Fine vita, frontiere scientifiche e norme penali: questioni aperte.

di Patrizia Mattei


            La tematica della responsabilità penale nelle scelte di fine vita è tornata oggi più che mai alla ribalta nel dibattito pubblico e giuridico, alla luce dei problemi applicativi della Lg. 219/2017 in tema di “norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” ed in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale sul caso Cappato, con udienza fissata per il prossimo 23.10.2018, nella consapevolezza che difficilmente, sia la nuova normativa, che l’intervento costituzionale potranno essere risolutivi delle enormi problematiche giuridiche sottese. 

            I numerosi casi umani e giudiziari di morte pietosa e di suicidio assistito susseguitisi negli anni, congiuntamente allo sviluppo sempre più stringente delle scienze e delle tecniche biomediche, impone al giurista di fissare i confini di liceità e di meritevolezza dell’autonomia negoziale c.d. autodeterminazione – in campo bioetico. Inoltre, è interessante notare come i differenti orientamenti affermatisi in tema di atti dispositivi del corpo, consenso/dissenso informato ai trattamenti sanitari, divieto di accanimento terapeutico, testamento biologico e d.a.t. (direttive anticipate di trattamento), abbiano come comune denominatore una questione cruciale ed estremamente controversa: l’esistenza o meno, nel nostro ordinamento, del diritto di morire o del diritto di morire dignitosamente.

            La domanda che ci si pone è dunque la seguente: se in un sistema che proclama l’indisponibilità e la protezione della vita umana fin dal suo sorgere, favorendo, al contempo, lo sviluppo dinamico della persona, vi sia spazio per il riconoscimento di forme di più o meno velate eutanasia, che si celano dietro la previsione di un simile diritto.

            Anzitutto il dibattito su eutanasia e diritto di morire è contrassegnato da incertezze definitorie. L’eutanasia è infatti un concetto privo di definizione giuridica circoscritta e condivisa, è una nozione di carattere empirico e socio-programmatico, caratterizzata dalla confluenza di una pluralità di situazioni eterogenee, aventi, quale comune denominatore l’atto di cagionare la morte di un uomo prima del suo naturale verificarsi.

            Sgomberato il campo da nozioni atecniche e fuorvianti, legate a contingenze storiche e sociali (es. eutanasia eugenetica, economica, solidaristica, criminale, ecc.), il problema definitorio deve essere ristretto all’unica forma di eutanasia che abbia un giuridico interesse, ossia quella terapeutica o pietosa, legata alla condizione dell’individuo malato e sofferente, che ritenga indegna e inutile la propria esistenza e domandi o metta in atto, l’anticipazione della propria morte.

            Come se non bastasse, l’eutanasia pietosa ha subito nel tempo una dilatazione concettuale, tanto da essere rappresentata da coppie contrapposte di aggettivi, certamente suggestive, ma poco significative: eutanasia attiva – passiva; omissiva – commissiva; volontaria – non volontaria. Tra queste, la distinzione più ricorrente è quella tra eutanasia attiva e passiva, intendendosi con la prima, il compimento di atti diretti ad abbreviare la vita del paziente o a farla cessare (es. somministrazione di un farmaco letale) e con la seconda, l’omissione o la sospensione dei trattamenti necessari a mantenere in vita l’individuo, che ne causa indirettamente il decesso.

            Quanto all’eutanasia attiva, questa risulta pacificamente vietata nel nostro ordinamento, in virtù della volontarietà dell’azione e della sua espressa contrarietà ai principi costituzionali di inviolabilità ed indisponibilità della vita umana, nonché delle clausole generali di ordine pubblico e buon costume: tale contrarietà non può essere erosa, né dalla bontà del fine perseguito, né dalle peculiarità del caso concreto, quali le sofferenze insopportabili del malato, il consenso della vittima, l’incurabilità della malattia. L’eutanasia, nella sua forma attiva e consensuale, viene pacificamente ricondotta entro l’ambio applicativo delle fattispecie di omicidio, dettate a prescindere dalle sfumature psico-comportamentali dell’uccisione pietosa e finalizzate a tutelare il bene “vita” sotto ogni aspetto. La punibilità dei fatti che concretano eutanasia può infatti ricondursi, a seconda dei connotati della condotta posta in essere e dal ruolo più o meno incisivo della vittima rispetto al contegno dell’agente, al delitto di omicidio volontario (575 c.p.), all’omicidio del consenziente (579 c.p.), o all’istigazione o aiuto al suicidio (580 c.p.). Ciò in quanto, le pratiche eutanasiche non si esauriscono solo nell’azione dell’agente che esegue la volontà di morire del paziente, potendo integrare anche situazioni in cui l’agente assiste, moralmente o materialmente, l’esecuzione diretta della volontà autolesionista della vittima. Secondo la Suprema Corte, infatti, “Il discrimine tra il reato di omicidio del consenziente e quello di istigazione o aiuto al suicidio va individuato nel modo in cui viene ad atteggiarsi la condotta e la volontà della vittima in rapporto alla condotta dell’agente: si avrà omicidio del consenziente nel caso in cui chi provoca la morte si sostituisca in pratica all’aspirante suicida, pur se con il consenso di questi, assumendone in proprio l’iniziativa, oltre che sul piano della causazione materiale, anche su quello della generica determinazione volitiva; mentre si avrà istigazione o agevolazione al suicidio tutte le volte in cui la vittima abbia conservato il dominio della propria azione, nonostante la presenza di una condotta estranea di determinazione o di aiuto alla realizzazione del suo proposito, e lo abbia realizzato, anche materialmente, di mano propria” (Cass. pen., 6.2.98, n. 3147, in Cass. Pen., 1999, 871).

