funzionalizzazione allo svolgimento delle attività di gestione ed amministrazione delle parti comuni la comunicazione che coinvolga i partecipanti regolarmente adempienti. L’informazione rivolta al creditore dei nomi e delle quote dei condomini “in regola” esula, pertanto, degli obblighi legali e contrattuali dell’amministratore, ed impone, perciò, il consenso,exart. 23 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196. Può in tal caso, soltanto farsi salva l’ipotesi di esonero dal consenso di cui alla lett.f) dell’art. 24 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, volto a favorire la tutela giudiziaria di un diritto.

Dovrà tenersi conto delle prescrizioni più volte indicate dal Garante per la protezione dei dati personali, relative alle operazioni di trattamento di dati personali effettuate nell’àmbito delle attività connesse all’amministrazione dei condomini. Alla luce del principio di liceità, di cui all’art 11 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, possono, invero, formare oggetto di trattamento da parte dell’amministratore di condominio (quale responsabile del trattamento, ai sensi degli artt. 4, comma 1, lett.g, e 29 del medesimo Codice), le sole informazioni personali pertinenti e necessarie rispetto allo svolgimento delle attività di gestione ed amministrazione delle parti comuni ed idonee a determinare le posizioni di dare ed avere dei singoli partecipanti, siano essi proprietari o usufruttuari (v., al riguardo, il Vademecum “Il condominio e la privacy” del 10 ottobre 2013; il provvedimento del Garante 19 maggio 2006; Cass., 4 gennaio 2011, n. 186).

IV.Chi sono i “creditori” e i “condomini morosi” ?

I primi due commi dell’art. 63 disp. att. c.c. poggiano i loro diversi regimi sostanziale e processuale su diversità di condizioni soggettive solo apparentemente univoche: vi si parla di “creditori non ancora soddisfatti”, di “condomini “morosi”, di “obbligati in regola con i pagamenti”, ma le differenze che da tali nozioni discendono in termini di titolarità di diritti e di obblighi, e di conseguenti legittimazioni processuali, chiamano l’interprete a tentare di fare chiarezza. La nozione di “condomino moroso” torna, invero, nel comma 4 dell’art. 63 disp. att. c.c., prima analizzato, e qui viene identificata con la situazione in cui versa l’obbligato la cui mora nel pagamento dei contributi “si sia protratta per un semestre”; manca, tuttavia, una definizione univoca, sull’esempio di quanto fa, ad esempio, il codice civile per delineare la figura del socio moroso nell’eseguire il pagamento della quota di capitale sottoscritta. Ora, i creditori, di cui ai primi due commi dell’art. 63 disp. att. c.c. (categoria del tutto nuova per la disciplina codicistica delle relazioni condominiali), non sono certamente i creditori personali di uno o più partecipanti, ma, piuttosto, i creditori del condominioin quanto tale, avendo riguardo unicamente ai rapporti di gestione di interesse comune. Occorre considerare come, ogni qual volta l’amministratore contragga con un terzo, coesistono distinte obbligazioni, concernenti, rispettivamente, l’intero debito e le singole quote, facenti capo la prima al condominio, rappresentato appunto dall’amministratore, e le altre ai singoli condomini, tenuti in ragione e nella misura della partecipazione al condominio ai sensi dell’art. 1123 c.c. Le diverse azioni di adempimento – quelle nei confronti del condominio, e per l’intero debito, in via diretta, e quelle, invece, pro quota, verso i singoli condomini – possono essere proposte anche cumulativamente, fondandosi su diversi presupposti: ovvero, rispettivamente, il contratto che lega il condominio al terzo creditore e l’obbligo ex lege  gravante sui singoli condomini di contribuire alle spese comuni. Come si vedrà nelle prossime pagine, l’art. 63, comma 2, disp. att. c.c., pone a presidio degli obblighi pro quota gravanti sui singoli  un meccanismo di beneficio di escussione in favore di coloro che siano in regola coi pagamenti.

Inoltre, agli effetti sempre dei commi 1 e 2 dell’art. 63 disp. att. c.c. (obbligo di comunicazione dei dati e sussistenza, o meno, del beneficium excussionis), e dunque nel rapporto con il terzo, possono intendersi “condomini morosi” (e di conseguenza, all’opposto, “obbligati in regola coi pagamenti”), quei partecipanti che non abbiano versato (ovvero, che abbiano pagato) all’amministratore la loro quota di contribuzione alla spesa necessaria per il pagamento di quel creditore:anche se il condomino sia in ritardo nell’adempimento di debiti condominiali derivanti da distinte annualità di gestione o da distinte delibere di approvazione, lo stesso non può ritenersi debitore per un’unica causa, ma per una pluralità di rapporti di obbligatori, aventi titoli differenti, tant’è che gli spetta la facoltà di imputazione riconosciuta dall’art. 1193 c.c. (v. Cass., 28 febbraio 2013, n. 5038). Diverso, giacché apparentemente sganciato dallo specifico titolo del maturato debito per i contributi (e, dunque, dalla correlazione della mora con la fruizione di quel determinato servizio condominiale che si intenda sospendere) è, invece, il concetto di “condomino moroso” di cui all’art. 63, comma 3, disp. att. c.c.

Da quando il condomino può intendersi “moroso”? Sin dal momento di esigibilità di quella spesa derivante dal vincolo obbligatorio contratto con il terzo? O assume rilievo, anche nei confronti del terzo creditore, l’ultrasemestralità della mora nel pagamento, come ai fini della sospensione dalla fruizione dei servizi comuni (art. 63, comma 3, disp. att. c.c.) o dell’obbligo di agire per la riscossione dell’amministratore (art. 1129, comma 9, c.c.)?

Occorre considerare come il debito per le spese condominiali sia soggetto alle generali regole delle obbligazioni pecuniarie, contenute negli artt. 1182, comma 3, e 1277, comma 1, c.c., per le quali le obbligazioni aventi per oggetto somme di danaro devono adempiersi al domicilio del creditore e con moneta di corso legale (salva l’applicabilità dell’art. 15, comma 4, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito dalla l. n. 221/2012, che impone anche all’amministratore condominiale,in quanto soggetto che effettua attività di prestazione di servizi professionali, di accettare altresì pagamenti effettuati attraverso carte di debito). In questa prospettiva, nell’esercizio dei suoi poteri di rappresentanza, compresi quelli correlati alla gestione amministrativa del condominio, quale, appunto, la riscossione dei contributi, l’amministratore è da reputarsi domiciliato nel luogo od ufficio a ciò specificamente destinato nell’àmbito dell’edificio o degli edifici in condominio. In difetto, il domicilio del condominio, che non ha una sua sede nel senso previsto dall’art. 46 c.c., coincide con quello della persona fisica dell’amministratore che lo rappresenta (v. Trib. Salerno, 8 giugno 2010). Ai fini dell’applicabilità dell’appena richiamato art. 1182, comma 3, c.c., occorre convenire sulla premessa che l’obbligazione di pagamento delle spese condominiali è un’obbligazione “portabile”, in quanto ha per oggetto una somma di danaro già determinata nel suo ammontare, o  comunque determinabile in base ad un semplice calcolo aritmetico, sicché la mora del singolo condomino debitore si determina, ai sensi dell’art. 1219, comma 2, n. 3), c.c.,alla scadenza del termine in cui il pagamento deve essere eseguito(mora ex re). Tuttavia, diversamente la giurisprudenza, quanto alla decorrenza della prescrizione stabilita dall’art. 2948, n. 4), c.c., correla l’esigibilità del credito in ogni caso alla data di approvazione del rendiconto e del relativo stato di riparto (v. Cass., 25 febbraio 2014, n. 4489; Cass., 5 novembre 1992, n. 11981).

Fin quando il “condomino moroso” rimane “moroso”? Cosa avviene, cioè, se, comunicati dall’amministratore al creditore i dati del condomino a quella data moroso, quest’ultimo poi provveda a pagare nelle mani del primo le quote arretrate quando, semmai, il creditore abbia ormai intrapreso la sua azione diretta verso l’originario inadempiente?

E come è da qualificare (“moroso” o “obbligato in regola con i pagamenti”) il partecipante che avesse versato direttamente nelle mani del creditore del condominio, privo di titolo esecutivo, la sua quota di contribuzione alla spese (v., in proposito, Cass., 17 febbraio 2014, n. 3636)? Questi certamente è ancora in mora nel pagamento dei contributi condominiali, eppure ha soddisfatto quale debito pro quota che tanti scrivono lo leghi direttamente al terzo creditore.

Non potrebbe certo sostenersi, in ogni caso, che la condizione di morosità del condomino, convenuto dal creditore senza sobbarcarsi la preventiva escussione degli altri morosi, debba sussistere soltanto al momento dell’introduzione del giudizio, incidendo, essa, piuttosto, sul diritto del terzo ad ottenere una sentenza di condanna, sicché è indispensabile che la stessa permanga nel momento in cui la lite viene decisa.

IV. L’azione del creditore nei confronti dei condomini morosi

I primi commenti alla Riforma del condominio non sembrano disposti ad abbandonare il presupposto assiomatico, su cui radicano pure i primi due commi dell’art. 63 disp. att., c.c., della diretta riferibilità ai singoli condomini delle obbligazioni assunte dall’amministratore nell’àmbito delle sue attribuzioni e nell’adempimento degli obblighi di mandato a lui affidati dal condominio mandante (v. Cass., 17 aprile 1993, n. 4558; Cass., 14 dicembre 1982, n. 6866; Cass., 21 marzo 1979, n. 1626; Cass., 11 novembre 1971, n. 3235).

Deve invece assumersi che il singolo condomino non è titolare di alcun credito e di alcun debito di natura sinallagmatica nei confronti del terzo contraente prescelto dall’amministratore o dall’assemblea. L’obbligo di pagamento degli oneri condominiali da parte del singolo partecipante ha causa immediata nella disciplina del condominio, e cioè nelle norme di cui agli artt. 1118 e 1123 ss. c.c. (che fondano il regime di contribuzione alle spese per le cose comuni) e non in un rapporto contrattuale con il terzo, rapporto che obblighi una controparte ad una controprestazione.

Così come il condomino non è legittimato ad agire direttamente contro il terzo per ottenere l’adempimento dell’obbligazione che questi abbia contratto nei confronti del condominio, dovrebbe venir parimenti facile negare al terzo, creditore della gestione condominiale, la legittimazione ad agire, in via diretta, nei confronti dei singoli condomini.

La stessa giurisprudenza ha chiarito che l’obbligo del singolo partecipante di pagare al condominio le spese dovute e le vicende debitorie del condominio verso i suoi appaltatori o fornitori rimangono del tutto indipendenti. Tant’è che il condomino non può ritardare il pagamento delle rate di spesa in attesa dell’evolvere delle relazioni contrattuali tra condominio e soggetti creditori di quest’ultimo, né può utilmente opporre all’amministratore che il pagamento sia stato da lui effettuato direttamente al terzo, in quanto, si assume, ciò altererebbe la gestione complessiva del condominio: sicché il singolo deve sempre e comunque pagare all’amministratore, salva l’insorgenza, in sede di bilancio consuntivo, di un credito da rimborso per gli avanzi di cassa residuati (così Cass., 29 gennaio 2013, n. 2049). Se, dunque, il pagamento effettuato dal singolo condomino direttamente nelle mani del terzo creditore del condominio non libera il solvens nei confronti dell’amministratore, esso deve configurarsi come un indebito soggettivo ex latere accipientis, in quanto il debito di colui che ha eseguito il versamento esiste, ma non verso colui che lo ha ricevuto; e, per converso, questo significa pure che il terzo, appaltatore o fornitore, non è titolare di un credito diretto verso il singolo condomino e non dovrebbe avere legittimazione primaria ad agire nei confronti di quest’ultimo. Il concetto della legittimazione processuale ad agire o contraddire è notoriamente correlato al potere sostanziale di disporre ed obbligarsi. Non basta evidenziare che sussiste un concreto interesse del terzo creditore ad agire a tutela delle proprie ragioni nei confronti del singolo partecipante: occorre che tale interesse si soggettivizzi in capo al medesimo creditore ed al condomino debitore. Poiché il singolo condomino non può, di regola, disporre del rapporto intercorrente con il creditore della gestione collettiva, non avendone “competenza dispositiva”, egli non deve avere nemmeno la correlata legitimatio ad causam.

Sempre la giurisprudenza (v. Cass., 17 febbraio 2014, n. 3636) ha affermato il principio secondo il quale, ponendosi il condominio, nei confronti dei terzi, come soggetto di gestione dei diritti e degli obblighi dei singoli condomini attinenti alle parti comuni, l’amministratore di esso assume la qualità di necessario rappresentante della collettività dei condomini, e ciò sia nella fase di assunzione degli obblighi verso i terzi per la conservazione delle cose comuni, sia, all’interno della medesima collettività condominiale, in quanto unico referente dei pagamenti ad essi relativi; se ne è fatta discendere la conclusione secondo cui il pagamento diretto eseguito dal singolo partecipante a mani  del creditore del condominio non è idoneo ad estinguere il debito pro quota dello stesso relativo ai contributiexart. 1123 c.c., a meno che il terzo creditore non si sia già munito di titolo esecutivo nei confronti del singolo condomino.

