di Andrea Penta
È stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 107 dell’11 maggio 2015 la legge 6 maggio 2015. n. 55 con disposizioni in materia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili dei matrimonio, nonché di comunione tra i coniugi, il c.d. «divorzio breve», che riduce in modo significativo i tempi per il passaggio dalla separazione ai divorzio (dai tre anni sino a oggi previsti a sei o dodici mesi, a seconda che la separazione sia consensuale o giudiziale). Restano, tuttavia, fermi i presupposti del divorzio e ciò dà luogo a una serie di disarmonie e incongruenze. Se la separazione è giudiziale, la pendenza del processo rischia, infatti, di frustrare il significato della riforma. E se la separazione è consensuale, che senso ha imporre il doppione di un secondostepcosi ravvicinato?
Sennonché la nuova legge riduce i tempi, ma conserva tra i presupposti necessari per richiedere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, la previa pronuncia della separazione (art. 3, comma 1, lett. b), n. 2, 1. div.). Rimane, quindi, indispensabile un provvedimento definitivo sullostatus: sentenza di separazione passata in giudicato o verbale di separazione consensuale omologato.
Da ciò consegue che, nel caso della separazione giudiziale, l’effetto acceleratore sarà in concreto assai limitato, perché, in mancanza di una sentenza parziale sulla sola separazione (come avviene nella maggior parte dei casi), le parti dovranno comunque attendere la sentenza definitiva. In sintesi, i dodici mesi finiranno per decorrere inutilmente per le parti che nella causa di separazione siano ancora in attesa della sentenza (così F. Danovi).
Queste pericolose implicazioni potranno essere attenuate solo nei casi in cui, non appena si sia svolta l’udienza presidenziale, venga pronunciata subito (su istanza almeno di una delle parti) la sentenza parziale, senza attendere lo svolgimento della fase avanti all’istruttore e senza dover prima concedere i termini di cui all’art. 183 c.p.c.
Ovviamente, tutto ciò presuppone altresì che venga operato un corretto coordinamento tra i due giudizi di separazione e di divorzio. Invero, nelle ipotesi di contemporanea pendenza dei due processi parte della giurisprudenza tende a sospendere ex art. 295 c.p.c. il giudizio di divorzio. Tuttavia, a rigore, tra i due processi non sussiste un nesso di pregiudizialità che legittimi la sospensione, e il giudice del divorzio dovrebbe potere statuire sulle domande delle parti senza che possa avere valenza condizionante la perdurante pendenza della causa di separazione.
Una conseguenza che non è stata presa in considerazione o, comunque, è stata evidentemente sottovalutata è che la riduzione dei termini tra separazione e divorzio comporterà nella prassi una netta erosione dei procedimenti di modifica delle condizioni di separazione ex art. 710 c.p.c. (il rilievo è di F. Danovi).
Nel caso della separazione consensuale i problemi sopra descritti non ci sono. Una volta concluso l’accordo, dopo soli sei mesi le parti potranno anche richiedere il divorzio. Ciò rappresenterà senz’altro un incentivo per la ricerca di accordi di separazione (e di divorzio), poiché l’alternativa per le parti sarà duplice: trovare un’intesa (e con essa la possibilità concreta del «divorzio breve»), ovvero continuare il conflitto e allontanare in tal modo anche la possibilità di una pronuncia definitiva sullostatus. E’ vero anche, però, che questo risvolto pratico potrebbe essere strumentalizzato da uno dei due coniugi, nel senso di acconsentire ad una separazione consensuale a condizione di ottenere migliori riconoscimenti economico-patrimoniali.
In questo panorama, sorge spontaneo domandarsi se abbia ancora senso mantenere uno spazio di riflessione ridotto all’essenziale (sei mesi) e imporre un doppiostep, che nella maggior parte dei casi sarà ripetitivo e inutile, ovvero se sia a questo punto più opportuno allineare la legislazione italiana a quella di molti paesi a noi contigui, ove il divorzio costituisce una possibile (spesso la più frequente) opzione immediata, senza il necessario previo transito per l’anticamera della separazione legale.
