La disciplina dei rapporti di lavoro nello stato di emergenza nazionale per rischio sanitario

di Fabrizio Amendola in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la Costituzione

Sommario: 1. Tema e limiti dell’indagine. – 2. Metodo. – 3. Proroghe e sospensioni. Il divieto di licenziare. – 4. Misure speciali di sostegno ai lavoratori. – 5. Protezione dal contagio nei luoghi di lavoro e responsabilità.   

  1. Tema e limiti dell’indagine. Il 31 gennaio 2020, con delibera del Consiglio dei ministri, è stato dichiarato, per sei mesi, lo stato di emergenza sul territorio nazionale in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili.

La proclamazione dello “stato di emergenza di rilievo nazionale” trova il proprio fondamento nel Codice della protezione civile (D. lgs. 2 gennaio 2018, n. 1) e autorizza, in tale periodo, gli “interventi di cui all’articolo 25, comma 2, lettere a) e b)” di detto decreto.

Ha fatto seguito una fitta serie di provvedimenti normativi, ascrivibili a fonti di livello primario e secondario, anche sub-statali, alcuni di essi destinati ad incidere sul mondo dei rapporti di lavoro.

Scopo del presente contributo è quello di illustrare sinteticamente le linee essenziali degli interventi in materia, per fornire una prima informazione che consenta anche un orientamento iniziale verso le possibili criticità di futuri contenziosi.

Restano sicuramente fuori dall’argomento trattato le delicate questioni connesse ai rapporti tra le fonti di vario livello, oltre che l’aspro dibattito sulla legittimità di alcuni degli atti normativi emanati sul presupposto dell’emergenza.  

  • Metodo. Ci si propone di illustrare gli aspetti principali della inedita disciplina mediante una ricognizione che classifichi le disposizioni nell’ambito di due possibili insiemi.

Da una parte le disposizioni tese a prorogare o sospendere, per il periodo dell’emergenza, termini o effetti di una o più norme anteriori; dall’altra le disposizioni che costruiscono nuove fattispecie volte ad introdurre regolazioni del rapporto di lavoro derogatorie rispetto alla disciplina pregressa.

Un discorso a parte merita, per la sua attitudine generatrice di contese, il regime di responsabilità del datore di lavoro nei confronti del dipendente esposto al contagio nei luoghi in cui svolge la prestazione.

L’esame ha come oggetto principale dell’analisi il d.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, nella l. 24 aprile 2020, n. 27, “recante misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19. Proroga dei termini per l’adozione di decreti legislativi”.

Il Titolo II del provvedimento è interamente dedicato alle “Misure a sostegno del lavoro” (artt. 19 e ss.) ed è ripartito in due Capi: il primo si occupa della “Estensione delle misure speciali in tema di ammortizzatori sociali per tutto il territorio nazionale” (artt. 19 – 22 bis); il secondo riguarda le “Norme speciali in materia di riduzione dell’orario di lavoro e di sostegno ai lavoratori” (artt. 23 – 48).

Detto Titolo ha subito modificazioni ad opera del recente d.l. 19 maggio 2020, n. 34, il quale verrà esaminato essenzialmente nelle parti in cui è intervenuto sulla disciplina dettata dalla l. n. 27/20, con esclusione, in particolare, di temi che richiederebbero specifica trattazione, quali il reddito di emergenza e l’istituto dell’emersione dei rapporti di lavoro irregolari. 

Ulteriori disposizioni rilevanti sono rinvenibili in altri luoghi della legge citata, oltre che in fonti diverse che verranno, di volta in volta, richiamate.

3. Proroghe e sospensioni. Il divieto di licenziare.

3.1. Termini in materia previdenziale e assistenziale. Un primo gruppo di disposizioni proroga taluni termini per la presentazione delle domande di disoccupazione “in considerazione dell’emergenza epidemiologica”: l’art. 32 sposta sino al 1° giugno 2020 quelle che possono essere presentate dagli operai agricoli, di competenza dell’anno 2019; l’art. 33 amplia, per tutto il 2020, i termini di decadenza per le domande disoccupazione NASPI e DIS-COLL da 68 a 128 giorni, decorrenti dalla cessazione involontaria del rapporto di lavoro verificatasi nel corso dell’anno.

Un effetto più propriamente sospensivo “di diritto” è previsto in materia previdenziale ed assistenziale, a decorrere dal 23 febbraio 2020 e sino al 1° giugno 2020, per il decorso dei termini di decadenza e prescrizione relativi alle prestazioni erogate dall’INPS e dall’INAIL (art. 34, comma 1). Sono anche sospesi i termini di revisione della rendita INAIL che scadano nel periodo innanzi indicato e che riprendono a decorrere dalla fine del periodo di sospensione (art. 42, comma 1).

Parimenti sospesi sono i termini per il pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali e dei premi per l’assicurazione obbligatoria per i lavoratori domestici (art. 37, comma 1), così come i termini di prescrizione delle contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria, con differimento del decorso dopo il 30 giugno 2020 (art. 37, comma 2).

In considerazione delle limitazioni degli spostamenti delle persone fisiche ai casi strettamente necessari, l’art. 40 ha sospeso per due mesi (poi portati a quattro) gli obblighi connessi alla fruizione del reddito di cittadinanza e i relativi termini, le misure di condizionalità e i relativi termini comunque previsti per i percettori di NASPI e di DISCOLL nonché gli adempimenti relativi agli obblighi stabiliti per i beneficiari di integrazioni salariali.

3.2. Licenziamenti. L’originaria rubrica dell’art. 46 del d.l. n. 18 del 17 marzo 2020 annunciava altresì la “Sospensione delle procedure di impugnazione dei licenziamenti”. In sede di conversione del decreto, la legge n. 27 del 2020 ha più correttamente rubricato l’articolo come “Disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo”.

In effetti, sin dalla data di pubblicazione in G.U. e di entrata in vigore del decreto legge ai sensi dell’art. 127, la norma, se ha sospeso le procedure di licenziamento collettivo di cui alla legge n. 223 del 1991 avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020, ne ha precluso anche l’avvio per 60 giorni e contestualmente, sino alla scadenza di detto termine, ha impedito a tutti i datori di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, di poter recedere dal contratto “per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604”. Il termine di 60 giorni è stato portato a “cinque mesi” dall’art. 80, co. 1, lett. a), del d.l. n. 34/20, che, essendo entrato in vigore con la pubblicazione in G.U. del 19 maggio, pone il problema del destino di eventuali licenziamenti intimati tra la scadenza dell’originario termine di 60 giorni (venuto a cadere il 16 maggio 2020) ed il momento in cui il nuovo decreto del 19 maggio ha prolungato retroattivamente la durata del “blocco”.

Nella relazione illustrativa al primo decreto legge, si dà atto che lo stesso «adotta i provvedimenti necessari per affrontare l’impatto economico di questa emergenza sui lavoratori, sulle famiglie e sulle imprese». Ciò al fine di conseguire tre obiettivi «prioritari: proteggere la salute dei cittadini, sostenere il sistema produttivo e salvaguardare la forza lavoro»

La natura provvisoria, transitoria ed eccezionale del “blocco” dei licenziamenti, legata a situazioni oggettive e straordinarie che coinvolgono preminenti interessi pubblici, sembra escludere profili di incompatibilità costituzionale con l’art. 41 Cost., anche perché bilanciata da un rilevante intervento dello Stato attraverso gli ammortizzatori sociali in favore sia dei lavoratori che delle imprese.