Se allora il pagamento al terzo creditore deve indispensabilmente avvenire per il tramite dell’amministratore, dovrebbe per minima coerenza negarsi che il singolo condomino sia immediato debitore di quello, facendosi salva l’ipotesi in cui il terzo si sia ormai premunito di un titolo esecutivo verso quel determinato partecipante. Ove si ritenesse ancora che ciascun condomino sia direttamente obbligato verso il creditore della gestione condominiale, non si potrebbe obliterare l’interesse di quel debitore ad adempiere spontaneamente pro quota nelle mani del terzo, in modo da procurarsi la liberazione dal vincolo anche invito creditore, senza dover attendere, per assurdo, che questi consegua dapprima un titolo esecutivo, con modificazione aggravativa del debito (in relazione alla maturazione degli accessori), contrasto con il principio di correttezza e buona fede, nonché lesione del principio costituzionale del giusto processo, traducendosi l’ineliminabile soggezione del condomino alla domanda giudiziale del terzo, diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria, in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte pur sempre nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale.

Ai terzi creditori potrebbe dirsi accordata soltanto un’azione surrogatoriaex art. 2900 c.c., in luogo dell’amministratore, rimasto inerte nell’adempiere al suo dovere di riscossione. L’art. 63, comma 1, disp. att. c.c. va correlato all’art. 1129, comma 9, c.c., il quale – come visto – vincola l’amministratore ad agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dai singoli condomini obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell’esercizio annuale in cui sia maturata la spesa. Quella nei confronti dei morosi si configurerebbe come azione surrogatoria, giacché diretta appunto a consentire al terzo creditore della gestione condominiale di prevenire e neutralizzare gli effetti negativi che possano derivare alle sue ragioni dall’inerzia del condominio debitore, il quale, in persona dell’amministratore a tanto deputato, ometta di esercitare le opportune azioni dirette alla riscossione delle somme dovute dai condomini inadempienti, e perciò non si curi di incrementare il suo patrimonio.Se tale sia la corretta ricostruzione della nuova fattispecie, qualora l’amministratore non risulti più inerte, per aver posto in essere comportamenti idonei e sufficienti a far ritenere utilmente intrapreso il recupero delle somme dovute dai morosi, verrebbe a mancare il presupposto perché a lui possa sostituirsi il creditore. Può essere significativo ricordare come una versione provvisoria del comma 1 dell’art. 63 disp. att. c.c., poi abbandonata nel corso dell’iter della Riforma, obbligasse l’amministratore “a comunicare ai creditori del condominio non ancora soddisfatti” anche “l’eventuale ricorso a strumenti coattivi di riscossione ai sensi dell’articolo 1129, nono comma, del codice” civile.

La legittimazione primaria dell’amministratore di condominio ad incassare le somme dovute dai partecipanti e la legittimazione derivativa, o secondaria, del terzo ad agire nei confronti dei morosi, in forza del trasferimento surrogatorio offertogli dall’art. 63, comma 2, disp. att. c.c. vanno, del resto, necessariamente coordinate fra loro, ad evitare che il singolo possa essere destinatario di un’inammissibile duplicazione di condanne, e perciò di titoli esecutivi, l’una verso il condominio, l’altra verso il creditore. Dunque, l’inerzia ultrasemestrale dell’amministratore nel riscuotere i contributi dovuti dai condomini potrebbe intendersi variamente considerata nella l. n. 220/2012: essa sembrerebbe delineare il presupposto dell’inerzia indispensabile per l’esercizio dell’azione surrogatoria intentata dal terzo creditore nei confronti dei morosi, i cui dati l’amministratore deve comunicargli; rappresenta, poi, un’esemplificazione di grave irregolarità che legittima la revoca giudiziale dell’amministratore, ai sensi dell’art. 1129, comma 12, n. 6), c.c., ove lo stesso abbia “omesso di curare diligentemente l’azione e la conseguente esecuzione coattiva”; può, infine, generare una responsabilità dell’amministratore nei confronti del medesimo terzo creditore. Sia chiaro che il testo dell’art. 63 disp. att. c.c. non contiene alcuna espressa qualificazione dell’azione del terzo creditore nei confronti dei morosi come azione surrogatoria: a ciò si perviene unicamente sulla base della configurazione della struttura del rapporto obbligatorio corrente tra il creditore e il condominio, del convincimento di una distinta ed autonoma imputazione dello stesso alla collettività organizzata, piuttosto che a ciascuno dei membri di quest’ultima, e delle opportunità che disvela siffatta ricostruzione come azione surrogatoria rispetto a numerose esigenze della pratica. Il creditore, ad esempio, a norma dell’art 2900, comma 2, c.c., dovrebbe citare anche l’amministratore del condominio al quale intenda surrogarsi, stanti il litisconsorzio necessario fra creditore, condomino inadempiente e condominio, nonché l’inscindibilità della causa a cui i tre devono partecipare; gravi sarebbero, altrimenti, i pregiudizi che il condominio subirebbe ove si formasse, in sua assenza, un giudicato di accertamento negativo del debito di contribuzione alle spese del partecipante moroso, così come, per converso, il moroso, debitor debitoris,si troverebbe, in mancanza dell’integrazione del contraddittorio, ad ottenere un’eventuale vittoria nel processo interpreso dal terzo creditore che non lo rassicurerebbe dal rischio di essere nuovamente convenuto dall’amministratore per il pagamento di quelle stesse spese. Troverebbe, inoltre, applicazione l’art. 23 c.p.c., il quale introduce un foro speciale esclusivo ed attribuisce la competenza per territorio al giudice del luogo in cui si trova l’immobile condominiale anche per le liti inerenti al pagamento dei contributi relativi alle cose comuni, in quanto il terzo creditore, che agisca in surroga nei confronti del moroso in luogo dell’amministratore di condominio, proprio debitore, esercita il medesimo diritto di credito che sarebbe spettato a quest’ultimo. Si è autorevolmente detto di recente che la riferibilità diretta dei debiti condominiali ai singoli partecipanti sia imposta ancora dalla carenza di personalità giuridica del condominio (TRIOLA 2014, 212). Ora, a parte i tanti sintomi di evidenza normativa di una soggettività nel condominio presenti nella Riforma del 2013, ed a parte i chiari segnali di entificazione del condominio stesso che provengono (forse, però, non del tutto consapevolmente) dalla stessa giurisprudenza, non sembra decisivo, per smentire l’autonoma imputazione del rapporto obbligatorio al condominio, individuare, o meno, in questo una persona, un soggetto, un ente diverso da quello dei singoli partecipanti. Quel che appare, invece, determinante, è verificare se il rapporto obbligatorio assunto dall’amministratore di condominio o deliberato dall’assemblea abbia davvero lo stesso identico contenuto dell’obbligazione individuale dei singoli; o se, per contro, esso non sia sottoposto ad uno speciale regime normativo. Mi pare che soltanto ostacoli di ordine concettuale impediscono di ravvisare nell’obbligazione della collettività condominiale qualcosa di essenzialmente diverso da altrettante obbligazioni solidali o parziarie riferibili ai singoli condomini. Indagando, in particolare, l’aspetto della fattispecie procedimentale di formazione dei contratti che obbligano il condominio, se da un lato si ricava conferma del tratto unificante postulato dal principio di organizzazione dell’insieme dei partecipanti, dall’altro ci si convince che la fonte costitutiva delle obbligazioni contrattuali, di volta in volta assunte per la gestione delle cose comuni, non risiede comunque nell’accordo tra i condomini, né nella delibera dell’assemblea (la quale resta elemento esterno al contratto concluso con il terzo). Ora, ad una tale unitarietà della fattispecie obbligatoria dovrà, per coerenza sistematica, corrispondere una equipollente unitarietà sotto il profilo degli effetti e dei rapporti che dagli stessi contratti condominiali derivano. In tal senso, si può negare che l’obbligazione contratta in nome e per conto del condominio dia luogo ad una pluralità di debiti e di crediti, tanti quanti sono i singoli condomini, individuando, per contro, in essa un rapporto unico, ovvero il “contenuto di una situazione soggettiva che si imputa al condominio come tale ed è esercitata attraverso i suoi organi” (così Cass., 8 marzo 2003, n. 3522). Ciò già permette di ravvisare nel condominio una autonoma “parte negoziale”, intesa come centro di imputazione delle posizioni attive o passive nascenti dal contratto concluso per la gestione delle parti comuni, avente carattere soggettivamente complesso, e perciò insensibile alle mutazioni attinenti ai soggetti che la costituiscono; riflettendosi tale insensibilità anche sulle rispettive posizioni obbligatorie che dal contratto derivano.

Si aggiunge criticamente dalla stessa dottrina che il comma 2 dell’art. 63 disp. att. c.c. parla di “obbligati in regola con i pagamenti”, sicché questo confermerebbe che i condomini siano, appunto, obbligati nei confronti dei terzi creditori; in verità, questa norma non dice “verso chi” quelli siano obbligati, e potrebbe comunque intendersi “obbligati” verso il condominio, visto che di “obbligati” parlano pure, e proprio in questa direzione, l’art. 1129, comma 9, c.c. e l’art. 63, comma 5, disp. att. c.c. D’altro canto, sembra significativo, esattamente all’inverso, che la norma diversifichi il grado di meritevolezza delle aspettative del terzo creditore facendo riferimento a due denominazioni (“morosi” ed “obbligati in regola coi pagamenti”) che hanno senso soltanto nei confronti della gestione condominiale, e nulla affatto nei confronti di quel terzo; anzi, la diretta riferibilità del rapporto obbligatorio ai singoli condomini, che si vuole confermare secondo la tradizionale interpretazione, dovrebbe indurre a definire tutti i partecipanti come unanimemente morosi rispetto al creditore insoddisfatto.  È giusto notare che l’art. 63, comma 1, disp. att. c.c. non qualifica per nulla l’azione come surrogatoria; ma è altrettanto giusto che questa norma neppure prevede un’azione diretta del creditore verso i morosi, anzi non dice proprio a che scopo l’amministratore debba comunicare al terzo i dati degli inadempienti. E se inutile sarebbe stato ribadire in tale sede quel che già consentirebbe l’art. 2900 c.c., tanto più inutile risulterebbe aver riaffermato l’esistenza di una banale azione diretta, fondata su una legittimazione creditoria primaria. Infine, è vero che, di regola, la surrogatoria è data al creditore per agire verso i terzi al fine di acquisire al patrimonio del debitore inerte risultati utili; non mancano però opinioni che ritengono il creditore surrogante legittimato a ricevere per sé la prestazione altrimenti spettante al debitore surrogato, quel che appunto sarebbe consentito al creditore del condominio.

V. L’azione del creditore nei confronti dei condomini in regola coi pagamenti

All’azione attribuita al creditore nei confronti dei condomini morosi, il comma 2 dell’art. 63 disp. att. c.c. somma una legittimazione del medesimo creditore ad agire nei confronti dei condomini che siano in regola con i pagamenti, dopo, però, l’escussione degli altri condomini.

Vista la formulazione della norma in esame, ha sinceramente poco senso chiedersi ancora oggi se i debiti contratti con i terzi dal condominio per il godimento di beni e servizi comuni abbiano attuazione solidale o parziaria nei confronti dei singoli condomini.

È affermato in maniera ineludibile che l’obbligo di pagamento delle quote dovute dai morosi, posto in capo ai condomini in regola nella contribuzione alle spese, vada subordinato alla preventiva escussione di questi ultimi. Sembra certamente impossibile sostenere che gli uni e gli altri (cioè, i morosi e i condomini in regola) siano condebitori solidali in senso proprio per la totalità della medesima prestazione (secondo la nozione spiegata dall’art. 1292 c.c.) a vantaggio del creditore. Poiché la Riforma ha voluto che i creditori possano agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti dopo soltanto l’escussione degli altri condomini, non può intendersi che l’obbligazione di gestione condominiale sia vista dal legislatore come vicenda costitutiva dell’insorgenza del debito di una stessa prestazione per l’intero a carico dei partecipanti al condominio, restando salvi i criteri di ripartizioneexart. 1123 c.c. nei soli rapporti interni fra condomini. Semmai, l’obbligo sussidiario di garanzia del condomino solvente risulta limitato in proporzione alla rispettiva quota del moroso, secondo un criterio di “doppia parziarietà”.

Si è diversamente sostenuto che “la regola delle obbligazioni dei condomini è la parziarietà, ribadita dal meccanismo dell’art. 63 citato, per cui l’escussione del singolo nei limiti della quota costituisce il necessario presupposto per il recupero del residuo”, ma nel senso che i condomini solventi sarebbero tenuti a pagare “soltanto quanto non è stato corrisposto: vale a dire, quanto risulta dalla sottrazione tra l’intero dovuto [da tutti] e l’ammontare già sborsato [da lui e dagli altri condebitori]” (così CORONA 2013, 148). Questa ricostruzione, tuttavia, rivelerebbe un’obbligazione che nasce parziaria, ma che poi, ove si verifichi l’inadempimento di uno dei condomini al proprio debito pro quota, si trasforma in solidale per i soli condomini in regola con i pagamenti, tenuti all’intero “residuo”.

Si è anche affermato che il condomino in regola con i pagamenti risponda del debito dei condomini morosi non per intero, ma solo nei limiti della propria quota (TRIOLA 2014, 210). La tesi non appare convincente, poiché l’obbligo posto a carico del condomino in regola discende da un’autonoma garanzia ex lege, che non ha la natura delle spese regolate dall’art. 1123, comma 1, c.c., in ragione della quota come conseguenza dell’appartenenza in comune delle cose, degli impianti e dei servizi.

L’art. 63, comma 2, disp. att., c.c., configura, in capo ai condomini che abbiano regolarmente pagato la loro quota di contribuzione alle spese condominiali, ed in favore del terzo che sia rimasto creditore (per non avergli l’amministratore versato l’importo necessario a soddisfarne le pretese), un’obbligazione sussidiaria ed eventuale, favorita dal beneficium excussionis,avente ad oggetto non l’intera prestazione imputabile al condominio, quanto unicamente le somme dovute dai morosi. Condomini morosi e condomini solventi, pur essendo condebitori responsabili verso il terzo creditore per il saldo dovuto, si trovano in posizione non paritetica, sussistendo una graduazione in ordine al relativo pagamento.

