Il fenomeno del “caporalato”; dalla legge 1369/60 alla legge 199/2016

1. DEFINZIONE DI CAPORALATO.  

Con il termine “CAPORALATO” si definisce il fenomeno dell’illecita intermediazione di manodopera, in base al quale l’intermediario (“caporale”) fornisce al datore di lavoro- committente prestazioni di lavoro, ossia lavoratori da impiegare nell’impresa.

In questo modo l’appaltatore o il procacciatore di manodopera agivano come intermediari tra il committente (cioè il reale datore di lavoro) ed i prestatori d’opera, senza che tra questi ultimi soggetti intercorresse alcun rapporto di formale subordinazione; attraverso questo meccanismo il datore di lavoro, da un lato aggirava il sistema del collocamento di manodopera – che originariamente era di esclusiva competenza pubblica – dall’altro otteneva prestazioni di lavoro senza l’obbligo di osservanza dei minimi salariali e senza sostenere gli oneri assicurativi e previdenziali nei confronti dei prestatori d’opera.

Una prima tutela specifica della materia fu introdotta dalla L. 23.10.1960, n. 1369 (“Divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell’impiego di manodopera negli appalti e nei servizi”), che stabiliva il divieto assoluto di interposizione nelle prestazioni di lavoro in violazione del monopolio pubblico sul mercato del lavoro.

La violazione di tale divieto era sanzionata con «l’ammenda di lire 2.000 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione, ferma restando l’applicabilità delle sanzioni penali previste per la violazione della legge 29 aprile 1949, n. 264, e delle altre leggi in materia» (art. 2, l. 23.10.1960, n. 1369).

Il monopolio pubblico del collocamento ed il divieto assoluto di interposizione di manodopera, a partire dalla fine degli anni ’90 sono stati progressivamente superati anche per la spinta del diritto e della giurisprudenza comunitari; contestualmente si è assistito alla sempre più frequente tendenza delle imprese ad appaltare all’esterno della propria organizzazione funzioni e parti di produzione, attraverso la segmentazione del processo produttivo tra una pluralità di organizzazioni diverse; ciò ha reso indispensabile ridefinire ed aggiornare la normativa in materia di “fornitura” di manodopera.

In questo senso si è giunti alla cd Legge Biagi (d.lgs. 10.9.2003, n. 276 “Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30”), che ha attuato una generale riforma del mercato del lavoro, abrogando l’art. 27 l. 264/1949, la l. 1369/1960, i primi undici articoli della l. 196/1997, nonché tutte le disposizioni legislative e regolamentari incompatibili con il decreto stesso.

La riforma introdotta con il d.lgs. 276/2003 ha, innanzitutto, istituito un albo ministeriale delle agenzie per il lavoro, abilitate,in presenza di determinati requisiti indicati nell’art. 4, all'”intermediazione” di manodopera.

E’ stata prevista, poi, ai sensi dell’art. 18 d.lvo 276/2003, una sanzione per l’esercizio non autorizzato delle attività di intermediazione (“pena dell’arresto fino a sei mesi e dell’ammenda da euro 1500 a euro 7500. Se non vi è scopo di lucro, la pena è dell’ammenda da euro 500 a euro 2500. Se vi è sfruttamento dei minori, la pena è dell’arresto fino a diciotto mesi e l’ammenda è aumentata fino al sestuplo”).

Soggetto attivo del reato poteva quindi essere chiunque esercitasse senza l’autorizzazione ministeriale o dopo che la stessa fosse stata revocata – o con autorizzazione illegittima o illecitamente conseguita – una delle attività che il decreto attuativo della c.d. legge Biagi definiva come di “intermediazione”.

Il reato, punito a titolo di dolo generico, aveva natura permanente poiché si protraeva per tutta la durata del rapporto di lavoro sorto per effetto dell’opera dell’intermediatore[1].

La norma prevedeva che se l’attività di intermediazione fosse svolta senza “scopo di lucro”, si applicava la pena dell’ammenda da Euro 500,00 ad Euro 2.500,00; la fattispecie non costituiva una circostanza attenuante bensì il reato base, laddove è la presenza dello scopo di lucro ad aggravare la condotta.[2]

La ricostruzione della fattispecie di illecita intermediazione “senza scopo di lucro” come reato-base implica la conseguenza che per effetto del d.lgs. 8/2016, art. 1, 1° co., tale condotta è attualmente depenalizzata; conseguentemente, la fattispecie aggravata – ossia l’esercizio abusivo dell’intermediazione assistito da “scopo di lucro” – costituisce titolo autonomo di reato.

Con l’espressione “scopo di lucro”, si intende comunemente un fine di guadagno economicamente apprezzabile o di incremento patrimoniale, che – a differenza della più ampia nozione di “fine di profitto” – non può identificarsi con un qualsiasi vantaggio di altro genere.