3.3. Violazione del divieto di licenziamento e conseguenze. L’art. 46 sembra prefigurare un vero e proprio divieto di licenziamento per il periodo ivi indicato, incentivando misure alternative ai recessi, in primis la cassa integrazione.

Anche in assenza di una specificazione della sanzione applicabile in caso di inosservanza del divieto potrebbe qualificarsi il precetto come norma imperativa ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c., applicabile agli atti unilaterali a contenuto patrimoniale in virtù del generale rinvio operato dall’art. 1324 c.c.; ne conseguirebbe la nullità del licenziamento per violazione del divieto espresso nell’art. 46 dalle formule: “l’avvio delle procedure … è precluso … il datore di lavoro … non può”.

In generale le norme contenenti un divieto possono essere considerate imperative, pur in difetto di una esplicita sanzione civilistica di invalidità, ove dirette alla tutela di un interesse pubblico generale, ravvisabile anche dal carattere assoluto del divieto, tale da non consentire possibilità di esenzione dalla sua osservanza per alcuno dei destinatari della norma.

Nella specie la disposizione trascende l’interesse delle sole parti del rapporto di lavoro ed assume una valenza pubblicistica resa evidente dalle finalità della disciplina emergenziale volta ad evitare il ricorso a licenziamenti economici, collettivi ed individuali, in un momento di grave crisi, al fine di contenerne gli effetti, anche sociali; il divieto poi ha carattere generale, senza esclusioni configurate per categorie di destinatari, salva l’eccezione della successione negli appalti, non a caso formulata all’interno della medesima norma.   

Vero è che, per i contratti, le Sezioni unite della Cassazione (sent. n. 26724 del 2007) insegnino come non ogni violazione di norma imperativa determini la nullità ai sensi del comma 1 dell’art. 1418 c.c.: in difetto di una espressa previsione di legge, è la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto a determinare la nullità cd. “virtuale” e non già la violazione di norme, anch’esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti, piuttosto generatrice di responsabilità. Ma è la stessa pronuncia delle Sezioni unite a precisare che “l’area delle norme inderogabili, la cui violazione può determinare la nullità del contratto in conformità al disposto dell’art. 1418, comma 1, c.c.” ricomprende “sicuramente anche le norme che, in assoluto, oppure in presenza o in difetto di determinate condizioni oggettive o soggettive, direttamente o indirettamente, vietano la stipulazione stessa del contratto”: quindi, “se il legislatore vieta, in determinate circostanze, di stipulare il contratto e, nondimeno, il contratto viene stipulato, è la sua stessa esistenza a porsi in contrasto con la norma imperativa; e non par dubbio che ne discenda la nullità dell’atto” perchè esso “è stato stipulato in situazioni che lo avrebbero dovuto impedire”. Estendendo il ragionamento, per il tramite dell’art. 1324 c.c., al licenziamento economico intimato in tempo di pandemia, esso risulterebbe affetto da nullità perché è la sua stessa sua esistenza a porsi in contrasto con la norma imperativa che preclude il recesso in un periodo di emergenza nazionale per rischio sanitario.

Più in particolare, poi, l’ordinamento lavoristico conosce una risalente tradizione di nullità del licenziamento per contrarietà a norma imperativa ex art. 1418 c.c., anche laddove non espressamente comminata, in tema di risoluzione del rapporto per raggiungimento di limiti di età (v., tra le altre, Cass. n. 8582 del 2000; Cass. n. 12419 del 1999; Cass. n.  1197 del 1998; più di recente: Cass. n. 12108 del 2018) e cioè in casi dove il recesso datoriale aveva risolto il rapporto di lavoro in un tempo in cui, secondo legge, avrebbe dovuto proseguire.

Resterà da verificare il regime di tutela applicabile in ragione della disciplina tempo per tempo vigente. Ovverosia se la fattispecie rientri nell’ambito degli “altri casi di nullità previsti dalla legge”, secondo il comma 1 dell’art. 18 novellato dalla legge n. 92 del 2012, e se, per gli assunti successivamente al 7 marzo 2015, sia “riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”, in base all’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015. In tali ipotesi alla violazione del divieto posto dall’art. 46 in commento conseguirebbe la cd. tutela reintegratoria “piena”.

Cass. n. 12108/18 già citata, in tema di cessazione del rapporto per raggiunti limiti di età dei lavoratori dello spettacolo appartenenti alle categorie dei tersicorei e ballerini, ha ritenuto operante il primo comma dell’art. 18 novellato e la reintegrazione ivi prevista, osservando tra l’altro che “la previsione della nullità per contrarietà a norma imperativa è insita nell’art. 1418 c.c. che chiaramente la esprime: ci si trova innanzi alla massima sanzione civile prevista per il caso in cui l’autonomia privata sia stata esercitata in difformità rispetto a quanto previsto da norme imperative, e ciò nel presupposto che questa ultime sono state poste a presidio di valori considerati come fondamentali dall’ordinamento giuridico”.

3.4. Ambito di applicazione. In ordine all’ambito di applicazione del divieto, per i licenziamenti individuali il riferimento è espressamente ai recessi “per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604”.

Ciò consente di escludere sicuramente dal “blocco” i licenziamenti disciplinari, con la precisazione che l’art. 47, comma 2, della l. n. 27/20, ha stabilito che, “fino alla data del 30 aprile 2020, l’assenza dal posto di lavoro da parte di uno dei genitori conviventi di una persona con disabilità non può costituire giusta causa di recesso dal contratto di lavoro ai sensi dell’articolo 2119 del codice civile, a condizione che sia preventivamente comunicata e motivata l’impossibilità di accudire la persona con disabilità a seguito della sospensione delle attività dei Centri di cui al comma 1”.    

Parimenti esclusi, per inapplicabilità della l. n. 604 del 1966, risultano i licenziamenti dei dirigenti, dei lavoratori domestici e degli assunti in prova sino al momento della cessazione dell’esperimento, oltre che le risoluzioni dei rapporti di lavoro per sopraggiunti limiti di età e per possesso dei requisiti pensionistici, nonché i licenziamenti per superamento del periodo di comporto, che non attengono a motivazioni economiche.

Qualche dubbio è stato sollevato per i recessi motivati dalla impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa per factum principis o per altra ragione non imputabile al lavoratore (quasi sempre per casi di inidoneità fisica, carcerazione preventiva e revoca di permessi o concessioni amministrative indispensabili al dipendente per eseguire la propria attività) che la giurisprudenza, secondo una certa impostazione, riconduce al giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ex art. 3 L. n. 604 del 1966 (v. Cass. n. 7531 del 2010; Cass. n. 10574 del 2001; Cass. n. 7210 del 2001; Cass. n. 96209 del 2000).

Minori problemi dovrebbe presentare il rinvio alla legge n. 223 del 1991, perché le procedure ivi previste sono sospese o ne è precluso l’avvio, con conseguente estensione del divieto di licenziamento anche collettivo, in conformità alla ratio della disposizione.

Tuttavia la legge di conversione, con un inciso aggiunto, ha escluso dal divieto l’ipotesi in cui il personale interessato dalla procedura di licenziamento collettivo, già impiegato nell’appalto, “sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto”.

