Il licenziamento per scarso rendimento. Inquadramento e problemi applicativi nel diritto del lavoro che cambia

diritto del lavoro

di Flavio Baraschi

Come è noto, il nostro ordinamento prevede che, in generale, il recesso del datore di lavoro debba essere giustificato da ragioni oggettive oppure soggettive.

Con le parole dell’art. 3 della legge n. 604/66, il motivo soggettivo risiede in un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro mentre il motivo oggettivo riguarda le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa e non presuppone quindi un inadempimento da parte del lavoratore.

La fattispecie del licenziamento per scarso rendimento presenta caratteri comuni alle due ipotesi e quindi, in qualche modo, somma e mescola al suo interno il motivo soggettivo e quello oggettivo.

Tale ipotesi ricorre quanto il lavoratore non raggiunga, in un prefissato periodo di tempo, i minimi di produzione che siano stati predeterminati  a livello pattizio ovvero quanto la sua prestazione risulta in modo significativo inferiore ai risultati ottenuti dalla media dei colleghi addetti alle stesse mansioni.

Per quanto la giurisprudenza sia tradizionalmente orientata nel collocare tale licenziamento nell’ambito di quelli legati a motivi soggettivi, non mancano decisioni che aprono ad una nozione più lata, comprensiva anche di fattispecie oggettivein una prospettiva più equilibrata e composita che consente di esaminare la prestazione lavorativa anche sotto il profilo della sua inadeguatezza al raggiungimento degli scopi dell’impresa (Cassazione, sentenza n. 18678 del 4.9.2014 ).

In ambito di rapporto di lavoro subordinato lo scarso rendimento assume rilievo solo laddove il risultato pattuito o preteso rientri nelle possibilità medie del lavoratore, vi sia una chiara sproporzione tra la prestazione resa e quella attesa e non sia addebitale a fattori diversi ( quali variazioni del mercato o situazioni ambientali varie ). Questo si verifica quando la prestazione lavorativa sia resa con imperizia, disinteresse, eccessiva lentezza.

Molti casi, esaminati dalla giurisprudenza, riguardano le ipotesi nelle quali lo scarso rendimento dipenda dalle ripetute assenze del lavoratore, comunicate all’ultimo momento, spesso agganciate a giornate di riposo o festive. In questeipotesi, pur in mancanza di contestazione sulla legittimità delle assenze, la prestazione lavorativa finisce per risultare inutile per il datore di lavoro perché non gli consente di programmare e garantire il servizio o la produzione che costituisce oggetto della sua impresa.

I problemi fondamentali che l’interprete si deve porre sono quindi sostanzialmente due.

Il primo riguarda l’inquadramento della fattispecie nell’ambito delle due diverse ipotesi previste dalla legge.Tale aspetto è particolarmente rilevante laddove si considerino le differenze che sussistono tra le due ipotesi sia in termini di condizioni di legittimità che di tutela.

Infatti, ad esempio, nel caso del licenziamento per motivo soggettivo è, la preventiva contestazione disciplinare mentre nel caso del recesso per motivo oggettivo il datore di lavoro sarà tenuto all’obbligo del c.d. repechage.   Inoltre, la tutela reintegratoria potrà essere accordata, nelle due ipotesi, con le distinzioni che le recenti modifiche normative hanno introdotto ( legge Fornero, Jobs Act). Per i rapporti di lavoro soggetti al c.d. Jobs Act, in particolare, tale tutela è del tutto esclusa per i licenziamenti basati su ragioni oggettive ed economiche.     

È quindi bene ricordare che secondo l’impostazione tradizionale ( artt. 2094 e 2222 c.c. ), l’obbligazione del lavoratore subordinato viene ricompresa tra le c.d. obbligazioni di mezzi ed è quindi esonerata dal rischio della mancata realizzazione del risultato atteso dal datore di lavoro.

In ogni caso, il datore di lavoro, quando stipula un contratto di lavoro, non mira semplicemente a ricevere le energie del lavoratore ma lo fa in vista del risultato finale che quelle energie possono produrre cosicché non è agevole distinguere tra il risultato (diretto ed immediato), che sarebbe tipico della prestazione del lavoratore autonomo, dal risultato (indiretto e mediato) che l’attività del lavoratore subordinato è preordinata a realizzare. In altre parole, l’obbligazione di lavoro, benché abbia ad oggetto un fare e non un risultato, non si esaurisce nella mera messa a disposizione delle energie lavorative ma deve essere utile, cioè idonea a soddisfare l’interesse economico del datore di lavoro.