Non è stata quindi affatto superato, e semmai data per scontata dalla l. n. 220/2012, la ricostruzione operata da Cass. S.U., 8 aprile 2008, n. 9148, secondo la quale – com’è noto – non avendo la solidarietà tra i condomini per i debiti nei confronti dei terzi alcun fondamento normativo, e prevalendo, anzi, al riguardo l’intrinseca parziarietà dell’obbligazione, il creditore avrebbe potuto procedere all’esecuzione individualmente nei confronti dei singoli condomini soltanto nei limiti della rispettiva quota di ciascuno e giammai per l’intero.

Si insegna che il debitore sussidiario – sia quando risulti vincolato ad eseguire una prestazione diversa da quella dovuta dall’obbligato principale, sia quando debba adempiere la stessa prestazione inutilmente attesa dal debitore principale – è sempre da considerarsi come tenuto ad un’obbligazione del tutto autonoma e distinta da quella principale. La sussidiarietà è, del resto, eccezione rilevante alla regola posta dall’art. 1292 c.c., in quanto il creditore, pur in presenza di più debitori responsabili per l’intera prestazione da lui vantata, non può indifferentemente rivolgersi ad uno qualsiasi di loro per chiedere l’adempimento della totalità. “Quando la legge dice che il creditore può pretendere l’intero da ciascun debitore, in ciò è implicito anche che il creditore può scegliere liberamente il debitore a cui rivolgersi per primo” (RUBINO, 163; v. anche AMORTH, 14; BUSNELLI, 60; MAZZONI, 612). L’obbligo del debitore sussidiario, pur avendo contenuto identico a quello del debitore principale, funziona essenzialmente come strumento di garanzia del diritto del creditore nei confronti di quest’ultimo, e soltanto perciò, una volta adempiuto il primo, si estinguerebbe di riflesso anche il secondo.

Così impostato il problema, il riconoscimento normativo di una relazione di sussidiarietà tra il debito del condomino moroso e quello del condomino solvente non depone affatto per la sussistenza di un nesso di solidarietà tra gli stessi. È più corretto ravvisare, in favore del creditore, distinte posizioni obbligatorie e perciò anche distinte azioni di adempimento, l’una per l’intero debito, esperibile nei confronti dell’amministratore, e le altre nei limiti della rispettiva quota, verso i singoli condomini, rendendosi poi ammissibile l’eventualità di pretendere da un partecipante il pagamento del debito originariamente dovuto da un altro condomino solo in seguito all’infruttuosa escussione del patrimonio di quest’ultimo.

L’art. 63, comma 2, disp. att. c.c. si spiega come fonte di un’obbligazione legale di garanzia di ogni condomino per le quote non sue. La diversità tra l’obbligo principale e l’obbligo sussidiario si radica nel difetto della eadem causa obligandi, diverse essendo le fonti stesse delle obbligazioni azionate, giacché l’obbligazione per la propria quota ha origine negli artt. 1123 ss. c.c., mentre quella sussidiaria con funzione di garanzia trae origine dall’art. 63, comma 2, disp. att. c.c.

Ravvisare un nesso di sussidiarietà, invece che di solidarietà, tra i debiti dei condomini solventi e quelli dei condomini morosi non è questione meramente teorica, in quanto l’assunto escluderebbe, ad esempio, ai fini dell’estensione dell’efficacia dell’atto interruttivo della prescrizione, la diretta applicazione dell’art. 1310 c.c. (per il quale l’atto interruttivo contro uno dei condebitori in solido determina l’interruzione permanente della prescrizione anche nei confronti dei condebitori). Se ci si convince che il debito del condomino moroso ed il debito di garanzia del condomino in regola derivano da obbligazioni distinte ed indipendenti, sarebbe del tutto ovvia la resistenza ad accettare che l’atto che interrompe la prescrizione nei confronti di un condebitore possa spiegare effetto pure nei confronti dell’altro condebitore. Non è operante per il condomino garante, in regola con i suoi pagamenti, l’art. 1297, comma 1, c.c., limitativo della proponibilità delle eccezioni personali del condomino moroso. Né opera l’art. 1298 c.c., circa il riparto nei rapporti interni, non potendosi certo sostenere che il debito per la quota del moroso si divida in parti uguali con il condomino solvente. Vi sono estranei, ancora, gli artt. 1300, 1301, 1302 e 1303 c.c., non apparendo credibile che, ove vicende estintive diverse dall’adempimento abbiano riguardato il condomino moroso, il condomino garante in regola con i pagamenti sarebbe comunque liberato per la parte del debitore primario. Non si applicano al condomino in regola, che abbia pagato al creditore la quota dovuta dai morosi, le regole che limitano il diritto di regresso nell’àmbito dei rapporti fra condebitori solidali con riferimento alla corrispondente parte di debito (art. 1299 c.c.); piuttosto, il condomino solvente, garantendo l’adempimento del contributo imposto al moroso, ovvero un debito altrui, una volta effettuato il pagamento, avrà azione di regresso per l’intero nei confronti del debitore principale e si surroga nei diritti del creditore. Resterebbero, probabilmente, a regolare pure l’ipotesi di solidarietà impropria corrente tra debito del moroso e debito del condomino a posto con i pagamenti le disposizioni concernenti la transazione col creditore (art. 1304 c.c.), il giuramento (art. 1305 c.c.), la sentenza (art. 1306 c.c.) e il riconoscimento del debito proveniente da uno dei due obbligati (art. 1309 c.c.).

In favore dei condomini in regola con i pagamenti è previsto dal comma 2 dell’art. 63disp. att. c.c. non solo un onere per il creditore di chiedere in primo luogo l’adempimento  dei morosi (c.d. beneficio d’ordine), quanto la più gravosa condizione di escutere preventivamente il patrimonio degli stessi partecipanti inadempienti (c.d.beneficium excussionis).

 La preventiva escussione richiede, comunque, l’esaurimento effettivo della procedura esecutiva individuale in danno del condomino moroso, prima di potere pretendere l’eventuale residuo insoddisfatto al condomino in regola. Essa comporta non soltanto il dovere del terzo di iniziare le azioni contro il moroso, ma anche di continuarle con diligenza e buona fede: dunque, il creditore del condominio deve dapprima agire contro i partecipanti che siano in ritardo nei pagamenti delle spese per ottenere la condanna, ovvero un titolo esecutivo che permetta di dar corso all’espropriazione dei beni di quello; deve, inoltre, compiere ogni atto cautelare contro i beni stessi, per salvaguardarne l’indisponibilità durante il giudizio diretto alla condanna. Si reputa generalmente che il beneficio di preventiva escussione non opera in via diretta, per efficacia della previsione di legge, ma pur sempre in via di tempestiva eccezione dilatoria in senso stretto. L’eccezione sarà rilevabile non soltanto se in concreto sussistano beni da sottoporre ad esecuzione al momento della scadenza del credito, ma sempre che tale esecuzione sia giuridicamente possibile, ipotesi che non si riscontra, ad esempio, con il fallimento del condomino moroso, evento che per definizione esclude la sussistenza di beni da poter sottoporre ad esecuzione individuale.

La lettera dell’art. 63, comma 2, disp. att. c. c. (“i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola”) lascia pensare che il condomino in regola, convenuto in giudizio dal terzo per il pagamento del restante credito condominiale, possa paralizzare, in via di eccezione, l’azione del creditore, con l’opporre utilmente il beneficio della preventiva escussione del patrimonio del condomino moroso, senza dover perciò necessariamente chiamare in causa quest’ultimo. Sembra, dunque, da negare che la disposizione sul beneficio di escussione abbia efficacia limitatamente alla fase esecutiva. Se così altrimenti funzionasse, al terzo creditore non sarebbe impedito di richiedere sùbito stragiudizialmente la prestazione al condomino in regola, per provocarne l’adempimento diretto; né di agire in sede di cognizione per munirsi di uno specifico titolo esecutivo nei confronti pure del condomino adempiente, onde poter iscrivere ipoteca giudiziale sugli immobili di quest’ultimo, oppure poter procedere in via esecutiva contro di lui, senza ulteriori indugi, una volta che il patrimonio del moroso risulti incapiente o insufficiente al soddisfacimento del credito vantato. Per come qui intesa, l’eccezione della mancata escussione del condomino moroso tende, però, al fine diretto della reiezione della domanda di condanna, opponendo al diritto di credito fatto valere dall’attore un diritto idoneo a paralizzarlo. Sono, tuttavia, destinati a riproporsi a proposito del comma 2 dell’art. 63 disp. att. c.c. quei contrasti interpretativi sul beneficio di escussione in senso tecnico, che da decenni animano il dibattito sull’altra ipotesi in cui esso certamente era già presente nel nostro ordinamento, segnata dall’art. 1944, comma 2, c.c. in tema di obblighi del fideiussore. Potrebbe dunque sostenersi, con non minore forza persuasiva, che il beneficio di preventiva escussione genera non soltanto un’eccezione, ma esclude come attualmente esistente l’azione del creditore verso il condomino in regola, il che varrebbe a differire l’insorgenza, o quanto meno l’esigibilità, del debito di garanzia di quest’ultimo fino al momento dell’esito infruttuoso dell’azione nei confronti del condomino moroso: l’essere l’infruttuosa esecuzione fatto costitutivo della pretesa del creditore verso il condomino in regola con i pagamenti, ovvero oggetto di mera eccezione, comporta intuibili differenze, ad esempio, in ordine agli effetti della costituzione in mora di quest’ultimo compiuta prima ancora dell’escussione del moroso, come in ordine alla ripetibilità del pagamento della quota spettante al moroso eseguito nelle mani del creditore dal condomino in regola anteriormente alla preventiva aggressione di quello.

Al condomino in regola con i pagamenti, escusso dal terzo creditore per la parte dovuta dai morosi, dovrà consentirsi di avvalersi, oltre che dell’azione di regresso verso il debitore principale inadempiente, altresì della surrogazione legale (in forza dell’art. 1203, n. 3, c.c.), senza, peraltro, mai esperire contemporaneamente i due rimedi. Com’è noto, mentre il regresso, che ha per oggetto il rimborso di quanto sia stato pagato a titolo di capitale, interessi e spese, consiste in un diritto che sorge per la prima volta in capo al condebitore adempiente (sulla base del c.d. aspetto interno dell’obbligazione plurisoggettiva), la surrogazione implica, invece, con il subentrare del condebitore adempiente nell’originario diritto del creditore soddisfatto (oltre che negli accessori, ivi comprese le eventuali garanzie), l’acquisizione della stessa posizione giuridica del creditore e dà luogo, quindi, ad una vicenda successoria. Il condomino che, adempiuto il debito sussidiario verso il terzo per la quota dovuta dai morosi, faccia valere il suo diritto alla surrogazione legale a norma dell’art. 1203, n. 3), c.c. può, pertanto, vedersi opporre non solo le eccezioni relative al rapporto interno tra i condomini, ma anche quelle opponibili allo stesso terzo creditore, relative a limitazioni, decadenze e prescrizioni inerenti al credito. In tale azione, inoltre, il termine di inizio della prescrizione coincide con quello in cui il debitore in solido abbia adempiuto l’intera obbligazione.

Appare, in definitiva, plausibile concludere nel senso che la posizione del condomino in regola con i pagamenti, chiamato dal creditore a rispondere delle quote dovute dai morosi, dopo la preventiva escussione degli stessi, sia assimilabile a quella di un fideiussore, sia pure ex lege.Il condomino solvente garantisce l’adempimento del contributo imposto al moroso, ovvero un debito altrui

 Ciascun condomino è realmente obbligato (in via primaria verso l’amministratore, e in via surrogatoria verso il creditore) soltanto per la quota di debito proporzionata al valore della sua porzione, ed è invece garante per le quote dei condomini inadempienti, restando i rispettivi rapporti obbligatori distinti perché generati da cause normativamente distinte. L’obbligo del condomino puntuale nei pagamenti, essendo accessorio ed ausiliario di quello del condomino moroso, nonché diretto ad adempiere a quello che quest’ultimo manca di soddisfare, è, in tal senso, condizionato a quell’inadempimento e commisurato alla rispettiva quota non versata.
 

VI. Creditori e conto corrente condominiale

L’art. 1129, comma 7, c.c. obbliga

“l’amministratore a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, nonché quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio”,

aggiungendo che

“ciascun condomino, per il tramite dell’amministratore, può chiedere di prendere visione ed estrarre copia, a proprie spese, della rendicontazione periodica”.

Tra le ipotesi tipizzate di gravi irregolarità, legittimanti la revoca dell’amministratore, figurano, conseguentemente,

i casi della “mancata apertura ed utilizzazione del conto intestato al condominio”,

o anche 

“la gestione secondo modalità che possono generare possibilità di confusione tra il patrimonio del condominio e il patrimonio personale dell’amministratore o di altri condomini” (art. 1129, co. 12°, nn. 3 e 4, c.c.).

La Riforma del 2012, dunque, esplicita un riferimento alla nozione di “patrimonio del condominio”, in modo da tenerlo separato da quello dell’amministratore e dei singoli condomini.