Con la c.d. riforma Biagi, dunque, al divieto assoluto di interposizione ed intermediazione nelle prestazioni di manodopera di cui allaL. 23.10.1960, n. 1369, è subentrato un divieto di svolgere tali attività in assenza dei titoli abilitativi e dei requisiti stabiliti dagli artt. 4 e 5  d.lgs. 276/2003.

Nonostante, quindi, la c.d. legge Biagi costituisca un passo in avanti per la disciplina del fenomeno dell’intermediazione di manodopera, la stessa rappresentava ancora una forma di tutela deboleperché legata ad un reato costruito in maniera esclusivamente formale (veniva punito solo l’esercizio dell’attività senza autorizzazione ministeriale) e, per di più, il reato era costruito secondo uno schema contravvenzionale e, quindi, estinguibile mediante il ricorso all’oblazione. 

2. LA FATTISPECIE DI INTERMEDIAZIONE ILLECITA E SFRUTTAMENTO DEL LAVORO PREVISTA DALL’ART. 603 BIS C.P. NEL TESTO INTRODOTTO DAL D.L. 138/2011.

In questo contesto di tutela, si comprende allora molto bene l’importanza della nuova fattispecie di reato di cui all’art. 603 bis c.p. introdotta dal D.L. 138/2011 (Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro) che così recitava: «salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque svolga un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori, è punito con la reclusione da cinque a otto anni e con la multa da 1.000 a 2.000 Euro per ciascun lavoratore reclutato» (art. 603bis, 1° co.,c.p.).

Tale fattispecie di reato, costruita in forma delittuosa, mirava quindi a reprimere in termini di maggiore efficacia le forme di illegale reclutamento della manodopera che, pur non raggiungendo la soglia di gravità delle condotte di riduzione e mantenimento in schiavitù e servitù per l’esecuzione di “prestazioni lavorative” ( già punite dall’art. 600 c.p.), erano connotate da un disvalore maggiore rispetto alle violazioni solo formali previste dall’art. 18 d.lgs. 276/2003 che, come detto, si erano rivelate inadeguate per la previsione di reati contravvenzionali per lo più oblabili ex artt. 162 e 162 bis c.p..  

E’ importante sottolineare, inoltre, la collocazione sistematica di tale disposizione normativa (art. 603 bis c.p.) che viene appunto inserita tra i “delitti contro la personalità individuale” annoverati nella Sezione I del Capo III del codice penale.[3] 

La condotta descritta dalla norma, nella formulazione antecedente alle modifiche apportate dalla l. 199/2016, consisteva in “un’attività organizzata di intermediazione”, mediante il “reclutamento di manodopera” e la successiva “organizzazione del lavoro”; in mancanza di specificazione sul punto, la nozione di “intermediazione” si desume dall’art. 2, 1° co., lett. b, d.lgs. 276/2003, che definisce tale l’attività di “mediazione tra domanda ed offerta di lavoro” svolta attraverso una serie di modalità dettagliatamente elencate.

La norma in commento attribuiva rilevanza penale unicamente alla condotta dell’intermediario del lavoro (“chiunque svolga un’attività organizzata di intermediazione”), cioè di colui che si fosse interposto tra il lavoratore e l’utilizzatore della manodopera, il che significa che rimanevano fuori dalla sfera di punibilità quelle forme di reclutamento, che avvenivano sempre mediante sfruttamento, ma che venivano poste  in essere direttamente dal datore di lavoro ed al di fuori delle ipotesi di concorso di quest’ultimo soggetto con l’intermediario.

La condotta vietata richiedeva un’organizzazione di risorse e mezzi strumentale all’attività di reclutamento, che avrebbe potuto pur essere minima o rudimentale purché funzionale allo scopo e gestita anche da un solo autore – non avendo la norma configurato una fattispecie plurisoggettiva necessaria –  o destinata al reclutamento di una sola persona.

L’illecita intermediazione doveva essere caratterizzata dallo sfruttamento – attuato alternativamente con “violenza”, “minaccia” o “intimidazione” – e dall’“approfittamento dello stato di bisogno o di necessità” del lavoratore.

Per la definizione di questi ulteriori elementi distintivi della condotta occorreva riferirsi alle omologhe nozioni presenti in altre norme del codice penale; pertanto:

   –        per violenza si intende qualsiasi energia fisica diretta ed idonea a coartare la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo, nel caso di specie il lavoratore;

   –        la minaccia si identifica nella prospettazione, palese o anche larvata, di un male ingiusto che, tenuto conto delle circostanze oggettive e delle condizioni soggettive della vittima, sia idonea a turbare o diminuire la libertà psichica del lavoratore ed a creare uno stato  di costringimento;

   –    l’intimidazione è l’atteggiamento connotato dalla capacità di creare soggezione e sudditanza psicologica indipendentemente dal compimento di atti di violenza o minaccia; costituisce l’effetto proprio di un’attività criminosa svolta in forma organizzata (si rimanda al concetto di “forza intimidatrice” di cui all’art. 416 bis c.p.).