De iure condendo, pertanto, il prossimo obiettivo sul piano normativo dovrebbe essere quello di introdurre la possibilità di un «divorzio diretto». Invero, proprio la brevità del termine rende ancora più incomprensibile la rinnovata scelta legislativa di confermare comunque la necessità di separazione prima del divorzio: se tale scelta aveva un senso nella prospettiva di prevedere una sosta di riflessione prima di sciogliere il matrimonio o farne cessare gli effetti i civili, ora il semestre o l’anno tra un’azione e l’altra risultano inutili. Senza tralasciare che il necessario doppio passaggio (prima separazione e poi divorzio) in un così breve lasso di tempo, da un lato, affatica la giustizia e manca l’obiettivo della deflazione e, dall’altro lato, onera le parti di una doppia spesa, senza benefici sul piano della riflessione, né per loro né per l’eventuale prole (così M. G. Ruo).
Va altresì posto in rilievo il mancato raccordo della nuova normativa con quella sulla convenzione di negoziazione assistita dagli avvocati (introdotta dal d.Igs. n. 132/2014, convertito dalla legge 162/2014), se solo si considera che la comparizione delle parti davanti al presidente rappresenta una mera eventualità, che si realizza solo nel caso in cui il Pm ritenga l’accordo non rispondente all’interesse dei figli minori e lo trasmetta al presidente; solo in siffatta evenienza, infatti, quest’ultimo fissa entro 30 giorni la comparizione delle parti. Alla stessa stregua, nell’ipotesi in cui la procedura di separazione si sviluppa direttamente davanti all’ufficiale di stato civile (cfr. l’articolo 12 della menzionata normativa), la comparizione dei j coniugi davanti al presidente del tribunale non esiste.
La legge sul divorzio breve avrebbe, quindi, dovuto prevedere anche in tali diverse ipotesi una decorrenza del termine adatta alle nuove procedure. E’ ragionevole ritenere che nei casi di separazione “assistita”, si dovrebbe applicare il termine abbreviato semestrale per pervenire al divorzio breve, essendo la situazione equiparabile a quella che si realizza con la separazione consensuale.
Da ultimo, merita senz’altro un plauso l’aver anticipato la cessazione del regime di comunione legale tra i coniugi al momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati nella separazione giudiziale (ovvero alla data di sottoscrizione del verbale di separazione consensuale dei coniugi davanti al presidente, purché omologata). In precedenza, invece, la comunione dei beni, ai sensi del vecchio articolo 191 del c.c., sopravviveva fino a sentenza di separazione. Il rischio era, ad esempio, che venissero effettuati ingenuamente acquisti subìto dopo udienza presidenziale ed i relativi provvedimenti interinali da un coniuge che presupponeva di non essere più in comunione dei beni, i quali ricadevano invece in tale regime (l’esempio è di M. G. Ruo).
Tuttavia, come altro risvolto della stessa medaglia, ciò comporterà un aggravio dei giudizi di separazione, in quanto potranno essere proposte nel suo ambito domande che prima erano inevitabilmente inammissibili. A tal riguardo è sufficiente ricordare che lo scioglimento della comunione legale dei beni fra i coniugi si verificavaex nuncsoltanto con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione, non spiegando effetti – al riguardo – il precedente provvedimento presidenziale (provvisorio e funzionalmente limitato) con cui i coniugi erano stati autorizzati ad interrompere la convivenza, nè, a maggior ragione, il semplice fatto in sè della separazione dei coniugi, sicché risultava improponibile la eventuale domanda di scioglimento della comunione proposta prima della formazione del giudicato sulla separazione (Cassazione civile, sez. I, 06/10/2005, n. 19447; conf. Cassazione civile 26 febbraio 2010 n. 4757 sez. I, Cass. 25 marzo 2003 n. 4351 e Cass. 23 giugno 1998 n. 6234). Invero, rappresentava principio pacifico che erano inammissibili le domande di divisione di beni mobili ed immobili, nonché di divisione del risparmio, rimborso e restituzione delle somme spettanti in dipendenza dell’amministrazione dei beni comuni prima della cessazione del regime della comunione legale tra i coniugi, in quanto esse si potevano proporre solo al momento della divisione dei beni comuni che coincide con il passaggio in giudicato della relativa pronuncia (cfr. Cass. Civ. Sez. 1, Sentenza n. 10896 del 24/05/2005 Cass. 15 settembre 2004 n. 18564; Cass. 5 dicembre 2003 n. 18619; Cass. 24 luglio 2003 n. 11467).
In definitiva, sembra di essere al cospetto di una legge attesa, ma, come purtroppo sempre più di frequente avviene, tecnicamente imprecisa, oltre che non adeguatamente coordinata con istituti direttamente o indirettamente da essa coinvolti.