            In tale discusso ambito, si inserisce la questione di costituzionalità sollevata il 14 febbraio 2018 dalla Corte di Assise del Tribunale di Milano nel processo nei confronti di Marco Cappato dell’Associazione Luca Coscioni, imputato del reato di cui all’art. 580 c.p. per aver “rafforzato” il proposito suicidario di Fabiano Antoniani, dj Fabo, che veniva in seguito portato a compimento in una clinica in Svizzera. Il rafforzamento del proposito suicidario è contestato a Marco Cappato per avere prospettato al defunto dj “Fabo”, affetto da tetraplegia e cecità a seguito di un incidente stradale, la possibilità di ottenere assistenza al suicidio presso la sede dell’Associazione Dignitas a Pfaffikon in Svizzera, attivandosi per mettere in contatto i suoi familiari con la Dignitas, fornendo loro materiale informativo ed inoltre per aver materialmente agevolato il suicidio, trasportando la vittima in auto sul luogo designato, in cui il suicidio si verificava il 27 febbraio 2017 (la questione era pervenuta all’esame della Corte di Assise di Milano a seguito di una prima richiesta di archiviazione che il GIP aveva respinto, imponendo alla Procura di formulare l’imputazione coatta nei confronti di Cappato).

            La questione sollevata dalla Corte d’Assise con l’ordinanza de qua – che ricostruisce in radice tutte le tematiche e gli arresti giurisprudenziali sul fine vita – attiene alla legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., nella parte in cui incrimina con pene da 5 a 10 anni, o con le pene dell’omicidio, le condotte di aiuto al suicidio a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito suicidario, ponendosi in contrasto con gli artt. 3, 13 co. 2, 25 co. 2, 27 co. 3 Cost. anche in relazione agli artt. 2 e 8 CEDU, il cui combinato disposto sancisce i principi di ragionevolezza e proporzionalità della pena in relazione all’offensività del fatto e del principio di necessaria lesività.

            La tesi accusatoria e quella difensiva sono infatti coerenti nel ritenere che solo azioni idonee a pregiudicare l’autodeterminazione dell’individuo costituirebbero reale offesa al bene giuridico tutelato dalla norma in esame e sarebbero meritevoli di sanzione penale, con la conseguenza che l’aiuto di Cappato, per come realizzatosi nel caso di specie, non sarebbe idoneo a ledere alcun bene giuridico, giacché il proposito suicidiario di Antoniani era così forte e cristallizzato nel tempo, che il contributo dell’imputato si è concretizzato in un mero aiuto materiale, secondario e fungibile, costituito dal trasporto dello stesso insieme ad alcuni familiari presso la clinica Dignitas.

             Secondo opinioni avversative, l’ordinanza della Corte d’Assise di Milano costituirebbe in realtà un eccesso di zelo, destinata ad una pronuncia di inammissibilità della Corte, poiché messa in discussione da una risalente, ma molto chiara interpretazione dell’art. 580 c.p. svolta dalla Suprema Corte che, dopo aver precisato che la norma incriminatrice persegue le condotte o di istigazione o di aiuto al suicidio, ritiene “sufficiente che l’agente abbia posto in essere, volontariamente e consapevolmente, un qualsiasi comportamento che abbia reso più agevole la realizzazione del suicidio”, in quanto “la legge, nel prevedere, all’art. 580 c.p., tre forme di realizzazione della condotta penalmente illecita (quella della determinazione del proposito suicida prima inesistente, quella del rafforzamento del proposito già esistente e quella consistente nel rendere in qualsiasi modo più facile la realizzazione di tale proposito) ha voluto punire sia la condotta di chi determini altri al suicidio o ne rafforzi il proposito, sia qualsiasi forma di aiuto o di agevolazione di altri del proposito di togliersi la vita, agevolazione che può realizzarsi in qualsiasi modo: ad esempio, fornendo i mezzi per il suicido, offrendo istruzioni sull’uso degli stessi, rimuovendo ostacoli o difficoltà che si frappongano alla realizzazione del proposito, ecc., o anche omettendo di intervenire, qualora si abbia l’obbligo di impedire la realizzazione dell’evento. L’ipotesi dell’agevolazione al suicidio prescinde totalmente dall’esistenza di qualsiasi intenzione, manifesta o latente, di suscitare o rafforzare il proposito suicida altrui. Anzi presuppone che l’intenzione di autosopprimersi sia stata autonomamente e liberamente presa dalla vita, altrimenti vengono in applicazione le altre ipotesi previste dal medesimo art. 580 c.p. (Cass. pen., Sez. I, n. 3147/1998).  