Con riferimento a quest’ultima nozione veniva in rilievo, ai fini della configurabilità della fattispecie, qualunque condotta idonea a menomare la libertà di determinazione della vittima, attraverso l’approfittamento dello stato di bisogno o di necessità della stessa.[4]

Per assumere rilevanza penale era, altresì, richiesto che la descritta attività fosse svolta“approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori”.

In proposito è stato evidenziato (Scevi 2012, 1062) che lo “stato di necessità” non doveva essere inteso secondo l’accezione di cui all’art. 54 c.p., bensì come un condizione di debolezza e vulnerabilità affine alle nozioni utilizzate dall’art. 1448 c.c. (rescissione del contratto per lesione quando la sproporzione tra le due prestazioni contrattuali «sia dipesa dallo stato di bisogno di una parte, del quale l’altra abbia approfittato per trarne vantaggio») e dall’art. 600 c.p. (in relazione all'”approfittamento di una situazione di necessità”); la nozione di “stato di bisogno”, invece, rimandava all’evidenza al delitto di usura (art. 644 c.p.), dove tale condizione è comunemente intesa come “impellente assillo” che limita la volontà della persona offesa inducendola ad accedere a condizioni contrattuali – nel caso di specie, lavorative – deteriori o peggiorative rispetto a quelle di mercato.     

La norma in commento, al 2° comma, elencava una serie di manifestazioni rivelatrici della ricorrenza dello sfruttamento che consistevano: 

   1) nella sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;

   2) nella sistematica violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;

   3) nella sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale;

  4) nella sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o a situazioni alloggiative particolarmente degradanti.

Si osservava, tuttavia, che unica era la condotta incriminata e che essa poteva estrinsecarsi attraverso uno o più dei comportamenti esplicitati

L’art. 603 bis, 3° co., c.p. prevedeva le tre seguenti circostanze aggravanti ad effetto speciale che comportavano l’aumento della pena da un terzo alla metà:

– il fatto che il numero di lavoratori reclutati fosse superiore a tre;

– il fatto che uno o più dei soggetti reclutati fossero minori in età non lavorativa;

– l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori intermediati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro.

Erano previste, poi, delle pene accessorie in caso di condanna per il delitto in questione.

La condanna per il delitto di cui all’art. 603 bis c.p., comportava l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche o delle imprese, nonché il divieto di concludere contratti di appalto, di cottimo fiduciario, di fornitura di opere, beni o servizi riguardanti la pubblica amministrazione, e relativi subcontratti; era, altresì, prevista l’esclusione per un periodo di due anni da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi da parte dello Stato o di altri enti pubblici, nonché dell’Unione europea, relativi al settore di attività in cui aveva avuto luogo lo sfruttamento; il periodo di interdizione era aumentato a cinque anni nel caso in cui il fatto fosse commesso da un recidivo  ai sensi dell’art. 99, 2° co., nn. 1) e 3) c.p.

Il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro era strutturato come un reato di danno, permanente, nonché punito a titolo di dolo generico, integrato dalla rappresentazione e volontà di tutti i richiamati elementi costitutivi della fattispecie.

La clausola di riserva prevista dalla norma (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”) comportava che la fattispecie in questione fosse integrata solo in via residuale, ossia nel caso in cui il fatto non fosse ascrivibile ad una fattispecie penale di maggiore disvalore (si pensi ai delitti di cui agli artt. 600 c.p., riduzione o mantenimento in schiavitù e servitù, 601 c.p., tratta di persone, 602 c.p., acquisto o alienazione di schiavi).

I termini di prescrizione del delitto sono raddoppiati ai sensi dell’art. 157, 6° co., c.p., come modificato dalla l. 172/2012.

3. IL NUOVO REATO DI CUI ALL’ ART. 603 BIS C.P. INTRODOTTO DALLA LEGGE 199/2016. 

Il 4.11.2016 è entrata in vigore la l. 29.10.2016 n. 199, recante “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”.

Tale legge ha praticamente riscritto l’art. 603 bis c.p., con il dichiarato intento di garantire una maggiore efficacia all’azione di contrasto del noto fenomeno del “caporalato”, ossia del reclutamento della manodopera “in nero” attraverso lo sfruttamento dello stato di bisogno del lavoratore.

