Il precariato del pubblico impiego. Stabilizzazione e risarcimento del danno

diritto del lavoro

di Maria Gallo

L’ illegittima stipulazione o reiterazione di contratti di lavoro temporanei , nell’ambito del pubblico impiego,  determina per il lavoratore solo il  diritto al risarcimento del danno e non dà luogo a conversione del contratto in rapporto a tempo indeterminato ; la stabilizzazione costituisce  sanzione idonea dell’abuso  , salva la prova di danno ulteriore

L’affermarsi,  negli ultimi quindici anni , di nuove forme contrattuali nel mondo del lavoro, caratterizzate da una durata limitata nel tempo e da sempre crescente libertà applicativa , è un fenomeno che , massivamente sviluppatosi nel settore del lavoro privato  anche per effetto della sfavorevole congiuntura economica , si è poi esteso all’ambito del pubblico impiego, con i necessari adattamenti .

Riaffermati , in tutte le riforme che si sono succedute, l’indispensabilità  , alla luce del fondamentale principio posto dell’art. 97 Cost. , del reclutamento del personale tramite concorso pubblico ,  con tutti gli ammodernamenti contenuti poi nell’art. 35 del TUPI , e la persistenza del rapporto a tempo indeterminato come forma primaria di assunzione , si sono poi introdotte delle eccezionali  ipotesi di assunzione  a tempo , ispirate alla sopraggiunta esigenza di flessibilità

La legge n. 80/2006, in particolare, ha rappresentato il punto di rottura del processo di equiparazione tra lavoro pubblico e privato per quanto concerne il contratto a termine, con l’introduzione del comma 1-bis dell’art. 36 , d.lgs. n. 165/2001, con il quale si subordinava  la possibilità per le amministrazioni di ricorrere alle forme di lavoro flessibile «solo per esigenze temporanee ed eccezionali» e con ciò creando un requisito diverso da quello di cui all’art. 1, d.lgs. n. 368/2001. Attualmente la disciplina del contratto a tempo determinato e delle altre forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale all’interno delle pubbliche amministrazioni è contenuta nell’art. 36 del Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165 come modificato, da ultimo, dal D. Lgs n. 75 del 2017,  attuativo della riforma cd. “Madia”. Nel testo vigente  , come anticipato , permane la ferma precisazione che la regola, nella costituzione di rapporti di lavoro con la PA , è il rapporto di lavoro a tempo indeterminato mentre le forme di lavoro cd. flessibile costituiscono eccezioni,  tipizzate espressamente ovvero individuate mediante richiami alla disciplina codicistica e legislativa dell’impresa privata . Le tipologie individuate sono , dunque, le seguenti : 1) contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, 2) contratti di formazione e lavoro; 3) contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato; 4) forme contrattuali flessibili previste dal codice civile e dalle altre leggi sui rapporti di lavoro nell’impresa, nei limiti e con le modalità in cui se preveda l’applicazione nelle amministrazioni pubbliche. La nuova normativa non contempla altri specifici tipi contrattuali flessibili, quali il lavoro part–time ed il telelavoro, che comunque deve ritenersi restino applicabili secondo la disciplina prevista per le singole fattispecie in parola.  Al contempo,  si ribadisce che la violazione della disciplina prevista non dà luogo alla costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato ma solo a risarcimento del danno . Con l’obiettivo di combattere gli abusi nell’utilizzo dei contratti flessibili si prevede ( al comma 3 dell’art.36 ) che le amministrazioni redigano – previa informazione alle organizzazioni sindacali ed invio all’Osservatorio paritetico incardinato presso l’ARAN –  un analitico rapporto informativo sulle tipologie di lavoro flessibile utilizzate.

Art. 36 Personale a tempo determinato o assunto con forme di lavoro flessibile

1. Per le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato seguendo le procedure di reclutamento previste dall’articolo 35.

