Il Giudizio di appello civile nel ddl Bonafede di Danilo Chieca

Il disegno di legge in esame, accanto ad alcuni princìpi comuni dettati dall’art. 7, dichiaratamente finalizzati al miglioramento dell’efficienza di tutti i procedimenti civili di ogni grado (oltre che di quelli tributari ed amministrativi), reca specifiche previsioni concernenti il giudizio di appello.

Tali previsioni sono contenute nell’art. 6 e consistono nella determinazione, ex art. 76 Cost., dei princìpi e criteri direttivi ai quali il Governo dovrà attenersi nell’esercizio della delega conferitagli ai sensi del precedente art. 1 per la riforma del processo civile, da attuare mediante l’adozione di uno o più decreti legislativi entro il termine di un anno dall’entrata in vigore della legge delega.

I princìpi e criteri direttivi in questione riguardano, in particolare:

1) la forma dell’atto introduttivo;

2) la costituzione in giudizio dell’appellato;

3) la forma del provvedimento dichiarativo dell’improcedibilità dell’appello o dell’estinzione del processo;

4) l’eliminazione del c.d. filtro di ammissibilità di cui agli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c.;

5) la fase decisoria.

In ordine al punto sub 1), in linea con le modifiche riguardanti il processo di cognizione di primo grado, si prevede che il giudizio sia introdotto con ricorso, e non più con citazione, come attualmente stabilito dall’art. 342, comma 1, c.p.c..

L’intento del legislatore è quello di semplificare la fase introduttiva del giudizio, considerato che, all’infuori dei casi in cui per singoli atti siano dettate più specifiche disposizioni (si pensi, ad es., all’art. 366 c.p.c., relativo al giudizio di cassazione, o all’art. 414 c.p.c. in tema di controversie di lavoro), il ricorso deve necessariamente contenere i soli elementi richiesti dall’art. 125, comma 1, c.p.c. (ufficio giudiziario adìto, parti, oggetto, ragioni della domanda, conclusioni o istanza, codice fiscale e numero di fax del difensore), e non anche le ulteriori indicazioni prescritte dall’art. 163 c.p.c., richiamato dall’art. 342, comma 1, dello stesso codice.

Ovviamente, trattandosi di ricorso in appello, dovranno essere indicati anche i motivi specifici addotti a fondamento dell’impugnazione, come imposto a pena di inammissibilità dall’art. 342, comma 1, c.p.c. testè citato, il quale, nell’ultima versione risultante dalle modifiche apportate dall’art. 54, comma 1, lettera a), D.L. n. 83/2012, convertito in L. n. 134/2012, ha accentuato sotto questo aspetto gli oneri gravanti sulla parte appellante.

Si prevede, inoltre, che la prima udienza di trattazione debba essere fissata in un termine «congruo», ma «comunque non superiore a novanta giorni» dal deposito del ricorso.

Al di là della natura meramente acceleratoria del suddetto termine, tale previsione comporta di fatto l’eliminazione dei termini di comparizione attualmente operanti nel giudizio di appello ex artt. 163-bis, comma 1, e 342, ultimo comma, c.p.c., risultando praticamente impossibile assicurare che tra il giorno della notificazione dell’atto introduttivo e quello dell’udienza di comparizione intercorrano termini liberi non minori di novanta o centocinquanta giorni, a seconda che il luogo di notificazione si trovi in Italia o all’estero. 

Riguardo al punto sub 2), si prevede che per la costituzione in giudizio dell’appellato debba essere fissato un termine perentorio fino a venti giorni prima della data dell’udienza, «a pena di decadenza per l’esercizio dei suoi poteri processuali, compresa la riproposizione delle domande ed eccezioni non accolte».

Nella prima parte, la previsione non apporta elementi di novità rispetto all’attuale regime processuale, atteso che, a norma dell’art. 347, comma 1, c.p.c., la costituzione in appello avviene secondo le forme e i termini per i procedimenti davanti al tribunale -e quindi, per quanto concerne l’appellato, nel termine di «almeno venti giorni prima dell’udienza di comparizione fissata nell’atto di citazione» (ex art. 166 c.p.c.)- e che, inoltre, in base all’art. 343, comma 1, dello stesso codice, «l’appello incidentale si propone, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta, all’atto della costituzione in cancelleria ai sensi dell’art. 166».