            Più di recente, in parziale conformità a tale pronuncia, il Tribunale di Vicenza e la Corte di Appello di Venezia hanno sostenuto, in un’analoga vicenda di trasporto in svizzera di un aspirante suicida nota come caso Tedde, che alla luce del dato letterale della norma incriminatrice “agevolazione dell’esecuzione del suicidio”, le condotte da stigmatizzare debbano essere solo quelle che si pongono come condizione di facilitazione del momento esecutivo e culminante del suicidio, inteso come «fase finale a se stante», respingendo qualunque ipotesi di lettura estensiva della norma incriminatrice. In particolare, la Corte di Appello Venezia, con sentenza n. 9 del 10.05.2017, ha confermato la pronuncia di proscioglimento emessa dal GUP del Tribunale di Vicenza, sottolineando come il rigore letterale della norma impone di ritenere sanzionabili solo le condotte che risultino “in necessaria relazione con il momento esecutivo del suicidio, ovvero direttamente e strumentalmente connesse a tale atto”. La Corte d’Appello ha dunque confermato la validità e la correttezza del ragionamento del giudice di merito – che era ricorso al meccanismo del giudizio controfattuale – concludendo che l’accompagnamento svolto dall’imputato in favore dell’amica malata, che avrebbe potuto recarsi in Svizzera anche da sola, non riguardasse l’esecuzione del suicidio e fosse attività del tutto fungibile, poiché la vittima era comunque determinata al suicidio ed avrebbe potuto egualmente raggiungere la clinica. Orbene, anche questa sentenza, che ha fornito un’interpretazione costituzionalmente possibile all’art. 580 c.p., non è però andata esente da critiche, avendo secondo alcuni introdotto una pericolosa e discrezionale distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi del suicidio.

            Il dibattito è tutt’altro che sopito, se si considera che, il prossimo 22 ottobre 2018, dinanzi alla Corte di Assise di Massa è previsto l’avvio di un nuovo processo per Marco Cappato e Mina Welby, i quali hanno chiesto di essere giudicati con rito immediato per il reato ex artt. 110 e 580 co. 1 c.p., per l’istigazione e l’aiuto al suicidio fornito sotto il profilo economico e materiale a Davide Trentini, malato da tempo di SLA, morto per suicidio assistito il 13 aprile 2017 in una clinica svizzera.

            Ciò detto sull’aiuto o istigazione al suicidio, il problema della meritevolezza e della proporzionalità della pena si pone anche in relazione all’altra norma incriminatrice introdotta dal legislatore per i casi di eutanasia pietosa, il reato di omicidio del consenziente.

            Anche in tal caso si è evidenziata la scarsa attinenza del fatto tipico e della sanzione alle vicende reali, se si considera che la causazione della morte di infermi e sofferenti, seppur consenzienti, è punita richiamando le stesse disposizioni dell’omicidio volontario (579  co. 3 c.p.).

            La giurisprudenza, ha fin da subito attenuato il rigore normativo prevedendo che “Non integra gli estremi del reato di omicidio comune aggravato, bensì del reato di omicidio del consenziente, l’uccisione della propria madre colpita da affezione morbosa inguaribile, anche se non giunta allo stadio terminale, quando risulti accertato che l’infermità non ha determinato nella vittima una deficienza psichica tale da renderne invalido il consenso” (Ass. Trieste, 2.5.88, in Foro it., 1989, II, 185).

            Ancora, nel caso di Luciano Papini, condannato a quattro anni e due mesi per il delitto di cui all’art. 579 c.p. per aver ucciso a colpi di pistola il giovane nipote affetto da idrocefalo, la giurisprudenza ha ammesso la ricostruibilità aliunde del consenso della vittima all’atto di eutanasia pietosa cagionato dall’agente, stabilendo che “nonostante le risultanze di una perizia che, sulla base di indagini strettamente clinico-psichiatriche, abbia concluso che la vittima di un omicidio era affetta da una insufficienza mentale di grado grave e tale da non potere esprimere il consenso alla propria uccisione, il giudice può, in base ad altri elementi ed in particolare ai pregressi rapporti di natura affettiva ed educativa tra la vittima e l’autore del reato, ritenere sussistente un implicito consenso al fatto criminoso” (Ass. Roma, 25.2.84, Giur. merito, 1986, 143).