La disposizione va coordinata con l’art. 7, co. 4-bis, d.l. n. 248 del 2007, conv. in l. n. 31 del 2008, secondo cui non opera l’art. 24 della l. n. 223 del 1991 nel caso di acquisizione del personale già impiegato nel medesimo appalto, a seguito del subentro di nuovo appaltatore, sempre che la riassunzione avvenga a parità di condizioni economiche oppure che i lavoratori siano riassunti mediante accordi collettivi stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative (cfr. Cass. n. 22121 del 2016 e Cass. n. 20722 del 2018).

3.5. Regime di impugnazione del licenziamento.  Tanto nel caso in cui ricorra una ipotesi esclusa dal divieto di licenziamento, così come nel caso venga intimato un recesso nonostante il divieto, merita una riflessione il regime di impugnazione del recesso durante lo stato di emergenza.

Infatti l’art. 83 del decreto poi convertito nella legge n. 27 del 2020 ha previsto “in materia di giustizia” due periodi: dal 9 marzo all’11 maggio 2020 ha disposto il rinvio d’ufficio delle “udienze dei procedimenti civili e penali pendenti presso tutti gli uffici giudiziari”, contestualmente sospendendo “il decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto” di detti procedimenti; nel successivo periodo compreso tra il 12 maggio ed il 31 luglio 2020, i capi degli uffici giudiziari, sentite varie Autorità, possono adottare “misure organizzative, anche relative alla trattazione degli affari giudiziari, necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienicosanitarie … al fine di evitare assembramenti all’interno dell’ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone”, misure indicate al comma 7 dell’art. 83.   

Il successivo comma 8 ha stabilito che “per il periodo di efficacia dei provvedimenti di cui al comma 7 è sospesa la decorrenza dei termini di prescrizione e decadenza dei diritti che possono essere esercitati esclusivamente mediante il compimento delle attività precluse dai provvedimenti medesimi”.

Tale ultima disposizione è chiaramente ispirata dalla preoccupazione di evitare che diritti possano essere preclusi in conseguenza delle misure adottate dal capo dell’ufficio giudiziario allorché esse impediscano la proposizione della domanda giudiziale. Non è, però, chiaro a quali situazioni concrete – in cui la parte si trovi nella impossibilità di proporre una domanda giudiziale – possa farsi riferimento. Le misure disposte dai capi degli uffici giudiziari riguardano principalmente il differimento delle udienze o la loro tenuta con particolari precauzioni, sicché mal si comprende in che modo quelle misure possano impedire la proposizione di una domanda giudiziale, tanto più che non è immaginabile una chiusura degli uffici, i quali devono comunque garantire i presidi per gli atti urgenti e dinanzi ai tribunali ed alle corti di appello la proposizione dell’atto introduttivo può compiersi anche per via telematica.

Taluno ha dunque ritenuto la norma sostanzialmente inutile, stante anche la difficoltà di individuare i diritti (sostanziali) cui la norma si riferisce, i quali, stando al dettato normativo, dovrebbero essere esercitabili «esclusivamente mediante il compimento delle attività precluse dai provvedimenti» assunti dal capo dell’ufficio. L’avverbio utilizzato («esclusivamente») lascia intendere che deve trattarsi di diritti relativamente ai quali gli effetti interruttivi della prescrizione e impeditivi della decadenza possono essere associati soltanto alla domanda giudiziale, essendo allo scopo irrilevanti eventuali atti stragiudiziali.

Ne deriva che, laddove è ammesso l’atto stragiudiziale comunque la disposizione richiamata non opererebbe.

Quindi, certamente è esclusa dalla sospensione l’impugnativa stragiudiziale del licenziamento nel termine di 60 giorni dalla comunicazione previsto dall’art. 6, comma 1, l. n. 604 del 1966, in quanto può essere compiuta dalla parte personalmente o tramite l’organizzazione sindacale di appartenenza (salvo gli effetti di diverse disposizioni originariamente previste per le cd. “zone rosse”).

Altrettanto sembra potersi dire per il successivo termine di 180 giorni previsto dal comma 2 dell’art. 6 citato, il quale non è soggetto a sospensione, visto che la decadenza può essere impedita mediante avvio del tentativo di conciliazione o di arbitrato, oltre che dal deposito telematico del ricorso giudiziale.

Maggiori problemi potrebbe destare, con riferimento a tale termine di 180 giorni (peraltro superiore all’intero periodo di sospensione), il comma 2 dell’art. 83 in discorso, per il quale, nel primo periodo che va dal 9 marzo all’11 maggio, “è sospeso il decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali” e “si intendono pertanto sospesi … i termini stabiliti … per la proposizione degli atti introduttivi del giudizio … ove il decorso del termine abbia inizio durante il periodo di sospensione, l’inizio stesso è differito alla fine di detto periodo”.

Sembrano rientrare nella sospensione pure i termini processuali esterni alla pendenza della lite e posti a pena di decadenza per la proposizione della domanda giudiziale in primo grado, ma sempre che essa sia l’unico modo per impedire la decadenza: il che non si verificherebbe per il termine di 180 giorni previsto nel meccanismo di impugnazione del licenziamento.

3.6. Le novità del d.l. 19 maggio 2020, n. 34, sulla disciplina dei licenziamenti. Il recente decreto legge n. 34/20, con l’art. 80, ha aggiunto all’art. 46, comma 1, della l. n. 27/20, il seguente periodo: “Sono altresì sospese le procedure di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in corso di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604”.

La disposizione è intervenuta per chiarire i dubbi circa la sospensione della fase prodromica ad un eventuale licenziamento per giustificato motivo oggettivo che si attiva mediante una comunicazione effettuata dal datore di lavoro alla Direzione territoriale del lavoro per esaminare soluzioni alternative al recesso.

Il d.l. n. 34/20 aggiunge poi all’originario art. 46 in esame un comma 1-bis secondo cui: “Il datore di lavoro che, indipendentemente dal numero dei dipendenti, nel periodo dal 23 febbraio 2020 al 17 marzo 2020 abbia proceduto al recesso del contratto di lavoro per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, può, in deroga alle previsioni di cui all’articolo 18, comma 10, della legge 20 maggio 1970, n. 300, revocare in ogni tempo il recesso purché contestualmente faccia richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale, di cui agli articoli da 19 a 22, a partire dalla data in cui ha efficacia il licenziamento. In tal caso, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, senza oneri né sanzioni per il datore di lavoro.”

La disposizione deroga retroattivamente all’art. 18 novellato dalla l. n. 92 del 2012 nella parte in cui prevede la possibilità di revocare un recesso, purché ciò accada nel termine di 15 giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del medesimo. Quindi nel caso di licenziamento intimato tra il 23 febbraio ed il 17 marzo, prima dell’entrata in vigore del divieto posto dalla disciplina emergenziale, a partire dall’entrata in vigore del nuovo decreto legge il datore di lavoro può unilateralmente ripristinare il rapporto già risolto, senza oneri né sanzioni, a condizione che faccia allo stesso tempo richiesta di CIGS decorrente dalla data in cui ha avuto efficacia il licenziamento.