2. Le amministrazioni pubbliche possono stipulare contratti di lavoro subordinato a tempo determinato e contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato, nonché avvalersi delle altre forme contrattuali flessibili previste dal codice civile e dalle altre leggi sui rapporti di lavoro nell’impresa, nei limiti e con le modalità in cui se ne preveda l’applicazione nelle amministrazioni pubbliche. Le amministrazioni pubbliche possono stipulare i contratti di cui al primo periodo del presente comma soltanto per comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale e nel rispetto delle condizioni e modalità di reclutamento stabilite dall’articolo 35. I contratti di lavoro subordinato a tempo determinato possono essere stipulati nel rispetto degli articoli 19 e seguenti del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, escluso il diritto di precedenza che si applica al solo personale reclutato secondo le procedure di cui all’articolo 35, comma 1, lettera b), del presente decreto. I contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato sono disciplinati dagli articoli 30 e seguenti del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, fatta salva la disciplina ulteriore eventualmente prevista dai contratti collettivi nazionali di lavoro. Non è possibile ricorrere alla somministrazione di lavoro per l’esercizio di funzioni direttive e dirigenziali. Per prevenire fenomeni di precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato. È consentita l’applicazione dell’articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, ferma restando la salvaguardia della posizione occupata nella graduatoria dai vincitori e dagli idonei per le assunzioni a tempo indeterminato.

2-bis. I rinvii operati dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, ai contratti collettivi devono intendersi riferiti, per quanto riguarda le amministrazioni pubbliche, ai contratti collettivi nazionali stipulati dall’ARAN.

3. Al fine di combattere gli abusi nell’utilizzo del lavoro flessibile, sulla base di apposite istruzioni fornite con direttiva del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, le amministrazioni redigono, dandone informazione alle organizzazioni sindacali tramite l’Osservatorio paritetico presso l’Aran, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, un analitico rapporto informativo sulle tipologie di lavoro flessibile utilizzate, da trasmettere, entro il 31 gennaio di ciascun anno, agli organismi indipendenti di valutazione di cui all’articolo 14 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, nonché alla Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento della funzione pubblica che redige una relazione annuale al Parlamento.

4. Le amministrazioni pubbliche comunicano, nell’ambito del rapporto di cui al precedente comma 3, anche le informazioni concernenti l’utilizzo dei lavoratori socialmente utili.

5. In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative. Le amministrazioni hanno l’obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave. I dirigenti che operano in violazione delle disposizioni del presente articolo sono responsabili anche ai sensi dell’articolo 21 del presente decreto. Di tali violazioni si terrà conto in sede di valutazione dell’operato del dirigente ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286

5-bis. Abrogato

5-ter. Abrogato

5-quater. I contratti di lavoro posti in essere in violazione del presente articolo sono nulli e determinano responsabilità erariale. I dirigenti che operano in violazione delle disposizioni del presente articolo sono, altresì, responsabili ai sensi dell’articolo 21. Al dirigente responsabile di irregolarità nell’utilizzo del lavoro flessibile non può essere erogata la retribuzione di risultato. 5-quinquies. Il presente articolo, fatto salvo il comma 5, non si applica al reclutamento del personale docente, educativo e amministrativo a tempo determinato presso le istituzioni scolastiche ed educative statali, le istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica. Per gli enti di ricerca pubblici di cui all’articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 218, decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 218, rimane fermo quanto stabilito dal medesimo decreto.

Nel quadro legislativo innanzi illustrato è stato, dunque , compito della giurisprudenza quello di individuare e fissare i principi da osservare per il risarcimento del danno nelle ipotesi di abuso . Tale compito , inoltre ,  si è rivelato particolarmente arduo soprattutto per il settore della scuola laddove il reclutamento dei docenti e del personale avviene, anche nelle forme del contratto a tempo determinato , secondo una regolamentazione speciale che ha creato non pochi conflitti . E la Suprema Corte di Cassazione ha , di volta in volta, preso atto degli arresti della giurisprudenza comunitaria ,  oltre che delle statuizioni della Corte Costituzionale , risolvendo al nostro interno ogni eventuale ipotesi di contrasto , e armonizzando  principi comunitari e legislazione nazionale . Attraverso, dunque, un lungo percorso,  tracciato dalle pronunce dei  giudici di merito, giudici di legittimità e statuizioni comunitarie  , si giunge alle ultime e risolutive pronunce della Cassazione  in materia di precariato pubblico e precari della scuola .  