Fatte queste premesse è bene osservare che, secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza, il licenziamento per scarso rendimento va ricompreso nell’ambito dei recessi per motivo soggettivo e quindi presuppone un (notevole) inadempimento del prestatore di lavoro.

Infatti,il rendimento lavorativo inferiore al minimo contrattuale, o d’uso, non integra “ex se” l’inesatto adempimento che, a norma dell’art. 1218 cod. civ., si presume, fino a prova contraria, imputabile a colpa del debitore, dato che, nonostante la previsione di minimi quantitativi, il lavoratore è obbligato a un “facere” e non a un risultato e la inadeguatezza della prestazione resa può essere imputabile alla stessa organizzazione dell’impresa o comunque a fattori non dipendenti dal lavoratore.

Ne deriva che, in relazione alloscarsorendimento, il datore di lavoro che intenda farlo valere quale giustificato motivo soggettivo di licenziamento, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, non può limitarsi a provare il mancato raggiungimento del risultato atteso ed eventualmente la sua oggettiva esigibilità, ma è onerato della dimostrazione di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore.Si tratta quindi di un accertamento di fatto complesso alla cui valutazione deve concorrere anche l’apprezzamento degli aspetti concreti del fatto addebitato, tra cui il grado di diligenza richiesto dalla prestazione e quello usato dal lavoratore, nonché l’incidenza dell’organizzazione d’impresa e dei fattori socio – ambientali (Corte di Cassazione, sentenza n. 1421 del 23.2.1996 ).

Il licenziamento per cosiddetto “scarso rendimento”, dunque, costituisce un’ipotesi di recesso del datore per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore, che, a sua volta, si pone come specie della risoluzione per inadempimento, prevista dagliartt. 1453 e segg. cod. civ..

Ove tuttavia, siano individuabili dei parametri per accertare che la prestazione sia eseguita con la diligenza e professionalità medie, proprie delle mansioni affidate al lavoratore, il discostamento dai detti parametri può costituire segno o indice di non esatta esecuzione della prestazione (Corte di Cassazione, sentenza del 20 agosto 1991, n.8973).

È dunque evidente che, per stabilire se tale segno dimostri univocamente che vi è stato inadempimento, è necessario valutare la condotta nel suo complesso per un’apprezzabile periodo di tempo, tenendo bene a mente che il mancato raggiungimento del parametro non va confuso con l’oggetto dell’accertamento, che è costituito dall’inesatta o incompleta o mancata esecuzione della prestazione (Corte di Cassazione, sentenza n. 14310 del 9.7.2015).

Qui l’inadempimento deriva dalla violazione dell’obbligo di diligenza previsto dall’art. 2104 c.c. secondo il quale il lavoratore subordinato deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale.

Il richiamo al superiore interesse della produzione nazionale appare legato ad un contesto storico e politico ormai superato e coma tale non deve ritenersi attualmente vigente dopo la fine del sistema corporativo (Corte di Cassazione, sentenza n. 1978 del 2.2.2016).

La norma fissa quindi due parametri per individuare la diligenza dovuta dal lavoratore.

La “natura della prestazione lavorativa” implica che debba tenersi conto del contenuto delle mansioni affidate al lavoratore e quindi al diverso livello di complessità e responsabilità ad esse connesso mentre il riferimento “all’interesse dell’impresa” richiama la necessità che la prestazione lavorativa sia resa tenendo conto dell’interesse concretamente perseguito dall’imprenditore e sia quindi utile a tal fine.

Sulla base di quanto detto fin qui, risulta evidente che lo sforzo maggiore dell’interprete risiede nel tentativo di individuare parametri oggettivi sulla base dei quali possa essere determinata la misura della diligenza richiesta al lavoratore subordinato e quindi qualificato come “scarso” il suo rendimento.

In alcuni casi, tali parametri sono invocati direttamente da disposizioni di legge.