            Al fine di attenuare la gravità del trattamento sanzionatorio dell’omicidio pietoso, la stessa giurisprudenza ha valutato la possibilità di attribuire particolare rilievo al movente pietistico “insito nella nobiltà e nell’altruismo del gesto” di chi uccide per provocare la cessazione delle sofferenze altrui, ai fini dell’applicazione dell’attenuante generale dei motivi di particolare valore morale e sociale. Le pronunce prevalenti, sia di merito, che di legittimità – seppur abbastanza risalenti e precedenti al dibattito aperto – si sono dimostrate ferme nel rigettare tale eventualità, motivando la tesi con diverse considerazioni: 1) l’attenuante dei motivi di particolare valore sociale o morale è già ricompresa nell’operatività dell’art. 579 c.p. (Ass. Trieste, 02.05.1988); 2) l’eutanasia, quale esigenza di porre fine alle altrui sofferenze, infrange il nesso di proporzione e adeguatezza con l’urgenza primaria di tutela della vita umana, dinanzi alla quale si pone in posizione subordinata non può perciò integrare l’attenuante dell’art. 62, n. 1 (Ass. Catania, 24.10.77, in Giur. merito, 1978, II, 1211); 3) l’attenuante in questione può essere riconosciuta solo in presenza di “motivi esclusivamente altruistici, non personali” che abbiano ricevuto l’incondizionata approvazione della società, per il loro elevato valore e abbiano sminuito l’antisocialità dell’azione criminosa (Cass. Pen., sez. I, 07.04.1989, in Giust. Pen. 1990, II, 460), secondo quella stessa sentenza le discussioni esistenti sulla condivisibilità dell’eutanasia, denotano il rifiuto a detta pratica da parte di ampie fasce sociali.

            In dottrina, alcuni autori hanno proposto l’esclusione della punibilità per l’autore materiale della morte pietosa in quanto incapace d’intendere e di volere al momento della commissione del fatto, essendo in preda ad stato emozionale o passionale di smarrimento a causa delle sofferenze atroci dell’amato, che trascende in una patologia della psiche. Si tratta di una tesi insostenibile, poiché in netto contrasto con la lettera dell’art. 90 c.p., nonché con l’argomento per cui la presunta infermità mentale diventerebbe uno strumento elusivo di disposizioni penali.

            Ancora, tra le argomentazioni in difesa dell’eutanasia pietosa, vi è stata l’esclusione del dolo nell’omicida pietatis causa: ciò poiché l’agente, spinto dalla sola volontà di fare del bene sarebbe al contempo incosciente dell’antigiuridicità della sua azione. Si è sostenuto al contrario che la coscienza dell’antigiuridicità deve, di per sé, ritenersi estranea all’oggetto ed al concetto di dolo, concepito dal diritto vigente esclusivamente in chiave di rappresentazione e volontà di realizzazione di un evento come conseguenza della propria azione od omissione criminosa. Non si può peraltro sostenere che il dolo viene meno in presenza di un atto di eutanasia compiuto con movente pietistico o misericordioso, essendovi il rischio di confondere il dolo, con i motivi che sono la causa stessa dell’evento (in tal senso Cass., sez I, 18.11.1954 Arch. Pen., 55;II, 122 che invece ammette il riconoscimento dei motivi pietistici come circostanza attenuante ex art. 62 n. 1 o 62 bis c.p.).

            Altra via percorsa per smorzare i rigori penalistici delle condotte di omicidio pietoso, soprattutto ove sia stato il sanitario a porre in essere la condotta attiva, è il ricorso alle cause di giustificazione dello stato di necessità e dell’adempimento di un dovere. Forte obiezione all’applicazione di dette scriminanti è però l’argomentazione che nega con rigore i presupposti delle cause di giustificazione, poiché la morte rappresenta il maggiore dei pericoli e dei mali che si possa subire, e cui chi uccide la vittima per evitarle sofferenze, non salva il paziente, né adempie ad un dovere nei suoi confronti, causando la negazione e l’estinzione della persona.

            Si è infine pensato a riqualificare legislativamente l’eutanasia pietosa come attenuante speciale dell’omicidio comune o di quello del consenziente, con un’incisiva riduzione di pena e con l’applicazione dell’attenuante dei motivi di particolare valore morale o sociale.

            Seppur emersa nei dibattiti a vari livelli, alcuna modifica o attenuazione al rigore dei reati in questione è stata tuttavia apportata dalla recente Lg. 219 del 22.12.2017, che non tratta di eutanasia attiva, ma di eutanasia passiva e di rifiuto di cure, incentrandosi sulle tematiche altrettanto spinose, ma diverse, dell’autodeterminazione del paziente nelle cure mediche anche in caso di incapacità, dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente, dei requisiti e delle forme di documentazione del consenso informato, dei limiti all’accanimento terapeutico, delle direttive anticipate di trattamento in ambito sanitario e che riconosce per la prima volta la nutrizione e l’idratazione artificiale come forma di trattamento medico, con conseguente semplificazione delle conseguenze e delle formalità connesse al loro rifiuto.

            Di fronte ai principi di tutela e salvaguardia della vita, della salute, della dignità umana, dell’autodeterminazione personale di cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost. e 1, 2 e 3 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE, tutti ribaditi all’art. 1 della Lg. 219/2017, è escluso in radice il riconoscimento, nel nostro ordinamento, di un diritto di morire, mentre è definitivamente ribadito e positivizzato il diritto all’autodeterminazione in ambito medico sanitario e quello di rifiutare le cure fino a lasciarsi morire, che ha trovato le sue pietre miliari nelle pronuncia del Tribunale di Roma sulla vicenda Welby e nella sentenza della Corte di Cassazione sul caso Englaro, secondo cui “Il rifiuto di terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso” (Cass. Civ., 16.10.2007, n. 21748). 