La Corte costituzionale, fin dalla sent. 27 marzo 2003, n. 89,  aveva escluso ogni contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost. dell’art. 36 d.lgs. n. 165/2001, nella parte in cui tale ultima norma non consente, a differenza di quanto accade nel rapporto di lavoro privato, che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori possa dar luogo a rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le pubbliche amministrazioni. È, infatti, giustificata la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di quelle disposizioni conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, dato che il principio dell’accesso mediante concorso – enunciato dall’art. 97 Cost., a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione – rende non omogeneo il rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni rispetto al rapporto alle dipendenze di datori privati. In termini inequivocabili la Corte escludeva , sotto questo profilo, l’esigenza di uniformità di trattamento rispetto alla disciplina dell’impiego privato, cui il principio del concorso è del tutto estraneo.

Anche la successiva giurisprudenza costituzionale ha , poi, ribadito il principio del pubblico concorso, quale mezzo ordinario e generale di reclutamento del personale delle pubbliche amministrazioni, principio che risponde alla finalità di assicurare «il buon andamento e l’efficacia dell’Amministrazione», valori presidiati dal primo e dal terzo comma dell’art. 97 Cost. (sentenze n. 190 del 2005, n. 205 e n. 34 del 2004 e n. I del 1999).

La comunitarizzazione del danno derivante dalla illegittima apposizione e/o reiterazione del termine da parte della pubblica amministrazione  e la chiusura a forme di assunzione che non avvengano a mezzo concorso pubblico può essere letta come una conferma della esistenza dei cd. controlimiti.

All’indomani della storica sentenza della Corte costituzionale nr. 170 del 1984, che per la prima volta ha affermato la possibilità se non l’obbligo, per il giudice comune di disapplicare la norma interna in contrasto con quella sovrazionale , da più parti si è affermato che tale obbligo non potesse estendersi fino a vanificare del tutto i precetti costituzionali. A parte l’ipotesi di scuola dell’art. 139 della Carta, la migliore dottrina ha sostenuto la esistenza di un nocciolo duro di diritti e principi inviolabili contenuti nella costituzione che né una interpretazione adeguatrice né una disapplicazione potrebbero obliterare.

Il discorso sui controlimiti , in verità,  da principio è  rimasto ai margini del sistema giuridico ed ha trovato sporadiche applicazioni da parte della giurisprudenza ( si segnala, al riguardo, Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 4207 del 8 agosto 2005,  secondo il quale la interpretazione data ad una norma di legge ordinaria dalla Corte Costituzionale costituisce, appunto, un contro limite che impedisce il rinvio pregiudiziale ) . Successivamente, ha ricevuto rinnovato vigore per la esistenza di zone di attrito tra il diritto interno e quello comunitario, tra diritti e garanzie interni e diritti e obiettivi comunitari.

In tale ripresa del dibattito la Corte Costituzionale, con Sentenza nr. 238 del 2014 (in tema di immunità di Stati esteri),  ha affermato che “.. i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscano un «limite all’ingresso delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma della Costituzione» (sentenze n. 48 del 1979 e n. 73 del 2001) ed operino quali “controlimiti” all’ingresso delle norme dell’Unione europea (ex plurimis: sentenze n. 183 del 1973, n.170 del 1984, n. 232 del 1989, n. 168 del 1991, n. 284 del 2007), oltre che come limiti all’ingresso delle norme di esecuzione dei Patti Lateranensi e del Concordato (sentenze n. 18 del 1982, n. 32, n. 31 e n. 30 del 1971). Essi rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale (artt. 138 e 139 Cost.: così nella sentenza n. 1146 del 1988).

In questa ottica ,  in effetti,  possiamo leggere la disposizione dell’art. 97 Cost. che obbliga al concorso pubblico come un contro limite rispetto a norme che prevedano come risarcimento in forma specifica, nel caso di abuso dei contratti flessibili ,  la assunzione a tempo indeterminato.

Ciononostante , il dibattito giurisprudenziale si è mantenuto piuttosto vivace.