Si pensi, ad esempio, all’art. 27 comma 1 lett. d) dell’Allegato A al RD 148/1931 che prevede l’esonero definitivo dal servizio per i lavoratori del settore auto-ferro-tramviario in caso di scarso rendimento ed in ambito di lavoro pubblico all’art. 129 del T.U. sugli impiegati civili dello Stato secondo il quale “può essere dispensato dal servizio l’impiegato … che abbia dato prova di incapacità o di persistente insufficiente rendimento. Ai fini del precedente comma è considerato di persistente insufficiente rendimento l’impiegato che, previamente ammonito, riporti al termine dell’anno nel quale è stato richiamato una qualifica inferiore al buono” Si veda ora l’art. 55 quater del D.Lgs 165 del 2001 lettera f-quinquies che prevede il licenziamento disciplinare in caso di: insufficiente rendimento, dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza, e rilevato dalla costante valutazione negativa della performance del dipendente per ciascun anno dell’ultimo triennio,.

In altri rapporti di lavoro, i minimi di produzione vengono pattiziamente stabiliti mediante le c.d. clausole di rendimento o di risultato inserite nei contratti di lavoro.In generale la giurisprudenza della S.C. tende a ritenere legittime tali clausole sul presupposto che l’apposizione al contratto di lavoro della clausola di rendimento minimo rappresenti un elemento accessorio del contratto stesso, ininfluente ai fini della qualificazione giuridica del rapporto, non potendo escludersi un’obbligazione di risultato ove questo sia da conseguire con le modalità tipiche del lavoro subordinato (Cassazione, sentenza n. 9292 del 13.7.2000 ).

Si deve però premettere che in tale ambito l’autonomia negoziale non è priva di limiti. Si pensi, in primo luogo, al principio generale di tutela della salute  sancito dall’art. 2087 c.c. che impone al datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Devono poi essere rispettati i limiti posti da normeinderogabili ai carichi di lavoro individuali, stabiliti per alcune categorie di lavoratoridalla stessa legge (in tal senso si pensi alla legge n. 977 del 17.10.1967 per i minori, la legge n. 25 del 19.1.1955 per gli apprendisti, il D.Lgs 151 del 26.3.2001 per le lavoratrici madri ).L’apposizione al contratto di lavoro di clausole di rendimento minimo si registra in particolare per quelle figure lavorative che operano al di fuori della sede aziendale, in compiti di vendita o di procacciamento quali, ad esempio, i produttori assicurativi  in merito ai quali si è sviluppata un notevole contenzioso.In ogni caso, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, anche in presenza di una pattuizione relativa al minimo di affari contrattualmente stabilito, il mancato raggiungimento del risultato non legittima automaticamente il licenziamento del dipendente. Proprio nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato del produttore di assicurazioni, è stato chiarito che il mancato raggiungimento del minimo di affari contrattualmente stabilito può costituire giustificato motivo di licenziamento, a norma dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, solo allorquando il minimo produttivo fissato rientri nelle possibilità della media dei dipendenti di pari qualificazione professionale ed esplicanti la medesima attività in condizioni ambientali analoghe, e lo scarso rendimento sia dovuto a negligenza del lavoratore nell’esecuzione delle prestazioni formanti oggetto del contratto e non a diversi fattori ambientali (Corte di Cassazione, sentenza n. 8759 del 26.11.1987, conforme la Corte di Cassazione, sentenza n. 3014 del 27.3.1987).

Altre volte, i risultati minimi così come i tempi di svolgimento e la scansione delle operazioni comprese nel ciclo di lavoro affidato al lavoratore sono previsti a livello di contrattazione collettiva e di accordi sindacali aziendali. Questo avviene, in particolare, nelle produzioni in serie nelle quali l’attività lavorativa assume un carattere spiccatamente ripetitivo che consente di predeterminare i risultati perseguibili mediante un impegno medio. Al riguardo la giurisprudenza ha chiarito che i livelli di produzione devono necessariamente essere stabiliti o convalidati in sede sindacale o in contraddittorio con la collettività dei lavoratori. La determinazione unilaterale di tali parametri da parte del datore di lavoro costituirebbe, infatti, un arbitrio non compatibile con i principi di contemperamento degli interessi che presiedono l’esecuzione dei contratti.

In conclusione, sul punto, si può affermare che lo scarso rendimento, inteso come giustificato motivo soggettivo di licenziamento, presuppone sempre la dimostrazione di un notevole inadempimento da parte del lavoratore.