            Del resto per quanto riguarda il diritto a rifiutare le cure o eutanasia passiva, il principio del favor personae che permea la Carta Costituzionale, privilegia la libera scelta individuale, anche contra sé. L’opinione e la giurisprudenza dominante è giunta dunque a suggellarne la liceità, entro certi presupposti: a) a patto che l’interruzione della cura, rivelatasi inutile, sia espressione della libera e informata autodeterminazione del paziente; b) che non integri una violazione dei doveri giuridici del medico; c) che non sia causa diretta ed efficiente della morte dell’individuo.

            È il caso tipico del sanitario la cui astensione terapeutica è legittima, anzi doverosa ex art. 51 c.p., in presenza di un rifiuto di cure manifestato dal paziente pienamente capace, nonché adeguatamente informato sulle caratteristiche e le conseguenze del trattamento medico; o ancora in caso di terapie la cui insistenza ed incisività rischia di dare luogo ad un accanimento terapeutico inviso al malato e contrario alla sua dignità (cfr. Trib. Roma, G.u.p., 17.10.07, n. 15381, “Piergiorgio Welby da tempo, almeno da sei mesi, aveva deciso di porre fine alla terapia di ventilazione assistita cui era sottoposto dal 1997 e a tale scopo aveva perseguito tutte le strade possibili, anche rivolgendosi al Giudice civile, per poter vedere riconosciuto il proprio diritto all’interruzione del trattamento sanitario. Vari medici per motivi diversi si erano rifiutati di assecondare la sua volontà, fino a che era entrato in contatto con il dottor Riccio, medico specializzato in anestesia e rianimazione. Il rapporto che si costituiva tra i due è qualificabile come quello tipico che si instaura tra un medico ed il suo paziente, preceduto da una precisa acquisizione di informazioni da parte del medico sulle condizioni del paziente ed esso aveva ad oggetto competenze di carattere squisitamente sanitario, quali quella di porre fine al trattamento di respirazione assistita con il distacco del predetto dalla macchina e quella di somministrare contestualmente una terapia sedativa al paziente. Il contesto entro il quale, pertanto, si consumava la condotta dell’imputato era quello presupposto dal legislatore costituzionale per il legittimo esercizio del diritto all’autodeterminazione della persona attraverso la richiesta di interruzione del trattamento sanitario”, in Guida al dir., 2008, 47, 63).

            La Lg. 219 del 22.12.2017 ha recepito l’opinione dominante in giurisprudenza e dottrina, evidenziata dalla giurisprudenza relativa al caso Welby, con la conseguenza che il rifiuto alle cure, libero, informato e revocabile del paziente, espressione del legittimo esercizio del diritto all’autodeterminazione terapeutica – artt. 2, 32, comma 2, Cost. e 5 c.c. – scrimina la condotta del medico che concretizza l’esercizio del diritto al rifiuto di cure, eliminandone l’antigiuridicità.

            L’irrilevanza penale prevista dall’art 1, co. 6 Lg. 219/2017 per la condotta del medico che segue la volontà espressa del paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciarvi, appare dunque normativamente costruita proprio sulla scriminante, venendo così smentita l’opinione interpretativa minoritaria che attestava il venir meno del nesso causale tra la condotta del sanitario e l’evento (secondo questa tesi, nel caso di interruzione di cure – es. distacco della spina – la condotta del medico qualificata come omissiva non introduce nessun nuovo fattore di rischio, concretizzando il rischio preesistente della malattia, mentre il rifiuto del paziente rimuove la posizione di garanzia del medico e il suo obbligo di impedire l’evento).

            Invero, a fronte del rifiuto espresso di trattamenti sanitari ritenuti dal medico necessari ed urgenti (gli esempi fatti riguardano il rifiuto di trasfusione di sangue da parte dei testimoni di Geova o quello della chemioterapia da parte dell’ammalato di tumore), lo stesso medico rappresenterà i rischi per la salute del paziente, giusta la previsione del comma 5, indicando le alternative possibili, e verificherà la correttezza anche formale del rifiuto di cura espresso dal soggetto legittimato (art. 1 co. 7).

            Sulle modalità della manifestazione della volontà del paziente in punto di cure, la nuova normativa si rivela in parte contraddittoria, perché sancisce dapprima l’atipicità dei mezzi di manifestazione ed acquisizione del consenso informato e del rifiuto di cure, che potranno esprimersi “con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente”, salvo poi ribadire che il consenso va documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, con mezzi che le consentano di comunicare, ed infine riproporre che il consenso “in qualunque forma espresso è inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico” (art. 1, co. 4 – 5 d.lgs. 219/2017).