Con la Direttiva 1999/70/CE, applicabile anche al settore pubblico, vengono sanciti due principi fondamentali: il principio di non discriminazione tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato e la prevenzione dell’abuso derivante dalla reiterazione del lavoro a termine, riaffermando l’eccezionalità del contratto a termine rispetto alla regola, ossia il lavoro a tempo indeterminato. Con specifico riferimento al lavoro alle dipendenze della P.A., la sentenza Adeneler (C-212/04) ha ritenuto che l’accordo quadro europeo allegato alla direttiva 1999/70/CE osta all’applicazione di una normativa nazionale che vieta in maniera assoluta, nel solo settore pubblico, di trasformare in un contratto di lavoro a tempo indeterminato una successione di contratti a tempo determinato che, di fatto, hanno avuto il fine di soddisfare “fabbisogni permanenti e durevoli” del datore di lavoro e che devono essere considerati abusivi. Spetta alle autorità nazionali adottare misure adeguate per far fronte a tale situazione, misure non soltanto proporzionate, ma anche sufficientemente effettive e dissuasive per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro. Come la Corte di Giustizia Europea ha già dichiarato in numerose occasioni, il rinnovo di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato al fine di soddisfare esigenze che, di fatto, hanno un carattere non già provvisorio, ma, al contrario, permanente e durevole, non è giustificato ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro. Infatti, un utilizzo siffatto è direttamente in contrasto con la premessa sulla quale si fonda tale accordo quadro, vale a dire il fatto che i contratti di lavoro a tempo indeterminato costituiscono la forma comune dei rapporti di lavoro.

E’ con Sez. U, Sentenza n. 5072 del 15/03/2016 che il dibattito trova definitiva soluzione.

Nella decisione a sezioni unite è stato evidenziato che la Corte di giustizia, nell’ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C- 50/13, che richiama precedenti enunciati della stessa Corte (cfr. sentenze del 4 luglio 2006, Adeneler e a., C-212/04; del 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04; Vassallo, C-180/04, e del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., C-378/07; nonché ordinanze del 12 giugno 2008, Vassilakis e a. ,C-364107; del 24 aprile 2009, Koukou, C-519/08; del 23 novembre 2009, Lagoudakis e a. , da C-162108, e del l’ ottobre 2010, Affaitato, (1-3/10), ha ribadito che la clausola 5 dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, allegato alla -5- Ric. 2014 n. 10491 sez. ML – ud. 07-07-2016 direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, n. 1999/70/C:E (Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato) non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato.

La direttiva del 1999 non contempla alcuna ipotesi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato così “lasciando agli Stati membri un certo margine di discrezionalità in materia“. Neppure la direttiva contiene una disciplina generale del contratto a tempo determinato, ma pone principi specifici che, per gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, valgono come obiettivi da raggiungere ed attuare, tra cui appunto il principio di contrasto dell’abuso del datare di lavoro, privato o pubblico, nella successione di contratti a tempo determinato (clausola 5). Questa è la portata dell’accordo quadro e segnatamente della sua clausola 5; precisa infatti la Corte di giustizia (7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04, cit.) che “l’obiettivo di quest’ultimo è quello di creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”. Quindi la compatibilità comunitaria di un regime differenziato pubblico/privato (e così il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art. 36, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165) è un punto fermo, che si aggiunge alla compatibilità interna con il canone costituzionale del principio di eguaglianza (Corte cost. n. 89/2003, cit.).

Le Sezioni Unite civili erano state investite della questione nell’ambito del problematico  contenzioso insorto con riferimento alle conseguenze derivanti dall’illegittima apposizione del termine nel pubblico impiego privatizzato, avuto riguardo alle diverse interpretazioni registrate nella giurisprudenza di merito e di legittimità in ordine all’art. 36 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che, nel porre il divieto della trasformazione in rapporto a tempo indeterminato, affida al risarcimento del danno la tutela del lavoratore e – di riflesso – la compatibilità dell’ordinamento interno con la normativa comunitaria in materia.