In sintesi, le principali novità introdotte dal d.lgs. 199/2016 sul piano penale riguardano:

– la riformulazione della fattispecie base di cui all’art. 603 bis c.p. con l’espressa punibilità del “datore di lavoro”;

– l’inserimento, nell’art. 603 bis, 1° co., della circostanza attenuante speciale in caso di collaborazione con l’autorità;

– la previsione, nell’art. 603 bis, 2° co., della confisca obbligatoria – diretta o per equivalente – in caso di condanna o di sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p.;

–  l’inserimento del delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro tra i reati per i quali è prevista la “confisca allargata” ex art. 12 sexies del d.l. 306/1992;

– il controllo giudiziario dell’azienda in luogo del sequestro preventivo “impeditivo” (art. 603 bis, 1° co.);

–  l’arresto obbligatorio in flagranza di reato;

– l’estensione alle persone giuridiche della responsabilità per il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.

Procedendo con ordine, il nuovo delitto di cui all’art. 603 bis comma 1° c.p. come introdotto dalla legge 199/2016, così recita:

“Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500,00 a 1.000,00 Euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque:

1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori;

2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.

L’aspetto più importante è sicuramente rappresentato dall’inclusione, nel novero dei soggetti attivi del reato, del datore di lavoro, ossia di colui che “utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al n. 1)”.

Tale previsione ha determinato, quindi, uno sdoppiamento della condotta punibile che non riguarda più solo -come avveniva con la vecchia formulazione dell’art. 603 bis c.p. introdotto con il d.l. 138/2011- la figura del reclutatore- caporale ma anche quella dell’utilizzatore di manodopera, appunto il datore di lavoro, che avesse direttamente reclutato manodopera.

Nel sistema previgente, infatti, come già detto innanzi, il datore di lavoro avrebbe potuto rispondere al più a titolo di concorso – quantomeno sul piano morale – con il “caporale”, ma ciò imponeva la dimostrazione che il datore di lavoro fosse consapevole (dolo del concorso) del carattere intimidatorio o violento della condotta dell’intermediario nella fase del reclutamento.

Ai fini della individuazione del “datore di lavoro” quale soggetto attivo della condotta di cui all’art. 603 bis, 1° co., n. 2), c.p., soccorrerà la definizione contenuta nell’art. 2, 1° co., lett. b) d.lgs. 81/2008 (Testo unico della sicurezza sul lavoro), come integrata dal principio stabilito dall’art. 299 stesso T.U. in tema di “esercizio di fatto dei poteri datoriali e direttivi”.

Altro aspetto di rilievo introdotto dalla norma, rispetto alla fattispecie preesistente di cui al d.l. 138/2011, riguarda l’esclusione dalla fattispecie base dei comportamenti violenti ed intimidatori.

La “violenza e la minaccia” – ma non l'”intimidazione” – connotano, infatti, l’ipotesi aggravata di cui al comma 2° dell’art. 603 bis c.p., per la quale è prevista la pena della reclusione da cinque ad otto anni e della multa da 1.000,00 a 2.000,00 Euro per ciascun lavoratore reclutato (si trattava della pena prevista per l’originaria fattispecie base, che oggi è punita con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500,00 a 1.000,00 Euro per ciascun lavoratore reclutato).

Nella nuova fattispecie base scompare, inoltre, il riferimento allo svolgimento di un’attività “organizzata” di intermediazione, così come il richiamo all’ “organizzazione dell’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento”; ciò consentirà la punibilità di forme di sfruttamento della manodopera poste in essere da un singolo soggetto ed anche in via occasionale, ossia al di fuori di una struttura stabilmente dedita all’illecita intermediazione.

Nel nuovo testo è, altresì, soppresso il riferimento allo “stato di necessita”.

Sotto il profilo dell’elemento materiale, anche nella nuova versione della fattispecie base (1° co., nn. 1 e 2) gli elementi qualificanti la condotta sanzionata sono rappresentati dallo sfruttamento della manodopera e dall’approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore. 

In ordine allo “stato di bisogno”, si richiama quanto esposto in precedenza in sede di commento dell’originario testo dell’art. 603 bis c.p., nel senso che tale condizione deve essere intesa come “impellente assillo” che limita la volontà della persona offesa inducendola ad accedere a condizioni lavorative deteriori o peggiorative rispetto a quelle di mercato.     

La nozione di “sfruttamento” rimanda a tutti quei comportamenti che, anche se realizzati senza violenza o minaccia, sono astrattamente idonei a comprimere la libertà di autodeterminazione della persona offesa; tale situazione implica, pertanto, una reiterazione di atti per un tempo sufficiente ad integrare una significativa limitazione dei diritti del lavoratore.

La fattispecie di cui al comma 1°, n. 2 (“chi utilizza, assume, impiega”) ha natura di reato permanente, nel senso della protrazione della lesione al bene giuridico fino al momento della cessazione dello sfruttamento ed approfittamento delle condizioni di bisogno del lavoratore impiegato.

Anche il nuovo testo dell’art. 603 bis c.p. è caratterizzato al 3° comma dall’elencazione degli indici di sfruttamento che, come con la vecchia formulazione, restano indici di orientamento probatorio e non elementi costitutivi del reato.