La misura della prestazione minima richiesta può essere determinata sulla base di clausole ( di rendimento, di risultato ) inserite nel contratto di lavoro ovvero in accordi sindacali aziendali. In mancanza, come detto, tali parametri possono essere desunti dalla media dei risultati ottenuti dai lavoratori addetti alle stesse mansioni, situazione tipica delle lavorazioni in serie. In questo caso il risultato prefissato non può essere considerato elemento essenziale del contratto ma un metro per valutare se la prestazione sia stata resa con la diligenza richiesta dalle mansioni affidate al lavoratore.

Ai fini della legittimità del licenziamento sarà necessaria la dimostrazione di una significativa sproporzione tra gli obiettivi esigibili in determinato arco di tempo ed il rendimento offerto dal lavoratore nonché dell’imputabilità di tale scarso rendimento a colpa del dipendente. La legittimità del licenziamento, quindi, potrà essere esclusa laddove lo scarso rendimento derivi da fattori non addebitabili al lavoratore licenziato

Particolarmente delicato e complesso è il tema dello scarso rendimento come effetto non di una prestazione resa in difetto di diligenza ma di ripetute assenze dal lavoro, tali da rendere la prestazione stessa, sostanzialmente, inutilizzabile da parte del datore di lavoro ( c.d. assenze a macchia di leopardo).

La delicatezza della questione si intuisce facilmente.

In questi casi infatti vengono a contrapporsi due esigenze meritevoli di tutela e costituzionalmente riconosciute.

Da un lato viene in rilievo la tutela del lavoratore malato il quale ha diritto alla conservazione del posto di lavoro per tutta la durata del c.d. comporto e non può essere licenziato prima che sia decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità ( art. 2110 c.c.).

La recentissima sentenza delle S.U. ha chiarito che il licenziamento intimato prima della scadenza del periodo di comporto deve ritenersi radicalmente nullo ( S.U. n 12568 del 2018 )

In senso contrapposto si pone l’interesse del datore di lavoro per il quale la prestazione del dipendente, a causa delle ripetute assenze e della loro modalità, sia divenuta di fatto inutile o, addirittura, dannosa ai fini della produzione del bene o del servizio.

I casi esaminati dalla giurisprudenza sono numerosi ma il tratto comune alla maggioranza di questi riguarda, da un lato, la mancata contestazione della legittimità delle singole assenze e, dall’altro, la valorizzazione delle modalità delle assenze stesse rispetto alla loro cadenza ed alla loro comunicazione al datore di lavoro.

Ci si riferisce, infatti, ai casi nei quali le ripetute assenze risultino frammentate, immediatamente precedenti o successive a giorni di festa o di riposo e comunicate con minimo preavviso da parte del lavoratore. Tutto ciò rende la residua prestazione del lavoratore non proficuamente utilizzabile da parte del datore di lavoro.

In questi casi, dunque, la malattia non viene in rilievo di per sé, come si è già detto, ma in quanto le assenze in questione, anche se non contestate nella loro legittimità, danno luogo a scarso rendimento e rendono la prestazione non più utile per il datore di lavoro, incidendo negativamente sulla produzione aziendale. Le stesse, infatti, incidono sulle esigenze di organizzazione e funzionamento dell’azienda, dando luogo a scompensi organizzativi. Le assenze comunicate all’ultimo momento determinano la difficoltà, proprio per i tempi particolarmente ristretti, di trovare un sostituto il che si verifica soprattuttoquando l’assenza riguardi il turno di fine settimana o il turno notturno, causando ulteriore difficoltà nella sostituzione (oltre che malumori nei colleghi che devono provvedere alla sostituzione) (Sulle assenze c.d. “a macchia di leopardo” si veda la Cassazione, sentenza 18678/2014).

Si ripropone, quindi, anche in queste ipotesi il problema dell’inquadramento giuridico del licenziamento.

In alcuni casi, infatti, il recesso viene intimato per motivo unicamente oggettivo, senza che sia imputato alcun inadempimento al lavoratore, valorizzando unicamente la obbiettiva inutilizzabilità della prestazione resa con tali modalità.

In altre ipotesi, invece, viene esplicitamente o implicitamente introdotto un profilo soggettivo nel senso che il modo in cui le assenze vengono “gestite” dal lavoratore configuri un grave inadempimento.