            La liceità rifiuto di cure fino a lasciarsi morire appare comunque controversa ove il cosciente, informato e specifico rifiuto del malato non abbia ad oggetto la somministrazione di farmaci o di terapie ordinarie, ma l’operatività di un sostegno artificiale che mantiene l’individuo in vita. Si tratta dei c.d. “trattamenti di sostegno vitale” ossia di quelle misure senza la cui attivazione il processo di malattia minaccerebbe in tempi rapidi di condurre alla morte: vi rientrano la rianimazione cardiopolmonare, la ventilazione assistita, la dialisi, la chirurgia d’urgenza, le trasfusioni di sangue, le terapie antibiotiche e secondo alcuni anche l’alimentazione e l’idratazione artificiale. La tesi prevalente recepita dalla Lg. 219/2017, è dell’avviso che, anche in queste tragiche situazioni, la volontà e l’autodeterminazione del paziente debbano avere la meglio, coerentemente con il brocardo voluntas aegroti suprema lex. Peculiare è tuttavia che il legislatore, all’art. 1 co. 5, abbia scelto di definire in modo esplicito come “trattamenti sanitari” solo la nutrizione e l’alimentazione artificiale, in quanto forme di “somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici”, omettendo invero di definire come tali, anche le altre forme di sostegno vitale prima elencate, tra cui in particolare la ventilazione artificiale, che nel caso di Piergiorgio Welby era il trattamento specifico dalla cui sussistenza dipendeva il mantenimento in vita della persona. Ebbene il legislatore ha optato per una semplificazione diretta a dare una definizione normativa ai casi più discussi di terapie astrattamente inalienabili (cibo e acqua per via parenterale), rimanendo tuttavia difficile escludere la ventilazione assistita o le trasfusioni di sangue dall’ampio novero dei trattamenti medici. È altrettanto chiaro che senza terapie e cure di un certo tipo, il decorso spontaneo delle predette condizioni di incoscienza conduce alla morte entro poche settimane, a causa della disidratazione e dello squilibrio elettrolitico; mentre dove si garantisce nutrizione e idratazione artificiale (NIA), con sonda naso-gastrica e assistenza infermieristica, il paziente può in alcuni casi continuare a vivere senza predeterminazione di durata.

            Fervente è dunque il dibattito attorno alla tematica della cd. eutanasia passiva non consensuale, legata alla condizione del paziente le cui funzioni vitali siano irrimediabilmente compromesse dallo stadio terminale della malattia e che versi in coma, incoscienza o stato vegetativo permanente (SVP), non scientificamente reversibile, che lo renda incapace di rifiutare le cure mediche o di acconsentire ad esse. Si tratta di uno dei frangenti più critici in relazione alle scelte di fine vita, posto che mette in crisi le scelte sanitarie fondate sul principio voluntas aegroti suprema lex, oscillando tra la necessità di assicurare le residue speranze di vita del paziente ed il rischio di procurare la distanasia o accanimento terapeutico. Per questi pazienti il problema è soprattutto quello dell’assenza dei presupposti del cosciente, informato e libero rifiuto di cure, quale presupposto per l’interruzione o la non applicazione del trattamento medico.

            La letteratura giuridica italiana e la giurisprudenza si sono da tempo interrogate sulla liceità dell’interruzione delle terapie che tengono in vita questi pazienti. Emblematica si è rivelata, sul punto, la presa di posizione della Suprema Corte nella dolorosa vicenda Englaro, incentrata sulla pervicace rivendicazione di un padre, della libertà di porre fine alle sofferenze della figlia Eluana, da lungo tempo ridotta in stato vegetativo permanente.

            Queste le tesi aperte prima della pronuncia della Suprema Corte.

            Secondo una certa opinione, il sanitario avrebbe la facoltà di assumere una decisione di “fine vita”, prima dell’intervento della morte celebrale del paziente, anche in assenza di una specifica determinazione dell’assistito, dovendo astenersi dall’accanito prolungamento di terapie inutili ed invasive che rischia di sfociare nella distanasia e integra un illecito deontologico. Tesi questa criticata da chi ritiene tale intervento del medico sia eccessivamente discrezionale, poiché conferisce a lui soltanto, il potere di disporre della vita e della salute di un altro individuo con una sorta di “gestione senza mandato”.

            Altra soluzione a cui si è fatto ricorso più frequentemente, consiste invece nel ricostruire con ogni mezzo, la volontà ipotetica o presunta del paziente, attraverso un approccio soggettivo, che dà massimo rilievo all’autodeterminazione del malato, interpretando ciò che egli avrebbe voluto, ove fosse stato compos sui. Un ricorso a tale criterio è stato fatto davanti al Tribunale del Missouri, nel caso Nancy Crusan del 1990, ove dopo varie vicissitudini, i genitori di una giovane, che versava da anni in condizioni terminali (SVP), venivano autorizzati ad interrompere i sostegni che la mantenevano in vita, in forza della volontà della paziente ricostruita con testimonianze di amici e parenti, che ricordavano i suoi orientamenti e le sue pregresse abitudini di vita.

            Altri hanno elaborato invece il criterio oggettivo della valutazione del migliore interesse del paziente, diretto a verificare l’utilità di proseguire la terapia futile o straordinaria che sia. La scelta del best interest dell’incapace spetta tuttavia al sanitario, che di frequente finisce con l’applicare al caso concreto, il proprio impianto ideale e concettuale, o tecniche di medicina difensiva.