In particolare, si osservava che, mentre la Corte territoriale, nelle sentenze impugnate, aveva individuato nella disciplina di cui all’art. 18, commi quarto e quinto, legge n. 300 del 1970 – nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla legge 28 giugno 2012, n. 92 – il parametro di riferimento più idoneo a garantire una tutela effettiva e dissuasiva, la Corte di legittimità si era già pronunciata con decisioni difformi, nell’un caso (Sez. L, 21 agosto 2013, n. 19371) ancorando la determinazione del risarcimento all’art. 32, commi 5 e 7, legge 4 novembre 2010, n. 183, a prescindere dalla prova concreta di un danno, trattandosi di indennità forfetizzata e omnicomprensiva per i danni causati dalla nullità del termine, nell’altro caso (Sez. L, 30 dicembre 2014, n. 27481, condivisa da Sez. L, 3 luglio 2015, n. 13655) utilizzando come criterio di liquidazione quello indicato dall’art. 8 legge 15 luglio 1966, n. 604, sempre a prescindere dalla prova concreta del danno, ma in virtù dell’elaborazione di un’autonoma figura di danno (“danno comunitario”), da intendere come una sorta di sanzione ex lege a carico del datore di lavoro. 
La pronuncia delle Sezioni Unite civili richiamata , affronta la questione partendo da un’ampia ricostruzione della normativa – interna ed europea – in materia, soffermandosi sulle peculiari caratteristiche che legittimano la differente disciplina prevista per il lavoro pubblico contrattualizzato, con particolare riferimento al divieto di conversione a tempo indeterminato, disposizione che ha superato positivamente il vaglio di compatibilità costituzionale e comunitaria. Proprio sul fondamento rappresentato da tale legittima preclusione, la Corte è giunta ad escludere che il danno risarcibile ex art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001 possa consistere nella perdita del posto di lavoro a tempo indeterminato “perché una tale prospettiva non c’è mai stata”. Il danno, invece, va rapportato alla “prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative”, secondo la formulazione testuale della norma, ed è configurabile come perdita di chance, nel senso che “se la pubblica amministrazione avesse operato legittimamente emanando un bando di concorso per il posto, il lavoratore, che si duole dell’illegittimo ricorso al contratto a termine, avrebbe potuto parteciparvi e risultarne vincitore” ovvero “le energie lavorative del dipendente sarebbero state liberate verso altri impieghi possibili ed in ipotesi verso un impiego alternativo a tempo indeterminato”.

Pertanto, il lavoratore dovrà agire secondo la regola generale della responsabilità contrattuale posta dall’art. 1223 c.c. per vedersi riconoscere il risarcimento del danno nel senso sopra indicato e sarà onerato della relativa prova, anche se in concreto difficile. 
A questo punto, per l’ipotesi di abuso nella successione di contratti a termine, quale illegittimità qualificata direttamente contemplata dalla clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva 1999/70/CE, le Sezioni Unite si pongono la questione della compatibilità di tale assetto con il diritto europeo, in specifico riferimento al principio di effettività affermato dalla Corte di giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C-50/13), prospettando la necessità di vagliare la possibilità di un’interpretazione adeguatrice della norma, prima di giungere a sospettarne l’illegittimità costituzionale ex art. 117, primo comma, Cost.

In effetti – osserva la Corte – occorre ricercare nel perimetro delle “interpretazioni plausibili” e nell’ambito del dato positivo della norma interpretata un parametro che valga ad agevolare l’onere probatorio gravante sul lavoratore, per colmare quel deficit di tutela stigmatizzato dai giudici europei. In tale prospettiva, non può farsi riferimento alla disciplina del licenziamento illegittimo (sia quella dell’art. 8 della legge n. 604 del 1966, che quella dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, anche nella nuova formulazione, nonché, in ipotesi, quella del regime indennitario di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015), perché “per il dipendente pubblico a termine non c’è la perdita di un posto di lavoro”. Il parametro va dunque ricercato nella fattispecie omogenea di cui all’art. 32, comma 5, legge n. 183 del 2010, che riguarda appunto il risarcimento del danno in caso di illegittima apposizione del termine, quale misura con portata sanzionatoria (e qualificabile come “danno comunitario”, per esprimere direttamente la valenza di interpretazione adeguatrice) che esonera il lavoratore dalla prova del danno subito, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto (al lavoratore, quindi, non è “precluso provare che le chances di lavoro che ha perso perché impiegato in reiterati contratti a termine in violazione di legge si traducano in un danno patrimoniale più elevato”).