È pacifico, in ogni caso, che spetti al Giudice la qualificazione giuridica del licenziamento, indipendentemente da quanto prospettato dal datore di lavoro.

Anche in sede di impugnazione, è ammissibile la conversione del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in quanto le dette causali del recesso datoriale costituiscono mere qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, fermo restando l’immutabilità della contestazione, e persistendo la volontà del datore di lavoro di risolvere il rapporto (Corte di Cassazione, sentenza n. 18678 del 2014 già citata ).

In una recente ordinanza il Tribunale di Roma, in presenza di un licenziamento intimato per motivo oggettivo e legato, appunto, ad assenze “a macchia di leopardo” ha ritenuto che lo stesso dovesse essere riqualificato come licenziamento disciplinare.

La decisione, nasce dal fatto che il datore di lavoro, nella lettera di licenziamento, aveva fatto riferimento alla necessità di controllo dell’assenteismo, nel rispetto di chi lavora con profondo spirito collaborativo, anche al fine di tutelare chi ha effettivamente necessità di assentarsi dal posto di lavoro. In questo senso, posto che l’assenteismo va inteso come tendenza ad assentarsi dal posto di lavoro senza motivi legittimi, il recesso risulta fondato non solo sul dato oggettivo costituito dalla impossibilità di utilizzare proficuamente la residua prestazione del lavoratore, ma sull’inadempimento dello stesso al quale sono addebitati i disservizi derivanti dalle sue assenze (Tribunale di Roma, ordinanza del 24.12.2015).

Chiarito dunque che la qualificazione giuridica del licenziamento ben può essere riformulata nel corso del giudizio di impugnazione, alcune decisioni sembrano orientarsi decisamente nel senso di richiedere comunque la dimostrazione di un inadempimento del lavoratore ai fini della legittimità del recesso.È stato infatti scritto: “delle due, l’una: o “lo scarso rendimento” deve ritenersi  ontologicamente connotato da una colpa del dipendente, il cui “assenteismo” implica un inadempimento tale poter qualificare il provvedimento espulsivo come licenziamento disciplinare  oppure, la malattia, in quanto tale, nei limiti del periodo di comporto, per il quale sussiste una presunzione di tolleranza ex lege, non può concorrere ad integrare “lo scarso rendimento”( NOTA: Tribunale di Roma, ordinanza del 17 marzo 2016, est.Calvosa, non pubblicata ).

È stato infatti ritenuto che vi sia uno spazio in cui la valutazione dell’utilità della prestazione diviene recessiva rispetto alla garanzia solidaristica del mantenimento del posto di lavoro del dipendente e ciò accade in un arco temporale limitato stabilito dalla legge, dagli accordi collettivi di categoria o dagli usi. Il recesso, quindi, può ritenersi legittimo solo laddove le anomale modalità di godimento delle assenze generino una prestazione non proficuamente utilizzabile dal datore di lavoro, inadeguata sotto il profilo produttivo e pregiudizievole per l’azienda ( NOTA: Maria Antonia Garzia in Il Lavoro nelle Giuriprudenza, 6/2016, in commento alla citata ordinanza del Tribunale di Roma del 24.12.2015 ).

Per quanto detto fin qui, appare chiaro che il licenziamento per scarso rendimento è argomento di grande interesse in dottrina ed è strumento che ben può, e potrà, prestarsi ad interpretare i mutamenti che si registrano nella moderna organizzazione del lavoro dipendente.

Ed invero, se la nostra legislazione in materia di lavoro subordinato resta, per molti versi, legata al modello fordista della catena di montaggio, il contesto socio – economico muta nel senso di valorizzare, ove possibile, il rendimento dei lavoratori coinvolgendoli, anche economicamente, nelle performance aziendali. In questo senso il concetto di adeguato rendimento costituisce un valido strumento per il datore di lavoro al fine di garantirsi l’utilità effettiva della prestazione lavorativa che retribuisce.

E tuttavia, sul piano pratico, il licenziamento per scarso rendimento non ha avuto una vasta applicazione.

Il problema fondamentale era quello del “rischio causa”.