Il nuovo testo dell’art. 603 bis c.p. reca però una semplificazione di tali indici che determina di fatto un ampliamento della soglia di punibilità. 

L’art. 603 bis c.p. comma 3° così recita:

“Ai fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:

1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato ( da notare che nel vecchio testo si faceva riferimento alla sistematica retribuzione in modo palesemente difforme….ecc. ove è evidente, pertanto, che il concetto di sistematicità facesse riferimento ad un modello operativo improntato a tali violazioni laddove nella fattispecie attuale si richiede solo la mera reiterazione);

2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie (da notare che, anche in questo caso, nel vecchio testo di faceva riferimento alla sistematica violazione della normativa in materia di orario di lavoro ecc);

3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro(laddove la vecchia formulazione richiedeva che tali violazioni fossero anche “tali da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza e l’incolumità personale”inciso quest’ultimo che è stato quindi eliminato con la novella); 

4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti” (laddove nel vecchio testo si faceva rifermento non a semplici situazioni alloggiative degradanti ma “particolarmente” degradanti il che determinava nella fattispecie previgente inevitabilmente un innalzamento della soglia di punibilità).

La semplificazione degli indici di sfruttamento ha fatto temere, soprattutto nelle associazioni di categoria, un eccesso di penalizzazione della nuova formulazione, rispetto al quale gli interpreti hanno comunque risposto richiamando l’orientamento giurisprudenziale formatosi sotto la vigenza della precedente formulazione della norma (ad esempio Cass., Sez. V, 4.2.2014, S.C. ed S.I. , De Jure), secondo cui non ogni violazione delle disposizioni in materia di tutela dei lavoratori (ad esempio in tema di sicurezza sul lavoro) o delle regole sull’avviamento al lavoro contenute nel d.lgs. 276/2003, integra il delitto in questione, occorrendo comunque una situazione di sfruttamento del lavoratore e di approfittamento del suo stato di bisogno da parte dell’agente.

Riguardo all’elemento psicologico del delitto ed alla portata della “clausola di riserva” – che è stata confermata anche nel nuovo testo della norma – si rimanda a quanto già esposto riguardo alla previgente disposizione circa il carattere doloso della fattispecie; inalterata è, altresì, rimasta la disposizione di cui all’art. 603 ter c.p. in tema di pene accessorie.

Nella nuova formulazione dell’art. 603 bis, 2° co., c.p., la commissione delle condotte di cui al comma 1° con “violenza o minaccia”, integra una prima circostanza aggravante speciale.

Del tutto invariate restano, nel nuovo testo, le circostanze aggravanti ad effetto speciale (con aumento della pena “da un terzo alla metà”) ora collocate al 4° co. della norma, ossia:

“1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre;

 2) il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa;

 3) l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro”.

Di assoluta novità è, invece, l’introduzione – con l’art. 603 bis.1 c.p. – della circostanza attenuante della collaborazione “processuale”:

“Per i delitti previsti dall’articolo 603-bis, la pena è diminuita da un terzo a due terzi nei confronti di chi, nel rendere dichiarazioni su quanto a sua conoscenza, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti o per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite.

Nel caso di dichiarazioni false o reticenti si applicano le disposizioni dell’articolo 16 septies del decreto legge 15 gennaio 1991 n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991 n. 82..

Non si applicano le disposizioni dell’articolo 600-septies.1″.

Si tratta di una attenuante palesemente modellata su analoghe circostanze (cfr., tra quelle di più recente introduzione nell’ordinamento, le circostanze attenuanti di cui agli artt. 323, 2° co., bis c.p. e 452 decies c.p.), tutte ispirate da una logica di tipo “premiale” per chi collabori allo scopo di far emergere il grave fenomeno del “caporalato” che, solitamente, è agevolato da una fitta trama di omertà.

L’operatività dell’attenuante è circoscritta all’ambito “processuale” poiché la disposizione prevede che l'”aiuto” alle investigazioni debba essere fornito da chi sia ascoltato – in veste di indagato o imputato per il delitto di cui all’art. 603 bis c.p. – su “quanto a sua conoscenza”.

Per espressa previsione della norma in commento, in caso di contestazione del delitto di cui all’art. 603 bis c.p. non trova applicazione la circostanza attenuante della “collaborazione” prevista dall’art. 600 septies c.p. in relazione a tutti gli altri delitti contro l’incolumità individuale.  

Nella prospettiva del rafforzamento degli strumenti di repressione intesi ad impedire che l’illecita attività del “caporalato” consenta la formazione di illeciti patrimoni, la l. 199/2016 ha previsto l’applicazione di tre forme di confisca in relazione al delitto di cui all’art. 603 bis c.p. 