È noto, al riguardo, come la diffusa convinzione del difetto di soggettivazione dell’organizzazione condominiale, e della discendente imputazione immediata in capo ai singoli delle obbligazioni assunte dall’amministratore per le parti comuni, nonché della correlata responsabilità, discendesse proprio dal mancato rinvenimento nella disciplina codicistica del condominio di un patrimonio autonomo o di un fondo comune ricollegati al gruppo. Oltre alla generale impossibilità di individuare un debitore inadempiente in un soggetto sprovvisto di un elemento patrimoniale in grado di soddisfare anche coattivamente l’interesse del creditore, si è fatta sempre rilevare, al fine di escludere la responsabilità del condominio, la peculiare insuscettibilità all’espropriazione ed alla vendita delle cose, degli impianti e dei servizi condominiali (Capponi, 201). In sostanza, veniva affermato che il condominio intanto si sarebbe potuto dire debitore  se fosse stato dotato di suoi beni, e cioè di un patrimonio che garantisse l’adempimento, assorbendo le ricadute dell’eventuale inadempimento, in base alla regola generale posta dall’art. 2740 c.c. Così, la struttura delle obbligazioni assunte dall’amministratore è stata costantemente desunta non dall’esame della fattispecie costitutiva del vincolo, ma dall’esigenza di allocare economicamente gli effetti di quella fattispecie. Il bisogno di riferire al singolo condomino gli effetti dell’obbligazione scaturente dalla deliberazione assembleare o dall’attività dell’amministratore sorgeva dal calcolo degli inconvenienti legati alla tutela della garanzia del terzo creditore, che avesse dapprima contratto con il condominio e andasse poi alla ricerca di un patrimonio da assoggettare all’azione esecutiva. In verità, la mancanza di un patrimonio autonomo già non sembrava argomento decisivo nella ricostruzione della struttura delle obbligazioni assunte dall’amministratore per la gestione delle cose comuni. Andrebbe ancora aggiunto che, per il vero, l’ordinamento del condominio conosce pure la possibilità di costituire un proprio “fondo speciale”. Ci si riferisce all’obbligo (e non più facoltà), imposto all’assemblea dall’art. 1135, n. 4) c.c., di predisporre un fondo speciale per le opere di manutenzione straordinarie e le innovazioni, di importo pari all’ammontare dei lavori.

Ora, per effetto della Riforma del 2012, si avrà necessariamente “uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio”, nonché un “patrimonio del condominio”.

Il conto intestato al condominio potrà allora rappresentare la misura della responsabilità patrimoniale dei condomini per le obbligazioni di gestione delle cose comuni. Non sarebbe più inevitabile ritenere che i singoli partecipanti siano obbligati diretti verso i terzi creditori, passando i loro debiti di contribuzione attraverso il conto corrente ed il patrimonio comune, nei limiti determinati dall’art. 1123 c.c. Laddove i fondi a disposizione dell’amministratore si rivelassero insufficienti per l’adempimento delle obbligazioni contratte, questi sarebbe l’unico legittimato a richiedere in via primaria ai condomini il pagamento dei contributi necessari; ai terzi creditori sarebbe concessa invece un’azione surrogatoria, in luogo dell’amministratore, rimasto inerte nell’adempiere al suo dovere. Così si spiegherebbe anche il nuovo art. 63, co. 1° e 2°, disp. att. c.c.

Non è decisivo replicare che il conto corrente intestato al condominio, formato con i contributi dei condomini, non viene sottoposto a misure di conservazione, in modo da concentrarvi la garanzia dei creditori. Alcun vincolo sorge, si obietta da alcuni, dall’apertura del conto corrente al soddisfacimento delle obbligazioni connesse alla gestione condominiale, il che renderebbe possibile in ogni momento la distrazione delle somme raccolte e la loro restituzione ai singoli. Ora, è innegabile che il conto corrente intestato al condominio, a norma dell’art. 1129, co. 7°, c.c., non è inquadrabile fra i patrimoni separati, in quanto la stessa previsione normativa non imprime ad esso alcun vincolo di destinazione; ciò però non significa che il conto condominiale non svolga, comunque, una funzione di garanzia e di responsabilità, allo scopo di assicurare i terzi creditori del condominio. Trattandosi di garanzia generica, come del resto la responsabilità patrimonialeexart. 2740 c.c., essa non è provvista di forza di esclusione o di prelazione; né, una volta allestito il conto, può essere sottratta ai condomini la libera disponibilità dello stesso, rimanendo al creditore di azionare gli strumenti di tutela preventiva o successiva della sua garanzia.

Tutti i contributi versati dai partecipanti devono transitare sul conto corrente intestato al condominio, confondendosi con le altre somme già ivi esistenti, e andando perciò ad integrare quel saldo che è ad immediata disposizione del correntista “condominio”, secondo l’art. 1852 c.c., senza che mantenga alcun rilievo lo specifico titolo dell’annotazione a credito, né la provenienza della provvista dall’uno o dall’altro condomino. Quando, così, un creditore del condominio sottoponga a pignoramento le somme risultanti presso l’istituto bancario ove il condominio intrattiene il rapporto di conto corrente e sul quale affluiscono anche le rate del fondo per la manutenzione straordinaria e le innovazioni, il credito del debitore che viene pignorato è il credito alla restituzione delle medesime somme depositate, il quale trova causa, appunto,  nel rapporto di conto corrente, rimanendo del tutto prive di significato le ragioni per le quali le singole rimesse siano state effettuate, come la provenienza delle stesse dall’uno o dall’altro condomino. Si assume da alcuni che, pignorando il creditore le somme giacenti sul conto corrente intestato al condominio, ove si siano determinate morosità tra i partecipanti con riguardo a quella determinata spesa, lo stesso creditore verrebbe così ad aggirare il “beneficium excussionis” posto dall’art. 63, co. 2°, disp. att., aggredendo in via diretta la disponibilità bancaria creata proprio dai soli obbligati in regola coi pagamenti. Occorre tuttavia ricordare come, ogni qual volta la gestione condominiale contragga con un terzo, coesistono distinte obbligazioni, concernenti, rispettivamente, l’intero debito e le singole quote, facenti capo la prima al condominio, rappresentato dall’amministratore, e le altre ai singoli condomini, tenuti in ragione e nella misura della partecipazione al condominio ai sensi dell’art. 1123 c.c. ed agli effetti dell’art. 63, co. 1° e 2°, disp. att. c.c. (Cass. 27 settembre 1996, n. 8530). Le diverse azioni di adempimento –  quelle nei confronti del condominio, e per l’intero debito, in via diretta, e quelle, invece, pro quota, verso i singoli condomini, in via surrogatoria – possono essere proposte anche cumulativamente, fondandosi su diversi presupposti: ovvero, rispettivamente, il contratto che lega il condominio al terzo creditore e l’obbligo ex lege gravante sui singoli condomini di contribuire alle spese comuni. Il pignoramento del saldo di conto corrente condominiale da parte del creditore è allora volto a soddisfare in via esecutiva la sola obbligazione per l’intero gravante  sull’amministratore e non interferisce col meccanismo del beneficio di escussione ex art. 63, co. 2°, disp. att. c.c., il quale è posto a presidio unicamente dei distinti obblighi pro quota spettanti ai singoli.

VII. Deliberazioni dell’assemblea e creditori

Dovrebbero qualificarsi nulle tutte le deliberazioni dell’assemblea, prese a maggioranza, che abbiano l’effetto di far insorgere in capo ai condomini, in regola coi pagamenti delle spese, l’obbligo di sopperire all’inadempimento dei morosi, ampliandone la responsabilità patrimoniale sussidiaria rispetto al meccanismo di garanzia e preventiva escussione stabilito dall’art. 63, comma 2, disp. att. c.c.

Appare, invero, estranea  alle attribuzioni della assemblea la delibera con cui la maggioranza dei partecipanti provveda a ripartire tra i condomini non morosi il debito delle quote condominiali dei condomini morosi, oppure ad istituire un fondo cassa ad hoc, non sussistendo in capo ai condomini in regola coi versamenti delle quote di rispettiva pertinenza alcun vincolo di solidarietà passiva in senso proprio nei confronti del terzo creditore, e non potendosi, perciò, prefigurare alcuna urgenza derivante dalla possibile esecuzione individuale, la quale è subordinata all’infruttuosa esecuzione nei confronti degli inadempienti (così già Trib. Salerno, 6 giugno2009, in Arch. loc. e cond. 2009,  459, superando Cass., 5 novembre 2001, n. 13631, alla stregua dell’insegnamento di Cass., 8 aprile 2008, n. 9148; ma la validità di una simile delibera è ancora condivisa da Cass., 18 aprile 2014, n. 9083).

Così nulla (occorrendo a tale scopo, altrimenti, una convenzione presa all’unanimità) è la delibera di approvazione di interventi di manutenzione straordinaria o di innovazioni che disponga di non costituire il preventivo fondo speciale di importo pari all’ammontare dei lavori, ovvero, se sia così previsto dal contratto, il fondo pari ai singoli pagamenti dovuti in funzione del progressivo stato di avanzamento delle opere. L’art. 1135 n. 4 c. c. (anch’esso modificato dal citato d. l. n. 145 del 2013) postula, infatti, che l’allestimento anticipato del fondo speciale per gli indicati lavori (che sono poi quelli di più rilevante importo e perciò di maggiore esposizione patrimoniale) soddisfi l’interesse anche del singolo condomino a veder escluso il proprio rischio di dover garantire al terzo creditore il pagamento dovuto dai morosi, secondo quanto ora previsto dal comma 2 dell’art. 63 disp. att. c.c., essendo il versamento anticipato delle somme da parte di tutti i partecipanti condizione di legittimità della delibera di approvazione delle opere.

Un identico argomentare può portare a sostenere la nullità della deliberazione assembleare volta alla stipula di un mutuo giustificata dall’urgenza di trarre “aliunde” le somme necessarie per la gestione comune, in maniera da soddisfare i terzi creditori del condominio ovviando alla carenza di liquidità cagionata dall”inadempimento dei morosi. L’apertura del finanziamento bancario, rendendo esposto verso l’istituto di credito ciascun singolo condomino mutuatario per l’intera somma data in prestito, amplia gli obblighi di contribuzione alla gestione condominiale dello stesso singolo rispetto a quelli gravanti in base ai criteri di proporzionalità fissati nell’art. 1123 cod. civ., nonché alla garanzia voluta dall’art. 63, comma 2, disp. att., c.c., e perciò impone il conferimento di un apposito mandato a contrarre all’amministratore, ovvero una convenzione da adottare all’unanimità (per la sufficienza dell’autorizzazione dell’assemblea del condominio al fine di contrarre un mutuo per il pagamento delle spese di gestione, Cass., 5 marzo 1990, n. 1734).

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La relazione tenuta da Antonio Scarpa al corso della Scuola della Magistratura sul contenzioso in materia immobiliare ha ad oggetto la disciplina dei rapporti tra condominio e terzi creditori, disciplina che costituisce un aspetto di oggettiva novità nella Riforma della normativa in materia di condominio negli edifici disposta con la legge 11 dicembre 2012, n. 220 e poi già modificata con il decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 145, convertito nella legge 21 febbraio 2014, n. 9.

La figura dei creditori cui fanno rinvio i commi 1 e 2 dell’art. 63, disp. att. c.c. induce a riflettere sulla problematica relativa alla possibilità di concepire un’autonoma soggettività giuridica in capo al condominio, così come del resto prospettato da Cass. sez. un. 18 settembre 2014, n. 19663, che ha sottolineato la presenza di elementi (tratti dall’art. 1129, comma 12, n. 4, c.c., dall’art. 1135, n. 4, c.c., e, soprattutto, dall’art. 2659, comma 1, n. 1, c.c.)‹‹che vanno nella direzione della progressiva configurabilità in capo al condominio di una sia pure attenuata personalità giuridica, e comunque sicuramente, in atto, di una soggettività giuridica autonoma››.

Ciò dovrebbe, dunque, invogliare gli interpreti ad abbandonare ogni remora nel ravvisare diritti ed obblighi riferibili al condominio in quante tale, e non invece sempre e comunque immediatamente imputabili – per l’intero o in proporzione alle rispettive quote – a ciascuno dei condomini.

La relazione di Antonio Scarpa tratta dapprima il tema della morosità ultrasemestrale, individuando come punto di partenza l’art. 1129 comma 9 c.c., che obbliga l’amministratore ad agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell’esercizio nel quale sia compreso il credito esigibile, a meno che non sia stato espressamente dispensato dall’assemblea.

Viene, dunque, da un lato specificato il criterio per individuare ildies a quodel detto termine semestrale e, dall’altro, puntualizzato che la mora nel pagamento dei contributi condominiali protratta per oltre un semestre legittima l’amministratore a sospendere al condomino l’utilizzazione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato.

Il collega Scarpa si sofferma, poi, sul diritto riconosciuto, a seguito della Riforma, ad ogni condomino di rivolgere espressa richiesta all’amministratore circa la situazione di morosità degli altri partecipanti senza che sia necessario il consenso espresso, libero, specifico e documentato per iscritto (art. 23 del d.lgs. n. 196/2003) dei condomini inadempienti interessati e sul contestuale dovere dell’amministratore di comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi nel rispetto delle prescrizioni indicate dal Garante per la protezione dei dati personali relative alle operazioni di trattamento di dati personali effettuate nell’àmbito delle attività connesse all’amministrazione dei condomini.

L’elaborato prosegue, poi, con l’analisi delle differenti categorie dei “creditori non ancora soddisfatti”, dei “condomini “morosi” e degli “obbligati in regola con i pagamenti”cui l’art. 63 disp. att. cod. civ fa riferimento e delle rispettive azioni che i creditori possono azionare per far valere le proprie ragioni.

Viene anche puntualizzato che il debito per le spese condominiali (il pagamento delle quali costituisce un’obbligazione “portabile”, in quanto ha per oggetto una somma di danaro già determinata nel suo ammontare o comunque determinabile in base ad un semplice calcolo aritmetico, sicché la mora del singolo condomino debitore si determina, ai sensi dell’art. 1219, comma 2, n. 3, c.c., alla scadenza del termine in cui il pagamento deve essere eseguito) è soggetto alle generali regole delle obbligazioni pecuniarie contenute negli artt. 1182, comma 3, e 1277, comma 1, c.c., per le quali le obbligazioni aventi per oggetto somme di danaro devono adempiersi al domicilio del creditore e con moneta avente corso legale.

