Integralità del risarcimento del danno da licenziamento e Job’s act

diritto del lavoro

di Maria Gallo

Ovvero alla ricerca della certezza del diritto: questo sarebbe stato il titolo più appropriato col quale introdurre una brevissima riflessione sui diversi interventi legislativi e giurisprudenziali che , a partire dalla riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori , con la legge Fornero  n. 92/2012 ,  attraverso interventi legislativi correttivi , con i  D.Lgs. n. 23/2015 e D.L. n. 87/2018 , hanno infine  portato alla situazione attuale . Attualità nella quale, infine ,  ha fatto la sua apparizione la Corte Costituzionale che, con un intervento annunciato, con la sentenza n.194/2018 ha ricondotto il diritto al suo alveo , quello del principio di integralità del risarcimento del danno .

Anche i meno smaliziati di noi sanno che la riforma dell’art. 18 St.Lav. è stata determinata dalla volontà dell’ impresa di eliminare le incertezze , sulla durata del processo e sulla misura dell’eventuale sanzione risarcitoria, che il vecchio art. 18 produceva , con l’assegnare al giudice poteri ritenuti eccessivi in materia .

Nel tentativo , piuttosto malriuscito, di ridurre questa alea che nella prospettiva imprenditoriale  , incideva esclusivamente sul datore di lavoro , si è proceduto alla riforma di una norma che dal 1970 in poi aveva rappresentato un simbolo forte ,  il baluardo della garanzia del lavoratore dinanzi al potere del datore di lavoro .

E non ha funzionato . La norma introdotta dalla legge Fornero nel 2012  , infatti, nel suo codificare le diverse tipologie di licenziamento , con le relative sanzioni prestabilite tra un minimo ed un massimo , è risultata piuttosto oscura nella interpretazione di alcuni passaggi ed ostica nella sua applicazione, così da accrescere la temuta incertezza giuridica  e da rimettere al singolo giudice un potere interpretativo ancora maggiore rispetto al passato.

Attraverso un fiorire di pronunce giudiziali , rese nell’ambito di un rito speciale , si è cercato di rimediare con i due diversi interventi legislativi , D.Lgs. n. 23/2015 e D.L. n. 87/2018 , con i quali si è fornito all’operatore del diritto il criterio chiave da seguire nella determinazione dell’indennità risarcitoria per i casi di licenziamento ingiustificato, per assenza della giusta causa , e cioè il criterio dell’anzianità di servizio : facendo riferimento all’anzianità di servizio, cioè , il giudice avrebbe dovuto graduare la sanzione risarcitoria per il caso di licenziamento ingiustificato, tra un minimo ed un massimo . Con il D.Lgs. 23/2015 , infatti, la regola applicabile ai nuovi licenziamenti era quella del risarcimento in misura pari a due mensilità per ogni anno di anzianità di servizio, con un minimo di 4 ed un massimo di 24 mesi. Con il cd. decreto dignità,  D.L. n.87/2018, nel caso di licenziamento illegittimo, l’indennità massima passa da 24 a 36 mensilità, mentre la minima da 4 a 6 mensilità.

Nell’arco temporale compreso tra i due interventi la Corte Costituzionale è stata investita della questione di legittimità degli artt. 2, 3 e 4  del d.lgs. n. 23 del 2015 dal Tribunale di Roma , con  in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione (questi ultimi due articoli in relazione all’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea –CDFUE ) .

La Corte si è così pronunciata : 

In conclusione, in parziale accoglimento delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 (in relazione sia al principio di eguaglianza, sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse, sia al principio di ragionevolezza), 4, primo comma, 35, primo comma, e 76 e 117, primo comma, Cost. (questi ultimi due articoli in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea), il denunciato art. 3, comma 1, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio,».

Le «mensilità», cui fa ora riferimento l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 sono da intendersi relative all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, così come si evince dal d.lgs. n. 23 del 2015 nel suo complesso, con riguardo alla commisurazione dei risarcimenti.

Nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell’intervallo in cui va quantificata l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice terrà conto innanzi tutto dell’anzianità di servizio – criterio che è prescritto dall’art. 1, comma 7, lett. c) della legge n. 184 del 2013 e che ispira il disegno riformatore del d.lgs. n.23 del 2015 – nonché degli altri criteri già prima richiamati, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti).

La problematica riguarda i casi di licenziamento illegittimo a tutela obbligatoria piena, cioè i  casi residuali rispetto alle ipotesi contemplate dai commi precedenti dell’art. 18,  in cui non ricorrono gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo od oggettivo e ad applicarsi è la tutela obbligatoria piena. Essa comporta la condanna del datore di lavoro a risarcire il lavoratore, corrispondendogli un’indennità omnicomprensiva il cui importo è di minimo dodici e di massimo ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, calcolato tenendo conto dell’anzianità del lavoratore, del numero di dipendenti, delle dimensioni dell’attività economica e del comportamento e delle condizioni delle parti.