In primo luogo, l’art. 603 bis. 2. c.p., primo periodo, annovera il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro tra quelli per cui, in caso di condanna o applicazione della pena su richiesta,   “è sempre obbligatoria, salvi i diritti della persona offesa alle restituzioni e al risarcimento del danno, la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto o il profitto, salvo che appartengano a persona estranea al reato”.

Trattasi di una ipotesi di misura di sicurezza reale obbligatoria – ossia disposta necessariamente e sulla base del solo accertamento del vincolo strumentale della cosa con il reato – applicabile in caso di condanna o pronuncia resa ex art. 444 c.p.p.

Per “cose che servirono o furono destinate a commettere il reato” si intendono, ad esempio, i veicoli comunemente utilizzati dai “caporali” per il trasporto dei lavoratori; il “profitto” del reato si identifica con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito[5]); il prodotto è il risultato empirico dell’illecito, cioè le cose create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato; il prezzo, infine, va individuato nel compenso dato o promesso ad una determinata persona, come corrispettivo dell’esecuzione dell’illecito.

La misura ablativa reale non può trovare applicazione nel caso di appartenenza del bene a “persona estranea al reato”[6]. 

Nel caso in cui non si possa accedere alla confisca “diretta” nei termini evidenziati, la norma in commento prevede la possibilità di confiscare “i beni di cui il reo ha la disponibilità, anche indirettamente o per interposta persona, per un valore corrispondente al prodotto, prezzo o profitto del reato”.

Si tratta della seconda ipotesi di confisca e cioè di quella per equivalente” che permette di sottoporre alla misura ablatoria beni o altre utilità in misura proporzionale al “prezzo, al prodotto o al profitto” del reato in assenza di qualsiasi prova di un rapporto di pertinenzialità tra i beni appresi ed il fatto illecito; anzi, il presupposto logico e giuridico della confisca c.d. “di valore” è proprio rappresentato dalla mancata individuazione delle utilità derivanti direttamente dall’illecito.

Da ultimo, l’art. 5 l. 199/2016, integrando la formulazione dell’art. 12 sexies del d.l. 8.6.1992, n. 306, convertito con modificazioni nella l. 7 agosto 1992 n. 356 (in tema di contrasto alla criminalità mafiosa), ha aggiunto il delitto di cui all’art. 603 bis c.p. tra i reati per i quali, in caso di condanna o di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p.,“è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica”Trattasi di una forma della c.d. “confisca allargata” che rappresentauna “misura di sicurezza atipica” per mezzo della quale si intende aggredire entità patrimoniali, nella ricorrenza di determinati presupposti, sulla base di una “presunzione relativa di ingiustificata locupletazione.

L’art. 4 della legge ha integrato l’art. 380 c.p.p. con l’aggiunta – al 2° co., lett. d1) – del delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro commesso con violenza e minaccia, tra i delitti per cui è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza.

Lo stato di flagranza è agevolmente accertabile rispetto alla condotta di “reclutamento” della manodopera.

Riguardo alla condotta permanente di “utilizzo ed impiego” dei lavoratori nelle condizioni richiamate, lo stato di flagranza perdura, secondo la previsione dell’art. 382, 3° co., c.p.p., fino alla cessazione della permanenza, ovvero fintanto che sussistano le condizioni di sfruttamento del lavoratore ed il profittamento del proprio stato di bisogno, identificabili anche attraverso gli indici sintomatici elencati dalla norma[7].

L’art. 3, 1° co., della l. 199/2016 ha introdotto l’istituto del controllo giudiziale dell’azienda che costituisce un’assoluta novità nel panorama delle misure cautelari di natura reale, nel cui ambito esso è annoverabile per la funzione impeditiva cui assolve, unitamente a finalità “riparatorie” e “conservative”.

La norma così prevede:“Nei procedimenti per i reati previsti dall’articolo 603 bis del codice penale, qualora ricorrano i presupposti indicati nel comma 1 dell’art. 321 del codice di procedura penale, il giudice dispone, in luogo del sequestro, il controllo giudiziario dell’azienda presso cui è stato commesso il reato, qualora l’interruzione dell’attività imprenditoriale possa comportare ripercussioni negative sui livelli occupazionali o compromettere il valore economico del complesso aziendale. Si osservano le disposizioni di cui agli articoli 321 e seguenti del codice di procedura penale”.

La ratio dell’istituto, oltre ad essere chiaramente quella di impedire il “ripetersi delle violazioni” accertate, mira anche a difendere il valore commerciale dell’impresa che ha reclutato lavoratori in violazione dell’art. 603 bis c.p. nel senso cioè che il giudice dovrà disporre il controllo giudiziario qualora “l’interruzione dell’attività imprenditoriale possa comportare ripercussioni negative sui livelli occupazionali o compromettere il valore economico del complesso aziendale.