Si prospettano, poi, le possibili conseguenze derivanti dalla mancata riscossione da parte dell’amministratore dei contributi dovuti dai condomini morosi, circostanza che potrebbe costituire il presupposto per l’esercizio dell’azione surrogatoria intentata dal terzo creditore nei confronti dei morosi per la revoca giudiziale dell’amministratore ai sensi dell’art. 1129, comma 12, n. 6), c.c. (ove lo stesso abbia “omesso di curare diligentemente l’azione e la conseguente esecuzione coattiva”), oltre che per l’individuazione di una responsabilità dell’amministratore nei confronti del medesimo terzo creditore.

Viene inoltre analizzata la complessa struttura del rapporto obbligatorio corrente tra il creditore e il condominio, che può identificarsi come autonoma “parte negoziale”, e dunque come centro di imputazione delle posizioni attive o passive nascenti dal contratto concluso per la gestione delle parti comuni, avente carattere soggettivamente complesso, e perciò insensibile alle mutazioni attinenti ai soggetti che la costituiscono.

Ci si sofferma anche sulla natura dell’obbligazione derivante dal condominio, obbligazione che nascerebbe parziaria, ma che poi, ove si verifichi l’inadempimento di uno dei condomini al proprio debito pro quota, si trasformerebbe in solidale per i soli condomini in regola con i pagamenti, tenuti all’intero “residuo” verso i creditori.

È possibile, infatti, ravvisare in favore del creditore distinte posizioni obbligatorie e perciò anche distinte azioni di adempimento, l’una per l’intero debito, esperibile nei confronti dell’amministratore, e le altre nei limiti della rispettiva quota verso i singoli condomini, rendendosi poi ammissibile l’eventualità di pretendere da un partecipante il pagamento del debito originariamente dovuto da un altro condomino solo in seguito all’infruttuosa escussione del patrimonio di quest’ultimo.

In favore dei condomini in regola con i pagamenti è previsto dal comma 2 dell’art. 63 disp. att. c.c. non solo un onere per il creditore di chiedere in primo luogo l’adempimento dei morosi (c.d. beneficio d’ordine), quanto la più gravosa condizione di escutere preventivamente il patrimonio degli stessi partecipanti inadempienti (c.d.beneficium excussionis). Al condomino in regola con i pagamenti, escusso dal terzo creditore per la parte dovuta dai morosi, dovrà poi consentirsi di avvalersi, oltre che dell’azione di regresso verso il debitore principale inadempiente, anche della surrogazione legale (in forza dell’art. 1203, n. 3, c.c.).

La relazione termina, infine, con un approfondimento del tema relativo al patrimonio del condominio, al quale, per effetto della Riforma del 2012, dovrà essere necessariamente intestato “uno specifico conto corrente, postale o bancario”,che rappresenterà, dunque, la misura della responsabilità patrimoniale dei condomini per le obbligazioni di gestione delle cose comuni e che, pur non essendo inquadrabile tra i patrimoni separati, svolge comunque una funzione di garanzia e di responsabilità, allo scopo di assicurare i terzi creditori del condominio.

Danni post-trasfusionali: le Sezioni Unite fissano la decorrenza del termine decadenziale

Il termine triennale di decadenza per il conseguimento della prestazione indennitaria per epatite post-trasfusionale contratta in epoca antecedente all’entrata in vigore della legge 25 luglio 1997, n. 238, decorre dal 28 luglio 1997, data di entrata in vigore della nuova disciplina, dovendosi ritenere, conformemente ai principi generali dell’ordinamento in materia di termini, che, ove una modifica normativa introduca un termine di decadenza prima non previsto, la nuova disciplina si applichi anche alle situazioni soggettive già in essere, ma la decorrenza del termine viene fissata con riferimento all’entrata in vigore della modifica legislativa.

Cassazione civile Sentenza, Sez. SS.UU., 22/07/2015, n. 15352

Tale il principio di diritto espressamente enunciato dalle Sezioni Unite del Supremo Collegio intervenute in una recente decisione a dirimere un contrasto di giurisprudenza insorto all’interno della Sezione lavoro in punto di applicabilità, o meno, del termine di decadenza introdotto dalla legge n. 238 del 1997 alle ipotesi di epatiti post-trasfusionali contratte ed accertate prima dell’entrata in vigore della legge.

A tal fine, si ricorda che, non essendo stato previsto dal legislatore alcun termine di decadenza per il caso di epatiti post-trasfusionali, l’art. 1, comma 9, della legge n. 238 del 1997 aveva provveduto a sostituire il testo dell’art. 3, comma 1, della legge n. 210 del 1992, stabilendo che i soggetti interessati ad ottenere l’indennizzo di cui all’art. 1, comma 1, presentano alla USL competente le relative domande, indirizzate al Ministro della sanità, entro il termine perentorio di tre anni nel caso di vaccinazioni o di epatiti post-trasfusionali o di dieci anni nei casi di pensioni da HIV. I termini decorrono dal momento in cui, sulla base della documentazione di cui ai commi 2 e 3, l’avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno.

L’opzione ermeneutica accolta dalle Sezioni Unite – investite della soluzione di una questione di diritto transitorio in quanto attinente alla determinazione dell’incidenza di una legge sopravvenuta che introduce ex novo un termine di decadenza su una situazione ancora pendente – si fonda sull’assunto che, in tema di prescrizione e decadenza, l’entrata in vigore di una nuova normativa che introduce un termine che prima non era previsto, ha efficacia generale dovendosi ritenere applicabile anche a coloro che già si trovano nella situazione prevista dalla legge per esercitare il diritto ora sottoposto a decadenza, con l’unica differenza, che la decorrenza del termine inizia con l’entrata in vigore della legge che lo ha introdotto. Tale orientamento, che recepisce il più recente indirizzo giurisprudenziale accolto nella Sezione lavoro,  utilizza la disposizione contenuta nell’art. 252 disp. att. cod. civ., considerata espressione, conclude la Cassazione, di un principio generale dell’ordinamento, in quanto ispirato ad esigenze di equità.

Riferimenti normativi: Legge 25/02/1992 num. 210 art. 3; Legge 25/07/1997 num. 238 art. 1; Disp. Att. Cod. Civ. art. 252

Precedenti giurisprudenziali: Cass. civ. Sez. VI – Lavoro, Ord., 29-09-2014, n. 20519; Cass. civ. Sez. lavoro, 12/05/2014, n. 10215; Cass. civ. Sez. lavoro, 12/06/2014, n. 13355; Cass. civ. Sez. VI – Lavoro Ordinanza, 28/03/2014, n. 7392; Cass. civ. Sez. lavoro, 20/02/2014, n. 4051; Cass. civ. Sez. lavoro, 10/07/2013, n. 17131; Cass. civ. Sez. lavoro, 03/02/2012, n. 1635; Cass. civ. Sez. lavoro, 08-05-2004, n. 8781; Cass. civ. Sez. lavoro, 17-04-2004, n. 7341; Cass. civ. Sez. lavoro, 23-04-2003, n. 6500.

In tema si segnalano altre due pronunce.

La prima è Sez. 3, Sentenza n. 26152 del 12/12/2014 (Presidente: Segreto A.; Estensore: Scarano LA.), la quale ha statuito che il Ministero della salute è tenuto ad esercitare un’attività di controllo e di vigilanza in ordine alla pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell’uso degli emoderivati sicché risponde, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., dei danni conseguenti ad epatite ed a infezione da HIV, contratte da soggetti emotrasfusi, per omessa vigilanza sulla sostanza ematica e sugli emoderivati.

La seconda è Sez. 3,  Sentenza n. 10291  del  20/05/2015 (Presidente:  Berruti G.M.;  Relatore:  Carluccio G.), a mente della quale l’affermazione della responsabilità omissiva del Ministero della salute per contagio da trasfusioni di sangue infetto, postula, oltre al riscontro dell’omissione dell’attività dal primo dovuta, dell’esistenza della patologia e dell’assenza di altri fattori causali alternativi, l’accertamento, da svolgersi dal giudice di merito con riferimento all’epoca di produzione del preparato, della conoscenza oggettiva, ai più alti livelli scientifici, della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto, di guisa che possa dirsi, secondo un giudizio ipotetico, che l’azione omessa avrebbe potuto impedire l’evento, essendo obbiettivamente prevedibile che ne sarebbe potuta derivare come conseguenza la lesione. Tale accertamento deve ritenersi raggiunto nel 1978, con il riconoscimento del virus dell’epatite “B” da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, sempre che non emerga altra data antecedente con lo stesso livello di oggettività. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, in carenza di accertamenti diversi dal suddetto riconoscimento in sede internazionale del virus dell’epatite B, aveva sancito la responsabilità del Ministero ricorrente per danni provocati dal contagio da epatite “C” insorta in occasione di trasfusioni eseguite tra il 1970 ed il 1974).

RIFERIMENTI NORMATIVI: artt. 2056, 2043, 1223, 1226; art. 40 e 41 c.p.; art. 32 Cost..

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI: Vedi: Cass. 5954 del 2014, rv.630602 ;SU (sent) Cass. n. 576 del 2008, rv.600899 e 600900; Diff: Cass. 17685 del 2011, rv. 619471.

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di Marco Pietricola

Recentemente sono pervenute all’attenzione della giurisprudenza di merito presso diversi Tribunali italiani numerose istanze di tutela giurisdizionale presentate dai cd. “precari della scuola” e volte ad ottenere, spesso in via cautelare, l’inserimento nelle cd. “G.A.E.-Graduatorie ad Esaurimento” del settore scolastico, ossia quelle graduatorie  utilizzate dal MIUR-Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca in funzione della stipula di contratti di lavoro a tempo indeterminato con il personale docente in servizio a tempo determinato ovvero a titolo di supplenza e simili presso le varie istituzioni scolastiche italiane di ogni ordine e grado.

Si tratta, dunque, di una delle tante questioni – non solo di natura tecnico-giuridica ma con evidenti risvolti anche sociali – che negli ultimi tempi hanno interessato il mondo del lavoro, soprattutto con riferimento al tema dei cd. “precari del pubblico impiego”.

Ebbene, la questione può compendiarsi nei termini che seguono: alcuni insegnanti precari abilitati alla professione docente in forza di diploma di maturità magistrale conseguito entro l’anno scolastico 2001/2002 al termine dei rispettivi e relativi corsi quadriennali dell’Istituto Magistrale ed inseriti nelle graduatorie di circolo e di istituto utilizzabili esclusivamente per il conferimento delle supplenze brevi e non per l’assunzione a tempo indeterminato, ritenendo di avere diritto ad essere inclusi per le classi di concorso Scuola dell’Infanzia (AAAA) e Scuola Primaria (EEEE) nella terza fascia delle citate graduatorie ad esaurimento definitive di un dato ambito scolastico territoriale provinciale valide per gli anni scolastici 2014/2017 (ossia nelle graduatorie appunto riservate agli abilitati ed utilizzabili ai fini dell’assunzione a tempo indeterminato per il 50% dei posti annualmente banditi dal MIUR-Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ai sensi dell’art. 399 del D.Lgs. n. 297/1994 s.m.i.), hanno avviato diversi procedimenti giurisdizionali – sia in via cautelare che ordinaria – innanzi a numerosi Tribunali italiani deducendo che il D.M. n. 235/2014 (recante disposizioni per l’aggiornamento delle graduatorie in questione per il triennio 2014/2017) ha illegittimamente negato ai docenti titolari di diploma magistrale conseguito entro l’anno scolastico 2001/2002 la possibilità di presentare domanda di inserimento nelle graduatorie de quibusutilizzabili per le assunzioni a tempo indeterminato, avendo lo stesso soltanto previsto la possibilità di presentare domanda di aggiornamento della posizione eventualmente già ricoperta nell’ambito delle predette graduatorie (sicché, sulla base delle dette disposizioni di cui al D.M. n. 235/2014, il programma informatico concepito dal MIUR-Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca per la presentazione delle domande in oggetto impediva ed impedisce ancora loro – in quanto, come detto, non ancora iscritti nelle dette graduatorie ad esaurimento definitive – di potersi anche solo registrare e farsi quindi riconoscere dal sistema quali docenti per poi, eventualmente, inoltrare la propria rispettiva istanza che l’art. 10, comma 2, lett. b), del suddetto D.M. n. 235/2014 consente di presentare, a pena di esclusione, solo mediante le suddette modalità informatiche meglio precisate dall’art. 9, commi 2 e 3, del D.M. n. 235/2014 medesimo); che il Consiglio di Stato, con sentenza n. 1973/2015, ha ribadito che il diploma magistrale conseguito entro l’anno scolastico 2001/2002 costituisce titolo abilitante a tutti gli effetti di legge e che, conseguentemente, i criteri fissati dal decreto ministeriale n. 235/2014, nella parte in cui hanno precluso ai docenti muniti del diploma magistrale conseguito entro l’anno scolastico 2001/2002 l’inserimento nelle graduatorie provinciali permanenti ora ad esaurimento, sono illegittimi e vanno annullati, sicché ne discenderebbe l’obbligo per il MIUR-Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca di consentire l’acquisizione delle domande di inserimento dei diplomati magistrali ante 2001 nella terza fascia delle graduatorie permanenti ora ad esaurimento; che, dopo aver appreso che il D.M. n. 235/2014 era stato annullato in parte qua per effetto della detta sentenza del Consiglio di Stato n. 1973/2015, avevano inoltrato alla competente autorità scolastica provinciale apposita richiesta volta ad ottenere l’accesso al sistema informatico di aggiornamento delle graduatorie in questione ovvero, almeno, l’autorizzazione alla presentazione delle domande in oggetto in forma cartacea; e che, nonostante ciò, non avevano ricevuto alcun positivo riscontro alla suddetta richiesta.