            Ultimo criterio elaborato per orientare la decisione medica innanzi all’assistito incapace è rappresentato dalla “perdita irreversibile della coscienza”, quale limite ad ogni trattamento medico. Si sostiene, infatti, che quando cade ogni speranza di recupero della coscienza del paziente, che non è più in grado di comunicare con il mondo esterno, il dovere di cura del sanitario si arresta, atteso che non ha senso procrastinare una vita puramente artificiale: la vita artificiale si considera equiparata a quella naturale solo quando i macchinari rianimatori o di sostentamento costituiscono il mezzo terapeutico per ricondurre il paziente alla vita cosciente o autonoma, non negli altri casi. Detta tesi veniva accolta inizialmente dalla Corte d’Appello di Milano con provvedimento del 31.12.1999, che in prima battuta respingeva l’istanza presentata da Beppino Englaro, tutore della ragazza, volta ad ottenere l’interruzione di tali trattamenti di alimentazione e idratazione artificiale.

            La Corte di Cassazione ha elaborato invece tutt’altra argomentazione, mettendo al primo posto la libertà di autodeterminazione terapeutica, quale diritto costituzionalmente presidiato (art. 2, 3, 13, 32 Cost.) e connaturato anche all’incapace, che prima di cadere nel suo tragico stato, abbia manifestato la propria opinione in punto di cure, sancendo che “chi versa in stato vegetativo permanente è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie, a maggior ragione perché in condizioni di estrema debolezza e non in grado di provvedervi autonomamente. La funzionalizzazione del potere di rappresentanza, dovendo esso essere orientato alla tutela del diritto alla vita del rappresentato, consente di giungere ad una interruzione delle cure soltanto in casi estremi: – quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una vita fatta anche di percezione del mondo esterno; e sempre che tale condizione (tenendo conto della volontà espressa dall’interessato prima di cadere in tale stato ovvero dei valori di riferimento e delle convinzioni dello stesso) sia incompatibile con la rappresentazione di sé sulla quale egli aveva costruito la sua vita fino a quel momento e sia contraria al di lui modo di intendere la dignità della persona; – quando la ricerca della presunta volontà della persona in stato di incoscienza – ricostruita, alla stregua di chiari, univoci e convincenti elementi di prova, non solo alla luce dei precedenti desideri e dichiarazioni dell’interessato, ma anche sulla base dello stile e del carattere della sua vita, del suo senso dell’integrità e dei suoi interessi critici e di esperienza – assicura che la scelta in questione non sia espressione del giudizio sulla qualità della vita proprio del rappresentante, ancorché appartenente alla stessa cerchia familiare del rappresentato, e che non sia in alcun modo condizionata dalla particolare gravosità della situazione, ma sia rivolta, esclusivamente, a dare sostanza e coerenza all’identità complessiva del paziente e al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. In conclusione, precisa la Suprema Corte “in una situazione cronica di oggettiva irreversibilità del quadro clinico di perdita assoluta della coscienza, può essere dato corso, come estremo gesto di rispetto dell’autonomia del malato in SVP, alla richiesta, proveniente dal tutore che lo rappresenta, di interruzione del trattamento medico che lo tiene artificialmente in vita, allorché quella condizione, caratterizzante detto stato, di assenza di sentimento e di esperienza, di relazione e di conoscenza – proprio muovendo dalla volontà espressa prima di cadere in tale stato e tenendo conto dei valori e delle convinzioni propri della persona in stato di incapacità – si appalesi, in mancanza di qualsivoglia prospettiva di regressione della patologia, lesiva del suo modo di intendere la dignità della vita e la sofferenza nella vita (Cass. civ., 16.10.07, n. 21748).

            In altri termini la Corte di Cassazione ha sostenuto che anche per gli individui che versano in stato di incoscienza irreversibile debba valere il principio personalistico posto alla base del consenso informato, in totale parità di trattamento con gli altri ed a prescindere dalle loro condizioni; gli stessi devono avere la possibilità di autodeterminarsi in materia di salute.

            Ne consegue, che il giudice, su istanza del tutore, in contraddittorio con il curatore speciale, è abilitato ad autorizzare la disattivazione dei presidi sanitari se sussistono due presupposti:
1) l’irreversibilità della condizione clinica del paziente, senza che vi siano fondamenti scientifici che lascino presagire un possibile recupero della coscienza;

2) il rifiuto di cure sia realmente espressivo della voce del paziente, tratto da sue precedenti dichiarazioni, dal suo stile di vita e da sue radicate convinzioni sulla dignità della persona, con elementi di prova univoci e convincenti;

            Ove tali condizioni non siano soddisfatte, dovrà accordarsi assoluta prevalenza al diritto alla vita del paziente, indipendentemente dal suo grado di salute, capacità ed autonomia.