In pratica l’A.G. provvederà alla nomina di uno o più amministratori che affiancheranno l’imprenditore nella gestione dell’azienda. L’Amministratore avrà l’obbligo di riferire al giudice ogni tre mesi sull’andamento dell’amministrazione e, in ogni caso, di comunicare senza ritardo in caso di emersione di irregolarità connesse con l’esercizio dell’attività commerciale. Ovviamente, all’amministratore giudiziario verrà attribuito il compito di impedire la protrazione del trattamento degradante dei lavoratori, che dovranno essere regolarizzati, e quello di apportare le necessarie modifiche all’indirizzo commerciale dell’azienda, difforme da quello impresso dall’imprenditore. 

Tale disposizione presenta dei profili di incertezza perché da un lato si dice che l’amministratore affiancherà l’imprenditore nella gestione dell’impresa e, dall’altro, si dice, invece,  che l’imprenditore non mantiene la piena titolarità dei suoi poteri di gestione poiché il 3° comma dell’art. 3 in commento stabilisce che l’amministratore “autorizza lo svolgimento degli atti di amministrazione utili all’impresa” e può spingersi ad “adottare adeguate misure anche in difformità da quelle proposte dall’imprenditore o dal gestore”.

Vi è, pertanto, chi in dottrina ha sostenuto che la permanenza dell’imprenditore a capo dell’azienda sia meramente formale, essendo del tutto irragionevole pensare che l’autonomia di questo soggetto sia ridotta al compimento di atti “inutili” per l’impresa visto che, come ricordato innanzi, gli atti utili all’impresa debbono essere autorizzati dall’amministratore.  

Questa situazione di incertezza potrebbe essere risolta nel senso di ritenere che il “controllo giudiziario” – ed i correlativi poteri di intervento da parte dell’a.g. – sia limitato alla verifica della puntuale osservanza della disciplina in materia di assunzione e trattamento della manodopera ed alla possibilità per l’amministratore di sostituirsi al titolare solo nelle decisioni riguardanti tale ambito; questa interpretazione è suggerita dalla disposizione (3° co., secondo periodo) secondo cui “al fine di impedire che si verifichino situazioni di grave sfruttamento lavorativo, l’amministratore giudiziario controlla il rispetto delle norme e delle condizioni lavorative la cui violazione costituisce, ai sensi dell’articolo 603 bis del codice penale, indice di sfruttamento lavorativo, procede alla regolarizzazione dei lavoratori che al momento dell’avvio del procedimento per i reati previsti dall’articolo 603-bis prestavano la propria attività lavorativa in assenza di un regolare contratto e, al fine di impedire che le violazioni si ripetano, adotta adeguate misure anche in difformità da quelle proposte dall’imprenditore o dal gestore”.

Come si vede, il potere di adottare misure “difformi” rispetto a quelle proposte dall’imprenditore – ossia di incidere significativamente sulle scelte gestionali – è circoscritto all’applicazione “delle norme e delle condizioni lavorative la cui violazione costituisce, ai sensi dell’articolo 603 bis del codice penale, indice di sfruttamento lavorativo”; donde la conclusione che, invece, l’attività di ordinaria amministrazione dell’impresa resta affidata al suo titolare, sotto la supervisione del “controllore” che avrà cura di segnalare al giudice eventuali “irregolarità circa l’andamento dell’attività aziendale”.

Non minori incertezze suscita la norma circa le modalità applicative dell’istituto.

In primo luogo, il generico riferimento al “procedimento” lascia intendere che il “controllo” può essere istituito sia nel corso delle indagini preliminari (nel qual caso la competenza funzionale ad adottarlo sarà del gip) sia durante il processo, all’esito dell’esercizio dell’azione penale (la competenza in questo caso è del tribunale secondo la regola stabilita dall’art. 91 disp. att. c.p.p.). Non è previsto che la misura sia applicata su richiesta del p.m., il che lascia spazio anche alla possibilità di un intervento d’ufficio da parte del giudice procedente; il “controllo” è disposto con “decreto” che, in ossequio al principio generale stabilito dall’art. 125, 3° co., c.p.p., dovrà essere motivato.

L’espresso richiamo alle “disposizioni di cui agli articoli 321 e seguenti del codice di procedura penale” rimanda alla possibilità per l’imprenditore “controllato” di attivare avverso il decreto che “dispone il controllo” i rimedi impugnatori previsti dagli artt. 322 e 324  c.p.p. (riesame del decreto di sequestro preventivo) e dal successivo art. 325 c.p.p. (ricorso per cassazione).

L’art. 6 della l. 199/2016 ha incluso, infine, il reato di cui all’art. 603 bis c.p. nel catalogo dei reati presupposto per i quali è prevista la responsabilità amministrativa degli enti ai sensi dell’art. 25 quinquies, 1° co., lett. a), d.lgs. 231/01; la sanzione pecuniaria a carico dell’ente responsabile è stabilita tra 400 e 1.000 quote.