Tanto dedotto in fatto, hanno poi argomentato in diritto i detti docenti, a sostegno delle domande così azionate, che sussiste nei casi di specie la giurisdizione del giudice ordinario (in funzione di giudice del lavoro) sulla scorta della prevalente giurisprudenza di legittimità esistente sul punto nonché alla luce dell’oggetto del presente giudizio; che il D.M. n. 235/2014 deve considerarsi illegittimo nella parte de qua agitur sulla scorta anche della recente sentenza del Consiglio di Stato n. 1973/2015 e dei principi di diritto in essa affermati pure in ordine alla natura pienamente abilitante da riconoscere nel vigente ordinamento giuridico al diploma magistrale conseguito entro l’anno scolastico 2001/2002; che, peraltro, deve altresì riconoscersi efficacia erga omnes alla detta pronuncia del Consiglio di Stato n. 1973/2015 in quanto volta al parziale annullamento del D.M. n. 235/2014, ossia al parziale annullamento di un atto regolamentare o comunque dotato di carattere generale ed astratto e, dunque, volta ad eliminare parzialmente dal mondo giuridico – ed appunto con efficacia non limitata inter partes bensì generalizzata – il suddetto decreto ministeriale; e che sussiste, infine, il loro interesse ad agire anche in via cautelare alla luce, in particolare, dell’imminente varo di un piano straordinario di immissione in ruolo di circa 100.000 docenti precari da selezionare anche attingendo alle graduatorie ad esaurimento di cui si controverte in questa sede (piano straordinario poi adottato a livello legislativo con l’approvazione della Legge n. 107/2015).

Tanto dedotto in fatto ed in diritto, hanno quindi concluso, previa disapplicazione del D.M. n. 235/2015 nella parte in cui non consente loro di presentare domanda di inserimento nella terza fascia delle graduatorie ad esaurimento definitive dell’ambito scolastico territoriale provinciale richiesto per le classi di concorso Scuola dell’Infanzia (AAAA) e Scuola Primaria (EEEE) valide per il triennio 2014/2017 e delle stesse graduatorie ad esaurimento definitive per il personale docente del detto ambito scolastico territoriale provinciale valide per le classi di concorso Scuola dell’Infanzia (AAAA) e Scuola Primaria (EEEE) per gli anni scolastici 2014/2017 nella parte in cui non contemplano il loro rispettivo inserimento nelle stesse, affinché, in via cautelare, venga ordinato all’Amministrazione scolastica resistente di consentire loro la presentazione della propria rispettiva domanda di inserimento nelle dette graduatorie riattivando a tal fine le correlative funzioni della suddetta piattaforma informatica “Istanze on line” ovvero ritenendo utilmente prodotte le stesse anche se inoltrate per via cartacea e venga conseguentemente ordinato alla stessa di accogliere le suddette relative e rispettive domande al fine della loro partecipazione al piano straordinario di immissione in ruolo di cui sopra, e, nel merito, affinché venga accertato e dichiarato il loro diritto alla presentazione delle domande de quibus con conseguente condanna delle suddette Amministrazioni resistenti all’adozione di tutti i correlativi necessari atti e provvedimenti di legge al fine della loro partecipazione al predetto piano straordinario di immissione in ruolo ovvero, in via di estremo subordine, al fine del riutilizzo delle graduatorie in oggetto – così come rettificate per via del loro inserimento nelle stesse con decorrenza dalla data di presentazione della domanda giudiziale – da parte delle Amministrazioni resistenti medesime in vista – in ultima istanza – della corretta individuazione dei destinatari della proposta di stipula del relativo contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Orbene, a fronte di siffatte deduzioni in fatto e delle dette argomentazioni giuridiche la giurisprudenza di merito allo stato prevalente (non mancano, tuttavia, importanti orientamenti di segno contrario) ha anzitutto evidenziato (si tratta di pronunce, per il momento, adottate solo in sede cautelare e nelle more, dunque, del relativo giudizio di merito), con riguardo al profilo attinente la sussistenza o meno nei casi de quibus della giurisdizione del giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro, che, sebbene la questione sia controversa (si pensi, a mero titolo d’esempio, alle divergenti statuizioni rese sul punto da Tribunale di Livorno del 15.06.2015 e Tribunale di Bologna del 03.07.2015 nel senso della sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario nel caso di specie, da un lato, e da Tribunale di Mantova del 10.06.2015 nel senso della sussistenza, viceversa, della giurisdizione del giudice amministrativo, dall’altro lato), deve aversi riguardo, in proposito, a quanto chiarito dalla più recente giurisprudenza della Corte Suprema di Cassazione secondo cui “In tema di graduatorie permanenti del personale della scuola, con riferimento alle controversie promosse per l’accertamento del diritto al collocamento in graduatoria ai sensi del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, e successive modificazioni, la giurisdizione spetta al giudice ordinario, venendo in questione determinazioni assunte con la capacità ed i poteri del datore di lavoro privato (art. 5 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165), di fronte alle quali sono configurabili diritti soggettivi, avendo la pretesa ad oggetto la conformità a legge degli atti di gestione della graduatoria utile per l’eventuale assunzione, e non potendo configurarsi l’inerenza a procedure concorsuali – per le quali l’art. 63 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, mantiene la giurisdizione del giudice amministrativo – in quanto trattasi, piuttosto, dell’inserimento di coloro che sono in possesso di determinati requisiti in una graduatoria preordinata al conferimento dei posti che si rendano disponibili” (in tal senso, fra le molte, cfr.: Cass., SS. UU., ordinanza n. 16756/2014. Nello stesso senso, cfr. altresì: Cass., SS. UU., n. 3032/2011 e Cass., SS. UU., n. 17466/2009 nonché, nell’ambito della giurisprudenza amministrativa, Consiglio di Stato, n. 33/2011 e Consiglio di Stato, n. 11/2011).

Ebbene, nei casi in oggetto si controverte proprio in ordine alla sussistenza o meno in capo agli insegnanti istanti del diritto al loro inserimento nelle graduatorie ad esaurimento definitive per il personale docente di un dato ambito scolastico territoriale provinciale valide per le classi di concorso Scuola dell’Infanzia (AAAA) e Scuola Primaria (EEEE) per gli anni scolastici 2014/2017, con conseguente sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario.

Invero, è al cd. “petitum sostanziale” che occorre fare riferimento al fine di individuare l’autorità munita di potestas iudicandi in ordine ad una data domanda giurisdizionale, ossia, in altri termini, occorre avere riguardo, a tali fini, non tanto alla pronuncia che si chiede al giudice di adottare nel singolo caso concreto quanto piuttosto, e più propriamente, alla natura della situazione giuridica sostanziale dedotta in giudizio così come emergente in forza degli elementi in fatto ed in diritto allegati dalle parti in lite (in questo senso, fra le altre e sia pure con riferimento a fattispecie soltanto analoga a quella oggetto del presente giudizio ma con enunciazione di principi generali in quanto tali da ritenere certamente applicabili anche nel caso de quo, cfr.: Cass., SS. UU., n. 11229/2014, secondo cui, per quanto in questa sede maggiormente interessa, “Ai fini del riparto della giurisdizione rileva il “petitum” sostanziale, come prospettato nella domanda … (…omissis…) …”).

Nel caso che ci occupa, costituisce appunto oggetto del contendere non tanto la richiesta dei detti docenti volta ad ottenere una pronuncia di condanna delle Amministrazioni convenute a consentire loro la presentazione della propria rispettiva domanda di inserimento nelle graduatorie di cui qui si controverte in via telematica ovvero, in alternativa, in via cartacea (ciò che evidentemente, di per sé considerato, sarebbe insuscettibile di arrecare loro una qualunque utilità ed indurrebbe quindi a ritenerli privi di un concreto interesse ad agire rispetto ad una simile domanda) quanto piuttosto, e più propriamente, la richiesta degli stessi di condanna di parte convenuta a consentire il loro inserimento nella terza fascia delle dette graduatorie ad esaurimento definitive.

Conseguentemente, questo essendo a ben vedere l’oggetto della domanda, non può che concludersi, sotto il profilo qui in esame, nel senso che l’autorità munita di potestas iudicandi deve in tal caso essere individuata nell’autorità giudiziaria ordinaria in funzione di giudice del lavoro, e tanto alla stregua della già ricordata giurisprudenza di legittimità nonché amministrativa di cui sopra ed alla stregua altresì della natura appunto di diritto soggettivo intrinsecamente caratterizzante la situazione giuridica sostanziale dedotta in giudizio in simili ipotesi.

Ciò posto sotto il profilo della giurisdizione, occorre ora specificare, per ragioni di completezza, che nel caso di specie deve reputarsi altresì sussistente la competenza per territorio del Tribunale (in funzione di giudice del lavoro) nel cui circondario ha sede l’Amministrazione scolastica provinciale nelle cui graduatorie ad esaurimento ambiscono ad essere inseriti.

Invero, “La competenza per territorio in relazione ad una domanda diretta alla costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di una P.A., volta, nella specie, all’accertamento del diritto di un’insegnante all’inclusione nella graduatoria dell’ufficio scolastico provinciale con conseguente immissione in ruolo e sottoscrizione del contratto a tempo indeterminato, spetta, in difetto di un rapporto già in essere, al giudice nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio dove il ricorrente chiede di essere assunto, dovendosi stabilire, agli effetti dell’art. 413, quinto comma, cod. proc. civ., un’equazione fra rapporto di lavoro già costituito e rapporto di lavoro virtuale” (in tal senso, fra le altre, cfr.: Cass., n. 10697/2015).

Ancora in via preliminare, occorre poi sottolineare come la prevalente giurisprudenza della Corte Suprema di Cassazione abbia chiarito che “È valida, pur non essendo espressamente prevista dalla legge, la contestuale proposizione, nell’atto di ricorso al Tribunale per ottenere un provvedimento cautelare, della relativa domanda di merito concernente una controversia di lavoro, senza che assuma rilievo la circostanza che il giudice non abbia dato priorità agli adempimenti previsti dall’art. 415 cod. proc. civ. e che, nel fissare l’udienza per la trattazione del merito, non abbia rispettato il termine dilatorio di cui all’art. 415, quinto comma, cod. proc. civ., determinandosi in tale evenienza una nullità che resta sanata per effetto della comparizione del convenuto che abbia accettato il contraddittorio. … (…omissis…) …“(in tal senso, fra le altre, cfr.: Cass., n. 16851/2011).

Pertanto, in applicazione di tali principi, sembra potersi affermare che in questi casi occorra fissare sia l’udienza di trattazione dell’istanza cautelare sia l’udienza di comparizione delle parti per la trattazione del merito dei giudizi in questione nel rispetto del predetto termine di cui all’art. 415, comma 5, c.p.c..

Ancora, sempre in via pregiudiziale e preliminare, occorre sottolineare come non possa in questi casi trovare accoglimento la richiesta dei ricorrenti volta ad ottenere l’autorizzazione alla notifica degli atti introduttivi di siffatti giudizi ex art. 151 c.p.c. nei confronti di tutti i docenti inseriti nelle graduatorie ad esaurimento definitive di tutti i 101 ambiti territoriali italiani, per le classi di concorso Scuola dell’Infanzia (AAAA) e Scuola Primaria (EEEE), vigenti per gli anni scolastici 2014/2017.

Invero, non sembra trattarsi di controinteressati in senso tecnico ma, a ben vedere, di eventuali e meramente ipotetici titolari di un potenziale interesse di mero fatto contrapposto rispetto a quello, viceversa giuridicamente rilevante, di cui si fanno portatori i docenti istanti attraverso la presentazione dei ricorsi introduttivi di questi giudizi, interesse di mero fatto che non può evidentemente reputarsi meritevole – in quanto tale – di tutela da parte dell’ordinamento giuridico.

Pertanto, in conclusione, non pare si possa applicare nel caso di specie, per tutte le dette ragioni e considerazioni, il disposto di cui all’art. 151 c.p.c. né sembra necessario estendere il contraddittorio nei confronti di tutti i docenti inseriti nelle graduatorie ad esaurimento dell’ambito scolastico territoriale provinciale interessato (nello stesso senso, fra le altre, cfr.: Tribunale di Campobasso del 22.07.2015, secondo cui “Il “focus” della questione non pare costituito dalla struttura (impugnatoria piuttosto che sul rapporto) del presente processo, ma dal concetto di litisconsorzio necessario di cui all’art. 102 c.p.c.. L’ineluttabilità del coinvolgimento di una pluralità di soggetti in una controversia non è certo una peculiarità del processo amministrativo, ma va verificata in relazione alla peculiarità del diritto vantato dalla ricorrente nel caso di specie. Osserva lo scrivente che il litisconsorzio necessario è ipotizzabile, al di là dei casi di espressa previsione in tal senso, laddove si disputi della modificazione o costituzione di un rapporto plurisoggettivo unico o dell’adempimento di una prestazione inscindibile comune a più soggetti o si chieda l’accertamento di una situazione sostanziale comune a più soggetti, sicché non è possibile adottare una decisione se non nel contraddittorio di tutti i soggetti coinvolti sui quali la suddetta è destinata  a produrre effetti diretti.  Di contro, non sembra che il caso in esame sia ascrivibile ad alcuno di quelli ipotizzati ed anzi il rischio di un “arretramento” in graduatoria dei docenti che seguono la ricorrente sussiste, ma costituisce solo un effetto indiretto dell’accoglimento della domanda e non una conseguenza del carattere unitario ed inscindibile della situazione giuridica soggettiva vantata o dell’adempimento richiesto”).