La disciplina stabilita dal Job’s act delle cd. tutele crescenti , nella limitata parte presa in considerazione dalla pronuncia, prevedeva che il computo dell’indennità per i casi di licenziamento ingiustificato dovesse operarsi sulla base della retribuzione globale di fatto ed essere quantificata sulla base dell’anzianità di servizio del lavoratore, attribuendo 2 mensilità per ogni anno di anzianità. Il criterio dell’anzianità di servizio è rimasto anche all’esito dell’emanazione del cd. Decreto dignità, nel quale , pur aumentandosi la misura dell’indennità, da 6 a 36 mesi , si mantiene l’anzianità di servizio come parametro base per la determinazione dell’ammontare dovuto.

Ma tale criterio , in quanto improntato ad un sistema automatico di liquidazione del danno e piuttosto formalistico, con un’indennità crescente solamente in funzione dell’anzianità ,  come poi affermato dalla successiva sentenza del 2018  , evidentemente , non appare conforme  ai principi di ragionevolezza ed uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli artt. 4 e 35 Cost. 

Il percorso verso la certezza del diritto, dunque, è piuttosto tormentato tanto più se si pensa che il punto di arrivo dovrebbe essere affermazione di un principio di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio originato dal danneggiamento, principio di derivazione giurisprudenziale  ( fin da  C.Cost. n. 148/1999 ) e che nella maggior parte dei casi ripiega verso un concetto di liquidazione forfetizzata del danno sofferto.

Quel che è evidente, tuttavia, nella imponente motivazione della sentenza 194/ 2018 è che il problema cui la Corte intendeva dare soluzione non è quello della misura dell’indennità risarcitoria quanto il criterio per la sua determinazione e i  tentativi attuati dalle diverse leggi succedutesi ( inclusa la previsione del DL 2018 citato dalla Corte ) per abolire ogni valutazione discrezionale del giudice nella liquidazione del danno , affidandosi in questo ad un criterio  standardizzato ed omologante , basato sulla sola anzianità di servizio del lavoratore .La Corte, dunque, ha ricondotto il licenziamento illegittimo alla sua fondamentale natura di atto illecito , a fronte del quale il danneggiato deve poter trovare un ristoro adeguato, suscettibile di adattamento alle diverse situazioni possibili , conformemente ai principi più volte ribaditi proprio dalla giurisprudenza costituzionale .

Ed infatti si legge nella motivazione che  : 

La qualificazione come «indennità» dell’obbligazione prevista dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 non ne esclude la natura di rimedio risarcitorio, a fronte di un licenziamento. Quest’ultimo, anche se efficace, in quanto idoneo a estinguere il rapporto di lavoro, costituisce pur sempre un atto illecito, essendo adottato in violazione della preesistente non modificata norma imperativa secondo cui «il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 del Codice civile o per giustificato motivo» (art. 1 della legge n. 604 del 1966).

L’indennità assume così i connotati di una liquidazione legale forfetizzata e standardizzata, proprio perché ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio, a fronte del danno derivante al lavoratore dall’illegittima estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato.  Il meccanismo di quantificazione dell’indennità opera entro limiti predefiniti sia verso il basso sia verso l’alto. Verso il basso la previsione di una misura minima dell’indennità è pari a quattro (ora sei) mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, verso l’alto la previsione di una misura massima dell’indennità è pari a ventiquattro (ora trentasei) mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR. Una tale predeterminazione forfetizzata del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo non risulta incrementabile, pur volendone fornire la relativa prova.

Nonostante il censurato art. 3, comma 1 – diversamente dal vigente art. 18, quinto comma, della legge n. 300 del 1970 – non definisca l’indennità «onnicomprensiva», è in effetti palese la volontà del legislatore di predeterminare compiutamente le conseguenze del licenziamento illegittimo, in conformità al principio e criterio direttivo dettato dalla legge di delegazione di prevedere un indennizzo economico «certo».