Infine, nell’ottica di salvaguardare il canone di equivalenza pure postulato dalla Corte europea, si esclude che l’utilizzazione del criterio di cui all’art. 32 cit. possa comportare una posizione di maggior tutela del lavoratore privato rispetto al pubblico dipendente, in quanto per il primo l’indennità forfetizzata costituisce una misura di contenimento del danno, mentre per il secondo rappresenta uno strumento di agevolazione dell’onere probatorio. 

L’approdo ermeneutico dei giudici di legittimità, del resto,  è perfettamente coerente con un sistema di protezione che, lungi dal trattare in maniera formalmente uguale i protagonisti dell’ordinamento, preveda una situazione di vantaggio per coloro che si trovino in una situazione di inferiorità (quelle che il diritto statunitense chiama positive action). Pertanto, la corresponsione di un minimo di tutela (quella dell’art. 32 della legge nr. 183 del 2010), di certo non esclude (né potrebbe farlo) il diritto ad una soddisfazione piena e totale del diritto leso, nel rispetto dell’onere della prova.

Tale interpretazione , peraltro, si pone su una direttrice già seguita dal supremo organo di giustizia amministrativa (Ad. Plen. Nr. 1 del 2018), secondo il quale:

Alla luce di quanto sin qui esposto occorre formulare il seguente principio di diritto limitatamente alla questione relativa al cumulo tra risarcimento e indennità dovute da enti pubblici e non anche, perché non rilevante, da assicuratori privati o sociali: “la presenza di un’unica condotta responsabile, che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito in capo al medesimo soggetto derivanti da titoli diversi aventi la medesima finalità compensativa del pregiudizio subito dallo stesso bene giuridico protetto, determina la costituzione di un rapporto obbligatorio sostanzialmente unitario che giustifica, in applicazione della regola della causalità giuridica e in coerenza con la funzione compensativa e non punitiva della responsabilità, il divieto del cumulo con conseguente necessità di detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario”.

Escluso, dunque, che ai casi di abuso nella stipulazione di contratti temporali seguisse la conversione in contratto a tempo indeterminato con la PA , il dibattito giurisprudenziale  si è, perciò, concentrato sull’individuazione della tipologia di danno da riconoscere e sui criteri da seguire nella quantificazione del danno da risarcire  .

Le Sezioni Unite civili  della Suprema Corte, con la  sentenza n. 5072 del 15 marzo 2016, hanno fissato i principi di diritto da osservare in tali fattispecie :

«In materia di pubblico impiego privatizzato, il danno risarcibile di cui all’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, non deriva dalla mancata conversione del rapporto, legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli europei, bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte della P.A., ed è configurabile come perdita di “chance” di un’occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell’art. 1223 c.c.».

«In materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicché, mentre va escluso – siccome incongruo – il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito». 
In altre parole , mentre va escluso – in quanto  incongruo – il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario“, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito.

A tali principi rimane fedele la successiva giurisprudenza di legittimità , come  confermato in Sez. 6 – L, Ordinanza n. 16095 del 02/08/2016, Rv. 640721 – 01) ove si legge : 

Nel lavoro pubblico contrattualizzato, in caso di abuso del contratto a tempo determinato da parte di una P.A., il dipendente, che abbia subito l’illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione in rapporto a tempo indeterminato di cui all’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione, con esonero dall’onere probatorio, nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010 e, quindi, nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri di cui all’art. 8 della l. n. 604 del 1966.

Discorso a parte , è stato poi affrontato per i cd.  precari della scuola , ciò  a cagione della peculiarità del sistema scuola e per la speciale legislazione che ha da sempre caratterizzato il reclutamento del personale in tale ambito  .

In questo caso, tuttavia ,  all’indomani della serie di riforme avviate dal governo Renzi , ed in particolare con il pacchetto di riforme intitolate alla cd. buona scuola , ( L. n. 107 del 13.7.2015 e successivi decreti legislativi attuativi )gli interessi ed i conflitti sottostanti al nutrito contenzioso sviluppatosi hanno trovato una qualche pacificazione . A quel punto , pertanto,  l’intervento della giurisprudenza è avvenuto solo per i casi che , anche all’esito del reclutamento massiccio avviato dal governo, non avevano trovato soddisfazione.