Sicuramente di maggiore rilievo è la seconda parte, nella quale viene stabilito che le domande ed eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado -da intendersi come quelle che risultino superate o non esaminate perché assorbite (cfr., sull’argomento, Cass. Sez. Un. n. 13195/18)- debbano essere riproposte, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata dall’appellato. 

In tal modo, si mira a superare a livello legislativo i contrasti interpretativi manifestatisi in passato, sia in dottrina che in giurisprudenza, circa l’individuazione del limite temporale per la riproposizione in appello delle domande ed eccezioni rimaste assorbite dalla decisione impugnata; contrasti che recentemente erano stati risolti dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 7940/19, nel senso che, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia posta dall’art. 346 c.p.c., le parti sono tenute a riproporre le domande ed eccezioni in discorso con il primo atto difensivo e comunque non oltre la prima udienza.

Per quanto attiene al punto sub 3), si prevede che l’improcedibilità dell’appello e l’estinzione del  processo debbano essere dichiarate con ordinanza.

Attualmente tali provvedimenti devono essere pronunciati con sentenza, come è reso palese dall’incipit dell’art. 348-bis («Fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’appello…») e dalla parte finale dell’art. 307 c.p.c., applicabile anche nel giudizio d’appello in virtù del rinvio operato dall’art. 359 dello stesso codice alle disposizioni relative al procedimento di primo grado davanti al tribunale («L’estinzione… è dichiarata… con ordinanza del giudice istruttore ovvero con sentenza del collegio»: sulla base di un’interpretazione evolutiva della norma, il riferimento alla sentenza va esteso al tribunale in composizione monocratica, il quale, ai sensi dell’art. 281-quater c.p.c., decide le cause devolute alla sua cognizione con tutti i poteri del collegio).

La previsione innovativa è giustificata dal rilievo che la declaratoria di improcedibilità o di estinzione del processo si risolve in una pronuncia in rito limitata alla verifica dei presupposti all’uopo fissati dalla legge, di regola non richiedente un ampio apparato motivazionale, sì da poter essere adottata con un provvedimento avente forma di ordinanza, per il quale l’art. 134, comma 1, c.p.c. richiede una motivazione succinta.

In relazione al punto sub 4), si prevede l’abrogazione degli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c., disciplinanti la c.d. ordinanza-filtro, ovvero il provvedimento con il quale il giudice dell’appello, prima di procedere alla trattazione della causa e previa instaurazione del contraddittorio tra le parti, dichiara inammissibile l’impugnazione manifestamente infondata (ovvero quella che, ripetendo le parole usate dal legislatore, «non ha una ragionevole probabilità di essere accolta»).

La programmata soppressione dell’istituto, introdotto dall’art. 54,  comma  1,  lettera  a),  D.L.  n.  83/2012, convertito in L. n. 134/2012, e non accolto con particolare favore dagli operatori del diritto, scaturisce dalla constatazione del suo scarso utilizzo e dei modesti risultati in termini di definizione dei giudizi di appello che esso è stato in grado di assicurare in questi anni, durante i quali, oltretutto, si è anche registrato un cospicuo aumento del carico di lavoro gravante sulla Suprema Corte, determinato dalla riconosciuta possibilità, ex art. 348-ter, comma 3, c.p.c., di proporre ricorso per cassazione contro il provvedimento di primo grado, in caso di pronuncia di inammissibilità dell’impugnazione ritenuta prima facie infondata.

Sulla scelta ha influito pure la prevista modifica delle disposizioni inerenti alla fase decisoria, sulla quale ci si soffermerà di qui a poco, ben potendo il giudizio d’appello, nella prospettiva del legislatore delegante, essere immediatamente definito già all’esito della prima udienza con sentenza pronunciata a sèguito di discussione orale, in presenza delle condizioni che oggi giustificherebbero l’emissione dell’ordinanza-filtro.

In merito al punto sub 5), si prevede che il collegio, esaurita la trattazione e l’eventuale attività istruttoria, possa, nella medesima udienza, far precisare le conclusioni e ordinare alle parti di procedere alla discussione orale, pronunciando sùbito dopo la sentenza mediante lettura del dispositivo e delle ragioni della decisione;in alternativa, si attribuisce al collegio, una volta precisate le conclusioni, la facoltà di fissare altra udienza per la discussione orale, nel qual caso, ove le parti ne facciano richiesta, andrà concesso un termine perentorio non superiore a trenta giorni prima di tale udienza per il deposito di «sintetiche note difensive contenenti anche le conclusioni finali»: soltanto in questa eventualità viene, inoltre, espressamente stabilito che il collegio, al termine della discussione, anziché pronunciare immediatamente la sentenza, possa riservarne il deposito nei sessanta giorni successivi.