Nella vigenza dell’art. 18 legge 300/70, testo precedente alla modifica operata dalla legge c.d. Fornero ( ossia la legge n. 92 del 2012 ) il datore di lavoro riteneva molto difficile dimostrare che lo scarso rendimento fosse dovuto realmente a colpa del lavoratore e non a una sua incapacità oggettiva ovvero a fattori aziendali o esterni, nei termini di cui si è detto sopra. Se invece il licenziamento fosse stato intimato per scarso rendimento come motivo oggettivo allora c’era il rischio di una sua “conversione” giudiziale, come è avvenuto nel caso romano citato, con conseguente illegittimità automatica del licenziamento per mancanza della preventiva contestazione disciplinare.

Il problema delle tutele appare quindi centrale.

Occorre però distinguere.

Per i lavoratori assunti prima del marzo 2015, in presenza dei previsti requisiti occupazionali, trova applicazione l’art. 18 della legge 300/70, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, c.d. legge Fornero. 

In caso di licenziamento per scarso rendimento illegittimo la tutela reintegratoria di cui al IV comma dell’art. 18 potrà trovare applicazione solo in caso di insussistenza dell’inadempimento ovvero nelle ipotesi nelle quali lo scarso rendimento del lavoratore, così come accertato, sia punito con una sanzione di tipo conservativo a livello di codice disciplinare.Quest’ultima circostanza appare, invero, piuttosto remota perché presuppone che a livello di codice disciplinare vengano tipizzate ipotesi di inadempimento differenziate alle quali sono collegate sanzioni diverse dal licenziamento disciplinare.

Peraltro, la giurisprudenza ha fatto un’applicazione ampia del concetto di insussistenza del fatto contestato ricomprendendovi anche il caso nel quale, in mancanza di una specifica individuazione del fatto contestato al dipendente, non sia possibile verificare in concreto la fondatezza dell’addebito e quindi la sussistenza del fatto stesso: “infatti, un sistema sanzionatorio nel quale l’applicazione della tutela reintegratoria attenuta dipende esclusivamente dalla sussistenza del fatto contestato o dalla sua riconducibilità ad una sanzione conservativa in base ai codici disciplinari, si fonda sulla chiara definizione del fatto in sede di formulazione dell’addebito”  (Tribunale di Roma, ordinanza del 24.12.2015 cit. )

Nelle ipotesi nelle quali il licenziamento per scarso rendimento viene collegato ad una serie ripetuta di assenze ( c.d. a macchia di leopardo) la tutela ex art. 18 comma 4 viene applicata in giurisprudenza come conseguenza della violazione dell’art. 2110 c.c. che consente il licenziamento del dipendente assente per infortunio o malattia solo dopo la scadenza del c.d. periodo di comporto determinato a livello di contrattazione collettiva. Opera qui il richiamo al IV comma contenuto nel comma 7 del medesimo articolo (Tribunale di Venezia, ordinanza del 1.5.2015, non pubblicata).

In tutti gli altri casi dovrà trovare applicazione il comma V dell’art. 18 come modificato dalla legge Fornero che, nelle intenzioni del legislatore del 2012, doveva rappresentare la tutela di portata generale ( e quindi solo un ristoro economico, fino ad un massimo di 24 mensilità ).

Ovviamente, per i datori di lavoro con un numero di dipendenti inferiore a quello richiesto per l’applicazione della tutela c.d. reale, troverà applicazione la ben più lieve tutela prevista dall’art. 8 della legge 604 del 1966 ossia la riassunzione nel posto di lavoro oppure, in alternativa, un risarcimento compreso tra 2,5 e 6 mensilità.

Per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 e quindi soggetti al c.d. contratto a tutele crescenti ( D.Lgs n. 23 del 2015 ) la tutela in caso di licenziamento per scarso rendimento che sia dichiarato illegittimo sarà ulteriormente ridotta.

In pratica, ai sensi dell’art. 2 primo comma, il lavoratore ingiustamente licenziamento potrà ricevere solo una indennità pari a 2 mensilità per ogni anno di servizio, fino ad un massimo di 24 mensilità, senza reintegra nel posto di lavoro. La strada tracciata nel secondo comma, della quale si è già parlato nel precedente capitolo, appare ardua da percorrere in quanto presuppone una dimostrazione diretta, da parte del lavoratore, della insussistenza del fatto materiale che in questo caso dovrebbe essere identificato nel rendimento inadeguato.