Infine l’art. 83 del d.l. n. 34/20 impone ai datori di lavoro di garantire, per lo svolgimento in sicurezza delle attività produttive e commerciale, la sorveglianza sanitaria eccezionale dei lavoratori maggiormente esposti a rischio di contagio in ragione di determinati fattori, derivanti anche da patologia COVID-19, che può anche può essere richiesta dal datore ai servizi territoriali dell’INAIL che vi provvedono con propri medici del lavoro.

Il terzo comma dell’art. 83 statuisce poi che l’inidoneità alla mansione non può in ogni caso giustificare il recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro.  

  • Misure speciali di sostegno ai lavoratori. In un secondo gruppo possono essere considerate le disposizioni destinate ad introdurre regolazioni del rapporto di lavoro ovvero benefici in favore dei lavoratori con discipline in deroga alla normativa precedente l’avvento della pandemia.

4.1. Ammortizzatori sociali. Innanzi tutto vi è l’estensione, su tutto il territorio nazionale, delle misure speciali in tema di ammortizzatori sociali per il sostegno al reddito dei dipendenti, in forza al 23 febbraio 2020, di tutti i datori di lavoro coinvolti dalla sospensione o riduzione dell’orario di lavoro derivante da eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica.

Allo scopo sono concessi strumenti riconducibili, sebbene con presupposti e procedimenti largamente difformi dalle discipline pregresse: alla cassa integrazione guadagni ordinaria (art. 19); all’assegno ordinario (art. 19); alla cassa integrazione guadagni in deroga (art. 22).

In particolare questa ultima disposizione stabilisce che Regioni e Province autonome, in favore dei datori di lavoro del settore privato, indipendentemente dal numero degli addetti e con esclusione del lavoro domestico, possono riconoscere, in conseguenza dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, trattamenti di cassa integrazione salariale in deroga, per la durata della riduzione o sospensione del rapporto di lavoro e comunque per un periodo non superiore a nove settimane (ai lavoratori coinvolti è riconosciuta la contribuzione figurativa e i relativi oneri accessori).

Il d.l. n. 34/20 ha esteso il periodo temporale degli ammortizzatori sociali citati e, per periodi successivi alle prime nove settimane riconosciuti dalle Regioni, ha previsto la concessione da parte dell’INPS e, per i datori di lavoro che non anticipano i relativi trattamenti, ha consentito di richiedere il pagamento diretto della prestazione da parte dell’Istituto.

Di rilievo l’art. 19-bis della l. n. 27/20 che, con norma definita di “interpretazione autentica”, ha previsto, per i datori di lavoro che accedono agli ammortizzatori sociali di cui sopra, la possibilità, di procedere, nel medesimo periodo, al rinnovo o alla proroga dei contratti a tempo determinato, anche a scopo di somministrazione, in deroga alle previsioni di cui agli artt. 20, comma 1, lettera c), 21, comma 2, e 32, comma 1, lettera c), del d. lgs. n. 81 del 2015. La norma intende scongiurare, con effetti retroattivi, che il ricorso delle aziende alla cassa integrazione impedisca il rinnovo o la proroga dei contratti a termine.

L’art. 90 del d.l. n. 34 del 2020 ha poi introdotto la generale possibilità – quindi anche a prescindere dal ricorso alla cassa integrazione – di rinnovare o prorogare fino al 30 agosto 2020 i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato in essere alla data del 23 febbraio 2020, per far fronte al riavvio delle attività in conseguenza all’emergenza epidemiologica da COVID-19, anche in assenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2015.

L’INPS, inoltre, al chiaro fine di garantire misure di sostegno al reddito per  lavoratori dipendenti e autonomi, che in conseguenza dell’emergenza epidemiologica da COVID 19 abbiano cessato, ridotto o sospeso la loro attività, è stata chiamata ad erogare, su domanda degli interessati, indennità fissate per il mese di marzo nella misura pari a 600 euro, con limiti di spesa complessiva soggetti a monitoraggio.

Il medesimo importo è riconosciuto per il mese di aprile ed il d.l. n. 34/20 ha previsto all’art. 84 una indennità di euro 1.000 per il mese di maggio 2020 in favore dei liberi professionisti iscritti alla Gestione separata che abbiano subito comprovate perdite nonché dei titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa aventi specifici requisiti.    

Tra i destinatari delle provvidenze, danneggiati dall’emergenza epidemiologica da COVID-19, vi sono poi i lavoratori dipendenti stagionali, anche del settore del turismo e degli stabilimenti termali, gli operai agricoli, i lavoratori in somministrazione, i lavoratori intermittenti, i titolari di contratti autonomi occasionali, gli iscritti al Fondo pensioni Lavoratori dello spettacolo. Una indennità mensile di 500 euro è prevista per i lavoratori domestici ad aprile e maggio 2020.

4.2. Congedi e permessi. Alternative all’accesso al sistema degli ammortizzatori sociali sono talune norme speciali in materia di riduzione dell’orario di lavoro, in particolare contenute nel Capo II del Titolo II della l. n. 27/2020, in materia di congedi e permessi fruibili nel periodo di emergenza.    

Opportuno premettere in proposito che, sin dal 14 marzo 2020, è stato sottoscritto tra le parti sociali un “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, su invito del Presidente del Consiglio dei ministri e di vari Ministri, in attuazione della misura, contenuta all’art. 1, co. 1, numero 9), del D.P.C.M. 11 marzo 2020, che – in relazione alle attività professionali e alle attività produttive – raccomanda intese tra organizzazioni datoriali e sindacali, favorendo il Governo, per quanto di sua competenza, la piena attuazione del Protocollo medesimo.

In esso, dopo aver raccomandato -unitamente al numero 7) del D.P.C.M. citato- che “siano incentivate le ferie e i congedi retribuiti per i dipendenti nonché gli altri strumenti previsti dalla contrattazione collettiva”, si stabilisce, al punto 8, che “le imprese potranno, avendo a riferimento quanto previsto dai CCNL e favorendo così le intese con le rappresentanze sindacali aziendali”, tra l’altro, “utilizzare in via prioritaria gli ammortizzatori sociali disponibili nel rispetto degli istituti contrattuali (par, rol, banca ore) generalmente finalizzati a consentire l’astensione dal lavoro senza perdita della retribuzione” e “nel caso l’utilizzo degli istituti di cui al punto c) non risulti sufficiente, si utilizzeranno i periodi di ferie arretrati e non ancora fruiti”.

Fermo il delicato e più generale problema di quale sia il vincolo determinato dalle raccomandazioni e dalle convenzioni contenute nei Protocolli sottoscritti dalle parti sociali su impulso del Governo, si rammenta la risalente questione del se il datore di lavoro debba comunque utilizzare le ferie pregresse prima di poter fare ricorso agli ammortizzatori sociali. L’INPS con il messaggio n. 3777 del 2019, a completamento di quanto già evidenziato con circolare n. 139 del 2016, parte seconda, punto 6, ha chiarito che, in caso di lavoratori posti in CIGO, sia ad orario ridotto che a zero ore, l’eventuale presenza di ferie pregresse non sia ostativa all’eventuale accoglimento dell’istanza.

Il 24 aprile 2020 è stato siglato un Protocollo integrativo che sul punto sostanzialmente ha confermato gli accordi di marzo.