Ricostruite le caratteristiche della tutela prevista dal denunciato art. 3, comma 1, tale disposizione, nella parte in cui determina l’indennità in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», contrasta, anzitutto, con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse (terzo dei profili di violazione dell’art. 3 Cost. prospettati dal rimettente). Come si è visto, nel prestabilirne interamente il quantum in relazione all’unico parametro dell’anzianità di servizio, la citata previsione connota l’indennità, oltre che come rigida, come uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità. È un dato di comune esperienza, ampiamente comprovato dalla casistica giurisprudenziale, che il pregiudizio prodotto, nei vari casi, dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori. L’anzianità nel lavoro, certamente rilevante, è dunque solo uno dei tanti. Prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015 il legislatore ha ripetutamente percorso la strada che conduce all’individuazione di tali molteplici fattori. L’art. 8 della legge n. 604 del 1966 (come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge n. 108 del 1990), ad esempio, lascia al giudice determinare l’obbligazione alternativa indennitaria, sia pure all’interno di un minimo e un massimo di mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, «avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro,  al comportamento e alle condizioni delle parti». Inoltre, a conferma dell’esigenza di scrutinare in modo accurato l’entità della misura risarcitoria e di calarla nell’organizzazione aziendale, la stessa disposizione dà rilievo all’anzianità di servizio per ampliare ulteriormente la discrezionalità del giudice, relativamente ai datori di lavoro che occupano più di quindici prestatori di lavoro. L’anzianità di servizio superiore a dieci o a venti anni consente, infatti, la maggiorazione dell’indennità fino, rispettivamente, a dieci e a quattordici mensilità. Anche l’art. 18, quinto comma, della legge n. 300 del 1970 (come sostituito dall’art. 1, comma 42, lettera b, della legge n. 92 del 2012) prevede che l’indennità risarcitoria sia determinata dal giudice tra un minimo e un massimo di mensilità, seguendo criteri in larga parte analoghi a quelli indicati in precedenza, avuto riguardo anche alle «dimensioni dell’attività economica». Il legislatore ha dunque, come appare evidente, sempre valorizzato la molteplicità dei fattori che incidono sull’entità del pregiudizio causato dall’ingiustificato licenziamento e conseguentemente sulla misura del risarcimento. Da tale percorso si discosta la disposizione censurata. Ciò accade proprio quando viene meno la tutela reale, esclusa, come già detto, per i lavoratori assunti dopo il 6 marzo 2015, salvo che nei casi di cui al comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015.

In una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non può essere ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio. Non possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia. Tale discrezionalità si esercita, comunque, entro confini tracciati dal legislatore per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, entro una soglia minima e una massima. All’interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell’impresa, la discrezionalità del giudice risponde, infatti, all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza. La previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse.

Da ultimo , la Corte fa riferimento al principio della dissuasività della sanzione affermando che : ..l’inadeguatezza dell’indennità forfetizzata stabilita dalla previsione denunciata rispetto alla sua primaria funzione riparatoriocompensativa del danno sofferto dal lavoratore ingiustamente licenziato è suscettibile di minare, in tutta evidenza, anche la funzione dissuasiva della stessa nei confronti del datore di lavoro, allontanandolo dall’intento di licenziare senza valida giustificazione e di compromettere l’equilibrio degli obblighi assunti nel contratto.

Non resta, dunque, che augurarsi che il legislatore segua il monito della Corte Costituzionale , ispirandosi, nel predisporre future tutele, ad un sistema equilibrato di sanzioni, in cui da un lato si tenga conto dell’esigenza dell’impresa ma dall’altro si valorizzi l’aspetto personalistico della riparazione del danno.    

Ed in questo panorama ,  punteggiato da riforme legislative ispirate dall’economia e pronunce giudiziarie tese a riaffermare i principi cardine dell’ordinamento giuslavoristico ,  non può non tenersi conto delle spinte, registrate anche dalla stampa più accorta ,  per un ritorno al “vecchio” articolo 18. A questo quadro appartengono nuovi contratti collettivi aziendali e  contratti individuali in deroga alla disciplina del Job’s Act . Si tratta di una serie di aziende private e pubbliche che, disattendendo le direttive confindustriali, si discostano dall’attuale normativa per una maggiore tutela dei lavoratori in caso di demansionamento e  licenziamento e optano per un ritorno alla vecchia normativa, creando un clima aziendale migliore attraverso una più alta motivazione dei dipendenti. Espressione di tale  esigenza di maggiore tutela sono una serie di intese in deroga tra sindacato e imprenditori, alcune di esse con l’avallo delle stesse organizzazioni territoriali di Confindustria. Si tratta di accordi integrativi che rinnegano il Jobs Act e che sono stati siglati perfino da importanti aziende metalmeccaniche come Lamborghini e Ducati . Nel caso di accordi individuali, poi,  la clausola dell’applicabilità del “vecchio” art.18 rappresenta un benefit concesso a lavoratori di elevata professionalità che l’azienda vuole accaparrarsi.

Si resta in attesa di successivi sviluppi .