Tutto ciò posto e passando quindi ad esaminare il merito – per così dire – delle questioni di cui qui si controverte, appare opportuno premettere alcune considerazioni in ordine ai presupposti richiesti dall’ordinamento giuridico affinché possa essere concesso un provvedimento cautelare ai sensi dell’art. 700 c.p.c. (invero e come già evidenziato, le pronunce della giurisprudenza di merito oggetto della presente trattazione sono state allo stato rese solo in sede cautelare e, dunque, nelle more del relativo giudizio di merito, trattandosi evidentemente di questioni giuridiche di assoluta novità).

Il provvedimento d’urgenza, che ha carattere residuale e sussidiario, può essere emesso solo qualora, durante il tempo necessario per far valere il diritto in via ordinaria, possa fondatamente ritenersi che si verifichi un danno imminente ed irreparabile.

Occorre, quindi, procedere ad un esame sommario che consenta di valutare il fumus boni iuris, ovvero la verosimiglianza o probabilità della fondatezza del diritto fatto valere, ed il periculum in mora, che deve essere accertato e valutato in concreto, nella sua consistenza obiettiva, tenuto conto delle circostanze specifiche del caso.

Il giudice, in altri termini, è tenuto a valutare l’urgenza di ottenere il provvedimento e le conseguenze sul piano dell’imminenza e dell’irreparabilità del danno derivanti dalla situazione antigiuridica dedotta se protratta nel tempo.

Si osserva inoltre che, per giurisprudenza costante, il requisito del periculum non può ritenersi insito in re ipsa.

Invero, la sufficiente rapidità del processo del lavoro e, per contro, l’inevitabile sacrificio del diritto di difesa – costituzionalmente garantito – che si verifica in un procedimento in cui il contraddittorio e l’attività istruttoria sono ope legis limitati, impongono una valutazione comunque attenta e rigorosa in ordine alla sussistenza di entrambi i requisiti prescritti dall’art. 700 c.p.c..

Ciò premesso da un punto di vista generale, con riguardo al caso specifico di cui qui si controverte, non possono reputarsi sussistenti i prescritti requisiti del fumus boni iuris e del periculum in moraper le ragioni di seguito specificate.

Sotto il profilo del fumus boni iuris, invero, risulta dirimente, in ossequio altresì al cd. “principio della ragione più liquida” (sul quale, fra le altre, cfr.: Cass., n. 12002/2014), la circostanza che le graduatorie di cui si discute in questa sede sono state trasformate in graduatorie ad esaurimento in forza di una normativa, stratificatasi nel corso degli anni, la quale deve essere interpretata, alla luce sia del suo tenore letterale che della relativa ratio legis, nel senso che sono in linea di massima preclusi nuovi inserimenti nelle graduatorie in questione, e ciò proprio per via del loro tratto caratterizzante costituito dal fatto di essere delle graduatorie ad esaurimento, salve tuttavia le eccezioni e solo le eccezioni all’uopo previste e disciplinate dalla stessa normativa de qua e che non paiono sussistere nei casi di specie alla luce delle deduzioni ed allegazioni degli insegnanti istanti e della documentazione dagli stessi prodotta nei correlativi giudizi – ovviamente nei limiti propri di una cognizione sommaria quale risulta essere tipicamente quella caratterizzante i procedimenti ex art. 700 c.p.c. (in questo senso, fra le altre, cfr.: Tribunale di Larino del 31.07.2015, Tribunale di Campobasso del 22.07.2015 e Tribunale di Perugia del 17.07.2015).

Più nel dettaglio, sia pure sempre nei limiti propri di una cognizione sommaria quale risulta essere tipicamente quella caratterizzante i giudizi ex art. 700 c.p.c., va ricordato che l’art. 1, comma 605, lett. c), della Legge n. 296/2006 ha trasformato le graduatorie permanenti di cui all’art. 1 del D.L. n. 97/2004 (convertito con modificazioni nella Legge n. 143/2004) in graduatorie ad esaurimento.

In particolare, l’art. 1, comma 1bis, del D.L. n. 97/2004, inserito dalla Legge di Conversione n. 143/2004, ha sostanzialmente previsto che il soggetto interessato debba presentare domanda di permanenza o aggiornamento nelle graduatorie di cui si controverte in questa sede entro un determinato termine, pena la cancellazione dalla graduatoria medesima, ferma restando tuttavia la possibilità di reinserimento nella stessa previa domanda da avanzarsi nel rispetto del medesimo termine. In questo caso l’interessato viene nuovamente inserito in graduatoria con il recupero del punteggio maturato all’atto della cancellazione.

Successivamente, come detto, l’art. 1, comma 605, lettera c), della Legge n. 296/2006 ha previsto la trasformazione delle graduatorie permanenti di cui alla predetta Legge n. 143/2004 in graduatorie ad esaurimento, e tanto a far data dal 01.01.2007.

Il carattere ad esaurimento di siffatte graduatorie è stato poi ribadito, peraltro, anche dall’art. 9 del D.L. n. 70/2011 e dall’art. 14, comma 2ter, del D.L. n. 216/2011 così come inserito dalla Legge di Conversione n. 14/2012.

Ebbene, siffatto carattere tendenzialmente ad esaurimento delle graduatorie de quibus (nei termini fin qui precisati) pare conforme al principio di cui all’art. 3 Cost. nonché al connesso fondamentale principio di ragionevolezza ed a quello, altrettanto generale, di buon andamento della pubblica amministrazione, essendo esso non irragionevole proprio alla luce della ratio legis di riduzione del fenomeno del precariato da ritenere pienamente rientrante nella discrezionalità propria del legislatore ed alla luce altresì del fatto che tale scopo (appunto, riduzione e contenimento del precariato nella scuola) risulta così perseguito con strumenti, anche giuridici, coerenti e proporzionati (ossia, la detta limitazione tendenziale di nuovi inserimenti nelle graduatorie di cui qui si controverte).

La natura tendenzialmente ad esaurimento delle stesse è stata altresì affermata, a ben vedere, anche dal parere n. 3813/2013 del 11.09.2013 reso dal Consiglio di Stato in relazione all’affare n. 4929/2012, in sede di ricorso straordinario al Capo dello Stato deciso con D.P.R. del 25.03.2014, ove è dato leggere, tra l’altro e per quanto in questa sede maggiormente interessa, che “A ben guardare l’infondatezza della questione sollevata, nel senso di rivendicare il diritto di quanti abbiano conseguito l’abilitazione magistrale entro l’anno 2001-2002, può derivare esclusivamente dal fatto che gli stessi soggetti non erano inseriti nelle graduatorie permanenti di cui all’art. 1 del D.L. 7 aprile 2004, n. 97 e non si trovavano in una delle situazioni transitorie ai fini del conseguimento del titolo abilitante che la legge stessa prende in considerazione per l’aggiornamento delle graduatorie ad esaurimento. Pertanto, se si ritiene illegittima la loro mancata inserzione nelle suddette graduatorie permanenti, che vengono a formare le graduatorie ad esaurimento, il ricorso è tardivo; se, invece, si vuole che l’acquisizione, “medio tempore” e successiva all’entrata in vigore della legge n. 296 del 2006, da parte di soggetti in possesso di abilitazione magistrale, degli altri requisiti idonei a consentirne l’inserimento nelle graduatorie ad esaurimento debba consentire l’apertura di queste ultime graduatorie, la questione è infondata visto che la legge non consente l’aggiornamento se non in ipotesi specificamente determinate”.

Neppure risulta condivisibile la tesi dell’asserita efficacia erga omnes della recente sentenza del Consiglio di Stato n. 1973/2015 sopra ricordata, e ciò alla luce anzitutto del fatto che trattasi di pronuncia resa da autorità giurisdizionale che, per definizione, non si occupa di diritti soggettivi quali quelli in rilievo in questa sede, come già chiarito.

In secondo luogo, va poi osservato, al riguardo, che i decreti ministeriali di aggiornamento delle graduatorie ad esaurimento di cui si controverte in questa sede (tra cui il D.M. n. 235/2014, per quanto qui maggiormente interessa) costituiscono, a ben vedere, non già atti regolamentari ovvero atti a contenuto generale ed astratto bensì, più propriamente, meri atti in senso lato gestionali soggettivamente amministrativi ma resi dalla Pubblica Amministrazione nell’esercizio dei poteri tipicamente propri del datore di lavoro privato.

In altri termini, siffatti decreti ministeriali paiono più propriamente caratterizzati da un contenuto consistente, semplicemente ed esclusivamente, nella specificazione e precisazione, in applicazione delle relative disposizioni legislative e regolamentari (tra cui quelle in precedenza già richiamate), dei criteri di aggiornamento delle graduatorie in questione nonché nella precisazione e specificazione delle mere concrete modalità operative mediante le quali gli interessati possono eventualmente presentare la propria correlativa domanda.

Ne deriva che non può in questa sede trovare applicazione la tesi tradizionale, sostenuta pure ad opera dei docenti ricorrenti (come detto), secondo cui l’annullamento di un atto regolamentare, o comunque a carattere generale ed astratto (nella specie, il detto D.M. n. 235/2014 annullato, nella parte de qua, dalla citata sentenza del Consiglio di Stato n. 1973/2015), esplica  la propria efficacia erga omnes e non già limitatamente alle parti del relativo giudizio, difettando in radice, nel caso di specie e per tutte le dette motivazioni, una fonte normativa (sia pure subprimaria) ovvero un atto provvedimentale a carattere generale.

Al più, ai decreti ministeriali in questione (fermo restando il loro carattere non regolamentare e non provvedimentale nei termini sopra chiariti) potrebbe essere riconosciuta natura di atti collettivi o plurimi che dir si voglia, ossia la natura di atti sì potenzialmente rivolti ad una molteplicità indeterminata ed indeterminabile di destinatari ma con effetti scindibili e differenziabili per ciascuno di questi stessi destinatari, e ciò con le conseguenze, sotto il profilo qui in esame, di cui sopra si è detto (in questo senso, fra le altre, cfr.: Tribunale di Larino del 31.07.2015, Tribunale di Campobasso del 22.07.2015, Tribunale di Venezia del 14.07.2015 e Tribunale di Bologna del 03.07.2015).

Per tutte le dette ragioni non può riconoscersi efficacia erga omnes alla suddetta recente sentenza del Consiglio di Stato n. 1973/2015, come viceversa vorrebbero gli insegnanti istanti ai fini qui in esame.

Ciò posto, dunque, in ordine al merito – per così dire – dei ricorsi cautelari qui in esame ed in ordine specificatamente al requisito del fumus boni iuris, va poi evidenziato che pare difettare altresì, nel caso di specie e come già accennato, anche l’ulteriore requisito del periculum in mora, da intendere a sua volta nei termini in precedenza meglio precisati alla stregua della prevalente giurisprudenza sia di merito che di legittimità.

Invero, i ricorrenti hanno dedotto che l’urgenza di provvedere discenderebbe in tal caso principalmente dall’imminente varo di un piano straordinario di immissione in ruolo di circa 100.000 docenti precari da selezionare anche attingendo alle graduatorie ad esaurimento di cui si controverte in questa sede (piano straordinario poi adottato a livello legislativo con l’approvazione della Legge n. 107/2015).

Orbene, trattasi, a ben vedere, di deduzioni generiche e di natura meramente ipotetica e pertanto non idonee, in quanto tali, ad integrare il requisito dell’indifferibilità ed urgenza tipicamente caratterizzante la tutela cautelare ex art. 700 c.p.c., come già chiarito e nel senso pure in precedenza già evidenziato.

In altri termini, pare trattarsi di deduzioni relative a circostanze prive degli indispensabili requisiti della gravità, imminenza ed irreparabilità tipicamente richiesti dal legislatore, sotto il profilo del periculum in mora, per l’adozione di un provvedimento di natura cautelare ex art. 700 c.p.c., come appunto sopra già ampiamente evidenziato ed argomentato.

Né vale a spostare i termini della questione il fatto che il suddetto piano straordinario di assunzione, di cui qui si controverte, sia stato poi adottato a livello legislativo con l’approvazione della Legge n. 107/2015, e ciò alla luce delle assorbenti considerazioni che precedono e che, in mancanza di compiute allegazioni (prima ancora che di adeguate prove, sia pure nei limiti della cognizione sommaria tipicamente caratterizzante il giudizio cautelare) circa il lamentato pregiudizio imminente, grave ed irreparabile, conducono appunto a ritenere comunque non sussistente, nei casi di specie, il suddetto requisito del periculum in mora (nello stesso senso, fra le altre, cfr.: Tribunale di Larino del 31.07.2015, Tribunale di Campobasso del 22.07.2015 e Tribunale di Venezia del 16.07.2015). 

Pertanto, in conclusione ed alla luce di tutte le considerazioni ed osservazioni che precedono, il lamentato pregiudizio grave ed irreparabile, che a ben vedere verterebbe solo su un’eventuale perdita di chances, non risulta adeguatamente allegato né dimostrato nei casi de quibus.

Deve quindi inevitabilmente concludersi per la mancanza, nei casi di specie, anche di tale ulteriore indefettibile requisito.

I ricorsi ex art. 700 c.p.c. in oggetto, dunque, non paiono, alla stregua della citata prevalente giurisprudenza di merito, suscettibili di accoglimento.