            Ebbene, tale storico arresto della giurisprudenza di legittimità, che ha intravisto nel rappresentante legale dell’incapace l’affidatario del potere ricostruttivo della decisione ipotetica del paziente, e, nel giudice, l’organo deputato al controllo della legittimità della scelta adottata per il paziente, è stato tuttavia criticato sotto vari profili. Anzitutto, perché riduce l’importanza del ruolo del medico, che non è mero “convitato di pietra” nella situazione in esame, ma soggetto dotato della responsabilità deontologica e giuridica di dare seguito, con propri comportamenti, al rifiuto di cure del paziente; poi, perché pur sottolineando energicamente il diritto all’autodeterminazione individuale ed affermandone il ruolo vincolante per il medico, non compie il passo ulteriore di comparare motivatamente tale diritto con il valore dell’inviolabilità della vita.

            Occorre chiedersi a questo punto se il tanto atteso e recente intervento legislativo, con le sue previsioni inerenti la tutela degli incapaci in ordine ai trattamenti medici, le disposizioni anticipate di trattamento e il ruolo del fiduciario (Lg. 219/2017 artt. 3, 4 e 5), abbia in realtà recepito i principi fondamentali sanciti dalla giurisprudenza di legittimità e sia in grado di prevenire o risolvere casi analoghi alla vicenda di Eluana Englaro.

            La normativa in esame, pur presupponendo che il consenso informato al trattamento medico e il rifiuto di cure possano essere manifestati dal solo soggetto/paziente capace di agire (art. 1 co. 5 lg. 219/2017), positivizza tuttavia il principio personalistico ed il diritto delle persone incapaci alla valorizzazione delle proprie attitudini di comprensione e di decisione rispetto ai diritti fondamentali della vita, della salute, della dignità umana e dell’autodeterminazione, nonché il ruolo fondamentale del tutore, del genitore, dell’amministratore di sostegno, in ordine alla loro autodeterminazione terapeutica.

            Senza pretesa di esaustività in questa sede nell’esame della normativa, importante risulta in tal senso la previsione dell’art. 3, co. 5 della legge, che delinea l’ipotesi in cui il minore, l’incapace o soggetto in stato di incoscienza non abbiano redatto le disposizioni anticipate di trattamento disciplinate dall’art. 4, che presuppongono comunque la maggiore età e la capacità di intendere e volere del loro autore.

            In caso di incapacità e in assenza di D.A.T., la norma disciplina l’ipotesi estrema del conflitto, in punto di rifiuto di cure, tra rappresentante dell’incapace e sanitario, prevedendo l’intervento determinante e risolutivo del giudice tutelare, a cui possono ricorrere il rappresentante dell’incapace, l’amministratore di sostegno, il pubblico ministero, il legale rappr.te della casa di cura, il medico ed i soggetti di cui all’art. 406 c.c., ivi compreso il beneficiario.

            L’interprete, nei casi in esame, viene chiamato a svolgere una rigorosa indagine in ordine alla coincidenza della volontà espressa dal familiare o dal tutore con quella manifestata in passato in diverse circostanze dal paziente o, in difetto, a disporre la prosecuzione dei trattamenti sanitari ritenuti dal medico necessari e adeguati alla condizione del paziente – in base all’evoluzione della scienza medica – senza eccedere nell’accanimento terapeutico.

            Il magistrato tutelare potrà ricorrere nella sua autonomia, ai principi costituzionali ed agli arresti giurisprudenziali più importanti in punto di rifiuto di cure ed eventualmente disporre l’interruzione di trattamenti invasivi, inadeguati o impersonali, in caso di irreversibilità della condizione clinica del paziente e di un rifiuto di cure espresso dal tutore o dall’amministratore di sostegno, realmente espressivo della voce del paziente.

            In verità, l’eventualità dell’intervento giudiziale non è solo contemplata dall’art. 3 co. 5 Lg. 219, ma appare più che mai prevedibile data la genericità dei contenuti dell’art. 4, sulle disposizioni anticipate di trattamento. L’art. 4 prevede infatti che ogni persona possa redigere le proprie DAT, senza alcuna supervisione o controllo del medico e che, al contempo, queste saranno vincolanti per il sanitario che dovrà eseguirle. È facile immaginare che al giudice saranno demandate questioni interpretative delicate inerenti la ricostruzione della volontà della persona che ha formulato le DAT – nel caso in cui si tratti di dichiarazioni generiche o non chiare nelle loro implicazioni tecnico scientifiche – oltre all’ipotesi prevista della mancata nomina del fiduciario, allorquando l’art. 4 co. 4 lg. 219 dispone che il giudice tutelare, ove necessario, provveda alla nomina ex lege dell’amministratore di sostegno.

            In conclusione, le questioni relative alla responsabilità penale nelle scelte di fine vita sono tutt’ora aperte, seppur l’intervento terzo e sapiente del giudice tutelare, secondo i principi fissati dalla giurisprudenza Englaro, potrà offrire garanzia non solo alla salvaguardia dei diritti fondamentali dell’incapace, ma anche all’operato del medico, tanto in caso di interruzione dei trattamenti sanitari che di prosecuzione delle cure ritenute urgenti e necessarie in base all’evoluzione scientifica, nella consapevolezza che non è oggi riconosciuto nel nostro ordinamento un diritto di morire, ma esiste un diritto di vivere dignitosamente e di autodeterminarsi nelle scelte sanitarie.