Si prevede, altresì, che, qualora sia stato tempestivamente proposto un appello incidentale, il collegio possa far precisare le conclusioni e ordinare, nel corso della medesima udienza, la discussione della causa, soltanto se la parte nei cui confronti l’impugnazione è diretta vi consenta con apposito atto depositato almeno cinque giorni prima di tale udienza.

Come si evince dall’esplicito riferimento al collegio, le disposizioni in commento sono destinate a trovare applicazione nei soli giudizi di secondo grado dinanzi alla corte di appello, laddove gli appelli proposti davanti al tribunale, trattati e decisi dal giudice monocratico (ex art. 350, comma 1, c.p.c.), dovranno essere in futuro assoggettati al «rito semplificato» di cui all’art. 3, comma 1, lettera b), del disegno di legge (alla cui analisi si rinvia), previsto come esclusivo e obbligatorio per tutte le cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica (tranne che per i procedimenti attualmente soggetti al rito del lavoro).

L’uso del verbo «potere» lascia, poi, intendere che la scelta del modello decisorio a sèguito di discussione orale è rimessa ad una discrezionale valutazione di opportunità riservata al collegio, il quale -non risultando espressamente prevista dal legislatore delegante l’abrogazione dei primi quattro commi dell’art. 352 c.p.c.- rimane, quindi, libero di orientarsi in modo diverso, optando per la decisione a sèguito di trattazione scritta (con l’assegnazione dei termini per lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, eventualmente seguìta dalla fissazione dell’udienza di discussione orale dinanzi al collegio, se richiesta da una delle parti).

D’altronde, anche per il processo di  cognizione di primo grado davanti al tribunale in composizione collegiale l’art. 4, comma 1, lettera d), del disegno di legge contempla la decisione a sèguito di discussione orale come soluzione praticabile in alternativa alle modalità previste dagli artt. 187-190 c.p.c.

A ben vedere, la possibilità di decidere l’appello a sèguito di trattazione orale non rappresenta una novità.

Invero, l’ultimo comma del citato art. 352 c.p.c., attraverso il rinvio all’art. 281-sexies dello stesso codice, già riconosce al giudice dell’appello il potere di ordinare la discussione orale nella stessa udienza in cui le parti precisano le rispettive conclusioni.

Per di più, in base al combinato disposto del primo e dell’ultimo comma dell’art. 351 c.p.c., il giudice può provvedere in questo modo persino nella prima udienza, se ritiene la causa matura per la decisione.

Fermo quanto precede, le vere e proprie innovazioni rispetto alla vigente disciplina normativa sono costituite dall’espressa previsione: a) della facoltà del collegio di fissare altra udienza per la discussione orale, anche in mancanza di un’istanza di parte in tal senso (richiesta, invece, dall’art. 281-sexies, comma 1, c.p.c.); b) del diritto delle parti, in caso di differimento della discussione orale ad altra udienza, alla concessione di un termine perentorio per il deposito di sintetiche note difensive prima della detta udienza (facoltà non contemplata dall’art. 281-sexies c.p.c.); c) della possibilità per il giudice, sempre nell’ipotesi in cui sia stato disposto l’anzidetto differimento, di riservare il deposito della sentenza entro i sessanta giorni successivi alla conclusione della discussione, sulla scorta di una valutazione che, in linea di principio, dovrebbe tener conto del grado di complessità della controversia (per contro, l’art. 281-sexies, comma 1, c.p.c. non ammette alternativa all’immediata pronuncia della sentenza, imponendo al giudice, al termine della discussione, di dare lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione); d) della necessità del preventivo consenso scritto della parte contro la quale sia stato proposto tempestivo appello incidentale, affinchè il giudice possa far precisare le conclusioni e ordinare la discussione orale della causa nel corso della medesima udienza; consenso da intendersi come un’implicita rinuncia della parte interessata ad avvalersi della possibilità di una replica scritta all’impugnazione spiegata nei suoi confronti.