Quanto alle spese di lite di siffatti giudizi cautelari, la detta giurisprudenza di merito ha avuto modo di osservare che sulle stesse occorre provvedere in esito ai correlativi e contestualmente già instaurati giudizi di merito (nei termini innanzi già precisati), e ciò argomentando a contrario dal disposto di cui all’art. 669septies c.p.c. e tenendo conto altresì del fatto che “Nella fattispecie, non si tratta di un ricorso cautelare “ante causam” e di una successiva proposizione della domanda di merito, bensì della contestuale proposizione della domanda di merito e dell’istanza di misura cautelare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr., ex multis: Cass., n. 4879/86; Cass., n. 47/84; Cass., n. 3589/82; Cass., n. 6327/80; Cass., n. 6140/80; Cass., n. 1717/78), benché non contemplata esplicitamente dalla legge, è del tutto valida, costituendo una delle possibili forme di richiesta di provvedimenti cautelari in corso di causa” (in tal senso, fra le altre, cfr.: Cass., n. 16851/2011, sopra già ricordata).

     Questo essendo il quadro normativo e giurisprudenziale allo stato esistente in materia di cd. “precari della scuola” ed inserimento nelle cd. “G.A.E.-Graduatorie ad Esaurimento” sotto il particolare profilo tecnico-giuridico affrontato in questa sede ed in relazione alle sole relative pronunce cautelari (non consta, invero e come già in precedenza precisato, che siano nelle more intervenute le correlative pronunce di merito, delle quali pertanto non si può attualmente dare conto), non resta che attendere i futuri sviluppi giurisprudenziali anche eventualmente di legittimità e, chissà, probabilmente pure gli eventuali futuri ulteriori relativi sviluppi normativi sul punto.

Isernia, lì 28 settembre 2015

Dott. Marco Pietricola     

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su: Incapacità a testare beneficiario amministrazione di sostegno

Tribunale di Vercelli, Ufficio del Giudice tutelare decr. 04.9.2015, Est. Bianconi;

Misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia –  amministrazione di sostegno –  art. 411, ultimo comma, c.c. – estensione al beneficiario di ammministrazione di sostegno della incapacità di testare prevista per l’interdetto ex art. 591, comma 2, c.c. – ambito dell’indagine del Giudice tutelare.

Il Giudice tutelare, laddove chiamato ad esprimersi sull’opportunità di privare il beneficiario di amministrazione di sostegno della capacità di negoziare validamente un testamento, dovrà approfondire: i) se il medesimo versi in condizioni di infermità o inferiorità tali da porlo in stato di facile raggirabilità e che non gli consentano di giovarsi di intervalli di lucidità; ii) se comprenda in modo corretto o meno la natura dell’atto da compiersi; iii)  ancora, se vi possa essere indotto sulla scorta di percorso psicologico non corretto, alterato da indebiti fattori devianti esterni. Ciò potrà fare avendo riguardo, in via analogica, alle disposizioni che disciplinano l’attività notarile di raccolta degli atti – imponendo al rogante un’indagine sulla volontà delle parti – nonché a tutte le norme del codice civile che disciplinano l’invalidità successiva del testamento o delle singole disposizioni.

TRIBUNALE DI VERCELLI

SEZIONE CIVILE – UFFICIO DEL GIUDICE TUTELARE

165/2015

Il Giudice tutelare, dott. Carlo Bianconi,

a scioglimento della riserva odierna,

letta l’istanza 24.6.2015 ex art. 411, u.c., c.c. avanzata dall’amministratore di sostegno, Avv. Vogliano;

richiamato il proprio decreto 25.6.2015;

letta la memoria 17.7.2015, depositata nell’interesse della beneficiaria dall’Avv. Rota;

udita personalmente la beneficiaria all’udienza odierna;

dato atto dell’intervento del P.M.;

osserva quanto segue. 

Nel subprocedimento in corso si discute della opportunità di estensione, nell’interesse della beneficiaria, delle limitazioni legali circa la capacità di testare previste per gli interdetti (art. 591 c.c.).

Si richiama il contenuto degli atti sopra indicati.

*** 

Dal punto di vista giuridico, va premesso che la beneficiaria, capace di agire in relazione al compimento di ogni atto non espressamente preclusole dalla legge o dal decreto di nomina (art. 409 c.c.), è astrattamente capace di testare (cfr. art. 591 c.c.).

Tale capacità può essere privata solo dal Giudice tutelare, ciò che avvenuto in via cautelare ed urgente nel caso in esame, con decretoexart. 405, comma 4, c.c., in data 25.6.2015, reso a seguito del deposito del ricorso avanzatoexart. 411, u.c., c.c. dall’amministratore di sostegno (volto ad estendere tale limitazione alla beneficiaria in via definitiva).

Tale facoltà, lungi dal costituire una sorta di “vessazione” o “umiliazione” della persona della beneficiaria, si inscrive piuttosto nel sistema di protezione caso per caso delineato dalla normativa in materia di amministrazione di sostegno: ciò non sarebbe infatti ipotizzabile in caso di interdizione, laddove il soggetto tutelato è sempre e comunque legalmente privato della capacità di negoziare validamente un testamento (cfr. art. 591, comma 2, nr. 2, c.c.).

L’art. 411, u.c., c.c., che permette di estendere al beneficiario le limitazioni (ma anche “gli effetti”, magari benéfici) previste dalla legge per l’interdetto, assolve dunque appieno alla funzione, invero nobile, di approntare un sistema di tutela del caso singolo, così garantendo decisioni diverse per  fattispecie diverse, concretizzando e sublimando il principio consacrato nell’art. 3 della Carta Costituzionale.

Con stretto riferimento alla materia testamentaria, dunque, il Giudice tutelare si trova investito di un – sia consentito – difficile, e per lui nuovo, compito: quello di decidere chi sia in grado di negoziare testamento, e chi, al contrario, non lo sia.

Ritiene chi scrive che gli unici appigli positivi, utili per circoscrivere il campo di indagine evitando illegittimi e pericolosi arbitrii, siano da individuarsi nelle norme che regolano casi (almeno in parte) analoghi.

Non può non pensarsi, in primo luogo, alle disposizioni che disciplinano l’attività notarile di raccolta degli atti, che impongono al rogante “un’indagine sulla volontà delle parti” (art. 47 l.Not.; art. 67 r.Not.;); in secondo luogo, a tutte le norme che disciplinano l’invalidità del testamento o delle singole disposizioni (591, comma 2, nr. 3, c.c.; 624 e sgg. c.c.;), solitamente scrutinatedal Collegio investito di cause aventi ad oggetto l’impugnazione del negozio.

Tutte le norme appena riportate, le quali prendono in considerazione le più diverse ipotesi di coartazione della volontà (infermità, dolo, violenza, errore, captazione, etc.) hanno un unico denominatore comune: impongono al Pubblico Ufficiale (Notaio o Tribunale) di vagliare che l’atto confezionato risponda effettivamente alla volontà che la parte ha esternato, e, che detta volontà sia stata, a monte, manifestata consapevolmente e liberamente; l’indagine, in altre parole, mira ad approfondire se la parte versi in condizioni di infermità o inferiorità tali da porla in stato di facile raggirabilità e che non le consentano di giovarsi di intervalli di lucidità; ovvero se comprenda in modo corretto o meno la natura dell’atto da compiersi; o ancora, se vi possa essere indotta sulla scorta di percorso psicologico non corretto, alterato da indebiti fattori devianti esterni.

Con una precisazione, sottile ma decisiva: se il Notaio interviene al momento stesso della redazione dell’atto; ed il Tribunale, eventualmente, in epoca successiva all’apertura della successione; il Giudice tutelare, dal canto suo, è chiamato a pronunciarsi in epoca addirittura precedente alla negoziazione del testamento. 

Il rilievo non è di poco conto, se si pone mente al fatto che: i) lo scrutinio circa l’incapacità naturale del testatore è ben possibile, seppur con tutte le difficoltà del caso, a priori (ossia in epoca precedente la redazione del testamento) ed indipendemente dal contenuto concreto dell’atto e dal comportamento altrui; ii) l’indagine circa l’eventuale coartazione della volontà del testatore per effetto di violenza, dolo, errore o captazione, al contrario, è per sua natura strutturata quale indagine successiva,  o tutt’al più contestuale ,alla redazione dell’atto, non potendosi mai, a prioried indipendetemente dalla concreta esegesi delle disposizioni di ultima volontà, ritenere con certezza che siano in corso condotte abusive da parte di terze persone (condotte che oltretutto potrebbero essere destinate a cessare), né tantomeno escludere che esse, all’attualità inesistenti, possano manifestarsi in futuro.    

***      

Ciò detto, si prende in considerazione il caso concreto.

La beneficiaria, oggi ascoltata dal G.t., si è mostrata invero ben orientata, tanto nello spazio, quanto nel tempo; dopo un breve lasso di agitazione (confermato dalla continua ricerca dello sguardo di conforto del proprio Legale), ha parlato in maniera piuttosto distesa della sua vita, del suo menage odierno, dei rapporti con i parenti, con il personale di assistenza, e con l’amministratore di sostegno.

Si è mostrata a tratti precisissima: ricordava il nome del geriatra che oltre due mesi orsono la sottopose a visita (dott. Laguzzi), somministrandole il test mmse, e ha ben collocato nel tempo l’evento; parimenti, ricordava alla perfezione il nome del Notaio rogante (dott. Oneto di Alessandria), e le circostanze di tempo, oltre che i motivi, dell’incontro preliminare con il medesimo.

Proprio circa la decisione di rivedere le ultime volontà (a suo tempo evidentemente già espresse; la circostanza è confermata dal Difensore della beneficiaria, cfr. pag. 3 memoria 17.7.2015, ove si fa riferimento ad una “postilla”), non si è mai contraddetta, mostrandosi sostanzialmente coerente e conscia della portata del negozio da compiere: ha messo in relazione la volontà di modificare il proprio testamento con il comportamento della cugina nei suoi confronti, a lei non gradito, e con l’affetto che prova per la badante che da lungo tempo la segue.

Ha in due occasioni ripetuto di voler “cambiare solo due voci”, dando così coerente dimostrazione di ricordare, da un lato, eventuali previe manifestazioni di ultime volontà, e di avere meditato ed individuato le disposizioni da modificare.

Ha esposto il tutto senza fare precisi riferimenti alle persone concretamente individuate ed istituite (o da istituirsi;) quali eredi o legatari, ma ciò su implicita determinazione del Giudice scrivente, il quale ha ritenuto non proficuo, ed anzi indebitamente lesivo della privacy della beneficiaria, scendere nei dettagli circa il contenuto delle singole disposizioni.   

Le risultanze dell’esame sono ampiamente confortate dagli esiti della perizia geriatrica svolta dal dott. Laguzzi (23.6.2015), su scrupoloso incarico dell’amministratore di sostegno; il medico ha descritto la beneficiaria come “vigile, collaborante, orientata nel tempo e nello spazio, in grado di esprimere le proprie emozioni e volontà”; il mmse test ha fornito un risultato di 28/30, ben più che soddisfacente per un soggetto di età molto avanzata, affetto da esiti di ictus ischemico.

Sulla scorta di tutto quanto emerso dall’istruttoria, può dunque affermarsi senza tema di smentita che la beneficiaria, quand’anche affetta da patologie, per lo più fisiche, che le rendono in parte impossibile provvedere ai propri interessi (art. 404 c.c.), non risulta affetta, allo stato, da infermità mentale tale da privarla della capacità naturale di testare; in ogni caso, anche a voler pensare il contrario (per mero amor di scrupolo), è comunque innegabile che la medesima sia – quantomeno – in grado di giovarsi di amplissimi intervalli di lucidità, evidentemente idonei alla manifestazione libera e serena delle proprie ultime volontà.   

Con riferimento ad altri possibili pregiudizi e coartazioni della volontà della beneficiaria, non è invece possibile – per le ragioni esposte al paragrafo che precede – pronunciarsi in termini di certezza all’attualità; come spiegato, ipotesi di violenza e/o di dolo e/o di errore nella manifestazione delle disposizioni di ultima volontà, sono del tutto impronosticabili (peraltro, nel caso di specie, non appaiono verosimili); lo stesso è a dirsi quanto ad eventuali contegni di captazione da parte di terzi, al momento non nitidamente riscontrabili, e comunque auspicabilmente neutralizzabili dalla beneficiaria stessa, la quale ha mostrato di conservare una buona capacità di autodeterminazione; con riguardo a quest’ultimo aspetto, si ricorda in ogni caso come i contegni idonei ad inficiare la libera determinazione del testatore debbano corrispondere a veri e propri contegni ingannatori e fraudolenti intesi ad ingenerare una falsa rappresentazione della realtà, e non possano sostanziarsi nelle mere blandizie, nei suggerimenti e nei consigli, i quali – quand’anche moralmente ripugnanti, laddove interessati – non hanno giuridica rilevanza.

***    

Per tutti i motivi sopra esposti, il ricorso dell’amministratore di sostegno deve essere rigettato, con contestuale immediata revoca del decreto 24.6.2015 di questo Giudice; per l’effetto, la beneficiaria si intende reimmessa nel pieno possesso ed esercizio della propria capacità di negoziare testamento in qualsiasi forma.

Non vi è luogo a provvedere sulle spese in siffatta materia. 

PQM    

Il Giudice tutelare, definitivamente pronunciando sull’istanzaexart. 411, u.c., c.c. depositata dall’amministratore di sostegno in data 24.6.2015, previa revoca in ogni sua parte del proprio decreto 25.6.2015, così provvede:

–        rigetta il ricorso;

–        nulla sulle spese.

Provvedimento immediatamente esecutivo ex art. 741 comma 2, c.p.c..

Si comunichi:

–        all’amministratore di sostegno;

–        alla beneficiaria (c/o Avv. Tiziana Rota);

–        al Sig. Pubblico Ministero in sede.

Vercelli, lì 03.9.2015

Il Giudice Tutelare

Dott. Carlo Bianconi

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