Ciò posto, l’art. 23 della l. n. 27/20, come modificato dall’art. 72 del d.l. n. 34/20, in conseguenza dei provvedimenti di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado, concede, dal 5 marzo al 31 luglio 2020, per un periodo continuativo o frazionato comunque non superiore a trenta giorni, ai genitori lavoratori dipendenti del settore privato il diritto a fruire, per i figli di età non superiore ai 12 anni (ma il limite non opera in caso di disabilità), di uno specifico congedo per il quale è riconosciuta una indennità pari al 50 per cento della retribuzione, coperta da contribuzione figurativa. Si tratta di un congedo distinto da quello parentale previsto dall’art. 32 del d.lgs. n. 151 del 2001 e fruibile alternativamente da entrambi i genitori lavoratori dipendenti a condizione che nel nucleo familiare nessuno dei due goda di strumenti di sostegno al reddito o sia disoccupato o non lavoratore. Analogo congedo è previsto per i lavoratori iscritti alla Gestione separata e per i lavoratori autonomi.

Nel caso di figli minori di anni 16, i genitori dipendenti del settore privato hanno diritto di astenersi dal lavoro per assisterli nel periodo di sospensione dei servizi scolastici, senza corresponsione di indennità né riconoscimento di contribuzione figurativa, con divieto di licenziamento e diritto alla conservazione del posto di lavoro.

L’art. 25 estende i congedi e le indennità per il periodo di sospensione dell’attività didattica ai dipendenti della pubblica amministrazione, erogando l’emolumento secondo il medesimo importo e con le modalità a cura dell’amministrazione pubblica con la quale intercorre il rapporto di lavoro.

In alternativa alla prestazione di cui ai commi 1, 3 e 5 dell’art. 23 e per i medesimi lavoratori beneficiari e per il periodo di chiusure delle scuole, è prevista la possibilità di scegliere la corresponsione di uno o più bonus  per l’acquisto di servizi di baby-sitting nel limite massimo complessivo di 1200 euro (in seguito alla modifica introdotta dall’art. 72 del d.l. n. 34/20), erogato mediante il libretto famiglia di cui all’art. 54-bis del d.l. n. 50 del 2017, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 96 del 2017. Tale bonus, in alternativa, può essere utilizzato direttamente dal richiedente per la comprovata iscrizione ai centri estivi, ai servizi integrativi per l’infanzia, ai servizi socio-educativi territoriali.

Infine, sempre nella prospettiva di garantire la dovuta assistenza alle persone che ne hanno bisogno, l’art. 24 ha incrementato di ulteriori complessive dodici giornate, usufruibili nei mesi di marzo e aprile 2020, il numero dei permessi retribuiti coperto da contribuzione figurativa di cui all’articolo 33, comma 3, della l. n. 104 del 1992, spettanti al lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità. Altre dodici giornate sono state riconosciute per i mesi di maggio e giugno dall’art. 73 del d.l. n. 34/20.

4.3. Il lavoro agile. Tra le misure più rilevanti adottate per la gestione dei rapporti di lavoro subordinato nel tempo della pandemia vi sono le disposizioni che promuovono il “lavoro agile” introdotto nel nostro ordinamento, come noto, dalla l. n. 81 del 2017 «allo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro».

Nella disciplina emergenziale muta il paradigma funzionale del ricorso all’istituto che assume una curvatura pubblicistica improntata al contemperamento, nell’interesse collettivo, tra la tutela della salute e la salvaguardia del lavoro e delle esigenze produttive, limitando gli spostamenti delle persone senza precludere la continuità dell’attività aziendale.

Da un lato si attribuisce al datore di lavoro uno strumento che al meglio gli consente di preservare l’integrità fisica del lavoratore, riducendo contestualmente il rischio “comunitario” di contagio nel superiore interesse della salute pubblica; dall’altro si permette la prosecuzione dell’attività lavorativa, limitando il danno per le imprese ma anche per l’economia in generale e, conseguentemente, per l’occupazione, e così salvaguardando, pure per questo verso, interessi di matrice diffusa.

Così nei Protocolli tra le parti sociali già citati, sollecitati specificamente dai decreti del Presidente del Consiglio, si è rivolto l’invito al massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte a domicilio o in modalità a distanza.

I decreti presidenziali hanno ricevuto una copertura di livello legislativo, anche su questo tema, dal d.l. n. 19 del 2020 che, all’art. 1, comma 2, lett. ff), ha stabilito che detti provvedimenti possano prevedere “la predisposizione di modalità di lavoro agile, anche in deroga alla disciplina vigente”. 

In tale prospettiva, senza voler considerare i precedenti rappresentati dai provvedimenti riferiti a limitate parti del territorio nazionale,  sin dal D.P.C.M. 1° marzo 2020 (art. 4, comma 1, lett. a), confermato poi da successivi, si è sancito che: «la modalità di lavoro agile disciplinata dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, può essere applicata, per la durata dello stato di emergenza di cui alla deliberazione del Consiglio dei ministri 31 gennaio 2020, dai datori di lavoro a ogni rapporto di lavoro subordinato, nel rispetto dei principi dettati dalle menzionate disposizioni, anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti».

Da ultimo il comma 4 dell’art. 90 del d.l. 34/20, fino alla cessazione dello stato di emergenza e comunque non oltre il 31 dicembre 2020, ha stabilito che «la modalità di lavoro agile disciplinata dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, può essere applicata dai datori di lavoro privati a ogni rapporto di lavoro subordinato, nel rispetto dei principi dettati dalle menzionate disposizioni, anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti; gli obblighi di informativa di cui all’articolo 22 della medesima legge n. 81 del 2017, sono assolti in via telematica anche ricorrendo alla documentazione resa disponibile sul sito dell’Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro (INAIL)». 

La deroga alla necessità della sottoscrizione di un accordo individuale con il lavoratore, prevista dalla disciplina ordinaria, è modifica di grande rilievo perché affida al potere unilaterale del datore di lavoro la decisione di avvalersi della modalità di lavoro agile, rispetto alla quale il lavoratore è posto in posizione di soggezione.

Ciò pone, tra gli altri, innanzitutto il problema del se al potere unilaterale del lavoratore sia riservata non solo la decisione sul fare ricorso o meno al lavoro agile, ma anche la specifica regolamentazione del rapporto, pur in mancanza di un accordo tra le parti, con riferimento, ad esempio, all’orario di lavoro, agli strumenti utilizzabili per rendere la prestazione, al diritto alla disconnessione, stante la genericità del rinvio al “rispetto dei principi dettati” dagli artt. 18 – 23 della legge n. 81.

In secondo luogo ci si interroga se sia o meno configurabile un diritto del lavoratore a prestare la propria attività in regime di smart working, in ragione del rischio di contrarre il virus, quasi configurando il lavorare a casa come la più adeguata misura di sicurezza che il datore di lavoro possa adottare per salvaguardare la salute del dipendente.     

Un vero e proprio diritto, fino alla cessazione dello stato di emergenza, è configurato dall’art. 39 della l. n. 27 del 2020 in favore dei lavoratori dipendenti disabili o che abbiano nel proprio nucleo familiare una persona con disabilità a mente della legge n. 104 del 1992, sebbene “a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione”, con tutte le ambiguità che potranno derivare in sede di applicazione di una condizione che si presta ad un variabile margine di apprezzamento. Inoltre, per il comma 2 dell’articolo, ai lavoratori del settore privato affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa è riconosciuta la priorità nell’accoglimento delle istanze di svolgimento delle prestazioni lavorative in modalità agile. Entrambe le disposizioni si applicano anche ai lavoratori immunodepressi e ai familiari conviventi di persone immunodepresse.