La Suprema Corte , ha affermato i principi così massimati  :

Nel settore scolastico, nelle ipotesi di reiterazione illegittima di contratti a termine stipulati su cd. organico di diritto, ai sensi dell’art. 4, commi 1 e 11, della l. n. 124 del 1999, avveratasi a far data dal 10 luglio 2001, ai docenti ed al personale ATA che non sia stato stabilizzato e che non abbia alcuna certezza di stabilizzazione, va riconosciuto il diritto al risarcimento del danno nella misura e secondo i principi affermati nella sentenza delle S.U. n. 5072 del 2016.

(Sez. L, Sentenza n. 22552 del 07/11/2016, Rv. 641608 – 01)

Nel settore scolastico, nelle ipotesi di reiterazione illegittima dei contratti a termine stipulati ai sensi dell’art. 4, commi 1 e 11, della l. n. 124 del 1999, devono essere qualificate misure proporzionate, effettive, sufficientemente energiche ed idonee a sanzionare debitamente l’abuso ed a cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’UE, la stabilizzazione prevista nella l. n. 107 del 2015 per il personale docente, attraverso il piano straordinario destinato alla copertura di tutti i posti comuni e di sostegno dell’organico di diritto, sia nel caso di concreta assegnazione del posto di ruolo sia in quello in cui vi sia certezza di fruire, in tempi certi e ravvicinati, di un accesso privilegiato al pubblico impiego, nel tempo compreso fino al totale scorrimento delle graduatorie ad esaurimento, secondo l’art. 1, comma 109, della l. n. 107 del 2015, nonché l’immissione in ruolo acquisita da docenti e personale ATA attraverso l’operare dei pregressi strumenti selettivi-concorsuali, che non preclude la domanda per il risarcimento dei danni ulteriori e diversi rispetto a quelli esclusi dalla stessa, con oneri di allegazione e prova a carico del lavoratore che, in tal caso, non beneficia di alcuna agevolazione probatoria da danno presunto.

(Sez. L, Sentenza n. 22552 del 07/11/2016, Rv. 641607 – 01)

Anche in questo caso la Corte, richiamando tutta la giurisprudenza comunitaria in materia  , ha risolto ogni possibilità di contrasto con i principi ivi fissati giungendo ad affermare ,  da un lato , la specialità del nostro sistema  e , dall’altro,  l’esigenza di sanzionare efficacemente le ipotesi di abuso.

E all’indomani della L. 107/2015 , quando buona parte del personale precario aveva trovato definitiva sistemazione lavorativa, tutta la vicenda scuola è stata ricondotta nel  già noto paradigma legale , sperimentato anche per altre settori del pubblico impiego  ,  secondo il quale la stabilizzazione equivale alla misura massima di risarcimento , lasciando spazio solo per l’eventuale ulteriore danno da dedurre , allegare e provare , secondo la consueta scansione processuale degli oneri di parte. 

Ed invero, che la stabilizzazione sia la misura più ampiamente satisfattiva prevista per i casi di illegittimo ricorso al lavoro  flessibile  lo si è affermato , in generale, per diversi settori del pubblico impiego, nei quali specifiche disposizioni legislative dapprima hanno consentito la stipulazione di contratti a tempo determinato, prorogandone poi la durata per diversi anni ed infine , hanno previsto la stabilizzazione del personale utilizzato nel corso degli anni, consentendone l’inserimento graduale tra i ruoli dell’amministrazione datrice .  

Così è accaduto , infatti, per il personale precari del Ministero dei beni culturali, dell’Agenzia delle Entrate e , pur se  in ambito regionale e con modalità attuative differenti, nell’ambito della sanità pubblica . In tutti questi  casi , una volta conseguita l’assunzione a tempo determinato, a mezzo della stabilizzazione attuata a mezzo della legge,  nessuno spazio rimane per ulteriori richieste risarcitorie , salva la prova specifica del danno ulteriore . 