La normativa in parola si applica «agli enti forniti di personalità giuridica ed alle società ed associazioni anche prive di personalità giuridica» (art. 1, 2° co., d.lgs. 231/01), con l’esplicita esclusione dello «Stato, enti pubblici territoriali, enti pubblici non economici, ed enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale» (art. 1, 3° co., d.lgs. 231/01); in tale ambito la giurisprudenza di legittimità, dopo un’iniziale divergenza di orientamenti, ha stabilito che non rientrano le imprese individuali (Cass., Sez. VI, 16 maggio 2012,V.G.,CP, 2013, 2, 793), mentre ha previsto l’assoggettamento alla richiamata disciplina per gli enti a capitale “misto” pubblico e privato (Cass., Sez. II, 9 luglio 2010, Istituto Codavilla Putti s.p.a.,CP, 201, 5, 1888).

                                                                                     Filippo Di Todaro

  Giudice Tribunale Taranto


[1] “ciò che dal legislatore è tutelato non è il contratto, fonte del rapporto, ma il rapporto che ne scaturisce; ai soggetti di tale rapporto è stata apprestata tutela e non alla libera esplicazione della volontà delle parti in un momento definito» (così, Cass., Sez. III, 24 febbraio 2004, Guerra, CP, 2005, 12, 4007).

[2] «l’ipotesi dell’esercizio abusivo, a scopo di lucro, dell’attività di intermediazione nell’avviamento al lavoro – già sanzionata dall’art. 27, 1° comma – secondo periodo, della legge n. 264/1949 ed attualmente punita dall’art. 18, comma 1° – secondo periodo, del D.Lgs. n. 276/2043 – non costituisce una figura autonoma di reato, ma una circostanza aggravante (ad effetto speciale) della stessa ipotesi contravvenzionale che non risulti connotata da finalità lucrativa (art. 27, 1° comma – primo periodo, della legge n. 264/1949, attualmente punita dall’art. 18, comma 1° – terzo periodo, del D.Lgs. n. 276/2003), in quanto non implica una modificazione dell’essenza di detto reato ma costituisce soltanto una particolarità che si aggiunge ad esso determinandone una maggiore gravità. Tale ipotesi aggravata, pertanto, deve essere inclusa nel giudizio di comparazione ex art. 69 cod. pen.» (Cass., Sez. III 24 febbraio 2004, Guerra, CP, 2005, 12, 4007).

[3]    «oggetto di tutela di questa categoria di reati è lo stato di uomo libero, inteso come necessario presupposto per il riconoscimento dei singoli diritti di libertà. In altri termini ciò che viene tutelato non è una forma particolare di manifestazione della libertà del singolo, bensì il complesso delle manifestazioni che si riassumono in tale stato e la cui negazione incide sullo svolgimento della personalità dell’individuo» (Cass., Sez. V, 4 febbraio 2014,  Stoican, FI, 2014, 6, II, 331; CED, 262541).

[4]    «integra il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro la condotta di colui che, nell’approfittare delle condizioni di bisogno o di necessità della vittima, recluta manodopera mediante esercizio di violenza, minaccia o intimidazione, concretantesi nell’illegittimo controllo del mercato del lavoro in una situazione in cui i lavoratori non sono in condizione di procurarsi altrimenti i mezzi di sussistenza materiale» (Cass., Sez. V, 4 febbraio 2014,  Stoican, FI, 2014, 6, II, 331; CED, 262541).

[5] (cfr. Cass. S.U., 26 giugno 2015, Lucci, in CED Cassazione penale, Rv. 264436

[6] soccorrono, al riguardo, i principi enucleati da Cass. S.U. 28 aprile 1999, Bacherotti (in CED Cassazione penale, Rv. 213511), secondo cui non è consentita la sottrazione del bene ai danni della persona estranea al reato cui tale bene appartiene (proprietario o titolare di diritto reale), qualora dimostri che non ha tratto vantaggio dell’altrui attività criminosa ovvero che non era a conoscenza dell’uso illecito del bene da parte del reo o, infine, che tale uso non è collegabile ad un proprio comportamento negligente.

[7]   A tale riguardo utili indizi circa la sussistenza del delitto potranno trarsi dalle informazioni della persona offesa; è stato, tuttavia, stabilito che:         

  “È illegittimo l’arresto in flagranza operato dalla polizia giudiziaria sulla base delle informazioni fornite dalla vittima o da terzi nell’immediatezza del fatto, poiché, in tale ipotesi, non sussiste la condizione di “quasi flagranza”, la quale presuppone la immediata ed autonoma percezione, da parte di chi proceda all’arresto, delle tracce del reato e del loro collegamento inequivocabile con l’indiziato; (Cass. SS.UU., 24 novembre 2015, V., CED Cassazione penale, Rv. 267591).