Di recente (23 aprile 2020) il Tribunale di Grosseto, nell’ambito di un procedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c., ha ritenuto, sulla base del citato comma 2 dell’art. 39, illegittimo il rifiuto dell’azienda di ammettere un dipendente con grave patologia al lavoro agile e la correlata prospettazione della necessaria scelta tra la sospensione non retribuita del rapporto e il godimento forzato di ferie non ancora maturate.

Un “diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche in assenza degli accordi individuali” è riconosciuto dal recente art. 90, co. 1, d.l. n. 34/20,  ai “genitori lavoratori dipendenti del settore privato che hanno almeno un figlio minore di anni 14, a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti  di  sostegno  al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore”; permane altresì la clausola di salvaguardia, già prevista per l’art. 39 prima menzionato, circa la “compatibilità” della modalità agile “con le caratteristiche della prestazione”.

Durante lo stato di emergenza epidemiologica, il lavoro agile è considerato dall’art. 87 della l. 27/20 la “modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni”, prescindendo “dagli accordi individuali e dagli obblighi informativi previsti dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81” ed anche “attraverso strumenti informatici nella disponibilità del dipendente qualora non siano forniti dall’amministrazione”. Solo “qualora non sia possibile ricorrere al lavoro agile”, le amministrazioni utilizzano gli strumenti delle ferie pregresse, del congedo, della banca ore, della rotazione e di altri analoghi istituti, nel rispetto della contrattazione collettiva. Al fine, vanamente “esperite tali possibilità le amministrazioni possono motivatamente esentare il personale dipendente dal servizio”.

La promozione così intensa dello smart work, intimamente legata ad una fase epidemica, ne altera la struttura, prima di tutto per l’abbandono della consensualità, ma anche perché, mentre l’art. 18, co. 1, l. n. 81/17, colloca l’esecuzione della prestazione “in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno”, il lavoro agile “emergenziale” sembra privilegiare esclusivamente l’attività da “remoto” e dal domicilio del lavoratore, anche per evitare i rischiosi trasferimenti da e verso il luogo di lavoro. Divaricazione rispetto all’istituto ordinario che spinge taluno ad inquadrare la nuova figura piuttosto nella categoria del c.d. “telelavoro a domicilio”, basato sulla centralità dell’home office.

  • Protezione dal contagio nei luoghi di lavoro e regime di responsabilità. Al cospetto di un virus che può colpire i lavoratori anche nei luoghi dove prestano la loro attività si pongono due problematiche essenziali: ex ante l’individuazione delle regole di condotta che devono essere osservate dal datore di lavoro a fini prevenzionali e precauzionali; ex post le tutele del lavoratore nel dannato caso contragga la malattia a causa dell’attività lavorativa.

5.1. I Protocolli condivisi. Riguardo al primo aspetto i Protocolli di marzo e aprile già prima richiamati, attuativi di decreti della Presidenza del Consiglio e sottoscritti fra il Governo e le parti sociali, hanno condiviso la “regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro”. In particolare nei vari decreti presidenziali, per le attività delle imprese non sospese, si prevede il rispetto dei protocolli condivisi (art. 1, co. 3, D.P.C.M. del 22 marzo 2020; art. 2, co. 10, D.P.C.M. 10 aprile 2020; art. 2, co. 6, D.P.C.M. 26 aprile 2020) e ad essi rinvia l’art. 1, co. 2, del d.l. n. 19/20. Anche l’art. 2, comma 1, del D.P.C.M. del 17 maggio 2020, ha ribadito che, sull’intero territorio nazionale, tutte le attività produttive industriali e commerciali “rispettano i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Governo e le parti sociali”, nonché, “per i rispettivi ambiti di competenza”, quelli sottoscritti per i cantieri e per il settore del trasporto e della logistica. 

Da ultimo, l’art. 1, comma 14, d.l. 16 maggio 2020 n. 33, ha disposto: “Le attività economiche, produttive e sociali devono svolgersi nel rispetto dei contenuti di protocolli o linee guida idonei a prevenire o ridurre il rischio di contagio nel settore di riferimento o in ambiti analoghi, adottati dalle regioni o dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome nel rispetto dei principi contenuti nei protocolli o nelle linee guida nazionali. In assenza di quelli regionali trovano applicazione i protocolli o le linee guida adottati a livello nazionale”. Il comma successivo sanziona il mancato rispetto dei contenuti dei protocolli o delle linee guida, regionali, o, in assenza, nazionali, con la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza”. 

Nei protocolli si apprestano “linee guida … per agevolare le imprese nell’adozione di protocolli di sicurezza anti-contagio” in ossequio alla decretazione d’urgenza; si individuano “ulteriori misure” improntate “alla logica della precauzione”, che il datore di lavoro potrà “integrare con altre equivalenti o più incisive secondo le peculiarità della propria organizzazione”; si raccomanda la “declinazione delle misure del Protocollo all’interno dei luoghi di lavoro sulla base del complesso dei rischi valutati e, a partire dalla mappatura delle diverse attività dell’azienda”; il tutto per tutelare la salute delle persone presenti all’interno dell’azienda e garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro”.

Toccherà ad indagini meno sommarie l’approfondimento dei rapporti intricati tra fonti legali, sub-legali e convenzionali che si sono convulsamente succedute – e prevedibilmente continueranno a farlo – in uno stretto lasso temporale, nonché scrutinare con la dovuta meditazione il grado di vincolatività di ciascuna misura predisposta nel tempo dell’emergenza, anche in relazione al contenuto, talvolta indeterminato, dei precetti.

Al momento, non può che convenirsi con la migliore dottrina della materia che esprime l’opinione secondo cui il quadro delle varie disposizioni emanate vada ad integrare la disciplina preesistente che, partendo dall’art. 2087 c.c., si irradia nelle previsioni del T.U. n. 81 del 2008.

Con la peculiare caratteristica che l’osservanza delle previsioni non è solo imposta dalla necessità di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori ma anche dall’esigenza ulteriore di scongiurare che gli ambienti di lavoro divengano luoghi di propagazione esponenziale della diffusione del virus.  

La protezione emergenziale della salute pubblica potenzia il principio di precauzione in senso additivo rispetto al sistema dato, tanto più in una situazione di conoscenze scientifiche governate dall’incertezza al cospetto di una nuova malattia.   

In questa prospettiva in cui l’insieme delle cautele prefigurate dalla disciplina dello stato di rischio sanitario viene ad integrare i precetti stabiliti dall’ordinamento già vigente in materia di protezione della salute dei lavoratori, si lascia preferire la tesi, da taluno avversata, che impone l’adeguamento e l’aggiornamento del Documento di Valutazione dei Rischi previsto dal citato Testo Unico del 2008.  

Difficile negare che, sebbene in pandemia il pericolo del contagio incomba sull’intera popolazione, chi è chiamato a rendere la prestazione in presenza di essa subisce un aggravamento del rischio rispetto a quello generale della comunità dei consociati, già solo per l’aumento delle occasioni di contagio negli ambienti di lavoro e per recarsi presso di essi. 