Si confronti, a tal proposito , quanto affermato in Sez. L – , Sentenza n. 16336 del 03/07/2017, Rv. 644860 – 01, ove si legge :

In materia di impiego pubblico contrattualizzato, nelle ipotesi di reiterazione illegittima dei contratti a termine, deve essere qualificata come misura equivalente, idonea a sanzionare debitamente l’abuso, ai fini della compatibilità dell’ordinamento interno al diritto dell’UE, la stabilizzazione prevista ai sensi dell’art. 1, comma 519, della l. n. 296 del 2006, che consente all’interessato di ottenere il medesimo “bene della vita” per il quale ha agito giudizialmente, senza preclusioni per la risarcibilità di eventuali danni ulteriori e diversi, con oneri di allegazione e prova a carico del lavoratore che, in tal caso, non beneficia di alcuna agevolazione da danno presunto 

In materia di pubblico impiego privatizzato, i processi di stabilizzazione – tendenzialmente volti ad eliminare il precariato creatosi per assunzioni in violazione dell’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 – sono effettuati nei limiti delle disponibilità finanziarie e nel rispetto delle disposizioni in tema di dotazioni organiche e di programmazione triennale del fabbisogno, e sono suscettibili di derogare alle normali procedure di reclutamento limitatamente al carattere – riservato e non aperto – dell’assunzione, ma non anche alla necessità del possesso del titolo di studio ove previsto per la specifica qualifica, né al preventivo svolgimento di procedure selettive, che (ad eccezione del personale assunto obbligatoriamente o mediante avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento) sono necessarie nell’ipotesi – come nella specie – in cui la stabilizzazione riguardi dipendenti che non abbiano già sostenuto “procedure selettive di tipo concorsuale”, con conseguente devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice amministrativo, trattandosi di procedure discrezionalmente disposte dall’amministrazione ed implicanti valutazioni di tipo comparativo tra i candidati. (Sez. U – , Sentenza n. 19166 del 02/08/2017, Rv. 645037 – 01)

In base ai principi sopra evidenziati, allora, la stessa parte non può pretendere di duplicare i risultati favorevoli della propria azione ottenendo, oltre al risarcimento in forma specifica( l’assunzione a mezzo stabilizzazione ) anche quello per equivalente: la parte che ha conseguito la costituzione di  un rapporto di lavoro a tempo indeterminato ha ottenuto la riparazione  dell’abuso in forma specifica.

Il risarcimento del danno , invece , costituisce una conseguenza subordinata alla mancata conversione, ove non possibile in applicazione dell’art. 36 più volte citato .

Una volta raggiunto , nei confronti del datore di lavoro, il risultato prioritariamente agognato, non vi è alcuna possibilità di conseguire, in aggiunta, anche il risarcimento per equivalente: il danno subìto per il comportamento abusivo è stato riparato e l’ordinamento non prevede alcuna “pena privata” aggiuntiva .

Recentissimamente, infine , sono state ulteriormente precisate le voci di danno indennizzabile nelle ipotesi di abusiva reiterazione della contrattazione a tempo , affermandosi  :

In tema di pubblico impiego contrattualizzato, nel caso di risoluzione del rapporto da parte dell’amministrazione, in ragione della nullità del contratto posto in essere in violazione di norme imperative, il lavoratore, operando il datore di lavoro in regime privatistico, può chiedere il risarcimento del danno per violazione degli obblighi di buona fede e correttezza, di cui assume l’onere della prova, ma non promuovere l’azione risarcitoria per lesione dell’affidamento incolpevole, che ha come presupposto l’agire autoritativo dell’amministrazione. (Sez. L – , Sentenza n. 6775 del 15/03/2017, Rv. 643450 – 01)

In materia di pubblico impiego privatizzato, il danno subìto dal lavoratore nell’ipotesi di contratto di lavoro nullo per violazione delle disposizioni che regolano le assunzioni alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, di cui sia chiesto il risarcimento ai sensi dell’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, deve essere allegato e provato dallo stesso lavoratore, ma non coincide con le retribuzioni ed i correlati oneri contributivi e previdenziali, dal momento che tali voci sono comunque dovute, in virtù del principio di corrispettività di cui all’art. 2126 c.c., per le prestazioni eseguite durante lo svolgimento in via di fatto del rapporto di lavoro. In conclusione , rimane , ora , affidata all’operato dei giudici di merito la compiuta attuazione dei principi fissati dall’intensa e complessa elaborazione giurisprudenziale , che si è evoluta con l’acuirsi delle problematiche , anche politiche, connesse al precariato pubblico  .