Dall’integrazione nel Testo Unico del 2008 delle misure precauzionali previste in tempo di emergenza sanitaria discende il problema del coordinamento con l’apparato sanzionatorio ivi previsto con quello predisposto dall’art. 4 del d.l. n. 19 del 2020.

Infatti, il primo comma di detto articolo stabilisce: “Salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento … è punito con la sanzione amministrativa … e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall’articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità …”. La disposizione sanzionatoria è ribadita dal successivo d.l. n. 33 del 2020, art. 2, comma 1.

Vi è chi ritiene che le misure di contenimento scritte dal Governo costituiscano un “sistema speciale di gestione dell’emergenza”, concludendo che le relative violazioni non risulterebbero “soggette all’apparato sanzionatorio di cui al d.lgs. n. 81 del 2008”. All’opposto chi, considerando le misure in parola come destinate ad inserirsi nel sistema delineato dal T.U., reputa “irragionevole” la non applicazione della specifica normativa prevenzionistica, così escludendo sia la competenza degli organi speciali di vigilanza, sia l’applicazione del sistema sanzionatorio. Dottrina penalistica, infine, interpreta la clausola di salvaguardia all’esordio del comma citato come atta a risolvere un ipotetico concorso di norme a favore del precetto penale, per cui rileverebbe, almeno per l’applicazione della sanzione, che il fatto integrato dalla violazione delle misure sia anche violazione di una preesistente norma incriminatrice.

L’incertezza con cui l’Accademia legge la disposizione citata, in materia delicata in cui vengono in rilievo anche responsabilità penali, consiglierebbe di raccogliere, in sede di conversione del d.l. n. 19/2020, il saggio auspicio di chi suggerisce sul punto un intervento legislativo a chiarimento della individuazione dell’apparato sanzionatorio connesso alla violazione delle cautele tipizzate dalla disciplina pubblica, rispetto al sistema punitivo di settore.

Sempre in una prospettiva prevenzionale, ma affidata all’autotutela di diritto comune, va ipotizzato il ricorso all’art. 1460 c.c. in applicazione del principio secondo il quale, in caso di violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c., è legittimo, a fronte dell’inadempimento altrui, il rifiuto del lavoratore di eseguire la propria prestazione in condizioni insicure, conservando, al contempo, il diritto alla retribuzione in quanto non possono derivargli conseguenze sfavorevoli in ragione della condotta inadempiente del datore (cfr. Cass. n. 6631 del 2015; Cass. n. 10533 del 2013).

Certo però che in tal modo il lavoratore si esporrebbe al rischio di una sanzione disciplinare, atteso che, ancora di recente (v. Cass. n. 12777 del 2019), si è ribadito come il rifiuto del lavoratore di rendere la prestazione sia idoneo, ove non improntato a buona fede, a giustificare il licenziamento, in quanto l’inottemperanza a poteri datoriali, pur illegittimi, deve essere valutata alla luce del comma 2 dell’art. 1460 c.c., per cui la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione ove il rifiuto non risulti contrario a buona fede, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto.

5.2. Infortunio sul lavoro. La tutela del lavoratore che sfortunatamente si ammali per l’attività lavorativa prestata è primariamente affidata all’assicurazione pubblica.

Il legislatore dell’emergenza ha sentito il bisogno di dettare in proposito una norma ad hoc (art. 42, comma 2). In base ad essa “nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato. Le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro”. La norma aggiunge che “i predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico”, in modo tale che gli effetti del contagio, per questo aspetto, non aggravino il costo del lavoro ma ricadano sulla collettività, accentuando la prospettiva di socializzazione del rischio che caratterizza l’intervento normativo.  

Invero, anche in difetto di tale disposizione espressa, sarebbe stato difficile negare la tutela INAIL, secondo le regole già vigenti in virtù del D.P.R. n. 1124 del 1965, al lavoratore che fosse stato contagiato “in occasione di lavoro”, sulla scorta di una giurisprudenza che accetta una nozione ampia di essa, rilevando solo che l’attività lavorativa sia svolta secondo il contratto di lavoro, rientrando nella protezione assicurativa qualsiasi attività riconducibile funzionalmente a questa. 

Tanto più che l’ipotesi del contagio da agente biologico è stata già qualificata quale infortunio dalla giurisprudenza della S.C.: così si è affermato che può costituire causa violenta anche l’azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell’organismo umano, determinano l’alterazione dell’equilibrio anatomo – fisiologico, sempreché tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa. Tale dimostrazione può essere fornita in giudizio anche mediante presunzioni semplici (Cass. n. 9968 del 2005).

Il rilievo serve a considerare che l’esplicita previsione normativa si inserisce in una cornice di principi già rodati in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e deve essere resa armonica con essa, senza procurare distonie che alterino il sistema.

L’art. 42, comma 2, in commento ha comunque il pregio di sgombrare il campo da eventuali dubbi interpretativi ed agevolare la liquidazione degli indennizzi dovuti, anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria.

A tal fine l’INAIL ha già predisposto una circolare esplicativa (n. 13 del 3 aprile 2020), successivamente integrata da chiarimenti (n. 22 del 20 maggio 2020). Premesso che, “secondo l’indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie, l’Inail tutela tali affezioni morbose, inquadrandole, per l’aspetto assicurativo, nella categoria degli infortuni sul lavoro”, equiparando la causa virulenta a quella violenta e riconducendo ad essi “anche i casi di infezione da nuovo coronavirus occorsi a qualsiasi soggetto assicurato dall’Istituto”, nella circolare si legge che “nell’attuale situazione pandemica, l’ambito della tutela riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico”. Si aggiunge che “per tali operatori vige, quindi, la presunzione semplice di origine professionale, considerata appunto la elevatissima probabilità che gli operatori sanitari vengano a contatto con il nuovo coronavirus”; alla medesima “condizione di elevato rischio di contagio” – con pari “presunzione semplice” di origine professionale – vengono ricondotte “anche altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l’utenza”, indicando, in via esemplificativa, ma non esaustiva, “lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi, etc”.

 La circolare puntualizza che “le predette situazioni non esauriscono … l’ambito di intervento in quanto residuano quei casi, anch’essi meritevoli di tutela, nei quali manca l’indicazione o la prova di specifici episodi contagianti o comunque di indizi <gravi precisi e concordanti> tali da far scattare ai fini dell’accertamento medico-legale la presunzione semplice”; in casi siffatti, “ove l’episodio che ha determinato il contagio non sia noto o non possa essere provato dal lavoratore, né si può comunque presumere che il contagio si sia verificato in considerazione delle mansioni/lavorazioni e di ogni altro elemento che in tal senso deponga, l’accertamento medico-legale seguirà l’ordinaria procedura privilegiando essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale”.

L’Istituto poi, con i chiarimenti resi il 20 maggio 2020, ha sentito il bisogno -evidentemente consapevole di un certo dibattito pubblico che si è aperto sul punto- di precisare che “il riconoscimento dell’origine professionale del contagio, si fonda in conclusione, su un giudizio di ragionevole probabilità ed è totalmente avulso da ogni valutazione in ordine alla imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possano essere stati causa del contagio”, chiosando che “non possono, perciò, confondersi i presupposti per l’erogazione di un indennizzo Inail, con i presupposti per la responsabilità penale e civile che devono essere rigorosamente accertati con criteri diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative”. 

Le indicazioni dell’INAIL appaiono opportune, ma restano innanzitutto valide nella gestione amministrativa dell’evento indennizzabile, così come non sembrano sufficientemente supportate le opinioni che tendono ad accreditare presunzioni assolute, le quali non ammetterebbero prova contraria circa l’origine professionale della patologia, sol perché insorta in costanza di pandemia.

Vuole dirsi che, innanzi ai giudici, per quanto prima detto circa la necessità di armonizzare la nuova disciplina con i consolidati principi in materia, non potranno che operare le regole probatorie lungamente sperimentate dalla giurisprudenza che si è occupata dell’accertamento della sussistenza di un infortunio sul lavoro indennizzabile, senza teorizzare nuove regole in difetto di esplicite disposizioni che sovvertano quelle già vigenti.  

Vale invece rimarcare che, qualificando come infortunio sul lavoro l’infezione da COVID-19, discende coerente l’applicabilità dell’art. 12 del d. lgs. n. 38 del 2000 che tutela l’infortunio in itinere, in considerazione del rischio di contagio aggravato dagli spostamenti tra l’abitazione e il luogo di lavoro.

5.3. Responsabilità del datore di lavoro.  Se l’infezione da coronavirus può configurare un evento indennizzabile dall’INAIL non può neanche escludersi una responsabilità del datore di lavoro per il risarcimento dei danni complementari e differenziali derivanti dal medesimo infortunio, oltre ad esporre il medesimo all’azione di regresso eventualmente intentata dall’Istituto assicuratore che ha pagato il dovuto all’assistito.

Sulla qualificazione di tali danni e sui reciproci confini la giurisprudenza di legittimità più recente ha operato una ricostruzione sistematica, cui si rinvia (v., tra le più rilevanti, Cass. n. 777 del 2015; Cass. n. 9166 del 2017; Cass. n. 13819 del 2017; Cass. n. 9112 del 2019).  

L’intervento primario dell’assicurazione pubblica in caso di infortunio da coronavirus – intervento che, secondo Cass. n. 9166/2017 cit., decrementa l’ammontare del danno civilistico subito dal lavoratore anche se l’evento non risulti in concreto indennizzato dall’INAIL – dovrebbe, in buona parte, stemperare talune preoccupazioni del mondo imprenditoriale.

Tuttavia va qui dato conto di un cruciale interrogativo che ha già animato il dibattito dottrinale, e non solo: ovvero se il rispetto degli obblighi stabiliti dalla disciplina emergenziale, protocolli compresi, esaurisca gli adempimenti del datore di lavoro in modo tale da esonerarlo dalla responsabilità civile per l’infortunio da COVID-19 occorso al suo dipendente.

Va subito depotenziata la suggestione che siffatto esonero possa ravvisarsi nell’art. 91 del d.l. n. 18/20, conv. in l. n. 27/20, che, dopo il comma 6 dell’art. 3 del d.l. n. 6/20, ha inserito il comma 6-bis, secondo il quale: “Il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del codice civile, della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”; si tratta di disposizione che, come risulta anche dalla rubrica che la riferisce alla “materia di ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall’attuazione delle misure di contenimento e di anticipazione del prezzo in materia di contratti pubblici”, riguarda verosimilmente altro ambito di applicazione – contratti più propriamente commerciali – come fatto palese anche dal riferimento alle decadenze o alle penali connesse agli inadempimenti.

Si è comunque sostenuto che il perimetro dell’obbligo di garantire sicurezza, gravante sul datore di lavoro, sarebbe stato esaurientemente definito nei suoi confini proprio nella sede governativa, dove sarebbero state individuate tutte le misure necessarie e sufficienti alla prevenzione dell’infezione secondo l’esperienza e la scienza attualmente nota.

Anche in questo campo, però, non appare opportuno trascurare principi ormai consolidati, al fine di collocare la questione all’interno del sistema e non al di fuori di esso.

Come noto l’art. 2087 c.c. costituisce una norma di chiusura dell’ordinamento antinfortunistico che fa obbligo al datore di lavoro di adottare sul luogo di lavoro tutte le misure idonee ad assicurare la tutela dell’integrità fisica e della personalità morale dei prestatori di lavoro; nella sua onnicomprensività ed elasticità è norma idonea ad assicurare adeguato presidio, qualificando la condotta offensiva non in base al suo contenuto, ma in considerazione dei beni protetti.

L’adempimento dell’obbligo di sicurezza del datore di lavoro non si esaurisce nell’osservanza delle varie misure tassativamente imposte dalle disposizioni speciali sulla prevenzione degli infortuni. Esso grava dinamicamente l’imprenditore anche di un obbligo generico e innominato volto ad apprestare tutte le misure necessarie per prevenire eventuali rischi, anche se non esplicitamente dettagliate da norme peculiari. Ciò significa che anche l’osservanza di tutte le regole espressamente enunciate da norme positive non è, di per sé, idonea a sollevare il datore di lavoro da responsabilità.

Tuttavia l’art. 2087 c.c. non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva  in quanto la responsabilità del datore di lavoro va comunque collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; per la Corte di cassazione dal dovere di prevenzione non può presumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ed innominata diretta ad evitare qualsiasi danno, con la conseguenza di ritenere responsabile il datore di lavoro ogni volta che un danno si sia comunque verificato, occorrendo invece che l’evento sia pur sempre riferibile a sua colpa, per violazioni di obblighi di condotta imposti da norme tipizzate o suggerite dalla tecnica, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della possibile conoscenza di fattori di rischio in un determinato momento storico.    

Inoltre, pur registrandosi una qualche diversità di orientamenti sulla necessità o meno che il lavoratore debba specificamente indicare le misure che avrebbero dovuto essere adottate in prevenzione, è invece assolutamente univoco l’insegnamento di legittimità secondo il quale incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso di causalità tra l’una e l’altra, mentre spetta al datore di lavoro dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno stesso.

Allegare e provare la nocività dell’ambiente di lavoro significa che dalla fonte dell’obbligo altrui che il creditore di sicurezza invoca deve scaturire l’indicazione del comportamento che il debitore avrebbe dovuto tenere, nel senso che dalla descrizione del fatto materiale deve quanto meno potersi evincere una condotta del datore contraria o a misure di sicurezza espressamente imposte da una disposizione normativa che le individua concretamente ovvero a misure di sicurezza che, sebbene non individuate specificamente da una norma, siano comunque rinvenibili nel sistema dell’art. 2087 c.c..    

Ciò posto, è ragionevole ipotizzare che laddove l’imprenditore diligentemente ponga in essere tutte le misure positivizzate nella disciplina emergenziale e nei protocolli condivisi possa considerarsi che abbia adottato uno standard protettivo adeguato allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, salvo ogni utile adattamento alle specifiche caratteristiche della propria azienda.

Resta poi fermo che grava sul lavoratore l’onere di provare il nesso causale tra l’eventuale inadempimento datoriale, che concreti l’omissione della cautela doverosa ed esigibile, e l’avvenuto contagio con una malattia a diffusione virale presente in ogni dove.  

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